Sezione: Lessico
Tutti gli studiosi sono d’accordo nel considerare immenso il ruolo svolto dai numeri sacri nell’arte medievale. Emile Mâle in particolare ha scritto delle bellissime pagine a proposito dell’incidenza del pensiero neoplatonico e neopitagorico sulle concezioni scientifiche dei monaci: numeri e figure geometriche governano rigorosamente il loro «sistema del mondo». Lo stesso Màle ha dimostrato che i cluniacensi avevano organizzato il simbolismo della grande basilica-madre prendendo come base la musica: nell’abside infatti erano raffigurate le otto tonalità tradizionali, in relazione con un’ordinanza cosmica, la cosiddetta «musica delle sfere» di Platone.
Le cifre hanno un ruolo notevole nella Bibbia, specialmente nell’Apocalisse, il libro che ha esercitato l’influenza maggiore su tutta l’iconografia romanica. I Padri della Chiesa, soprattutto Origene e sant’Agostino, si sono occupati ampiamente dei numeri biblici e altrettanto hanno fatto a loro volta i commentatori successivi, specialmente Isidoro di Siviglia, Rabano Mauro e, nel secolo XII, Ugo da San Vittore.
Gli uomini del medioevo davano la precedenza nelle loro letture a un trattato di aritmetica e geometria che essi attribuivano a Boezio, ma in realtà opera di un anonimo del secolo VIII, ed era questo libro a insegnare loro le diverse figure. Con la dottrina tutta pitagorica che ivi è contenuta, essi apprendevano che a reggere il mondo sono due principi: l’unità e la molteplicità. Del primo fanno parte soprattutto i numeri dispari, l’altro caratterizza maggiormente i numeri pari. L’unità esprime la stabilità; la molteplicità invece significa mutamento e alterazione. Il numero dispari è quindi il numero perfetto, perché indivisibile e come tale inalterabile, al contrario del numero pari. In altri termini, un numero dispari non è mai soggetto a cambiamenti e s’apparenta con l’ordine eterno, mentre il pari appartiene alla transitorietà del tempo.
Secondo Alano di Lilla (sec. XII), l’idea divina modella la figura del mondo servendosi del numero. Assai prima di lui, Boezio e sant’Agostino avevano espresso la convinzione che un uomo digiuno di cognizioni matematiche sarebbe stato incapace di acquisire la vera conoscenza; la saggezza gli sarebbe rimasta impenetrabile. Sempre a parere di sant’Agostino, anche se molti uomini disprezzano i numeri, perché non ne conoscono l’essenza, quelli che sanno e che sono capaci di riflettere finiscono con lo scoprire l’unità della natura che fa del numero e della saggezza una medesima realtà intelligibile. Nel De musica infine, in cui lo stesso vescovo di Ippona si mostra profondamente ammaliato dalla cultura antica, la sua sensibilità alle sottili teorie dei Pitagorici intorno ai numeri e in particolare intorno al dieci, numero perfetto perché costituito dalla somma dei primi quattro numeri, appare fortissima. Riflessioni dello stesso genere si ritroveranno più tardi in Eucherio di Lione e negli altri autori già citati.
Si sarebbe portati a pensare, scorrendo i lavori pubblicati sull’arte del medioevo, che questa «ebbrezza dei numeri» di cui parla Marcel Aubert si manifesti soprattutto all’epoca gotica. E in effetti è proprio allora che essa sembra concretizzarsi nella disposizione delle facciate che consente di moltiplicare le arcature sotto cui collocare statue, sia nelle zone alte che sui piedritti dei portali, e di stabilire corrispondenze fra Virtù e Vizi nei riquadri polilobati. Personaggi dell’Antica e della Nuova Alleanza corrispondono gli uni agli altri, con sapiente simmetria, tanto nelle vetrate che negli incavi delle strombature e sugli stipiti; e sottigliezze non diverse sono quelle a cui danno adito i rosoni avvalendosi in particolare del simbolismo della ruota della Fortuna. Da parte nostra porremo in risalto un accorto ed elaborato simbolismo di cifre e di forme geometriche nel Libro di architettura di Villard de Honnecourt.
Per contro, dalla lettura di questi stessi lavori, si ricava l’impressione che l’ebbrezza dei numeri sia rimasta confinata, all’epoca romanica, nella solitudine delle celle monastiche, e che al di fuori di alcuni mosaici specialmente quelli di Saint-Rémy a Reims, e dei capitelli dell’abbaziale di Cluny, i numeri non abbiano minimamente influenzato né l’architettura né la decorazione. Si è molto scritto anche – in particolare da parte della scuola di Focillon – sulle figure geometriche semplici, nelle quali s’inseriscono i gruppi di animali o i personaggi dei timpani. J. Hubert ha applicato perfino, con molta pertinenza, certe forme geometriche semplici ad alcuni monumenti celebri. La composizione obbedisce qui a degli schemi elementari: asse verticale e orizzontale, linee oblique convergenti o parallele, combinazioni di quadrati, di losanghe, di triangoli, di poligoni e di cerchi o di quadrifogli. Ma pure la composizione dei capitelli è sottoposta a leggi di equilibrio di masse, a leggi di simmetria. Sui fregi e sugli architravi si svolgono e si susseguono forme rotonde, polilobate, quadrate; sulle superfici dei timpani le linee si aprono a ventaglio, oppure disegnano un certo numero di figure schematiche ai due lati dell’asse verticale.
Di fatto, tutte queste forme sono in relazione con le concezioni che fanno delle regole della geometria la base della formazione e della struttura dell’universo. E questa frenesia per i numeri coinvolge anche l’arte romanica. Però per vederla occorre analizzare la disposizione. L’analisi dei motivi animali o vegetali in funzione delle associazioni correnti lascia trasparire le figure geometriche che disegnano questi motivi e ch’è importante mettere in risalto. L’insistenza sui numeri si manifesta nelle forme più diverse. Ci s’imbatte, per esempio, in festoni a più nastri: il numero dei nastri è un particolare da tenere presente. Eguale attenzione bisogna dare ai fiori delle rosette; il numero dei petali di questi fiori sembra sovente voluto. Il numero delle palmette, delle margherite e delle foglie sugli abachi dei capitelli – per esempio a Saint-Eutrope di Saintes –, oppure delle foglioline lungo gli steli delle stesse palmette – come ad Anzy-le-Duc –, deve avere la sua parte di considerazione. Bisogna contare anche le punte delle stelle: a Saint-Benoît-sur-Loire, tanto per citare un caso. A volte lo scultore si è spinto più lontano ancora: ha potuto inserire un certo numero di punti da una parte e dall’altra di un croce rovesciata, come a Chauvigny – chiesa, questa, nella quale bisogna anche considerare le ciocche delle criniere delle belve, le striature sui corpi dei draghi e delle sirene, le ali delle sfingi, perfino le pieghe degli abiti.
Ma intendiamoci bene. Non vorremmo sentirci dire che sia stato un delirio interpretativo a farci pervenire a conclusioni siffatte, né che sia stato da noi imposto a ciò che abbiamo osservato un sistema precostituito. E stato, al contrario, l’esame minuzioso delle opere che ci ha condotto a questi risultati. A Chauvigny, per esempio, avevamo avanzato un’ipotesi coerente a proposito del celebre personaggio squartato e circondato da mostri sul quale tanto si è scritto; un caso fortuito ci ha ispirato di prendere io considerazione le ciocche delle criniere e le striature dei corpi degli stessi mostri: i numeri ottenuti, confrontati con i testi scritti, ci hanno permesso di precisare il significato di questo soggetto estremamente complesso senza minimamente smentire – al contrario, anzi – l’ipotesi che avevamo formulato.
Lungi dall’essere rigidamente sottomessi alla cosiddetta «legge del quadro», i temi si armonizzano con le forme architettoniche adottate e addirittura, entro certi limiti, le determinano organicamente in modo da fare assumere loro un significato simbolico. Prendiamo degli esempi dal sud est della Francia. Nella regione di Le Puy, si arriverà un bel momento a ricostruire di sana pianta, in ossequio a nuove mode, tutte le parti della chiesa, ma si conserverà intatta l’abside circolare consacrata e sarà proprio a partire da quest’abside, pane celeste, che la ricostruzione prenderà il via. E quando i progressi e le innovazioni in campo architettonico frapporranno ostacoli allo sviluppo di un ampio programma absidale di forma circolare, sarà il portale che proietterà il tutto nella parte anteriore. Nello stesso sud est il quadrato di base, la decorazione dei piedritti, quando esistono, sono strettamente sottoposti e subordinati al timpano, e il programma degli archivolti non fa che accentuare la realtà dell’immagine circolare. Siano essi sul portale oppure nell’abside, i temi si raccolgono di frequente in gruppi di tre, o si sviluppano su tre portali. il Tre celeste si armonizza quindi con l’importanza attribuita al cerchio. Per contro, in Alvernia, quattro capitelli ricchi di significanze orneranno talvolta anche l’abside, in accordo col programma esteso all’intera navata, e l’ampia partitura architettonica formata dal coro con l’abside a deambulatorio verrà concepita espressamente per accogliere un programma ben chiaro e articolato, distribuito appunto su una sequenza di capitelli.
In tutto il sud ovest invece, zona mesopotamica, saranno il cubo – evocazione della Città celeste –, ovvero il quadrato – forma terrestre –, che svolgeranno un ruolo determinante. La decorazione absidale si concentra qui sull’altare cubico, e il portale del tipo Moissac-Carennac non è che l’ingrandimento e l’ampliamento della decorazione del paliotto, della fronte cioè dell’altare stesso. Le Ascensioni di Sorède e di Saint-Genis-des-Fontaines sono collocate su degli architravi che evocano la realtà terrena con gli angeli annunciatori, e non già su un timpano, perché non si tratta di teofanie. L’importanza dei piedritti sporgenti e delle file di Apostoli a Beaulieu, o di Vegliardi a Moissac, così come l’importanza degli architravi – addirittura due, a Beaulieu – pongono invariabilmente l’accento sulla forma del cubo. I portali del tipo di León, di Compostella, di Tolosa (Porta Miégevilie) non fanno convergere l’attenzione sul tema circolare del timpano, ma sui personaggi e sulle altre figure dei pennacchi angolari, perché sono queste le immagini più importanti: il cerchio è riportato alla forma quadrata accentuando la cornice che sbarra la facciata a mezza altezza. In questo modo si viene a insistere sul mondo presente, giacché non si conosce «né il giorno né l’ora» del Grande Ritorno. Nella scuola dell’ovest francese, la chiesa intera – per esempio a Civray e a Poitiers – è in certi casi ricondotta simbolicamente alla volumetria del cubo – imitazione diretta della Città celeste –, con l’adozione della facciata a fastigio piano invece che a spioventi.
Conformemente alla dottrina di Pitagora che fa del triangolo un’immagine della divinità, inserire un soggetto entro una cornice triangolare – sia questa data dal profilo a capanna dell’architrave o dalla cuspide sommitale della facciata – significa riflettere in esso contemporaneamente il cielo e la terra, ossia farne una zona intermedia fra l’uno e l’altra. Perciò vi si trovano immagini come quella della Vergine, che raffigura al tempo stesso la Chiesa, preparatrice del Grande Ritorno – per esempio sull’architrave di Notre-Dame-du-Port a Clermont Ferrand e nel frontone di Saint-Jouin-de-Marnes – o come quella dell’Antica Legge e della Nuova nell’attesa dell’Agnello.
La disposizione degli animali sui capitelli o nei timpani è in certi casi subordinata alle forme geometriche: se si pongono semplicemente faccia a faccia, come spesso nel sud ovest, si ottiene un quadrato, mentre se se ne sdoppiano i corpi conservando fra i due in comune la testa si determina un triangolo (vedi, per esempio, i leoni di Bages); gli animali contrapposti, cioè dorso contro dorso, generalmente accovacciati sulle zampe posteriori, corrispondono al triangolo capovolto; gli animali invece che volgono la testa all’indietro formano il tracciato della X, ossia dell’incrocio, che però è anche il Dieci dei Romani. A loro volta, gli animali eucaristici o che si fronteggiano ai lati di un asse centrale si avvicinano simbolicamente alla figura del cerchio. Gli animali, infine, disposti in fila, uno dietro l’altro, così come gli animali abbattuti dalla freccia del cacciatore (a Saint-Ursin di Bourges) disegnano un fregio a zig-zag orizzontale, mentre se sono collocati testa-piedi, gli uni sugli altri, danno vita a un fregio a zig-zag verticale (Charente, trumeau e piedritti di Souillac, ecc.).
Con analisi di questo genere, si arriva inevitabilmente a questa conclusione: il simbolismo numerico dell’arte romanica è più ricco e più significativo di quello dell’arte gotica; questa, al confronto, rappresenta piuttosto un sistema di classificazione, legato a una scolastica arida e povera di linfa. L’arte gotica non fa che sviluppare dappertutto delle summae, degli «specchi», capaci, con l’abuso che fanno della simmetria, di soddisfare più la ragione che il cuore. Le cifre romaniche, che non vanno mai al di là del Dieci, qualche volta del Dodici, sono molto più vicine a Pitagora, a un approccio profondo, magico, dell’essenza delle cose; esse si ricollegano al numero aureo che regge le proporzioni dell’uomo e al tempo stesso, secondo Matyla Ghika, lo sviluppo della planimetria prima del sorgere dell’architettura come scienza.
Queste cifre, a parere della scuola americana (Miss Sunderland e Kenneth John Conant), governano egualmente le proporzioni di certe chiese, soprattutto di dipendenza o d’influenza cluniacense: basta misurare in piedi le distanze fra le colonne, la lunghezza e la larghezza dell’edificio, ecc. Si sa anche che presso i Greci alle lettere dell’alfabeto corrispondono dei numeri. Monsignor Delavaucoux, dal canto suo, ha dimostrato che si potrebbe connettere un numero a qualsiasi animale romanico, il quale verrebbe così ad acquistare un significato, e che proprio in funzione di tali numeri la collocazione di ciascun animale risulterebbe rispondente a un ordine preciso. Ma noi citiamo qui tutti questi lavori solamente per memoria, giacché, fino a prova contraria, le loro conclusioni non sono valide che per un’unica e limitata regione: la Borgogna principalmente; il loro campo di indagine è rappresentato soprattutto dall’area in cui più intenso è stato l’irradiamento di Cluny o sulla quale comunque Cluny ha fatto sentire maggiormente il proprio peso.
Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 210-213