Disposizione: varietà dei tipi di disposizione

Sezione: Lessico


I diversi tipi di disposizione adottati dipendono da cause complesse, storiche e geografiche. Si può distinguere la disposizione «anteriore» o «basilicale», secondo che l’importanza maggiore sia data alla decorazione del nartece o a quella dell’abside; e la disposizione «esterna» o «interna», secondo che tale importanza sia data ai rilievi scolpiti all’esterno – sulla facciata o nel coro – oppure ai capitelli e agli affreschi dell’interno. Sappiamo da numerose testimonianze scritte che le chiese antiche erano interamente rivestite di affreschi all’interno, dove era facile dipingere delle scene in serie. Nelle chiese romaniche, per contro, i progressi tecnici dell’architettura, che tende ad aumentare il numero delle finestre per accrescere l’illuminazione e al tempo stesso a rialzare le volte, determinano un diradamento dei punti d’appoggio e quindi una riduzione della superficie disponibile oppure un allontanamento dalla vista delle parti da decorare, soprattutto delle volte delle navate. Ecco perché si deve considerare eccezionale un caso come Saint-Savin-sur-Gartempe. Se non che, come stabiliscono anche i canoni del concilio del 1050, la Chiesa ha come sua missione il compito di istruire e di moralizzare. Ed è proprio questo che spiega le disposizioni multiple: si fa fuoco, cioè, con tutta la legna che s’ha a portata di mano e può succedere, quando la navata è troppo buia, ma il materiale lo permette, che un programma venga trasferito sui modiglioni esterni, troppo piccoli per potere accogliere scene di un qualche respiro, e che queste debbano perciò essere ridotte a semplici schemi, il cui senso, s’intende, oggi in buona parte ci sfugge.

Negli affreschi di Saint-Savin, per esempio, i personaggi delle volte, che altrimenti sarebbero poco visibili, sono ingranditi al massimo, al contrario di quelli dell’abside o del portico, più accessibili alla vista. Sempre per ragioni di leggibilità, nelle cripte oscure, tipo Tavant, Billom e ancora Saint-Savin, le pose sono forzate, i personaggi non fanno che gesticolare; l’artista è trascinato da un espressionismo a volte delirante.

Esaminiamo, a questo punto, alcuni tipi diversi secondo le regioni, sulla base della geografia. Troveremo che una disposizione «interna» è tipica delle regioni del Centro, come il Velay, il Brivadois, l’Alvernia: i portali e i fregi esterni sono rari qui, più dei capitelli interni sui quali è concentrato il significato simbolico (o degli affreschi a volte, nel Velay). Non si ravvisa l’utilità di una decorazione esterna, a causa del clima rigido in inverno, mentre le arenarie e le lave che abbondano nella regione si prestano benissimo alla scultura dei capitelli. Basta cominciare a discendere la valle del Rodano per imbattersi invece in una decorazione esterna, fatta essenzialmente di fregi – come ad Ainay (Lione), a Saint-Restitut, a Saint-Paul-Trois-Chàteaux, a Nimes –, che controbilancia la disposizione interna. Si arriva addirittura a dei portali a portico, che ricordano da vicino i peristili greci, in certe chiese della Provenza favorite dall’amenità del clima. È facile in queste zone fare arrivare per via fluviale i materiali migliori. Per ragioni analoghe, però, una progressiva inversione di tendenza si osserverà movendo dalla Charente e dai paesi della costa atlantica verso la Linguadoca. L’apogeo della decorazione esterna si troverà nella Saintonge, indifferentemente, sia sulle facciate (Echillais, per esempio), sia sulle absidi e i cori (Vaux, Rioux, Rétaud, ecc.). Ci troviamo infatti qui in una regione dal clima relativamente temperato dalla vicinanza dell’Oceano, mentre invece la pietra calcarea che vi si estrae permette, sì, di eseguire decorazioni a rilievo minuziosamente traforate, simili a quelle di un cofanetto d’avorio, e istoriate, in certi casi, perfino con dovizia di particolari, ma assolutamente non è propizia alle vaste ambizioni architettoniche. È evidente, d’altro canto, che la migliore visibilità si incontra all’esterno, e che sono i parati murari – capitelli, fregi, archivolti, cornici delle finestre, cornicioni, mensole, metope, gocciolatoi – che permettono, meglio della decorazione interna, dei veri e propri concatenamenti più o meno narrativi. È il caso di Aulnay, dove ci viene esibita un’accurata decorazione interna sui capitelli dei quali pur anco gli abachi sono istoriati, ma dove al tempo stesso non ci si è astenuti dall’utilizzare tutti gli elementi esterni al fine di creare una vasta sinfonia di segni e di scene che s’accordano sulle «direzioni» dello spazio. Vi si può rilevare una straordinaria raffinatezza, congiunta a una volontà di insegnare nella maniera più eloquente e più leggibile: basti considerare che una pietra dorata, di una rara finezza di grana, tale da consentire all’artista tutte le possibili sottigliezze, è stata riservata alle scene più sacre e più ricche di significato: sugli archivolti dei portali occidentali e sulla finestra assiale del coro. Non solo. Sul famoso archivolto esterno del portale meridionale, quello che presenta la Caccia al cervo e i Quattro Temperamenti umani, la pietra in questione è stata adoperata solo per la parte simbolicamente solare del fregio, e non dalla parte del male, della malattia e della morte.

Questa decorazione esterna si conserva nella cosiddetta scuola dell’ovest francese, ma essenzialmente sulle facciate (Angoulême, Poitiers, Civray, Saint-Jouin-de-Marnes), giacché un apparato di tal genere s’accorda perfettamente con una più grande ambizione architettonica e con la qualità della pietra, leggibile anche da grande distanza, come ad Angoulême. Qui il calcare invecchia infatti molto bene sotto l’azione dell’aria iodata e indurisce invece di essere corroso come quello della Charente.

Una disposizione interna, anzi proprio absidale (Chauvigny), entra invece in concorrenza con quella esterna non appena ci si avvicina alla media Loira, dove domina una disposizione interna fondata sull’affresco, a volte anche absidale, che persisterà ancora in epoca gotica. Analogamente, se ci si dirige verso sud, la scuola della Linguadoca farà valere una disposizione che è più interna rispetto a quella della Charente, pur restando, grazie ai suoi portali a portico, una disposizione anteriore, forse anche perché qui la luce solare è più intensa e riesce a penetrare meglio entro la chiesa. Succede tuttavia che il desiderio di sottolineare nel portico la presenza di una interdizione, faccia mantenere una decorazione anche sulla facciata (tipo porta Miégevile), ma in questo caso c’è una cornice che la sovrasta a mezza altezza, e questa disposizione non esclude il programma interno dei capitelli, che viene semplicemente limitato quantitativamente. Si ha l’impressione per contro che il programma che ricopre la facciata sia in certo modo la trasposizione di uno spartito interno completo, che riepiloga quello della chiesa intera. Ad esso non corrisponde un ricco e denso programma interno o come minimo quest’ultimo sarà di tutt’altra natura; a Poitiers, per esempio, sulle volte dell’abside di Notre-Dame-la-Grande una decorazione ad affresco sviluppa ciò che non sarebbe stato visibile nelle parti alte della facciata. Questo programma interno dà spazio alle gerarchie angeliche e al Cristo troneggiante nella sua gloria, al modo bizantino, mentre la Vergine occupa la posizione di spicco all’esterno.

Andando ancora avanti nel sud della Linguadoca, ovverosia avvicinandoci alle montagne, la disposizione puramente interiore diventa predominante, nonostante l’originalità dei portali, per esempio nel Béarn (basti come esempio il portale di Oloron con il timpano diviso a sua volta da un doppio timpano). Nel nord della Spagna, poi, troviamo di nuovo una disposizione simile a quella della Linguadoca – accostamento, questo, che è stato fatto anche a proposito della scultura propriamente detta, sia sotto il profilo della fattura che sotto quello della iconografia (Gaillard). La disposizione avrà tuttavia un carattere più interno che in Linguadoca, giacché la Spagna è per eccellenza il paese delle cappelle-nartece (Cámara Santa di Oviedo, Panteón de los Reyes di León, ecc.), e vi si troverà perfino una disposizione interna interessante la navata, se non l’abside, esattamente al contrario del sud est francese.

Egitto e Mesopotamia

L’edificio cristiano s’è formato principalmente nelle zone del Vicino Oriente, anche se poi l’Occidente, per ragioni di comodità, ha optato per la basilica romana. Non c’é nulla di strano quindi, che si siano adattate alla nuova religione le cupole dei mausolei, i triconchi imperiali (il Cristo, nell’orbita bizantina, eredita addirittura alcuni simboli imperiali), le absidi iraniane dei templi del fuoco, l’accuratissima orientazione dei santuari egiziani, l’arcata che ricorda la porta gigantesca dei templi-montagne mesopotamici, e infine la colonna ellenistica: tutto quanto c’era di più bello e di più carico di significati negli antichi edifici è stato ripreso e restituito a nuova vita. In maniera analoga, Leroi-Gourhan nota che, per noi, quei templi remotissimi che sono le grotte preistoriche restano sorprendentemente simili a se stessi nel corso dei millenni – il che naturalmente non vuol dire che il pensiero non si evolva né che dogmi e riti restino immutati attraverso le epoche. Passando al setaccio queste multiformi contaminazioni del passato e della decorazione antica, è addirittura agevole far risalire, con l’aiuto dei tipi di disposizione più correnti, absidale o anteriore, un qualche riflesso di certi santuari naturali: dopo tutto, le antiche religioni imitate dall’Egitto e dalla Mesopotamia non erano forse religioni naturiste?

Come si sa, i santuari mesopotamici erano in generale dei templi-montagne; le loro proporzioni immense non consentivano di sistemare ai diversi piani dello ziggurath una ricca decorazione che potesse essere esposta alla vista del popolo; a loro volta l’altare o l’osservatorio erano collocati sulla cima, perché solo gli iniziati, sacerdoti o re, avevano il diritto di contemplare le immagini divine. In compenso le facciate, le porte o gli ingressi, presentavano una vasta decorazione profana. È il caso soprattutto dei palazzi assiri dei quali sfingi e leoni proteggevano simbolicamente la soglia. Né meno numerose erano le figure di guardia, sfingi o geni cinocefali, all’entrata dei templi egiziani anch’essi vietati al popolo; solo che qui la disposizione, assai prossima a quella della grotta, permetteva di disporre una decorazione d’una estrema ricchezza che investiva l’insieme del santuario, arrestandosi sempre più in prossimità della cella, dove la divinità veniva quotidianamente resuscitata e rivivificata, in teoria dal faraone, di fatto dai sacerdoti.

Questo impregnamento continuo dell’Occidente da parte dell’Oriente doveva far sì che influenze orientali vive e profonde si manifestassero nelle regioni che sarebbero state teatro della rinascita della scultura; fu là che fecero la loro comparsa, in un modo che ancora oggi c’impressiona profondamente, due tipi di disposizione, opposti e complementari, strettamente, sorprendentemente imparentati con quanto abbiamo fin qui descritto per sommi capi. Benché costruita secondo il tipico piano delle chiese «di pellegrinaggio», in cui l’importanza maggiore è riservata alla parte absidale, la basilica di Saint-Sernin a Tolosa non presenta alcun programma scultoreo nell’abside. L’accento è posto decisamente sulla disposizione anteriore e l’abside perciò rimane nuda: il pensiero simbolico sembra rifugiarsi per intero sulla fronte dell’altare maggiore – il modello più perfetto del quale è rappresentato proprio da quello della chiesa in questione. Oppure sul ciborio che lo ricopre: celebre fra tutti quello di Cuxa. Al contrario, l’importanza dell’abside esplode letteralmente nella regione del Forez-Velay. Né certo può essere trascurato il grandioso programma di Ainay, ispirato anch’esso dalle absidi copte. Tutti i santuari della regione lionese, anche i più umili, presentano, come fa osservare C. Jullian, una straordinaria ricchezza nell’abside.

Se nelle diverse trattazioni della presente opera, a proposito dei temi affrontati, differenziamo l’aspetto che essi presentano in quelle che chiamiamo rispettivamente zona egiziana e zona mesopotamica, è perché influenze precise di queste due tradizioni prebibliche possono essere rilevate in zone infinitamente più vaste, che toccano la Francia più o meno di sbieco: la Francia sud orientale, a partire dall’Italia, e la Francia sud occidentale, a partire dalla Spagna. Lo stesso portale cluniacense che appartiene all’insieme sud orientale, Provenza compresa, può ricollegarsi alla disposizione absidale che sopravvive soprattutto nelle regioni della media Loira, mentre d’altra parte c’è una evidente parentela di programma fra i portali a portico, le cappelle-nartece e le facciate della Francia atlantica, dal momento che sia quelli che queste si richiamano indiscutibilmente alla moda, sorta d’improvviso poco dopo l’anno mille e rapidamente diffusasi, delle Apocalissi di Beato di Libana, con le conseguenti imitazioni della Città cubica e della visione cosmica bizantina legata al tema della montagna.

Non è affatto strano che il principio dell’orientazione delle chiese sia debitore in grandissima parte alla influenza egiziana: esisteva già, di fatto, in certi santuari dell’antico Egitto, l’uso di illuminare direttamente con la luce del sole, in determinati periodi dell’anno, la statua del dio custodita nella cella, e il Nilsen ha potuto dimostrare che la stessa cosa avveniva nelle antiche chiese cristiane, dove ci si sforzava di far coincidere la festa del santo locale con l’illuminazione, mediante un raggio di sole, della sua reliquia contenuta nell’altare. Senza dubbio, la differenza fondamentale fra i santuari tradizionali e la chiesa cristiana è data dal fatto che quest’ultima è aperta a tutti, mentre invece l’antico santuario era chiuso: in esso era infatti la temibile dimora del dio, e solo quelli ch’erano al suo servizio avevano il diritto di penetrarvi. Eppure questa tradizionale tendenza alla chiusura non scomparirà completamente dalla chiesa cristiana; la chiusura dell’abside sacra, che ha lo scopo di accrescerne il mistero e di suscitare un reverenziale timore, s’inserisce nella logica della disposizione anteriore tipica della zona egiziana: i primitivi «cancelli», sorta di sipari che venivano tesi intorno al presbiterio, per impedire la comunione eucaristica a coloro che non potevano o non volevano parteciparvi, e che sarebbero diventati più tardi «pontili» (o jubés), non faranno che perpetuarne la tradizione. Nella disposizione bizantina, per lo meno dopo il trionfo del culto delle icone, questa chiusura sarà ancora più radicale con l’iconostasi, sbarramento autentico e fisso, che con molta probabilità era già presente nelle antiche chiese, ricoperto d’immagini sacre, la cui contemplazione doveva tenere occupati i fedeli durante lo svolgimento del rito del sacrificio. Nella liturgia bizantina, inoltre, esisteva la «processione della porta», cerimonia essenziale del rito della «dedicazione».

Esaminiamo ora alcuni aspetti più significativi della disposizione copta. Tutti conoscono l’importanza del tema doppio di Bawit: le piccole cappelle copte denotano una disposizione di affreschi preromanici, aventi programmi diversi nelle navate laterali e sulle pareti secondo una progressione, nella quale il tema più importante – non sempre lo stesso, ma generalmente di carattere solare – è posto nell’abside: così il carro, per esempio di Elia ed Eliseo, il Cristo fra il sole e la luna, ecc. Appare evidente una diffusa mescolanza di temi pagani e temi cristiani: ecco infatti la Sibilla che si mescola con le Virtù fra i medaglioni dell’arco trionfale, ecco il graffito di Bawit col cervo inseguito dal leone, ecco la sirena di Ahnas, ecco il san Giorgio che schiaccia i mostri, identico a Horo, su un affresco delle catacombe di Alessandria. Fra questi temi delle absidi o dei timpani che trionferanno poi sulle icone, occorre citare la Vergine che allatta il Bambino: la troviamo su un affresco in un’abside-cripta di Montjmorillon e su un altro in una cappella di Le Puy. E. Mâle segnala un angelo dalle ampie ali che porta con reverenza sulle mani velate delle piccole anime da presentare a Dio: un bel motivo che è stato riprodotto con grazia squisita da uno degli scultori del Giudizio universale nella Cattedrale di Reims. Per avere conferma della grande importanza attribuita alle absidi, basta pensare che alcune grandi chiese, come quella di San Saba sulla laguna Mareotis, ne possedevano due contrapposte e che altre disponevano addirittura del triconco imperiale. Sugli architravi degli ingressi si vede frequentemente una «immagine circolare», un cerchio sorretto da angeli, a imitazione dell’antico disco solare alato; il primo timpano segnalato da E. Mâle è copto. In una catacomba di Alessandria si trova invece il modello di un altro motivo, egualmente centrato, secondo la disposizione degli antichi affreschi egiziani (così com’è indicata da Badawui), con un personaggio centrale di statura maggiore: è il tema del timpano di Valence, dominato dal Cristo della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Troviamo in questi affreschi la prima rappresentazione dell’Inferno, col dannato che bolle entro una marmitta – tema che sarà sviluppato non senza qualche truculenza dall’arte gotica. Una disposizione d’insieme appare a volte iscritta all’esterno delle grandi chiese mediante dei fregi continui formati da cerchi inseriti in trecce di nastri: si tratta di medaglioni con motivi simbolici, di origine siriana. Tutto un repertorio interno, ispirato dal Physiologus alessandrino, la cui diffusione sarà enorme nell’arte romanica, si trova in germe in un affresco che mostra san Sisinnio, paludato da cavaliere come san Giorgio, intento a schiacciare i vizi, raffigurati rispettivamente come un pidocchio, uno scorpione, un serpente doppio, un centauro e una sirena. Gli affreschi delle cupole nelle cappelle funerarie della Grande Oasi di Bagauat, a occidente dell’antica Diospoli-Tebe, presentano una sapiente disposizione imperniata sulla figura della Vergine; vi si scorge il tema della Conversazione mistica, ereditato anch’esso dall’Antichità, con santa Tecla su una seggiola a croce di san’Andrea come quella della Vergine a Cunault, nonché la contrapposizione simmetrica di Eva a Maria e di Adamo al Cristo. Si sa d’altronde che lo spirito tipologico è stato attinto al giudaismo alessandrino (Filone), per conto del cristianesimo, ad opera dell’egiziano Origene il quale, come già il suo predecessore Clemente di Alessandria, ha saputo trasporre lo spirito dei geroglifici nella nuova iconografia. Il cerchio solare ocellato, geroglifico egiziano, lo si può qui vedere al centro, circondato da un pentacolo, disegnato a sua volta dalla vigna mistica. Questi motivi che mettono insieme paganesimo e cristianesimo si sono propagati grazie specialmente ai tessuti copti, la cui produzione non ha conosciuto interruzioni, mentre i motivi stessi passavano dal paganesimo al cristianesimo – non diversamente da ciò che avveniva per gli avori (vedi la cattedra di Massimiano a Ravenna con la storia di Giuseppe) e per l’oreficeria (vedi il calice cosiddetto di Antiochia).

Veniamo ora a qualche esempio della disposizione opposta, quella mesopotamica.

Indipendentemente dallo straordinario interesse che senza dubbio suscitano, non si può certo riconoscere altrettanta ricchezza simbolica di disposizione negli affreschi rupestri della Cappadocia; qui, ciascun anacoreta ha iscritto un certo numero di scene narrative prese in prestito dal Nuovo Testamento secondo un ordine cronologico, a simiglianza degli evangelari tipici della zona siro-palestinese; l’intento simbolico non risulta così apparente, né certo la disposizione poteva essere altrettanto diligente e precisa in ambienti sotterranei così ristretti. Gli affreschi dell’Asia Minore non esitano a rappresentare i supplizi dei santi in tutta la loro terrificante realtà. Il vescovo Asterio di Amasea, per esempio, parla del Martirio di Santa Eufemia dipinto nella grande chiesa di Calcedonia e san Gregorio di Nissa ci informa che nella chiesa di Euchaita, dove era sepolto san Teodoro, c’erano affreschi che rappresentavano la storia del suo martirio. È in questa stessa regione che è stato inventato, secondo quanto afferma san Giovanni Crisostomo, il tema del santo portatore della propria testa tagliata – pegno per «tutto ottenere dal re del cielo» –, destinato a incontrare notevole fortuna. Contrariamente alla disposizione in profondità con due cori posti l’uno dirimpetto all’altro o con tribune dalle quali era possibile contemplare l’abside, come a San Mennas, in Egitto, le chiese siriane e mesopotamiche nella loro maggioranza presentano un piano centrale e contribuiscono così all’affermazione della formula che doveva poi prevalere a Bisanzio. E il caso, in particolare, degli heroa, edifici destinati al culto dei martiri. Il loro piano si ispira sovente alla croce greca; basta pensare alla celebre grande chiesa di San Simeone Stilita, oggetto di un pellegrinaggio non meno frequentato di quella di San Mennas in Egitto.

Degno certamente di nota è il fatto che nei canoni degli evangelari egiziani, costantemente citati a proposito dei piedritti di Moissac e Souillac, con i loro grovigli di animali, sono le colonne quelle che richiamano tutta l’attenzione, non i timpani, che non presentano alcuna decorazione. Mentre infatti il timpano propriamente detto è nato nell’Egitto copto, quella che invece ha svolto un ruolo immenso in Siria ai fini della creazione di un repertorio decorativo estremamente elementare e portatore di remote tradizioni risalenti all’arte decorativa della Persia, dell’Assiria, perfino dell’antica Mesopotamia, è la decorazione degli architravi o dei piedritti – quindi degli elementi che delineano il quadrato, mentre il timpano è una derivazione del cerchio. Uno dei più famosi complessi che prefigurano la grammatica ornamentale romanica e che sono decorati di motivi esterni è il misterioso palazzo di M’chatta, con i suoi racemi di vite stilizzati, coi suoi animali posti faccia a faccia ai due lati di un vaso, col suo parato ornamentale in filigrana d’una straordinaria ricchezza che ricopre l’intera superficie del muro esterno. Fra i motivi della decorazione di questi ingressi troviamo la stella a sei punte già riprodotta sulla soglia di un palazzo di Ninive, frequente in Persia, in Lidia, in Fenicia, e che sarà fatta propria più tardi dagli Arabi. Oppure la margherita dei monumenti assiri, nel palazzo di Ninive, posta a separare due geni alati. L’elica del sole rotante, originaria della Fenicia, è soprattutto frequente sugli architravi della regione di Antiochia (Mudjeleia). La treccia, ovvero successione di motivi circolari disegnati da nastri incrociati, è anch’essa un motivo presente su questi architravi: all’interno degli avvolgimenti dei nastri si scorgono i motivi circolari di cui si parlava poc’anzi; la treccia compare inizialmente sui cilindri caldei. L’albero a palmette è un’eredità dell’hom iraniano. Si trova inoltre su questi ingressi il motivo del cuore, del quale è nota la diffusione avuta nell’arte romanica, precisamente in zona mesopotamica.

Abbiamo già citato per l’Egitto copto diverse formule architettoniche che attestano la fecondità della creazione nel campo delle absidi; potremmo citare un parallelo nell’Oriente mesopotamico. Uno dei piani che ha avuto la sua influenza nella disposizione anteriore romanica è quello delle «tre navate», detto «cappadociano», caratteristico del Poitou: lo stesso dicasi per le due torri ai lati dell’entrata che ritroviamo a Tourmanin e a Saint-Nectaire. Ma di tutti i temi cruciali che distingueranno le due zone e che renderanno possibili due disposizioni differenti, sono gli animali che si ricollegano in maniera più evidente a queste due tradizioni: da una parte il leone di Cibele, vinto da Gilgamesh, e i leoni che già difendono i templi di Ur; dall’altra il serpente, l’uraeus che orna la fronte del Faraone, il serpente del disco alato, incarnazione degli dei dopo la loro sparizione, il Tifone vinto da Osiride, ecc. Si vede chiaramente come il leone di difesa si leghi normalmente alla disposizione anteriore, mentre il serpente, associato come tale al cerchio, si collega alla disposizione in profondità, al cerchio magico.

Da ultimo, mentre gli dei egiziani sono estremamente differenziati e caratterizzati dalla loro maschera animale, gli dei mesopotamici sono spesso sostituiti dai loro simboli o comunque mal definiti. È la disposizione della grotta che porta a questa immagine, bisognosa di essere resuscitata quotidianamente e che dev’essere resa viva; la disposizione della montagna tende alla non-rappresentazione ebraica. In Mesopotamia si è portati a moltiplicare gli intermediari che separano l’uomo da Dio. Nelle scene di «presentazione al dio» vediamo sempre interporsi un intermediario, prefigurazione degli angeli, e tutti sanno che è in Asia Minore che compare la loro gerarchia diligentemente spiegata dallo pseudo Dionigi l’Aeropagita. Il tema delle squame romaniche che caratterizza la zona mesopotamica era, nel suo paese d’origine, una maniera di simboleggiare la montagna sotto i piedi delle divinità. Dei e geni dalle gambe incrociate costituiscono a loro volta uno di quei temi ambigui ch’è dato d’incontrare frequentemente nelle allegorie di questa zona.

Ma vediamo di riassumere. Attraverso questi apporti divergenti, attraverso queste disposizioni opposte e complementari che vanno affermandosi nelle due zone, movendo dalle rispettive fonti bisogna pure tener conto della reviviscenza oscura o palese degli elementi naturali, così importanti in qualsiasi tradizione: la grotta e la montagna. La disposizione egiziana, o copta, si identifica con la grotta sacra, in cui il Cristo, secondo l’iconografia bizantina e siriana, sarebbe nato; l’altro tipo di disposizione s’innesta invece nella logica della montagna degli antichi ziggurat, montagna sulla cui cima è posta la Città, secondo l’Apocalisse, destinata a rivelarsi solo alla fine dei tempi e sulla quale l’arca di Noé si è già posata.

Grotta e montagna svolgono un ruolo che non manca di sorprendere, in epoca romanica: ci riferiamo ai più venerati santuari dedicati all’Arcangelo Michele. Quello del Gargano, che è fra le più celebri mete di pellegrinaggio, quello del monte Gauro presso Sorrento, lo stesso Castel Sant’Angelo a Roma, e poi il Mont-Saint-Michel normanno, l’Aiguilhe di Le Puy, il san Michele della Chiusa, sulla strada della valle di Susa, nelle Alpi piemontesi, Rocamadour infine, sono tutti concepiti come delle grotte scavate in cima a delle alture sacre. L’unione di questi due elementi di per sé contrastanti – e come tali indicanti il Cielo e la Terra – finisce con l’avvantaggiarsi enormemente della particolare predilezione che circonda qualsiasi «congiunzione di contrari». Il perdurare dell’iconografia egiziana si lega tanto alla psicostasia dell’arcangelo, erede di Thot – l’uccello ibis –, quanto all’assimilazione del Cristo al Sole di Giustizia. Grazie al giuoco dei contrasti, l’oscurità della grotta, al pari di quella dell’abside, è propizia alle fantasie della luce misteriosa che viene a rischiarare la reliquia o l’immagine che ivi ha stanza; il meccanismo è identico a quello delle religioni misteriche. La disposizione mesopotamica insiste soprattutto sui tabù, sugli elementi doppi che proteggono la montagna sacra.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 113-118

Lancia

Sezione: Lessico


È nella Caccia raffigurata a Saint-Ursin di Bourges che traspare il valore solare delle lance, strumenti della giustizia divina. Poste in parallelo, esse evocano i raggi dell’Astro che scendono dall’alto, nei quali abbiamo ravvisato l’idea del tempo solare. Ma anche i fanti e i cavalieri che trafiggono gli animali, simboli dei temperamenti umani da domare, operano come si sa in nome del «Sole di Giustizia». Per contro il personaggio accovacciato tiene la lancia in verticale, dando così un’immagine dell’inverno e del temperamento superiore, energico e meditativo, che ad esso si accompagna. I cavalieri impegnati a trafiggere gli animali e il fantaccino sono del pari simbolo del temperamento energico; la caccia è un’opera pia, poiché trasforma in sacrificio la distruzione, l’eccessiva pienezza della natura, sopprimendo a suo modo le «ripetizioni» e perciò stesso mostrandosi in armonia con l’ordine divino.

Dal canto nostro, non ci attarderemo qui ad analizzare in dettaglio le diverse figure delle allegorie femminili mascherate da soldati che immergono le loro lance nei Vizi. Ad Aulnay-de-Saintonge, per esempio, le sei Virtù e i sei Vizi (dei quali è indicato il nome) sono, partendo da sinistra: IRA PATIENTIA – LUXURIA – CASTITAS – SUPERBIA HUMILITAS – LARGITAS – AVARITIA – FIDES – IDOLATRIA – CONCORDIA – DISCORDIA. Le Virtù non indossano armature. Posseggono alternativamente delle lance e delle spade, ma in ogni caso il loro atteggiamento è calmo. Si è comunque dato il posto di vedettes a Largitas e Humilitas (con lo scudo a tracolla, poiché l’umiltà è la virtù passiva per eccellenza), ponendole l’una di fronte all’altra, ai due lati della corona centrale e allo stesso livello, sugli archivolti, dell’Agnello divino, del Cristo presso la porta inchiavardata, del granchio o Cancro, che però ha ceduto il posto al leone durante certi affrettati restauri del secolo scorso. Entrambe reggono alta la corona: nulla potrebbe meglio dimostrare che sono esse la vera via. È bene ad ogni modo tener presente l’ordine secondo cui vanno letti questi archivolti: il primo è quello dei Lavori dei mesi e dei Segni dello zodiaco, l’ordine del mondo e della fede; seguono le Vergini sagge che vegliano con le loro lampade accese alla destra del Cristo – a sinistra, per noi –, poi le Virtù e quindi l’Agnello fra gli angeli. L’intradosso dell’arco delle Virtù è ornato di stelle a sei punte, quello delle Vergini sagge di foglie di lauro con una perla al centro che disegnano un fregio a zig-zag.

Altre Virtù, armate di lancia, si trovano più in là, ad inquadrare la finestra sovrastante il portale meridionale. Esse sono l’immagine di un ordine superiore – l’ordine cavalleresco, di diritto divino –, che tenta di instaurare una giustizia su questo mondo, nel nome di Dio, mentre le Virtù di prima si accontentavano di allontanare il demonio. Con lo stesso significato va contrapposto l’Uomo col leone – Sansone, dalla capigliatura ancora intatta – che sta sull’archivolto meridionale quale POTESTAS DEI, al Costantino che schiaccia l’eresia – il serpente, che si trovava originariamente a ovest –, rappresentante la POTESTAS DOMINI. I portali occidentali nella Saintonge, hanno anche un significato esoterico di difesa contro tutto e tutti; quelli del lato sud, quando ci sono, hanno invece un valore esoterico del tipo del mandala.

Bisogna infine tener presente che i cavalieri che si affrontano con la lancia, variante del giudizio di Dio ed espressione del torneo, rappresentano anche una specie di Psicomachia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, p. 64

Bue

Sezione: Lessico


Si è veduta, nella giovenca rossa (Num., XIX, 1-15) o nel vitello grasso immolato dal Padre al ritorno del Figliuol prodigo, la prefigurazione del Cristo in croce trafitto dalla lancia del centurione (cfr. i copiosi commentari di Filone, di Rabano Mauro, di Bruno di Asti, di Gubernatis). Quest’ultimo ha visto inoltre nella giovenca rossa l’immagine dell’aurora, della vita, in contrapposizione alla giovenca nera che rappresenta la sera e la morte. L’assimilazione al sacrificio supremo del Signore è conforme a ciò che ci dice lo stesso Rabano Mauro circa il valore del vitello sacrificale, nel suo commentario alla Visione di Ezechiele che è all’origine del Tetramorfo.

Come si sa, nel cristianesimo antico, l’insegnamento relativo ai quattro Animali veniva impartito ai catecumeni durante la quarta settimana di quaresima. Quest’uso si è senza dubbio protratto fino all’epoca romanica, fino cioè alla scomparsa del battesimo per immersione. Si insegnava loro, in particolare, che il vitello era l’attributo di san Luca, perché il suo vangelo comincia col racconto del sacrificio di Zaccaria. In relazione alle tappe della vita del Cristo, il Vitello, vittima tradizionale ai tempi dell’Antica Legge, fa pensare al sacrificio della propria vita che il Redentore ha accettato di fare a beneficio di tutta l’umanità. A sua volta anche il cristiano, nel cammino della propria esistenza, deve essere immagine del vitello: vero cristiano è infatti colui che domina le voluttà del mondo e s’immola esso stesso.

L’idea di castità poteva accordarsi con l’usanza di castrare il bue, ma non con l’accezione corrente del toro stallone né coi valori di fecondità che in linea generale si attribuivano ai bovini. Ecco perché, pur lasciando al Bue il suo posto nel Tetramorfo – un posto inferiore, comunque, in basso e a destra, quale punto di arrivo della linea discendente –, gli si preferì l’Agnello, per evocare le virtù cristiane – perché l’agnello richiamava anche il concetto di sacrificio e al tempo stesso, grazie alla sua bianchezza, la purità verginale –, oppure il cervo, immagine del battezzato, collegantesi al rituale della caccia coi cani. Va ad ogni modo riconosciuto che il paragone del Cristo col toro fecondatore, principio di vita, fatto da taluni Padri, non poteva incontrare molto favore, non più, di certo, del tentativo fatto da ceni teologi di assimilare il Cristo a Giove che s’era tramutato in toro per rapire Europa: il Cristo-toro si era infatti fatto carico dei peccati del mondo nel suo sacrificio!

Vitello, giovenca e toro hanno dunque generalmente conservato nell’arte romanica il loro significato pagano, quello di un vizio: ingordigia e violenza, nel caso del toro infuriato. La Bibbia, d’altro canto, fornisce delle prefigurazioni: il vitello era presso i Moabiti l’immagine del dio Beelfegor e i Cananei ne avevano fatto un idolo; non solo, ma anche gli Ebrei, come si sa, durante il soggiorno di Mosè sul Sinai avevano fuso un vitello d’oro per adorarlo.

È proprio questo episodio che è stato illustrato in maniera superba a Vézelay, dove vediamo Mosè, appena ridisceso con le tavole della Legge, che si accinge a distruggere l’idolo a colpi di bastoni; un demonio tutto irto di peli – non mancano davvero i demoni a Vézelay – fugge via dalla bocca del vitello atterrito, mentre a destra un Ebreo si avvicina portando una capra per il sacrificio.

Gli antichi sacrifici del toro, che un uomo tiene per le corna, del vitello, dell’ariete e della capra compaiono sull’architrave del piccolo portale di Charlieu, in contrapposizione al miracolo delle Nozze di Cana, preannuncio della istituzione dell’eucaristia. Come si sa, l’Agnello è raffigurato in alto, entro la lunetta del portale maggiore. Secondo E. Mâle, ci troveremmo qui di fronte a una illustrazione del trattato di Pietro il Venerabile contro Pietro di Bruys: «Il bue, il vitello, l’ariete, la capra, irroravano del loro sangue gli altari degli Ebrei; solo l’Agnello di Dio che toglie i peccati del monto giace sull’altare dei Cristiani».

Troviamo un’ulteriore illustrazione del medesimo tema sul portale dell’Agnello a León: vi s’incontrano riuniti tutti gli animali sacrificali, mentre l’Agnello occupa la sommità del timpano: pecora e agnello a far da mensole, l’ariete del sacrificio di Abramo sull’architrave fra l’ebreo e il gentile vestiti da cavalieri, e infine i tori sotto i piedi dei due santi che impersonano la fede e la speranza: sant’Isidoro e san Vincenzo; questi ultimi inquadrano il timpano, entro i due pennacchi, alla maniera del san Pietro e del san Giacomo sulla porta Miégeville a Tolosa. Le figure di tori di cui sopra sono al tempo stesso l’immagine del paganesimo di un tempo, sconfitto proprio da questi santi: i tauroboli, eseguiti al servizio della Grande Dea, svolgevano infatti un ruolo di prim’ordine all’epoca gallo-romana, come dimostra in particolare il bassorilievo che si trovava una volta nella cattedrale della stessa Tolosa e che rappresentava il martirio di san Semino. Di questo bassorilievo non resta altro che l’aries-leo.

A giudizio del Thioller, il «cornute» (= toro infuriato) e la svastica del fregio esterno di Saint-Roman-le-Puy sono le prove della imitazione delle monete marsigliesi, raffiguranti questi stessi motivi, che son tornate alla luce in abbondanza nella medesima regione, soprattutto nell’oppidum di Essalois, presso Saint-Rambert (Loire). La maschera di bue non infrequente sui fregi di modiglione o sui capitelli, nel Velay, commista a delle rotelle o a delle S rovesciate, del tipo celtico, è un ricordo del paganesimo anteriore.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 76-77

Lottatori

Sezione: Lessico


Il gusto per la simmetria, o piuttosto per l’antitesi, è un aspetto che capita di osservare spesso nell’arte romanica; esso corrisponde a una caratteristica peculiare del simbolo, e cioè alla sua possibilità di significare una certa idea e al tempo stesso il suo contrario. Vai la pena perciò di chiedersi se si debba veramente stabilire una netta contrapposizione fra la lotta e l’abbraccio, almeno in un certo numero non insignificante di casi, e se non ci sia un partito preso nell’analogia degli atteggiamenti fra i personaggi che lottano e i personaggi che si abbracciano.

Prima di precisare il senso di questi temi ambigui, è opportuno prendere in esame il tema, apparentemente più semplice, dei lottatori propriamente detti. A tal proposito, è difficile distinguere fra zona mesopotamica e zona egiziana, giacché esso appartiene indifferentemente all’una e all’altra. È impresa ardua, perciò, cercare di mettere a punto una carta di ripartizione geografica. Tutto quello che si può dire è che il primo tema fa capo più sicuramente alla tendenza mesopotamica, imperniata sull’idea del Giudizio, e il secondo alla tendenza egiziana, ossessionata dall’idea della salvezza. Possiamo tutt’al più precisare che i semplici lottatori, così come il deciso contrasto fra personaggi in lotta e personaggi abbracciati che si vede ad Aulnay, sono stati attinti alla prima fonte, mentre un terzo genere, diverso dai due precedenti, che si è affermato in special modo nei disegni di Villard de Honnecourt e ad Anzy-le-Duc, obbedisce alla tendenza egiziana.

Come molti temi apocalittici, il sistema di equivalenze fra uomini che lottano e uomini che si abbracciano non è che una manifestazione, o una variante, del tracciato a X dell’incrocio. Quest’ultimo intende sottolineare l’ordine ben regolato dell’universo; dal canto loro, l’amore e l’odio sono evidentemente i più imperiosi fra gli stimoli che ci spingono ad agire. Vengono automaticamente alla memoria le parole di Rodolfo il Glabro: «Questi incontestabili rapporti fra le cose ci parlano di Dio in maniera ad un tempo silenziosa, bella ed evidente. Giacché, mentre con un movimento incessante ogni cosa presenta l’altra in se stessa, esse, proclamando il principio primo da cui tutte procedono, chiedono in realtà soltanto di riacquistare di nuovo la loro quiete».

a) Lottatori. Tendenza mesopotamica

Esaminiamo prima di tutto il tema dei lottatori isolati. Si tratta, nelle linee generali, di una variante del tema degli acrobati. In effetti loro compito era stato da sempre quello di divertire la gente. Se ne vedono già negli affreschi delle mastabe egiziane. Tutti conoscono la voga delle loro esibizioni nell’antica Roma, nel jiu-jitsu giapponese e nel catch moderno. I lottatori che si afferrano curiosamente per la barba a Saint-Hilaire di Poitiers, sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande, ad Anzy-le-Duc, a Saiut-Benoît-sur-Loire, oppure per i capelli, su un rilievo esterno di La Celle-Bruère, nel Berry, firmato Frotoardus, e sulla tavola di Villard de Honnecourt, sono evidentemente legati da rapporti fra loro

: sui primi tre e su quest’ultimo, le braccia dei due avversari sembrano intersecarsi fra loro e incapestrarsi, così da formare appunto un incrocio. I sistemi piliferi, barba e capelli, sono sviluppati al massimo, in segno di virilità. Altri invece sono piuttosto calvi: li vediamo su un capitello proveniente da Saint-Hilaire, custodito presso il Musée des Antiquaires de l’Ouest, e anche su una miniatura dell’Apocalisse di Saint-Sever, che a parere di È. Mâle ne sarebbe stata l’ispiratrice, però la calvizie è anche indice di una vita ben vissuta. Eccezion fatta per i lottatori di V. de Honnecourt, che sono palesemente schematizzati e la cui lotta è trasformata in una sorta di balletto, hanno tutti un aspetto massiccio da professionisti, da autentici campioni di judo; a Poitiers, inquadrati da figure di donne, sono due volte più grandi di queste (o quasi). Altra caratteristica comune: la cornice rettilinea, quadrata, nella quale essi sono iscritti sia su un secondo rilievo di La Celle-Bruére, sia nella tavola di Honnecourt, sia sulla facciata principale di Anzy, e che però diventa rettangolare nel già citato rilievo di Frotoardus e nell’Apocalisse di Saint-Sever. Alla cornice quadrata degli uomini che lottano, si contrappone, poi nella stessa tavola di Honnecourt, il semicerchio di quella che avvolge i due personaggi abbracciati. I loro lineamenti, infine, tipici degli Orientali, e i loro abiti alquanto singolari, a pieghe multiple concentriche, fanno suppone che s’abbia a che fare coi membri di una corporazione a sé stante, ritratti più o meno dal vero.

Che cosa dobbiamo pensarne? Le poche indicazioni che abbiamo fornito provano già che queste immagini non si propongono semplicemente di presentare una categoria di intrattenitori pubblici, ma che in esse è insito un significato più colto, più raffinato. Un testo relativo al capitello proveniente da Saint-Hilaire contribuisce a chiarire il perché delle loro fronti pelate, e altrettanto significativo è nell’Apocalisse di Saint-Sever il personaggio della donna raffigurata accanto a essi che sembra farsi beffe della loro lotta: «Essendo attristate le loro fronti, è giocoforza che si afferrino per la barba»; così si legge. Associati come sono alla cornice quadrata che rappresenta la terra, è evidente che si tratta di violenti trascinati dai loro istinti, e come tali decisi a servirsi di qualunque mezzo per riuscire a superarsi. Ma quello che a noi pare soprattutto chiarire il loro significato è il tozzo hom, o albero a Y, che li separa sul capitello di Saint-Hilaire. Non siamo di fronte a un soggetto faceto messo lì solo per concedere una pausa di distensione a chi legge l’Apocalisse, bensì di un simbolo tipologico del giudizio, di un duello giudiziario in piena regola che farà pendere la bilancia a favore dell’uno o dell’altro, secondo il parere e il volere di Dio. Anche il giuoco dei dadi era chiamato «giuoco di Dio» nel medioevo; come si sa, le vesti del Figlio di Dio erano state giocate ai dadi dai soldati romani – e la scena sarebbe riapparsa di frequente nelle Crocefissioni dei secoli XIV e XV. Alcuni di questi energumeni impugnano coltellacci assai simili a quello dell’Ezechiele di Royat (Puy-de-Dôme) e quindi bisogna ammettere una certa vicinanza fra quelli e questo; barbuto anche lui, intento a fare tre mucchi coi peli della propria barba, Ezechiele è in questo caso la prefigurazione tipologica del giudizio e dei flagelli che, a detta dei passi apocalittici dei libri veterotestamentari, si abbatteranno sul mondo alla vigilia della sua fine. Ma non basta. Un’analoga vicinanza va vista anche con le figurazioni di galli in combattimento, tema di origine gallo-romana, che s’incontra, imitato chiaramente da un bassorilievo antico, sia a Beaune che ad Autun, associato in quest’ultimo esempio al motivo del fregio a zig-zag sull’abaco del capitello e alla contrapposizione fra un povero infelice che si stringe la testa fra le mani in atto di smarrimento e di sconforto e un uomo trionfante che non si sa se stia esultando o ingraziando il cielo: evocazione evidente della contrapposizione fra il dannato e l’eletto.

Questa idea del giudizio alla maniera dei riti dell’Antichità è avvalorata dalla interpretazione che deve essere data al secondo dei due bassorilievi di La Celle-Bruère prima citati.

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Due fanciulli dai lineamenti di futuri giganti che indossano gonnelle a pieghe percorse da ricami a zig-zag sembra stiano accapigliandosi fra di loro. Uno dei due, a testa alta, ha afferrato l’altro per la chioma e gli sta piegando il capo in avanti. Questi, a sua volta, inarca le spalle per il dolore e sta tentando, a quanto pare, di respingere l’avversario. Attorno a essi si distinguono svariati motivi; in particolare, delle nuvole in alto a sinistra, un animale fra le gambe del combattente di destra e un oggetto bizzarro, a forma di padellino, sotto i piedi di quello soccombente, dirimpetto al primo. Pur senza averne la rigorosa simmetria, il rilievo in questione contiene in germe il tema romanico dei lottatori: il fanciullo di destra che tiene l’altro pei capelli non è molto lontano dai vecchi che si stanno strappando le barbe a Poitiers o ad Anzy-le-Duc. Dovrebbe trattarsi di un episodio della fondazione di Roma: la lotta fra Romolo e Remo; il bizzarro strumento che sta per terra non è altro che la verga degli àuguri, mentre l’animale è evidentemente la vittima di un sacrificio. Ci si sarebbe ispirati, in proposito, a uno scritto del canonico Flodoardo di Reims (896-966). Ma la cosa che più colpisce è il constatare come tu un tema del genere non sia stato dimenticato il significato profondo degli antichi costumi; d’altronde, Io stesso Clodoveo non aveva forse compiuto un vero e proprio rito di aruspicina, quando aveva eseguito un sacrificio espressamente per poter leggere l’avvenire nelle viscere dell’animale sacrificato? I sacrifici antichi sono rappresentati con fedeltà sconcertante a Charlieu.

Anche ammettendo che i lottatori che si afferrano per la barba siano un’immagine del giudizio di Dio, una interpretazione del genere non esclude il significato indicato prima che ne fa piuttosto dei lussuriosi. Nel caso citato del capitello di Saint-Hilaire di Poitiers, l’analogia della composizione con quelle degli uomini col leone salta palesemente agli occhi il comportamento delle donne che sembrano trattenerli, oppure spingerli – le mani sembrano infatti volte in due direzioni diverse –, rafforza questa convinzione. Com’è noto, gli uomini col leone sono l’immagine dell’incarnazione sul piano umano, e il leone come tale una immagine della carne. Esso è la bestia più degna di rappresentare il corpo umano, perché è il re degli animali, come l’uomo è il re della creazione. Cavalcare il leone è un po’ come sposare la donna. Le donne sono qui, al pari dei leoni, complementari all’uomo e in pari tempo evocano le figurazioni dei geni, nudi o vestiti, simboleggianti il male o il bene, che talvolta spingono, tal’altra trattengono l’uomo che s’è messo a cavalcare le fiere. Va fatto comunque osservare che altri testi biblici possono giustificare o spiegare, in certa misura, le scene di lotta. Benché paia essere loro connesso un senso negativo, nell’ottica del Giudizio, le figure di lottatori si ispirano senza dubbio anche alle parole del Vangelo relative ai violenti che riescono a ottenere il regno di Dio.

b) Uomini in lotta e uomini abbracciati

Ai lottatori isolati, puramente apocalittici, tipici del sud ovest della Francia, si contrappongono i lottatori integrati a dei programmi più vasti.

Sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande, il leone rampante nell’ultimo pennacchio a destra, che tiene fra le zampe anteriori un albero a Y ricurvo, come se lo spingesse innanzi a sé o lo portasse in trionfo, ha alle spalle una coppia di figure umane abbracciate, di significato ambivalente in un programma d’insieme uniformemente incentrato sulla Madonna. Vi si scorgono infatti i misteri della Profezia e dell’Incarnazione, la Parola dei Profeti con Jesse e la Vergine che riscatta la colpa di Eva, così come il Cristo riscatta quella di Adamo – e il complesso si legge da sinistra a destra. L’abbraccio ha quindi un significato apocalittico perché, collocato in quel punto, precede direttamente gli Apostoli e i Santi sotto gli archi inquadrati dalla vigna eucaristica, del paramento scultoreo mediano, e il Cristo col Tetramorfo, inquadrato a sua volta dal sole e dalla luna, nella mandorla del paramento superiore del frontone, dove compaiono anche dei rivestimenti simbolici: dapprima il cerchio e poi l’incrocio.

Un particolare è bene notare a questo riguardo: il programma iconografico della facciata in questione, con il Cristo circondato dal Tetramorfo solare, tema associato a quello degli Apostoli e della Vergine immagine della Chiesa, si presenta in maniera esatta e inequivocabile come un gigantesco tema doppio, non dissimile dal tema copto di Bourg-Argental e di Cluny. Nondimeno, pur costituendo un preludio, una transizione ai temi apocalittici, non si può dire, contrariamente al precedente tema di Anzy, che i due personaggi allacciati o in lotta (?) siano volti verso l’alto. Qui non solamente le braccia sono incrociate, ma lo sono anche le gambe, per una ragione di contrasto espressamente voluta, che richiama alla mente i racemi delle Porte del Cielo e le complesse posture delle allegorie dell’aries-leo: la gamba destra del personaggio di destra si trova infatti sulla gamba sinistra dell’altro, mentre il braccio destro di questo è sovrapposto al braccio sinistro del primo. Inoltre uno di essi ha la testa in posizione di «contrasto», palesemente girata verso sinistra, così come tutta a sinistra è drizzata la coda del vicino leone, simbolo di resurrezione. L’importanza attribuita all’incrocio su questa facciata di Poitiers è fuori discussione. Di fatto, sul lato destro – lo stesso in cui si trovano il leone e i lottatori appena visti –, si scorge un motivo incrociato, chiara allusione al Cristo e alla sua nascita carnale, che sovrasta la scena della Natività, e parimenti formata da due triangoli uniti pei vertici è la vasca a calice in cui il Bambino viene lavato. Sul lato opposto, invece, non si rilevano che motivi a forma di W o di omega – Nabucodonosor in preghiera, i rami che spuntano dalla testa di Jesse, il doppio corpo di pesce della sirena –, oppure motivi a spirali che sbucano fuori da maschere. Tutti questi elementi dimostrano che il tema, come la maggior parte dei soggetti di questo apparato scultoreo, contiene in sé un insegnamento tipologico: esso rappresenta, come vedremo fra poco, una figurazione, desunta dall’Antico Testamento, dell’abbraccio finale che avrà luogo quando «i tempi saranno compiuti».

Non per nulla questi falsi lottatori sono stati collocati al di sotto della scena della Natività. Posti così, a un livello inferiore, essi ci illustrano l’azione della grazia che si esercita nell’Incarnazione, mercé la quale è stato ripristinato, in senso buono, il «mondo della dissomiglianza».

Mme Labande-Mailfert ha visto bene quando ha affermato che non si tratta di lottatori, come si era sempre ripetuto, ma di una coppia in atto di abbracciarsi, e basta. Sono, del resto, gli stessi testi biblici che intervengono ad avallare l’ipotesi. Ci troveremmo, cioè, di fronte all’abbraccio dei figli di Giacobbe, Giuseppe e Beniamino (Gen., VL, 14). E non è da escludere che sia da scorgervi anche un profondo pensiero tipologico, con questo Giuseppe dell’Antica Legge rappresentato giusto ai piedi del padre putativo del Fanciullo Dio che porta lo stesso nome. Anche nel Salmo 85 (versetti 11 e 12) si parla di un abbraccio simbolico:

«La bontà e la fedeltà si rincontrano,

la giustizia e la pace si abbracciano;

la fedeltà germina dalla tetra

e la giustizia contempla dall’alto dei cieli».

Anzi, proprio questi versi, associati a un abbraccio simile fra due figure femminili, si trovano scritti su un indumento liturgico forse del secolo XI. La stessa Mme Labande-Mailfert pensa inoltre al passo di Geremia relativo alla venuta al mondo della Sapienza («così ella apparve sopra la terra e abitò in mezzo agli uomini», Bar., III, 38), che si trovava scritto, non certo a caso, sul filatterio da lui tenuto in mano nel rilievo che lo rappresenta sulla stessa facciata, sopra l’estradosso del falso portale di sinistra (purtroppo ormai cancellato), e nel quale si legge sul finire questa esortazione: «Ritorna a lei, Giacobbe, e abbracciala, cammina nello splendore della sua luce» (Bar., IV, 2). Dal canto suo, Riccardo da San Vittore, commentando l’abbraccio fra Giuseppe e Beniamino, dice testualmente: «In questo abbraccio la ragione umana plaude alla Rivelazione divina».

Lotta e abbraccio, fra loro nettamente separati, compaiono ad Anzy-le-Duc su un capitello dell’arco trionfale che precede la crociera, associati al tema, apocalittico a suo modo, dei fiumi del Paradiso e alla Vergine Regina col Bambino, nella chiave di volta, difesa dai leoni, come sulla tavola di destra del Libro di architettura (parte Geometria) di Villard de Honnecourt. Due monaci tonsurati che si abbracciano precedono i due lottatori che si afferrano reciprocamente per la barba – motivo classico, come sappiamo –, inquadrati da maschere di fiumi, barbute anch’esse a cui spunta fuori dalla bocca una lingua smisurata: lingua e barba ondulata simboleggiano l’acqua. Infine, girato verso l’alto, un minuscolo personaggio, un nano si direbbe, con la testa enorme, come e cosa comune in questi poveretti, alza gli occhi al cielo, in direzione della Madonna; come uno storpio, o come l’orante di Rozier, ha le gambe ridotte a dei moncherini. Un sistema, questo, per far notare che non tocca terra. Si tratta pertanto della personificazione di un amore che non avrà limiti, legata all’idea della Città celeste, che vedrà risplendere la carità che mai non muore, e all’idea del Sole di giustizia, che brillerà eternamente.

Per spiegare il significato di questi monaci abbracciati e di questi lottatori di Anzy-le-Duc un’altra cosa da fare è avvicinarli a quanto dice Rodolfo il Glabro all’inizio delle sue Storie a proposito dei fiumi assimilati alle quattro virtù cardinali. Come già si è detto, infatti, fra le due coppie di personaggi sono intercalate delle maschere di fiumi. Il terzo fiume, dice il monaco cluniacense, è il Tigri, «lungo le cui rive abitano gli Assiri, il nome dei quali significa ‘coloro che comandano’» e che «simboleggia la Forza»: l’accostamento ai lottatori è quasi automatico. Il quarto, «l’Eufrate, ovverosia l’‘abbondanza’, designa evidentemente la Giustizia che nutre e conforta tutte le anime che la desiderano ardentemente» – e sembra chiaro che l’accostamento vada fatto qui con l’abbraccio. Se si accetta questa interpretazione, i due fiumi rappresentati con i lineamenti dell’Acquario che si vedono su uno dei capitelli meridionali, dovrebbero essere la Temperanza e la Prudenza (?).

Il parallelo delle due scene con immagini acquatiche, e in particolare con le maschere fluviali vomitanti onde vorticose, può suggerire altresì alcune osservazioni fatte già dalle genti medievali, intorno ai misteri della natura e ai fenomeni che le avevano più profondamente impressionate. Sulle orme di Macrobio, diversi scrittori, fra cui Paolo Diacono (720-799?), Adelardo di Bath, Guglielmo di Conches, ecc. avevano forgiato delle ipotesi sul fenomeno delle maree, arrivando a supporre che in fondo all’oceano esistesse un gorgo, o più di uno magari, dal quale aveva origine questo movimento alternativo della superficie marina. Alcuni, come lo stesso Paolo Diacono, pensarono al Maëlstrom, in Norvegia, o più correntemente alla luna. Ci si poteva chiedere perciò se le azioni contrastanti degli uomini non fossero da avvicinare ai contrastanti saliscendi di questa corrente naturale. La cosa non ha nulla d’inverosimile, giacché questo poteva anche essere uno dei molteplici significati della X o comunque dell’incrocio. Tenendo presente una più ampia conoscenza dell’universo, si può benissimo immaginare che ci si sia limitati a confinare i fiumi del Paradiso nel Medio Oriente, secondo la tradizione biblica.

A Saint-Benoît-sur-Loire, nel portico dove il programma apocalittico era contemporaneamente sviluppato sui capitelli e sugli affreschi che lo rivestivano in origine, la rappresentazione dell’abbraccio appare nella «rosetta» di uno di questi capitelli, nel quale un ipotetico Daniele si presenta circondato da quattro leoni, uno dietro all’altro, in gruppi di due, e da quattro atlanti con addosso bande incrociate, o pallium, immagine dell’intercessione della Chiesa (quattro = terra) Tutti sono girati verso l’alto; il braccio di quello di sinistra disegna un motivo a V, e la sua faccia, più marcatamente rivolta verso l’alto, sembra angosciata; il personaggio di destra, più tranquillo, ha invece l’aria di volersi svincolare. Dobbiamo interpretare la scena nel suo insieme come illustrazione della promessa del Cielo e della sua Vittoria: la V nitidamente visibile è infatti l’iniziale di questa parola.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 190-194

Leone: il leone e il cervo

Sezione: Lessico


Il sarcofago antico detto «di Giovino» che alla fine del medioevo era stato innalzato su delle colonne di marmo grigio nella chiesa di Saint-Nicaise a Reims (Espérandieu) affinché tutti potessero comprenderne il senso, ha un significato particolare nella città delle consacrazioni regie. Nonostante le sue qualità artistiche superiori, si può accostare al sarcofago di Déols che è stato il modello del portale di Saint-Ursin a Bourges. È ad un tempo più chiaro per certi aspetti e più confuso per altri, ma esprime le medesime idee, in particolare quelle relative ai temperamenti umani.

Vediamo anzitutto gli aspetti più chiari; mentre a Déols, come a Saint-Ursin, l’idea iniziatica si disperde un po’ fra il giustapporsi delle cacce successive e la folla delle allegorie vegetali legate alle stagioni e al trascorrere del tempo, qui a Reims si è preferito insistere sul significato della caccia in quanto tale, come rito di transizione. ll giovane iniziato – quello col berretto frigio – riceve lo scudo, il destriero, le armi; è circondato dalla Guerra – una figura allegorica femminile –, e dalla Riflessione, Prudenza o Forza Virile (?) – l’uomo maturo –, prima di affrontare l’animale più degno di giustificare preparativi del genere, cioè il leone, il re di tutti gli animali.

Gli aspetti meno chiari, invece, sono proprio i Temperamenti: si vedono distintamente quattro personaggi attorno al leone, uno dei quali, girato verso sinistra, evoca probabilmente il temperamento linfatico, fissato sul passato; in compenso, sono solo due gli animali rappresentati, mentre a Déols ne compaiono tre: una maschera di cinghiale e il cervo, raffigurato due volte, anch’esso con la sua maschera.

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La doppia figurazione del cervo, prima a sinistra, vicino alle allegorie, con la maschera in verticale, e poi a destra, abbattuto e in orizzontale – cioè morto –, è significativa. Si è voluto mostrare, in contrapposizione al cinghiale, temibile solo quando è infuriato, che il cervo è veramente identico al leone, animale del tutto sconosciuto nelle nostre regioni europee. Questo cervo merita, per l’estrema intelligenza del suo comportamento, per l’istinto eccezionale di cui è dotato e per i suoi morsi non meno temibili, quell’autentico rito che è la caccia coi cani, arte francese per eccellenza, imposta proprio dalle sue doti e non ripetibile con nessun altro animale.

Si vedono inoltre, su questo sarcofago, i Romani e i Galli che si affrontano, contraddistinti dai rispettivi tratti caratteristici. È evidente che la nobiltà e il clero hanno assunto l’eredità storica dei conquistatori romani, così come la plebe delle campagne ha assunto, più o meno, quella dei Celti asserviti. La trasmissione dei poteri si è realizzata a un livello singolare, passando dalle vittoriose legioni di Roma alla feudalità medievale, proprio a Reims, già capitale della provincia Belgica romana, dove Clodoveo sarà il primo a essere consacrato re, e al tempo stesso sede di un vescovato prestigioso oltre che centro strategico di prim’ordine. Fra Reims e Parigi, immense foreste sono state riserve di caccia dei re di Francia fino al secolo XVIII.

La caccia al cervo e al leone, unita alla personificazione dei temperamenti, è quindi un mezzo per mostrare come essa esiga e renda manifesta la padronanza degli stessi temperamenti, specialmente della paura, e quanto le virtù ascetiche siano necessarie a questo mondo. Essa costituisce una prova, una geis, che consentirà al nobile di meritare la vestizione a cavaliere e al re di meritare l’unzione con l’olio della santa ampolla amministrata dalla Chiesa. Questi particolari valori del cervo e del leone si perpetueranno nella letteratura. Il senso iniziatico della caccia al cervo – il «cervo bianco» dei romanzi cavallereschi –, non meno della costante presenza dei leoni – leone che difende il ponte della spada o lacera le vesti di Tisbe, leoni che fanno paura a Govino ecc. – si conservano immutati sugli avori profani della fine del medioevo, ispirati da questi stessi romanzi: essi rappresentano gli ostacoli che a modo loro si frappongono alla conquista della dama o delle fanciulle, costituiscono le prove imposte per meritarle: trasposizioni profane dei motivi cristiani, il cervo simbolo del battezzato o del catecumeno e il leone simbolo di resurrezione. Ritroviamo leoni e cervi (o renne, piuttosto) su un arazzo svedese conservato al Museo Storico di Stoccolma, proveniente da un frammento di baldacchino della chiesa di Dalhem (Småland).

Il tema dei temperamenti umani sviluppato sull’archivolto esterno della porta meridionale di Aulnay mette in perfetto risalto il carattere aristocratico e ascetico dei due simboli animali. Si sa che questi sono d’uso corrente nella trattazione di questo tema – basta guardare, per esempio, a Saint-Gilles-du-Gard –, e il loro accostamento è indispensabile, in quanto l’uomo che cerca di dominare le proprie passioni deve identificarsi col cervo del sacrificio e col leone della resurrezione. Sempre ad Auluay, la più bella chiesa della Saintonge – se non altro per la scultura –, i portali occidentali, esoterici, sono palesemente destinati a istruire il comune mortale, ricorrendo in particolare alle immagini delle Virtù e dei Vizi, ciascuna designata col proprio nome, e alla rappresentazione dei Lavori agricoli di tutti i giorni: come si sa, era proprio sotto il portale occidentale che nelle chiese medievali veniva amministrato il battesimo. Si vede distintamente, per contro, che il portale meridionale, autentica summa iniziatica ed esoterica di incredibile ricchezza di significati; era riservato, per via della sua vicinanza alla zona absidale, ai membri del clero che ivi officiavano e ai grandi di questo mondo che avevano diritto a una posizione di particolare prestigio in prossimità dell’altare: bisognava perciò possedere una certa cultura per poterlo capire. A questo proposito anzi va sottolineato un ulteriore particolare: la finestra che si apre sopra il portale in questione è incorniciata da figure di cavalieri armati, con tanto di elmo in testa, impegnati essi pure a fare scempio dei Vizi; solo che, a differenza di quelli della facciata ovest, nessuno di questi è accompagnato dal nome: il senso anche qui è evidentemente esoterico.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 189-190

Leone: il leone e il drago

Sezione: Lessico


Un’associazione o una opposizione costante fra questo animale e questo mostro caratterizza il simbolismo romanico, ispirato dall’Apocalisse. Alla radice del contrasto instauratosi fra i due sembra essere, fra l’altro, una frase di san Cesario di Arles: «È meglio essere vittima del leone che vittima del serpente». Leggendo fra le righe, bisogna interpretarla come un’affermazione della natura androfaga del leone, nel senso che questi ha solamente il potere di divorare la carne al momento della morte, come molti testi e molte figurazioni ci confermano. La carne infatti il leone la dovrà restituire nel giorno del giudizio, mentre invece il demonio, gola dell’inferno, i peccatori li ingoia e li rinserra per l’eternità. Dice del resto san Matteo (X, 28): «Non temete coloro che uccidono il corpo, ma che non possono uccidere l’anima; temere piuttosto colui (Dio) che può mandare l’anima e il corpo nella geenna del fuoco!» Nel primo consiglio, l’allusione al mostro divoratore sembra abbastanza chiara, Se Dio ci abbandona, è evidentemente al potere del drago infernale che ci consegna.

W. Déonna ritiene, dal canto suo, che gli uomini alle prese con i mostri di Daniele sul secondo architrave di Beaulieu siano ispirati al testo apocalittico (XX, 13): «Il mare rese i morti che conteneva, mentre la morte e il mondo dei morti restituirono i loro, e furono giudicati ciascuno secondo le loro opere». A me sembra invece che i veri leoni romanici di Beaulieu, così come i draghi d’altronde, siano piuttosto da ravvisare nei mostri del primo architrave; sono questi i prescelti a rappresentare gli animali distruggitori, gli stessi di Ap. XI, 17-19: cavalli che «avevano teste simili a quelle dei leoni e dalla cui bocca usciva fuoco, fumo e zolfo», che seminavano morte fra gli uomini; «infatti», precisa l’evangelista, «il potere dei cavalli sta nelle loro bocche e nelle loro code, giacché le loro code sono simili a serpenti con teste umane ed è per mezzo di queste che fanno del male». Ma anche locuste che, «a vederle, parevano cavalli preparati per la guerra…, e le loro facce erano come volti umani. Esse avevano capelli simili a quelli delle donne e i denti come i leoni… Avevano le code come quelle degli scorpioni, irte di pungiglioni, e nelle code il potere di nuocere agli uomini per cinque mesi» (Ap. IX, 7-10). Animali del genere non erano facili a rappresentarsi, in particolare la bestia a sette teste di Ap. XII, 3, ma sembra evidente che era soprattutto il leone a costituire per queste figurazioni un denominatore comune, tanto più che s’avevano a disposizione innumerevoli passi dei salmi, qualcuno dei quali lo abbiamo citato anche noi, che parlavano apertamente dei leoni come di nemici spaventosi. Ad ogni buon conto, i cavalli con testa di leone compaiono negli affreschi di Brioude, le locuste a Vézelay e il mostro con sette teste a Beaulieu. Una caratteristica, inoltre, accomuna questi animali e giustifica la ripugnanza per essi da parte di san Cesario: il ruolo più terrificante assegnato alla coda di serpente che alla testa di leone.

L’associazione leone-drago con significato nefasto ha un altro punto di partenza nel salmo 90,13:

Tu camminerai sull’aspide e sulla vipera,
e schiaccerai sotto i tuoi piedi
il leoncello e il drago.

Proprio questo versetto ha ispirato un affresco delle catacombe di Alessandria (sec. IV), nel quale si vede il Cristo vincitore di questi mostri, affiancato dal dio Horos alle prese con dei coccodrilli e nella medesima positura. È arcinota, in ogni caso, la rappresentazione famosa sul trumeau della cattedrale di Amiens, dove il «Beau Dieu» calpesta i quarto mostri.

a) Programmi storici

L’associazione di questi due mostri, collegata ai testi sopra citati, può entrare anche in programmi di carattere storico, quando vi domina l’idea apocalittica. Per esempio quando contrappone la sconfitta finale del serpente, simbolo della morte, alla sua iniziale vittoria in occasione della colpa dei nostri progenitori narrata dalla Genesi, o ancora quando si contrappone la lotta contro il serpente all’accostamento dei due animali, o meglio del leone maschio al grifone femmina, che, come la coppia del «dragone azzurro» e della «tigre bianca» alla quale è affidata in Cina la direzione dell’universo sembra esprimere l’idea della ierogamia, delle reiterazioni.

Il contrasto invece lo troviamo ad Ainay. Come si sa, sui due pilastri della campata del coro è rappresentata una sene di temi in cui si mescolano Antico Testamento e Apocalisse, ma che nell’insieme sembra una variante del tema doppio, tipico dell’area copta. Un particolare, fra l’altro, conferma tale sorgente: tre fregi, tutti e tre posti entro delle cornici formate da animali messi in fila, in coppia o isolati, esprimono l’idea delle tappe, delle virtù teologali. Il leone, incantato da Orfeo o da Davide, si trova dallo stesso lato della speranza, insieme con l’ancora. il drago invece precede il cervo e il pesce, ed è seguito dal battesimo per immersione; l’insieme vuoi porre l’accento sull’elemento acqua, sui valori umani, e si trova dalla parte del fregio che addita l’ordine della fede. Se poi ci si riferisce ai temi dei pilastri, ci si accorge che il leone e la speranza sono messi in relazione, sul lato dell’epistola, a destra, con la Vergine dell’Annunciazione, simbolo anch’essa della speranza; la Vergine, infatti, come ricordano i timpani di Neuilly-en-Donjon (Allier) e di Anzy-le-Duc (Saône-et-Loire), riscatta la colpa di Eva, ed è per questo che le scene della Genesi si trovano sulla faccia laterale. Essa prepara in pari tempo la venuta del Cristo del Ritorno finale sotto forma di Tetramorfo, e il significato del tema doppio sta proprio in questo ritorno. Drago e Battesimo si presentano, non meno logicamente, dalla parte del vangelo, sul lato nord, associate ad alcune allusioni più precise all’Apocalisse (san Michele vittorioso sul drago), all’Antica Alleanza (ciclo di Caino e Abele che mette in mostra il contrasto fra l’eletto e il dannato) e all’ultimo dei Profeti, il Battista. È noto, del resto, che secondo le regole liturgiche il battistero o la cappella del fonte battesimale dovevano essere collocati sul fianco nord della chiesa, perché il nord è la regione delle tenebre, nelle quali sono ancora immersi i catecumeni, coloro che non si sono ancora purificati col battesimo. Il programma risulta così d’una magnifica coerenza, in asse, da un lato, col dragone del peccato, della morte del corpo perituro, e dall’altro col leone della resurrezione, della speranza, della vita eterna, ecc. Benché la loro lotta non sia rappresentata, è facile indovinare la vittoria finale del secondo.

Un pensiero analogo governa l’insieme dei capitelli della crociera e delle due absidiole di Aulnay-de Saintonge (Charente-Maritime), dove questo contrasto appare ancora più significativo per il fatto che ad esso corrisponde l’altro contrasto, quello degli eletti e dei dannati, esposto sulla finestra assiale esterna dai personaggi inseriti fra le spirali delle quattro S, ma anche sui modiglioni, e soprattutto sull’intero paramento scultoreo della porta meridionale: si è ottenuta così una stretta coerenza fra l’interno e l’esterno dell’edificio. Gli uomini col leone stanno a nord e sono: Sansone col leone di Thimna (?), Daniele coi suoi leoni, Sansone e Dalila; ad essi si contrappongono Adamo ed Eva col loro serpente. Sono loro a preparare l’avvento della Città celeste, sintetizzato dai quattro Animali, dai due uomini abbracciati nei quali si riconoscono gli apostoli Pietro e Paolo, e infine dalla vittoria di san Giorgio sul drago. Vi si scorgono anche i quattro temperamenti umani, dei quali l’uomo col leone rappresenta quello più nobile. A sud c’è poi la porta famosa, con il capitello degli elefanti, che completa l’opposizione fra eletti e dannati, fra Abele e Caino, e con le sue maschere lunari, con i suoi uccelli in barca, con i dannati, coi demoni che si stanno portando via quattro dannati, ecc. E qui che dominano i serpenti: draghi avvinghiati fra loro, asini alle prese col semente, e così via. All’esterno, nella zona absidale, le cose s’invertono di nuovo; i personaggi sugli stipiti della finestra assiale sono incastrati in vario modo entro una serie di anelli formati da volute di racemi, e quelli che corrispondono all’ordine della terra, sulla sinistra, si trovano dalla parte di san Michele che pesa le anime degli eroi biblici, Sansone e Daniele, alle prese coi rispettivi leoni: cioè a sud. A destra, viceversa, ovverosia sul lato nord, compaiono degli uomini portati al cielo da aquile, o comunque da uccelli, e un’altra volta la vittoria di san Giorgio contro il drago. La stessa contrapposizione si rincontra a Varaize, nelle mensole del coro.

b) Programmi morali

I programmi precedenti iscrivono leone e drago in una prospettiva storica, in quanto evocano sia la continuità del tempo, sia la fine di tutti i tempi. Nonostante ciò, gli animali non hanno solo un significato apocalittico o cosmico in relazione con le costellazioni; hanno anche un significato morale. Ci restano perciò da vedere dei programmi iconografici che mettano in risalto le relazioni fra questi due mostri nel significato di contrasto, al quale abbiamo già accennato con l’aiuto di san Cesario e di san Matteo: in funzione, cioè, di un discorso morale.

Già nei programmi precedenti, tuttavia, si poteva intravvedere, ad Ainay per esempio, come il discorso morale facesse capolino, presentandosi sotto forma di riflessione aggiuntiva ternaria che inevitabilmente veniva a complicare la semplice contrapposizione binaria fra i due animali: come riflessione, vogliamo dire, sulle tappe dell’esistenza. Tale differenziazione distingueva da tutti gli altri un programma tipicamente appartenente alla zona egiziana. In questi programmi morali, Rozier-Côtes d’Auree, che non è meno caratteristica di questa zona, mostra l’incidenza esercitata dalla medesima riflessione.

Ciascun programma, infatti, ha qui ancora la propria specificità. In contrasto col ritmo ternario delle immagini dell’abside, i temi vanno a gruppi di quattro, nella navata di Anzy-le-Duc, e i numeri Tre e Quattro sono in accordo con le proporzioni scelte per la struttura architettonica dell’edificio. I rapporti dell’uomo col leone sono raffigurati, da soli, sul lato sud: si tratta del combattimento di Eracle, immagine dell’incarnazione o della Giovinezza, scolpito su un capitello a soggetto storico e cosmico che intende mettere in mostra anche i popoli della terra, e dei leoni con teste umane, che rappresentano la morte (cfr. LEONI DISTRUTTORI E ANDROFAGI), ecc. Il vero programma morale si presenta invece sul lato nord; due capitelli nei pressi dell’entrata, da mettere in rapporto con quello appena citato perché collocati allo stesso livello, contrappongono, sotto le sembianze degli eroi cristiani o biblici, il falso Daniele e Sansone-Daniele nudo e in atteggiamento meditativo accoccolato fra i suoi leoni, Sansone, per contro, vestito e in atto di attaccare il leone alle spalle per vincerlo meglio –, all’eroe pagano che sembra, a sua volta, dominato dalla bestia.

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Sempre in parallelo col capitello meridionale della morte, la speranza cristiana è sintetizzata da altri due capitelli: uno, da una parte, sul quale si vede il cristiano che come un acrobata sopraffatto dal doppio dragone accetta la morte della carne, l’altro, dalla parte opposta, sul quale il dragone è finalmente sconfitto l’ultimo giorno per l’intervento dell’arcangelo Michele. I quattro capitelli suddetti illustrano quindi, letteralmente, la frase di san Cesario: affrontate il leone, se non volete essere abbandonati alle spire del drago, cioè all’inferno.

Un’idea non dissimile si trova espressa a Rozier-d’Aurec secondo un ritmo ternario; ad Anzy si poteva pensare a un rapporto con le quattro virtù cardinali, qui bisogna invece vedere le virtù teologali, o le tappe della vita, come ad Ainay. L’uomo vittima della belva appare in una rappresentazione dell’androfago, cioè della morte secondo la concezione celtica: il leone è rimpiazzato dal lupo, animale tipico di tale tradizione. La testa dell’uomo fra il lupo ululante e il personaggio ignudo del secondo capitello vuole esprimere l’idea della testa che sopravvive alla decomposizione del corpo, collegata all’esaltazione della maschera umana, caratteristica anch’essa della civiltà celtica. L’uomo vestito, infine, che sale al cielo, circondato dal disco gallico e dal triangolo pitagorico, reggendo in mano la borsa, è l’uomo che ha preso su di sé la nuova carne della vita eterna. In altra pane di questo libro è detto ben chiaro, del resto, che tutti i numeri pitagorici possono essere espressi in modi diversi, soprattutto con l’ausilio di simboli vegetali. Qui inoltre non è più la fiera ad accompagnare il defunto alla sua dimora eterna, bensì il serpente gallico, dotato d’ali e di corna, simbolo anch’esso della resurrezione. E se anche l’alternativa posta da san Cesario rimane sempre valida, giacché l’uomo in preghiera dà la sensazione di volere sfuggire al dragone, in realtà lo spirito del contrasto leone-drago è quanto meno profondamente modificato, in relazione col significato diverso che viene dato al serpente nella zona egiziana. L’uomo non è più come ad Ainay la vittima del doppio serpente: ne è diventato l’alleato, si potrebbe dire. Il ritmo ternario deve comunque essere collegato ai tre giorni trascorsi da Cristo nel sepolcro, alla triplice immersione del battesimo primitivo o alla triplice aspersione del battesimo attuale nel nome della Santissima Trinità: il battesimo non è infatti che una morte simbolica, e una resurrezione altrettanto simbolica, non molto dissimile dalle iniziazioni primitive. Esso però si ispira pure all’importanza estrema che i Celti attribuivano al numero Tre.

Nella cripta di Hagetmau, il ritmo dualistico è tipico della zona mesopotamica e s’inserisce in un contesto apocalittico che ricorda i due architravi sovrapposti di Beaulieu – però è anche evidente la presenza di una riflessione morale; l’uomo alle prese col leone rappresenta anche qui i vizi della carne come tutti gli uomini col leone. Due uomini infatti, stanno scaraventando le vittime ignude entro le fauci dei mostri; per contro, sull’altra faccia del capitello, un personaggio vestito ne tira fuori altri due da altrettante fauci, afferrandoli pei capelli: esso incarna la speranza cristiana, la vittoria dell’asceta sui peccati corporali. Sul capitello accanto, poi, più vicino al fondo della cripta, degli uomini che indossano tuniche folte di panneggi lottano a colpi di spada contro degli uccelli orrendi, con teste di drago, assai simili a basilischi: la loro è la vittoria sui peccati dello spirito, secondo le norme di un leitmotiv insito nel pensiero romanico.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 186-189

Leone: l’uomo col leone

Sezione: Lessico


Zona mesopotamica

il tema estremamente complesso degli uomini col leone è alquanto specifico dei capitelli spagnoli: ci soccorre nella fattispecie l’opera di Georges Gaillard – Les origines de l’art roman espagnol – dalla quale prenderemo in prestito la numerazione per ordine. Più che qualsiasi altro, questo tema esige che ci si rifaccia il più possibile alle opere, prima di tentare di interpretare in maniera sicura. Esso è caratteristico soprattutto della zona mesopotamica, ma l’immensa influenza dei pellegrinaggi a Compostella lo ha irradiato fino alle regioni più lontane. Lo si ritrova infatti alla Daurade di Tolosa, ad Aulnay, a Chauvigny, complicato al punto che non di rado è addirittura difficile riconoscerlo.

Come nostra abitudine, lo affronteremo nell’ambito di uno specifico santuario, tipo quello di León, dove esso costituisce il punto di partenza di un programma completo con tutte le sue varianti: gli uomini col leone compaiono infatti qui sotto due aspetti. Sul lato nord, proprio davanti alla crociera, ci s’imbatte nel capitello dei «Tre Sansoni». Tre personaggi nettamente distinti per la posa, l’espressione e gli abiti sono raffigurati sulle tre facce del càlato: quello della faccia destra è completamente nudo e girato verso sinistra; cavalca un leone e le sue due mani sembra che stiano per essere addentate dalla belva; con la testa volta all’indietro, contempla terrorizzato una maschera* posta in cima a una colonna – forse l’asse cosmico –: si tratta dell’uomo lussurioso, privo di vesti, che ha paura del castigo. Per contro, gli altri due personaggi sono sì anch’essi in groppa a dei leoni, ma vestiti e affrontati sulle due altre facce: rappresentano perciò la vittoria sul male; il primo porta abiti svolazzanti, alza gli occhi al cielo, è seduto su una sella ornata di perle e sembra meno dipendente dal leone, del quale stringe le mascelle con entrambe le mani. Il secondo invece si sforza, con la destra, di chiudere le fauci della belva; ha i capelli riccioluti, una mano sola impegnata e suona il corno in segno di vittoria. Siamo di fronte, evidentemente, a una variante del tema delle tappe.

Dall’altra parte, sul lato sud, di fronte ai «Tre Sansoni» ma nella campata precedente, gli uomini col leone si presentano in un modo più consueto, sotto forma di due personaggi evocanti rispettivamente il bene e il male. Questi uomini hanno molto in comune con quelli esaminati prima: nudi, la faccia tormentata, sembrano sbucare entrambi da una maschera della terra collocata al posto della rosetta per approdare in groppa ai due leoni contrapposti: questa maschera è l’immagine della terra creatrice dalla quale essi emergono per finire poi preda del male rappresentato dai leoni. Il bene invece è impersonato dalle due figure armoniosamente drappeggiate poste da una parte e dall’altra, intente a carezzare i leoni e a tenere loro una zampa. I differenti aspetti degli uomini col leone di León vanno di pari passo col programma apocalittico sviluppato dai capitelli del lato nord, uno dei quali, su una finestra, rappresenta la Pesatura delle anime da parte di san Michele, mentre su quelli in alto compaiono l’orante fra due leoni, l’androfago, gli agnelli che si fronteggiano per simboleggiare gli eletti, ecc.; ma vanno di pari passo anche con un programma esposto sul lato meridionale, dedicato alla vita terrestre e al potere dei Vizi, nel quale fanno spicco l’arciere e la lotta fra un cavaliere e un villano armato di randello. Su questo lato meridionale l’uomo con la coppia di leoni è associato al Cristo Giudice. Il simbolismo vegetale del secondo capitello completa la contrapposizione.

Potremmo ritrovare un’analoga disposizione d’insieme a Jaca: i temi che condannano la lussuria, gli uomini col leone, si trovano nella navata laterale sud riservata alla lotta contro i vizi, mentre i soggetti apocalittici, i simboli dell’accesso al regno dei Cieli, si trovano a nord: su questo lato sono anche più numerosi i simboli vegetali, fioroni, pigne, nonché gli animali, uccelli che si fronteggiano, evocanti il Paradiso.

Ma una volta passati in rivista tutti questi soggetti, qual è la conclusione circa il significato esatto dell’uomo col leone? Si ha la sensazione che a León si siano volute evocare tre età medie dell’uomo. La Fanciullezza e l’Adolescenza sono espresse mediante i temi di cui abbiamo appena parlato, che mostrano l’adolescente debole alle prese, come lo stesso Eracle, con l’alternativa vizio o virtù e che ha bisogno di solidi insegnamenti contro i pericoli che lo minacciano se non vuoi cadere nei colpevoli impulsi della carne. L’uomo col leone rappresenta invece l’età virile, l’uomo che con ratto d’amore diventa padrone di sé stesso e responsabile: egli sarà in grado di affrontare il giudizio e di scegliere fra il bene e il male. Se viceversa è in groppa al leone, cioè a dire se sta compiendo l’atto carnale, diventa bestia, dà sfogo all’animalità, però si avvicina a un animale eccezionale che gli rassomiglia, capace, se vuole, di dominare l’istinto. Il tema macrocosmico di Jaca, dove dei minuscoli uomini col leone hanno sul capo una gigantesca maschera della terra, sembra alludere alla terza età, la Vecchiaia. Senza dubbio, i Tre Sansoni di León sono anch’essi una personificazione delle tre età.

Qual è l’origine iconografica del tema? L’uomo che cavalca la bestia, così come l’uomo primitivo che si mette addosso la maschera della fiera o come gli adepti dei culti misterici che si vestono di pelli, pensa di appropriarsi in questo modo della forza dell’animale. L’arte alessandrina, in particolare la celebre esedra di Menfi, ha esercitato in vari modi la propria influenza in Linguadoca, per esempio nelle barbe a più ciocche dei Profeti: questi uomini col leone derivano molto alla lontana dai piccoli geni nudi, i cosiddetti bacchoi, che seguivano i cortei di Dioniso cavalcando leoni, pantere o chimere: bastava soffermarsi lungo il dromos che portava all’esedra per vederli. Le leggende non sono altro, in generale, che deformazioni o solidificazioni di credenze primitive o tradizionali. Proprio una leggenda del genere, che aveva allora corso in Spagna, può spiegare il significato delle coppie di leoni poste a difesa degli ingressi: essa raccontava che alcuni innamorati avevano subito una metamorfosi ed erano stati condannati a rimanere in eterno a guardia della soglia del santuario per avere essi profanato il luogo sacro con l’abbandonarsi a rapporti sessuali all’interno di esso. Come capita sovente, questa leggenda ha preso le mosse dall’interpretazione di figure più o meno esattamente comprese di leoni di difesa: ed è questo appunto che si è normalmente verificato, soprattutto nel Vicino Oriente, con la leggenda relativa ai santuari della Dea madre; però la leggenda chiarisce al tempo stesso il significato dei geni nudi che, cavalcando i leoni, si appropriano della loro forza.

Bisogna d’altronde pensare alle virtù intrinseche del leone, esaminandone la figurazione più importante, quella inserita nel Tetramorfo. Qui il leone è il personaggio fondamentale, perché è il simbolo della vittoria sulle forze oscure, sulla carne, che assicurerà la resurrezione dell’essere e la sua identificazione con lo spirito. I due uomini col leone, così come sono effigiati sui capitelli spagnoli, rappresentano in certo qual modo, per quel che concerne il peccatore, l’uomo che appaia se stesso agli animali inferiori, mentre per quel che riguarda l’eletto, sono l’uomo che ha in sé del Leone e dell’Aquila; come si sa, Sansone, il vincitore del leone per antonomasia, era chiamato «piccolo sole», e il suo combattimento veniva interpretato come una manifestazione della «forza di Dio» nei testi e nelle raffigurazioni romaniche. Abbiamo già detto all’inizio che gli uomini col leone, così importanti nella zona mesopotamica, dovrebbero avere, quasi con certezza, un’origine alessandrina, e dunque egiziana. Nulla esclude, in definitiva, che il tema sia nato in zona egiziana, anche se poi esso ha trovato un perfetto accordo con la tendenza dualistica manichea del sud ovest francese, in relazione con la famosa Y della doppia via adottata da sant’Ireneo; per farla breve, lo vediamo diffuso specialmente nella zona di Lione, ovverosia in una regione di transito verso l’Alvernia, la quale Alvernia ha dato anch’essa, del resto, una certa priorità al tema dell’albero a Y.

Zona egiziana

Prova della portata intensa del tema, per cui si giustifica appieno la presente trattazione e la sua lunghezza, l’uomo col leone non è ignoto neppure nelle regioni del sud est. Una variante è quella che compare a Saint-Nectaire e a Brioude, dove sono evidentissimi gli influssi della Linguadoca e dove non pochi pomi di serrature presentano protomi leonine; essa evoca, come a Jaca e a Tolosa, il Cristo «dolce con i buoni e terribile con i malvagi» di cui parla san Girolamo: gli uomini col leone divengono figure di «venti» – tema antico ripreso dall’arte carolingia –, i quali tengono al guinzaglio due leoni che si abbeverano alla fonte di vita: è un modo nuovo di evocare la carne e l’anima, i due elementi della natura dell’uomo che lottano dentro di lui. A Vienne (Isère), dove ricompaiono le allegorie di personaggi con le gambe incrociate, un piede scalzo e l’altro calzato, l’uomo col leone diventa l’eroe Eracle combattente col leone della leggenda biblica o magari un bacchos che lo cavalca tratto dalla mitologia greca: di fronte a lui, nell’abside della stessa chiesa di Saint-André-le-Bas, la maschera della terra si è trasformata in una maschera del dio-fiume, ricordo del teatro antico.

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Di fatto l’uomo col leone, in tutto il sud est della Francia e fino alle frontiere della regione Spagna-Linguadoca, non appena ci si allontana dalle strade del pellegrinaggio, diventa Daniele o Sansone. Così a Lescar (Pyrénées Atlantiques), dove un ciclo intero di sculture è dedicato a Daniele; e così pure ad Hagetmau (Landes), dove Daniele fa da riscontro a degli uomini col leone molto vicini all’accezione spagnola. Va notato, ciò nonostante, che non si possono stabilire confini rigorosi fra Daniele e Sansone, eroi biblici, e gli uomini col leone propriamente detti; non più, certamente, di quelli che si possono stabilire fra la Bibbia e certe tradizioni pagane: alcuni manoscritti bizantini associano a Daniele la maschera antica del demiurgo e dell’«arrogante», di cui gli gnostici erano arrivati a fare una personificazione di Yahvè. I temi in questione si ispirano essenzialmente ai salmi recitati durante l’ufficio dei defunti, i quali fanno del leone l’immagine del peccato e della morte che divora l’uomo.

Poiché il nostro intento è quello di occuparci, su un piano molto generale, soprattutto dei simboli romanici inesplicati riguardanti i vegetali, gli animali e i rapporti dell’uomo con essi, non è il caso che ci si soffermi troppo sugli uomini col leone biblici, tipo Daniele e Sansone, con le varianti da essi assunte nelle varie regioni. Biblicamente, il tema di Sansone propriamente detto si distingue dagli altri per il fatto che l’eroe, il cui nome in ebraico vuol dire «piccolo sole», lotta vittoriosamente con l’animale: è questo il caso del Sansone di Vienne, nonché di quello sul primo capitello della galleria sud del chiostro di Moissac e di quello altresì che si staglia a specchio dell’imperatore Costantino sulla facciata di Saint-Jouin-de-Marnes. Un altro esempio, a questi molto vicino, è dato dall’uomo col leone sull’archivolto esterno di Aulnay; in realtà, l’uomo è qui in groppa all’animale, come lo sono di norma gli uomini col leone effigiati in coppia, e ha l’aria di dominate completamente la bestia, la quale oltre tutto non gli addenta neppure la mano; si direbbe anzi che egli la stia abbracciando, nel senso letterale del termine. Immagine del temperamento superiore, dello spirito che si oppone alla carne, l’uomo ha addomesticato il leone. Quest’ultimo gli serve praticamente da cavalcatura magica, capace di sollevarlo per aria, in tutto simile al leone alato cavalcato dalla regina di Saba nel chiostro di Saint-Saveur ad Aix, dove compaiono in più i buoni contrapposti ai malvagi.

Quest’uomo in groppa al leone è dunque investito d’una potenza particolare. Le formule intermedie fra i veri Sansoni in lotta con la belva, quelli che se ne servono per montarle addosso, e gli uomini col leone propriamente detti, più o meno preda delle fauci del mostro, sono innumerevoli: a Echillais, per esempio, l’uomo è disteso orizzontalmente sull’animale.

Segnaliamo a questo punto una ‘situazione caratteristica che si presenta talvolta nelle lotte di Sansone col leone e anche nel caso del falso Sansone, come ad Anzy-le-Duc: l’uomo cioè attacca il leone alle spalle, afferrandogli le fauci dal di dietro. Tale situazione si ricollega all’aspetto doppio del leone, debole nella parte posteriore del corpo, «fatta in maniera meschina», ma «dal petto possente» e impressionante nel ceffo. L’individuo prudente, calzato e vestito, che vuole vincere l’animale, ovverosia le lusinghe del mondo e della carne, lo aggredisce perciò dal retro, posandogli il ginocchio sulla schiena. Ma non è difficile osservare che la posizione suddetta è identica o quasi a quella degli uomini col leone che abbiamo già visto: l’unica differenza sta nel fatto che questi ultimi il leone lo cavalcano e sono nudi. L’uomo disteso sul dorso del leone, come si vede a Nuaillé (Charente-Maritime) accanto a san Giorgio, non è che una variante dell’uomo col leone, diciamo così, generico, così come lo sono, su alcuni capitelli del coro di Aulnay, gli uomini in piedi alle prese con dei leoni bicefali – una figurazione, questa, molto comune nella Saintonge. I due Sansoni del pilastro nord occidentale della crociera di Aulnay, concepiti deformando in modo orribile sia l’uomo che l’animale, mostrano sul lato orientale un Sansone vittima espressamente designata del mostro: gli stanno da presso il peccato di Adamo ed Eva e la sconfitta dell’eroe a opera delle forbici di Dalila. La sicura vittoria dell’uomo sulla bestia appare per contro sul lato occidentale, in un programma meno elevato del precedente: all’eroe sono state date zampe di toro, al fine di esaltarne la forza, e ciò proprio a fianco ai temi apocalittici dei Quattro animali, dell’Abbraccio e della Maschera solare. Si tratta in altri termini del seguito diretto della contrapposizione dell’archivolto eterno del portale meridionale. La volontà di contrapporre il corpo del leone alle maschere può attivare a figurazioni aberranti, come quella in cui è disegnato un leone che ha la testa a piombo, mentre la zampe sono volte in senso contrario, verso l’abaco: lo vediamo in particolare nello stupefacente uomo col leone di Cunault. Ma se parliamo di una immagine dell’uomo col leone presente in questa chiesa, che apparentemente appartiene alla zona egiziana, è perché qui l’iconografia è sotto molti aspetti tipicamente mesopotamica: basta guardare alla Vergine sul capitello alla base del campanile, seduta sulla sedia curule, col fregio di squame sull’abaco, al mascherone del capitello sulla facciata, e ad altri particolari ancora. E più che evidente, d’altro canto, che il concetto di zona può valere solo per grandi linee e che dev’essere continuamente sfumato nei dettagli. In nessun altro soggetto, oltre tutto, la loro distinzione è così difficile da cogliere come nel caso dell’uomo col leone che, neanche a farlo apposta, è uno dei temi chiave dell’iconografia romanica. Le zampe bizzarramente ritorte in senso contrario al resto del corpo le ritroviamo egualmente nelle «grosse leonesse bonaccione visibilmente sperdute in questo mondo di perdizione» sistemate sul lato sud della tribuna di Serrabone, normale collocazione del tema di cui esse sono una semplice variante; ma come si sa, questa regione è ambivalente, partecipa contemporaneamente dell’una e dell’altra zona.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 177-180

Leone: i leoni benefici

Sezione: Lessico


Il leone appare anzitutto nel Tetramorfo come simbolo di san Marco, per il fatto che questi dà inizio al suo vangelo, là dove si tratta di presentare il Battista, citando Isaia: «Ecco, io invio dinanzi a te il mio messaggero, che preparerà la strada; è la voce di colui che grida nel deserto.» E, come si sa, il leone vive proprio nel deserto.

Per il fatto che gli animali del Tetramorfo rappresentano le virtù cardinali, il cristiano, è detto, «deve essere un leone, perché il leone è l’animale coraggioso per eccellenza e perché il giusto che ha rinunciato a ogni cosa non teme più nulla in questo mondo; è di lui infatti che è stato scritto: il giusto sarà saldo e senza paura come un leone».

Soprattutto, il leone simboleggia una delle tappe importanti della vita del Cristo, la resurrezione, a sentire certi testi di bestiario e svariate tradizioni antiche. Sulla scia di Plutarco il leone, secondo certi Padri della Chiesa (sant’Ilario, sant’Agostino), aveva fama di dormire con gli occhi aperti, e si diceva che gli occhi aperti avessero anche i suoi cuccioli al momento di nascere. Questa caratteristica spiega la sua assunzione a controfigura del Cristo nel sepolcro: gli occhi aperti sono infatti la prova della divinità di Gesù che si manifesta, mentre la morte testimonia per se stessa della sua umanità. Per poterne fare un simbolo di resurrezione, scrittori ancora più numerosi, da Origene a Isidoro di Siviglia, raccontavano che i cuccioli di leone nascevano morti, ma che il padre soffiasse loro in gola per rianimarli. La favola era destituita d’ogni fondamento, ma, come ha ammesso sant’Agostino, «importa poco l’esattezza del fatto: ciò che conta è la morale che se ne trae». Sempre a causa dei suoi occhi aperti, il leone era altresì simbolo di vigilanza e di giustizia. Tutte queste grandi virtù attribuite al leone spiegano la sua posizione di spicco e l’antichità immemorabile di tale posizione: lo vediamo infatti presso le civiltà più diverse – Egitto, Oriente mesopotamico o siriaco, Grecia, Roma – simboleggiare il fuoco, quello del cielo però, quello del sole; assai di buon’ora inoltre il leone igneo, celeste, assume un significato funerario, che raggiungerà il suo apogeo nel simbolismo delle leggende e dei riti relativi alla morte presso i Romani.

Che questo animale abbia colpito l’immaginazione degli antichi si spiega con la naturale maestà del suo portamento, specialmente nel maschio, assai superiore a quella sfoggiata dalla femmina. A partite dalle favole classiche e fino al Roman de Renard, il leone porta il titolo di re degli animali e diviene per ciò stesso simile all’uomo: nelle gerarchie che pongono Adamo al vertice della creazione – per esempio, sul dittico Carrand o attorno all’albero della Visione di Daniele nella Bibbia di Astorga – il leone è sempre in prima posizione. I veri eroi non possono avere nemico più degno, chiunque essi siano: Eracle, vincitore del leone di Nemea, Gilgamesh, raffigurato sempre fra due belve – per esempio, fra un centauro dal corpo leonino e un leone vero, a Serrabone – e gli stessi eroi biblici, da Sansone a Davide e a Daniele.

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L’aspetto maestoso del leone spiega come mai esso sia penetrato in Occidente e vi abbia dominato fino ai giorni nostri, sui battenti dei portoni, agli ingressi dei palazzi di giustizia, ecc. Per la stessa ragione esso è passato dal Vicino Oriente addirittura alla Cina, diffondendosi anche qui agli ingressi degli edifici, sempre in coppia, benché si trattasse di un animale parimenti sconosciuto in questa parte del mondo.

Il raffronto tra il sarcofago di Déols e il timpano di Saint-Ursin, dove fra gli altri temi ispirati all’Antichità è presente l’idea dei quattro temperamenti dell’uomo, dimostra l’alto valore attribuito al leone quando raffigurato vicino all’uomo. Innumerevoli monumenti classici o paleocristiani, come la pisside di Bobbio e i sarcofagi copti o aquitani, contrappongono abitualmente, da una parte, la Caccia al leone in estate e all’orso o alla gazzella in inverno, e dall’altra, l’albero spoglio accostato all’uomo abbigliato e l’albero coperto di foglie accostato all’uomo ignudo, al fine di illustrare il giuoco dei grandi ritmi naturali che inseriscono l’uomo in un perpetuo ricominciare daccapo, ma lo innalzano al tempo stesso al di sopra della natura. Ed è proprio questo concetto che ritroviamo espresso sul sarcofago di Déols: un cavaliere completamente vestito caccia il cinghiale e l’orso, corrispondenti all’inverno e alla primavera, mentre un altro cavaliere parzialmente nudo caccia il leone e il cervo, simboli dell’estate e dell’autunno. Una riflessione più profonda, derivata dai medici e naturalisti antichi Ippocrate e Galeno, traspare da queste figurazioni, quando si fanno corrispondere il cinghiale al temperamento collerico e pneumatico e l’orso, che trascorre i mesi freddi in ibernazione e che bisogna fare uscire a forza dalla tana, al temperamento linfatico. Il leone, per quanto lo riguarda, è il più vicino all’uomo ed effettivamente, sul timpano di Bourges, cede il posto al personaggio accovacciato e al cavaliere, perché rappresenta il temperamento nervoso e meditativo: è questo temperamento che contraddistingue l’umanità, capace grazie alla ragione di dominare la bestialità e perfino l’influsso dei vari temperamenti. Le favole ci presentano questo leone quasi umano, capace di discernimento e di riflessione, capace soprattutto di dominare i propri istinti: esso, per esempio, non finisce mai un nemico caduto a terra. Tuttavia, a Saint-Ursin non si poté mantenere il leone come temperamento superiore e come simbolo di resurrezione nell’allegoria dei temperamenti: queste prerogative, in epoca romanica, erano ormai riservate al Cristo e non potevano comparire anche in un’allegoria profana.

Questa assimilazione del leone all’uomo ha anche un rovescio: esso è vicino all’uomo a causa delle sue stesse contraddizioni, giacché difficilmente si mescolano in lui carne e spirito, debolezza del corpo o vulnerabilità e portamento maestoso. Ma prima di affrontare questa ambiguità dei leoni occorre prendere in considerazione certi loro aspetti solari, soprattutto in zona egiziana.

In armonia con queste concezioni, il Leone occupa nel Tetramorfo una posizione di spicco, in basso e a sinistra. A Chartres, e soprattutto a Le Mans, il leone è l’unico, al contrario del bue, pur essendo raffigurato in posizione di «contrasto», a volgersi con tanta franchezza verso il Cristo centrale. E il punto di partenza di una fascia rivolta verso destra, in direzione dell’aquila, animale solare essa pure, ma ad un livello superiore, perché simbolo dell’ascensione.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 174-175

Nastri: ellisse o mandorla

Sezione: Lessico


I nastri incrociati, tipo quelli di Ainay, possono in determinate circostanze assumere un aspetto più ricercato, quello dell’ellisse o della mandorla. Comune alle due zone, ma più sviluppato nella zona egiziana, il motivo ci offre la prova evidente del genio creativo romanico e al tempo stesso dello spirito di rinascita che lo anima. Se mai qualcuno dubitasse di questa sete di sapere, gli sarebbe sufficiente leggere gli scritti di Bernardo Silvestre, il quale, descrivendo l’opera dei sei giorni sulla falsariga di sant’Agostino, attribuisce una parte quasi esagerata all’intelligenza creatrice, alla ragione, fino addirittura a minimizzare le conseguenze del peccato originale.

Sugli stipiti del portale ovest di Andlau, in Alsazia, insieme con la scena della Traditio legis-Donatio clavis nella lunetta e con le immagini della Genesi sull’architrave, compaiono due festoni frondosi che avviluppandosi fra loro disegnano una serie di sette riquadri sovrapposti, uno per lato, a forma di ellisse (o di mandorla), dentro i quali sono inseriti altrettanti animali; entrambi terminano in alto con un motivo vegetale, però diverso l’uno dall’altro. Alla base, due atlanti con le braccia levate, simboleggianti l’attesa del Giudizio, tengono le estremità inferiori dei due nastri come se reggessero i cordoni di un drappo mortuario durante un seppellimento. Al pari dei fregi verticali di Ainay, se alla sfilata dei sette animali su ciascuno stipite si aggiungono le tre scene della Genesi – Creazione di Eva, Tentazione del serpente e Cacciata dall’Eden – effigiate sull’architrave, ci accorgiamo di essere davanti a dieci distinti livelli di figure (il Dieci, notoriamente, è il numero della totalità), mentre l’Agnello ad Ainay e il Cristo nella stessa Andlau stanno al di sopra di tutto. Ciascun fregio comprende, alternativamente, figure di mammiferi e di uccelli, di significato opposto, che richiamano alla mente i sette giorni della creazione, l’ordine celeste obbediente ai voleri di Dio. Questi festoni si possono paragonare a quelli a doppio intreccio delle contemporanee stele di Bonampak (Messico), i quali disegnano anch’essi delle ellissi successive evocanti periodi di cinque, dieci o venti anni. Il modo, poi, in cui i due atlanti tengono i festoni non è identico: quello di destra li annoda con un doppio avvolgimento – e questo vuol dire che esso sta annullando le reiterazioni (o ricorrenze, ritorni, cicli che dir si voglia); infatti si trova dal lato del bene, dell’accesso al Paradiso, della pianta a forma di cuore e dell’albero di Vita –, mentre dall’altra parte, quella cioè della Cacciata dal Paradiso e della colpa, i nastri appaiono attorti normalmente – ed è questo infatti il lato del male e dei ritorni. Grazie a siffatta analisi, non è difficile riconoscere in questa composizione una variante del cosiddetto Due in Uno ovverosia dei nastri che si separano allontanandosi l’un dall’altro, laddove il loro riavvicinamento corrisponderà alla fine dei tempi, all’Agnello (ad Ainay) e al Cristo Giudice fra san Pietro e san Paolo (ad Andlau).

Il numero dieci ricompare ad Andlau nelle dieci coppie di figure umane, incorniciate da altrettanti archi e sorrette anch’esse da due atlanti che le presentano a Dio, disposte, cinque per parte, sui due pilastri che completano la fronte del portale, affiancandosi rispettivamente alla destra e alla sinistra degli stipiti veri e propri appena illustrati.

Il timpano di Rheinau è una specie di replica del portale di Basilea o dell’abside di Ainay. Troviamo qui dieci avvolgimenti, ma più vegetali che nastriformi; anch’essi assumono la forma della mandorla e racchiudono, quelli del primo ripiano, due coppie di dragoni addossati l’un l’altro, quelli del secondo ripiano i cervi, simboli del battesimo e vittime del lupo; sul terzo ripiano compare invece la lepre, ossia il vizio, con gli eletti rappresentati dagli uccelli che si fronteggiano, divisi da un grappolo d’uva: questi ultimi a loro volta fanno ala su un lato all’Agnello, isolato dentro un cerchio, mentre dall’altro si trova la lepre. Le dieci rappresentazioni di animali in coppia o isolati formanti figure diverse riassumono in ogni caso la totalità del creato destinata ad affrontare il giudizio finale, con il bene da una parte e il male dall’altra; la composizione nel suo insieme si rifà all’idea di apocatastasi sostenuta da Origene, il quale, come si sa, non escludeva dal verdetto finale di Dio gli ordini diversi da quello umano. Sia come sia, appare chiaro che si fa ricorso ad animali e mostri incorniciati da nastri proprio per dare espressione al pensiero del Giudizio.

Nella Gallus-Pforte di Basilea, è la vite a disegnare sui piedritti, ancora più chiaramente di quanto non facciano i festoni vegetali di Andlau, dei meandri che ricordano sempre la linea dell’ellisse o della mandorla; il numero sei era espresso attraverso le opere di misericordia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 205-206

Nastri: la zona egiziana

Sezione: Lessico


Se nastri e festoni, nell’arte romanica, si alternano con i motivi vegetali è perché negli antichi complessi il nastro veniva utilizzato per riunire una serie di animali simbolici o di figure umane attorno all’albero di Vita, al ceppo della Chiesa o al legno della Croce. Lo vediamo, per esempio, sulle transennae, nelle absidi e nelle cupole delle chiese di Roma e di Ravenna. Gli animali avvolti dal nastro sono l’immagine della natura associata all’opera della Redenzione, e a determinarne la scelta è sempre il Bestiario: proprio in base a questo, infatti, si mettono in posizione di rilievo il pavone simbolo di eternità, la fenice simbolo di immortalità e il cervo allegoria del battezzato.

Secondo la stessa concezione, nell’abside di Ainay, dei festoni a tre nastri incrociati scaturiscono da una frondosa maschera della terra che ricorda da vicino quelle del tessuto di Colonia; a sua volta, il programma figurativo di Chabrillan, che comprende maschere celesti e animali simbolici associati a dei festoni, pone l’accento sull’albero cosmico.

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Un fatto tuttavia non bisogna assolutamente minimizzare: l’artista romanico ha fatto opera di creazione. Quale che fosse l’arcaismo del motivo, perfettamente idoneo all’ornamentazione dei pavimenti e alla stesura di decorazioni «continue», sia a fresco che a mosaico, all’interno delle antiche chiese, egli s’è servito in maniera nuova di questa formula così facile da adattare, per esprimere le proprie inquietudini più profonde, soprattutto quelle apocalittiche, e l’ha adattata – aspetto altrettanto nuovo – alla concezione dei numeri sacri.

Più di quanto non si faccia con qualsiasi altro motivo, bisogna considerare il festone nel contesto in cui si trova, bisogna osservare le linee – a spirale, a incrocio, a meandro – che esso disegna, il numero dei nastri che lo compongono, specialmente nella zona egiziana, e talvolta, nella zona mesopotamica, dove esso è sovente «perlato», anche quello delle perle che lo contornano o lo abbelliscono.

Superfluo dire che non è il caso, qui, di prendere in esame tutti gli aspetti di questi nastri, che spesso compaiono collegati con le grandi foglie dei capitelli, ma che non meno spesso o sono isolati da qualsivoglia rappresentazione iconica – come per esempio sui capitelli della navata e dell’abside di Saint-Roman-le-Puy – oppure vengono associati vuoi a rose e fioroni, vuoi all’immagine solitaria dell’ariete divino. Certo è che queste manifestazioni hanno un significato ben preciso e ch’è possibile stabilire dei raffronti. Ma per quanto ci riguarda, preferiamo dei complessi più accessibili, che lascino un più ampio spazio agli elementi iconici in modo da poggiare le nostre congetture su un terreno più solido.

Come si sa, nel coro di Ainay personaggi umani e animali esprimono l’idea delle tappe della vita: tre fregi verticali completano questo pensiero, simboleggiando l’universo nella sua interezza, a simiglianza di ciò che avveniva nelle rappresentazioni antiche. Festoni a tre nastri incrociati (Tre = Cielo = tappe) avvolgono, salendo dalla terra al cielo, due serie di animali evocanti due delle tappe, entro un programma che viene a essere così tripartito: decorano infatti tre pilastri. I primi due fregi con figure di animali rappresentano, rispettivamente, quello di sinistra il mondo (la Fede) e quello sull’asse della chiesa, che ha inizio con la maschera fronzuta della terra dalla quale si dipartono dei nastri, l’amore supremo, l’amore che ha consentito la Redenzione attraverso il sacrificio del Signore (la Carità). Il terzo fregio, formato anch’esso da figurazioni animali intercalate qua e là da esseri umani, inserite per lo più entro cornici quadrate, raffigura invece la vittoria sulla morte e sul male (la Speranza). I tre fregi sono conclusi dall’Agnello divino crucifero. A destra i nastri sono scomparsi: ciò perché con essi, conformemente al significato ch’è dato loro nelle rappresentazioni antiche, si indicano i ritorni, le reiterazioni interrotte dalla morte del Cristo. Per contro, sulla transenna di Pommiers, dove appare il tema della caccia alla gazzella, festoni a due nastri accolgono scene di animali in lotta: il significato in questo caso è prettamente terrestre, in palese contrasto col programma celeste di Ainay e con i suoi festoni formati, come s’è visto, da tre nastri.

A Saint-Pierre di Chabrillan, entro i festoni a due, tre e perfino quattro nastri non sono inserite figure di animali, però il pensiero conduttore è lo stesso, in quanto, pur disegnando immagini diverse, essi sono pur sempre associati a delle maschere celesti, nelle quali è espressa una tipologia pagana, in relazione con l’albero di Vita della Genesi e con la caccia al cervo simbolico. I quattro nastri che s’incrociano sono in rapporto col lupo, il quale annulla le reiterazioni, giacché il quattro è il simbolo della terra e il lupo, animale androfago, sta mordendo questi nastri. Quanto poi al duplice festone a meandro continuo, chiuso alla sommità dall’intreccio, simbolo d’infinito, esso è unito a una maschera lunare, rotonda, dalla quale, come da quella di Ainay, escono dei nastri frondosi, doppi nel caso specifico. Alla maschera celeste, triangolare, posta vicino al triangolo della piramide o della montagna cosmica, replicato sull’abaco, sono infine collegati, al livello sottostante, da una parte il festone doppio che disegna un incrocio, segno dell’abolizione dei ritorni, e dall’altra tre festoni che disegnano una successione di anelli (onde o nuvole).

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 204-205