La Gerusaleme della fine dei tempi

Sezione: Studi


New York, Pierpont Morgan Library – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 222v: La Gerusalemme celeste

L’immagine proviene dall’Apocalisse del Beatus. È sufficiente un colpo d’occhio per accorgersi che la composizione è fondata sul quadrato. Essa illustra una delle più belle pagine del Libro sacro, quella in cui l’apostolo dipinge la Gerusalemme della fine dei tempi. La città simbolica quadrata nella quale si trova raccolta tutta la Nuova Creazione si distingue dal cielo circolare come il mondo terreno si distingue dall’aldilà; o, per meglio dire, essa è considerata nel suo rapporto necessario con il cielo, come del resto abbiamo visto che il quadrato resta necessariamente in rapporto con il cerchio che lo genera. Ecco il testo di san Giovanni al capitolo 21: l’angelo «mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, ov’era presso Dio, splendente della gloria di Dio… Essa è cinta da una alta e grande muraglia, con dodici porte; a queste porte sono dodici angeli, e alcuni nomi scritti, quelli delle dodici tribù dei figli d’Israele. Ci sono tre porte a nord, tre porte a est, tre porte a sud e tre porte a ovest. La muraglia della città ha dodici pietre fondamentali sulle quali sono dodici nomi, quelli dei dodici apostoli dell’Agnello. E colui che mi parlava teneva un’asticciola graduata, in oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è quadrangolare; la sua lunghezza è uguale alla larghezza. Egli misurò la città con il suo strumento: dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali».

Questo testo è essenziale per la comprensione del simbolismo delle chiese e di innumerevoli opere d’arte religiose.

Nella nostra miniatura, questi elementi si rintracciano facilmente. Nel centro, uno spazio quadrato, col fondo a scacchiera di piccoli quadrati. Dal fondo si distaccano a destra san Giovanni con in mano il suo Libro, al centro l’Agnello di Dio, a sinistra l’angelo misuratore con la sua asta d’oro. All’interno si aprono le dodici porte, tre per lato, con un apostolo su ciascuna, identificabile dall’iscrizione posta sopra la testa. Al di sopra dei dodici apostoli, dodici biglie variamente colorate. Le iscrizioni che le accompagnano recano il nome di dodici pietre preziose che ci rimandano al seguito del testo di san Giovanni: «Le pietre delle sue mura sono ornate da pietre di ogni tipo: la prima è di diaspro, la seconda di zaffiro, la terza di calcedonio, la quarta di smeraldo, la quinta di sardonico, la sesta di cormalina, la settima di crisolite, l’ottava di berillo, la nona di topazio, la decima di crisofazio, l’undicesima di giacinto, la dodicesima di ametista».

Il fatto che queste pietre appaiano del tutto inattese nell’arco superiore della porta non deve stupire: ciò che importa è il simbolismo della pietra preziosa unito a quello della terra.

La pietra preziosa evoca una reale trasformazione della materia che, da minerale ed opaca come era, diventa trasparente, o per meglio dire diventa luce; tale metamorfosi dall’elemento più grezzo e più materiale (la terra, le rocce) in luce, cioè nella quintessenza dell’elemento più leggero, più spirituale (il fuoco), simboleggia il passaggio dalla creazione dei primordi a quella nuova, quella appunto della Gerusalemme celeste.

Ciascuna di queste porte non è altro che un quadrato sormontato da un cerchio. In questo riconosciamo l’elemento più caratteristico della chiesa romanica. L’architettura cistercense, estremamente spoglia, tesa ad accentuare la linea simbolica – talvolta fino ad un’astrazione un po’ eccessiva – ci consente di coglierla con particolare intensità. Qualunque sia la ricerca puramente decorativa o la funzione utilitaristica d’illuminamento dei begli oculi che adornano, per esempio, le arcate superiori del lavabo di Fontfroide, del suo chiostro o di quello di Thoronet, si deve riconoscere che essi concorrono in maniera determinante a creare l’ambiente sacro. Nel chiostro di Fontfroide la dimensione stessa degli oculi impone una spiritualità poco comune; e lo stesso bisognerebbe dire di quegli oculi di diverse dimensioni che gli architetti dell’epoca amavano collocare in fondo e sulla sommità delle absidi, nel frontone delle facciate e che contribuivano a dare un senso ai loro edifici: in fondo, non facevano altro che seguire una tendenza diffusa in quasi tutta l’architettura sacra tradizionale. L’epoca romanica ha utilizzato il procedimento con un senso molto sicuro delle proporzioni da rispettare e ci ha lasciato dei discreti capolavori, quali il coro della chiesa di San Quirce, in Spagna. Il gotico con i suoi immensi rosoni segna già una decadenza: il vano svuota il muro, la decorazione sovrasta il sostegno, la luce fisica acquista valore di per sé.

Se ci si attiene all’ordine puramente simbolico, è significativo che il simbolo del cerchio, considerato come una finestra aperta sull’aldilà, sia stato utilizzato tanto nell’architettura che nell’iconografia. La mandorla di gloria è una variante di quel cerchio. Una gustosa miniatura della Bibbia di San Pedro de Roda, conservata a Parigi nella Biblioteca Nazionale, ci servirà come prima sintesi.

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): La creazione del mondo, il peccato originale e le sue conseguenze

Essa rappresenta in alto la creazione, il peccato originale, e le sue prime conseguenze. Da sinistra a destra nei tre registri inferiori si distinguono: Dio che modella Adamo con l’argilla; la creazione di Eva, mentre Iahvè tiene nella mano la costola di Adamo che riposa su un letto, nell’atteggiamento delle Vergini della Natività; il peccato originale: ubi locutus est serpens ad mulierem (il serpente mentre parla con Eva), tenendo il pomo nella gola; sotto, i nostri progenitori cacciati dal Paradiso; essi qui appaiono vestiti; sotto ancora, le offerte di Caino il contadino e di Abele il pastore; l’assassinio di quest’ultimo a colpi di scure; la sua sopravvivenza nell’altro mondo; infine l’episodio di Lamech (Genesi, cap IV). In alto, un vasto cerchio; vi si legge: cae (a sinistra) –lum (a destra), è il cielo.

Attraverso il cerchio e dietro ad esso, la banda orizzontale e montagnosa della terra (ter-ra): «il cielo e la terra», binomio esprimente totalità con il quale il primo versetto del Genesi evoca tutto il mondo creato. Tale immagine è particolarmente importante perché illustra chiaramente il valore simbolico della quaterna. La divisione del cerchio in due, poi in quattro, è la prima divisione che s’impone allo spirito umano. Spontaneamente, e certo senza riflettervi, l’artista ha ricostruito sotto i nostri occhi l’evoluzione della decorazione degli specchi cinesi.

Specchi cinesi

Egli è partito dal punto centrale, è passato al piccolo cerchio che lo circonda, quindi alla croce che genera il quadrato ed infine alle quattro zone in cui si ripartisce l’intera superficie. In queste zone si scorgono delle piccole croci e delle ondulazioni: indubbiamente le stelle e le nubi ma più ancora la quaterna in sé, che costituisce il segno della creazione in contrasto al celeste trascendente. La medesima necessità ha ricondotto ad una quaterna i motivi che inquadrano il cielo. La loro apparizione è il risultato delle prime due operazioni con le quali è iniziata la Genesi: separazione della luce dalle tenebre, e poi della terra dalle acque. In alto a sinistra, la falce di luna (luna) abbinata ad una donna (nox), e a destra, il disco solare (s-ol) abbinato ad un uomo, il giorno (dies). In basso a sinistra, i percorsi delle correnti d’acqua (abissus, l’abisso marino personificato da una maschera) con dei pesci, e a destra gli antri della terra.

Sul retro di questa stessa pagina, troviamo l’inizio del testo della Genesi (lo scritto In principio del primo versetto appare sul retto accanto alla luna, in trasparenza). Vi si vede nel centro il Creatore troneggiante su due cerchi al di sopra dei quali stava scritta la parola caelum in un punto oggi degradato e, in basso, sotto delle foglie che disegnano quattro arcate, gli animali creati sormontati dalla scritta: et terram (e la terra), la fine del versetto: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Queste miniature sono proprie di una mentalità desiderosa di simili corrispondenze, intrisa di tali immagini, quale fu proprio quella degli artisti romanici.

Il più piccolo quadrato e la più modesta quaterna servivano loro intuitivamente a evocare i misteri naturali o teologici. Bisogna abituarsi a guardare le loro opere con i loro occhi.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo   
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine94-97 

L’albero della croce

Sezione: Studi


La croce rende esplicito il mistero del centro. Essa è diffusione, emanazione, ma anche riunione, sintesi. È il più completo di tutti i simboli; nessun’altro quanto questo sa condensare nel più essenziale dei segni la più vasta delle sintesi. Forse è il simbolo più universale, infatti tutte le civiltà lo hanno compreso nel proprio patrimonio simbologico. La croce costituisce l’elemento fondamentale dello schema alla base delie immagini del mondo o del luogo sacro. È un simbolo spaziale e temporale e questa proprietà privilegiata lo rende adatto ad esprimere il mistero del cosmo animato.

Per questo essa si sovrappone sempre – in un modo o nell’altro, e con una sovrapposizione non tanto geometrica quanto immaginaria – al tempio cosmico che è la chiesa. La chiesa costituisce la sintesi liturgica dell’universo animato da Dio, dell’universo reso presente dalla epifania permanente delle strutture e dei cicli naturali. La chiesa è al centro del mondo, e l’uomo liturgico è al centro della chiesa. In essa e per essa, egli si orienta e con il suo orientarsi determina la direzione e il senso del mondo. Egli lo ricapitola e così lo dilata nell’espansione cruciforme. La croce del microcosmo-chiesa non è tanto quella costituita dal suo perimetro (la navata che si incrocia con i bracci del transetto, dal momento che questa forma può fare difetto) quanto quello della sua intima espansione nelle quattro direzioni dello spazio. È questa relazione psicologica, così imperativa nell’uomo, che gli conferisce misteriosamente la coestensione dei quattro orizzonti, dei quattro venti dello spazio. È ancora essa che inscrive nello spazio il cerchio delle stagioni, scandito dall’alternanza rituale dei solstizi e degli equinozi che sono i quattro punti cardinali del ciclo liturgico (Natale, Pasqua, San Giovanni, San Michele). È ancora essa che salda la croce cardinale terrestre sulla celeste e fonda il simbolismo dei loro rapporti. Questo rapporto è animazione, e la sua espressione più vivamente percepita dalla psiche umana è quella della rotazione della sfera del mondo attorno al suo asse polare; tale asse è perpendicolare al grande cerchio dell’orizzonte, del luogo sacro, e forma con una qualsiasi delle parallele al suolo una croce, questa volta drizzata verticalmente.

Queste due croci, croce orizzontale, d’orientamento cardinale, e croce verticale assiale, in realtà non sono che una sola croce: quella a tre dimensioni e a sei bracci che orna i campanili delle chiese orientali. In Occidente, essa assume la forma della girandola in cima ai campanili divisa alla base da una croce orizzontale orientata. Tale è la croce del mondo vivente, la croce che fa della chiesa il centro e la ripetizione del cosmo liturgico. Poiché essa è perfettamente coestensibile ai simboli del cosmo naturale non meno perfettamente misura il microcosmo che è la chiesa. In essa e per essa la vita e il movimento emanati dal polo celeste, simbolo di divinità, si trasmettono al centro sacro terrestre: all’altare, al santuario, alla chiesa, e raggiando da questo centro, a tutto l’universo.

La croce tridimensionale è la più perfetta immagine sacra del mondo. È il segno visibile della trinità nell’unità. Il sei caratterizza la creazione-emanazione; si ricordino l’opera di sei giorni e tutti i motivi sestuplici incontrati nel contesto della creazione, per esempio sui portali romanici ove si potrà incontrare sei volte la maschera della terra che vomita viticci tra cui giocano alcuni animali. Il settenario indica la conclusione e la pienezza (il settimo giorno) ottenuti quando si aggiunge al computo dei sei bracci il punto centrale da cui essi emanano o dove vengono riassorbiti nell’unità indifferenziata. Dio sta in questo centro: «Volgendo il suo sguardo verso queste sei estensioni come, verso un numero sempre uguale, egli conclude compiutamente il mondo; egli è l’inizio e la fine; in lui si compiono le sei fasi del tempo e da lui esse ricevono la loro indefinita estensione; là è il segreto del numero sette» (Clemente d’Alessandria).

La croce tridimensionale può essere rappresentata in modi assai differenti. Sulla superficie piana, la sua forma più semplice è la stella a sei bracci, più o meno regolari sia per la loro dimensione che per la disposizione; la verticale zenith-nadir appare spesso distinta dalla croce orizzontale e orientata da una freccia, una fiamma, un cerchio, un motivo qualsiasi. Si riconosce la forma nota del crisma , simbolo polivalente vecchio come il mondo, che la simbologia cristiana si è compiaciuta di utilizzare, dopo un semplice battesimo mentale che risultava sia dalla lettura della X e della P, le prime due lettere del nome di Cristo in greco, sia dall’incrocio di questa X con la I di Jesus. Il monogramma di Cristo diventava la formula simbolica della salvezza universale operata dalla croce di Gesù Cristo.

Crisma

Quest’ultima non appariva sul labaro di Costantino, mentre compariva il crisma; la conversione dell’imperatore consentì la sostituzione con mezzo secolo di ritardo: l’impero divenuto cristiano, abolendo il supplizio della croce, soppresse l’odiosa sensazione connessa allo strumento di tortura finché restò in uso; verso la fine del IV secolo il segno, spogliato di quel senso, diviene degno di rivestire la livrea di gloria sopra il segno delle ferite. La croce latina compare in seno al crisma stesso ma conserva in alto l’anello che ricorda la P e costringe a rilevare nell’incrocio l’antica X raddrizzata. All’inizio del V secolo l’anello sparisce, e nasce la nostra tradizionale croce cristiana. Il crisma viene usato ancora, anzi in quest’epoca raggiunge le sue espressioni più perfette e trae dalla croce latina l’alfa e l’omega che spesso e volentieri gli vengono associate per assicurargli una cristianizzazione aliena da ogni equivoco segnico: questo riferimento al Cristo dell’Apocalisse, Pantocratore e Maestro del tempo, conferisce al vecchio simbolo le dimensioni della Rivelazione. Il mosaico del battistero di Albenga (V-VI secolo) rappresenta a questo proposito un vero capolavoro. Tutta la simbologia dell’emanazione-espansione, dell’’exitus-reditus, che abbiamo osservato sul piano dei fenomeni naturali e che abbiamo visto sottesa alla presentazione, da parte di san Paolo e dei Padri della Chiesa, del mistero dell’amore di Cristo, è qui presente.

Albenga, Battistero: Mosaico: Crisma

Si noteranno il centro origine, i cerchi disposti in triplice risalto (allusione trinitaria), la croce tridimensionale dei crismi, gli alfa e omega, le dodici colombe che rendevano presente la Chiesa universale diffusa in tutto il mondo, occupando il quadrato terrestre segnato ai quattro angoli dalle quattro stelle.

Si giunge così alla simbologia del tracciato di consacrazione delle chiese che si riassume in un segno, e precisamente nel crisma inquadrato dall’alfa e dall’omega. Il crisma è il simbolo del tempio cristiano considerato nel suo dinamismo liturgico che mira a fare del mondo umanizzato il corpo consacrato del Pantocratore: «Il corpo di Cristo è la Chiesa» (san Paolo).

Simbolo dell’universo, simbolo della chiesa di pietra, la croce tridimensionale è ugualmente il simbolo dell’ultimo microcosmo della catena, l’uomo. La sagoma dell’uomo con le braccia aperte evoca spontaneamente quella della croce eretta; questo tracciato però è semplicemente uno schema incompleto; se infatti esso esprime a meraviglia l’orientazione verticale ed ascensionale dell’uomo come pure la sua lateralità destra e sinistra, non fa apparire la seconda dimensione della sua intima croce orizzontale: il davanti-dietro che privilegia l’incrocio laterale (ciò è ancor più chiaro nell’animale a quattro zampe che ha solo due dimensioni fondamentali: il davanti-dietro e la lateralità). La croce tridimensionale è la croce completa dell’uomo: essa struttura la sua spina dorsale che costituisce l’asse verticale dell’organismo. La simbologia dei microcosmi-macrocosmi si rivela perfettamente omogenea a tutti i livelli.

La croce completa del Cristo salvatore non è né panteista né semplicemente d’ordine naturale. La sua coestensione al mondo è opera dell’amore universale e ricreatore di Gesù. I simboli sensibili aprono alle realtà spirituali. «Radicati in questo amore voi riceverete la capacità di comprendere con tutti i santi ciò che è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, voi conoscerete l’amore di Cristo che va oltre ogni conoscenza ed entrerete per la vostra pienezza nella pienezza di Dio» (Lettera agli Efesini, cap. III). Vi si riconosce la simbologia storica diffusa al tempo dell’apostolo per designare la totalità dell’universo. Di comune accordo, i Padri della chiesa hanno interpretato questo testo leggendovi la croce cosmica di Cristo che invade l’universo per ricrearlo, quella croce che i Greci chiamavano «sèmeion ekpétaséôs», il segno dell’estensione. Il testo più classico dell’antichità cristiana a questo proposito è quello di sant’Ireneo: «Per obbedienza cui è stato fedele fino alla morte sul legno della croce, il Verbo ha espiato l’antica disobbedienza (quella dei nostri progenitori). E dal momento che Egli è il Verbo onnipotente la cui invisibile presenza è estesa in noi e riempie il mondo intero, la sua azione sul mondo continua ad esercitarsi in tutta la sua lunghezza, larghezza, altezza e profondità. Grazie al Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’opera redentrice e il Figlio di Dio, con la sua benedizione, ha posto il segno della croce su tutte le cose. Perché era giusto e necessario che colui che si è reso visibile conducesse tutte le cose visibili a partecipare alla croce, ed è così che sotto una forma sensibile la sua influenza si è fatta sentire nelle cose visibili stesse. Infatti è lui che illumina le altezze cioè i cieli, lui che penetra le profondità di quaggiù, lui che percorre la lunga distesa dall’Oriente all’Occidente, lui che congiunge lo spazio immenso da nord a sud richiamando gli uomini dispersi in tutti i luoghi alla conoscenza del Padre».

Il Cristo morendo inchiodato ad una traversa fissata ad un palo ne ha fatto il segno storico del compiersi del disegno divino.

Per il credente, la croce primaria è l’ultima nella storia: quella che fu piantata nella sera dei tempi sul Golgota, una croce silenziosa che con le sue braccia aperte esprime un amore grande come il mondo non aveva mai conosciuto. Un amore che ha trovato nello strumento del sacrificio il simbolo della sua grandezza. La passione di Cristo ha trasfigurato il segno della croce; ormai, al di là dell’antica immagine, è l’universale e misteriosa bontà del suo Signore che l’uomo redento percepisce e venera. Attraverso la comunione con il segno sacro, egli penetra nelle vertiginose profondità del disegno di Dio sul mondo, così come diceva san Paolo agli Efesini.

«Dalla croce su cui morì il Verbo creatore del mondo, il cristiano sposta lo sguardo verso il cielo stellato in cui si muove il cerchio di Elios e di Selene. Quindi, se egli si addentra nelle più profonde strutture del cosmo o penetra le leggi della costituzione del corpo umano, dappertutto – e fino nella forma dei più piccoli oggetti familiari – egli vede impresso il misterioso sigillo: la croce del suo Signore ha mutato radicalmente il mondo». Se egli considera la croce tridimensionale di san Paolo, essa è per lui «la legge della costruzione, lo schema fondamentale che Dio imprime ad ogni sua opera, quel Dio che segretamente, fin dalle origini, teneva gli occhi fissi sulla croce di suo Figlio» (H. Rahner). Certo, è proprio nel suo mistero «che sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, create da lui e per lui» (Lettera ai Colossesi, cap. I). Se egli scopre negli scritti di Platone che la grande X costituita dall’intersezione del cerchio dell’equatore con quello dell’eclittica disegna sulle nostre teste una croce piana che è il simbolo dell’anima del mondo, egli vede in ciò il grandioso annuncio della croce-in-cielo di Cristo.

San Cirillo di Gerusalemme spiega ai suoi catecumeni: «Dio ha steso le mani sulla croce per abbracciare le estremità dell’universo. Anche il monte Golgota è diventato il perno del mondo». Con Firmico Materno, il perno diventa l’asse dinamico che unisce cielo e terra: «Il legno della croce sostiene la volta celeste, e consolida le fondamenta della terra». E così pure mette in comunicazione i piani del mondo, costituitivi del luogo sacro. Andrea di Creta, riprendendo san Paolo, fa una litania della croce: «Riconciliazione del mondo, determinazione delle frontiere terrestri, altezza del cielo, profondità della terra, legame che unisce la creazione, lunghezza di tutte le cose visibili e larghezza dell’universo!».

«Il segno della croce apparirà nel cielo il giorno del Giudizio finale», canta l’inno della festa dell’Esaltazione della santa Croce nella liturgia latina.

La croce salda il ciclo del tempo del mondo, il grande cerchio creazionale: essa pone su tutte le cose il sigillo ultimo che le giudicherà secondo l’amore incarnato: «O croce piantata nella terra che rechi frutti in cielo! O nome della croce che racchiudi in te l’universo! Salute a te, o croce che tieni legato il cerchio del mondo! Salute, o croce che hai saputo dare alla tua sembianza informe una forma piena di senso profondo!» (Atti apocrifi di Andrea). Essa è il polo e il motore immobile di un mondo in movimento; stat crux dum volvitur orbis, la croce sta fissa mentre il mondo ruota: è il motto dei monaci.

L’uomo stesso trova nella croce l’espressione sintetica della sua intrinseca identità strutturale con il cosmo, con il vivente e con il cielo che lo chiama. Egli vi legge anche il segno della sua irriducibile originalità. «Fisicamente l’uomo non differisce in nulla dagli altri animali, fuorché per il fatto che egli è diritto (verticalizzazione-umanizzazione) e può stendere le mani» (Giustino). Inoltre, egli, anch’egli croce viva e attiva, croce eretta, può conservare e concludere il cerchio del mondo iscrivendosi all’interno del suo disegno, può ricreare in sé il mondo tracciando le fondamenta dei suoi santuari.

Solsona, Museo Diocesano – Affresco (proveniente da Pedret): L’uomo, centro del mondo

«La volta celeste non è forse anch’essa a forma di croce? E l’uomo che cammina, che alza le braccia, anch’egli descrive una croce… Per questo noi dobbiamo pregare con le braccia stese, al fine di esprimere fino nell’atteggiamento le sofferenze del Signore» (Massimo di Torino). Perché dopo tutto è sempre di Lui che si tratta. «Così tutto si riempie del mistero amato. Questo punto di vista è decisivo per la comprensione dell’arte cristiana. C’è un mistero nella piattezza e nella semplicità apparenti dei simboli della croce che si vedono dipinti o incisi rozzamente nelle catacombe, così come nella semplicità primitiva della posizione del cristiano in preghiera. L’uomo antico possiede ancora un senso assai vivo dell’opposizione, per così dire dialettica, tra l’insignificante gesto da nulla, o simbolo e il contenuto grandissimo che vi si nasconde». (Rahner). L’arte romanica risulta impregnata di questa sensazione che costituisce il fondamento dell’arte sacra. Essa ha conservato vivamente questa intuizione fondamentale che la forza dei simboli risiede in un contrasto paradossale tra l’inesprimibile realtà significata e l’irrilevanza del simbolo che ad essa conduce.

La croce è il grande segno cosmico; il segno dell’universo, il segno dell’uomo; il segno di Dio presente e agente in entrambi. È allo stesso modo un segno biblico, un segno storico, un segno personale: e di nuovo si verifica il contrasto incredibile tra questo insignificante simbolo con l’incommensurabile e adorabile ricchezza del mistero della Croce di Gesù Figlio di Dio che lo fa essere fra tutti i simboli il più evocativo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo 
Editore Jaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine369-374 

Figure semplici: il Paradiso terrestre

Sezione: Studi


La Gerusalemme celeste è quadrata, è la terra rinnovata e trasportata nel cielo. Il Paradiso terrestre, al contrario, è il giardino in cui Dio conversa liberamente con Adamo ed Eva, nella luminosa chiarezza delle origini, prima che il peccato scavasse un abisso tra l’uomo e il suo creatore: è il cielo sulla terra. O ancora, secondo il IV libro di Esdra (III, 6), è il giardino meraviglioso che esisteva nel cielo prima della stessa creazione del mondo. Esso, dunque, è rotondo, ed è proprio così che lo rappresenta la tradizione più diffusa.

Citiamo soltanto qualche esempio tardo (sec. XV-XVI) ma tipico.

Giovanni di Paolo (XV secolo): cacciata dal Paradiso

Il paradiso terrestre di Giovanni di Paolo (1403-1482) è rappresentato con la carta in rilievo di un continente dalle forme vaghe, con un’alta montagna dalla quale scendono quattro fiumi, il tutto circondato dal mare. L’insieme occupa il fondo di un disco dai bordi coperti di numerosi cerchi concentrici, blu, rossi, viola, bianchi, dall’aspetto smagliante. La parte più esterna è ornata di costellazioni che si staccano da un fondo profondo e blu notte. L’espressione è puramente simbolica. La varietà dei colori suggerisce l’impressione di una ruota luminosa che gira velocemente nell’oscurità. Gli altri elementi sono realistici: Dio, l’angelo che scaccia la coppia peccatrice, Adamo ed Eva, la decorazione degli alberi.

Libro delle ore del Duca di Berry (XV secolo): Paradiso

Con le Ricchissime ore del duca di Berry, conservate al Museo Condé a Chantilly, ci troviamo in un ambito ben noto. Tutti hanno visto quella immagine di un giardino circondato da mura circolari, in cui sono rappresentate le scene del peccato originale e della cacciata. Procediamo nell’analisi: nel centro si erge una fontana gotica, la sorgente della vita; attorno, ancora il mare.

Frate Mauro (XV secolo): Paradiso

Il Paradiso terrestre di Frate Mauro è ancora più completo. C’è un recinto circolare costituito da un alto bastione interrotto da quattro porte; nel centro, l’albero della tentazione. Un fiume esce dal Paradiso, scorre lungo le mura e va ad irrigare la terra. Certamente le mura stanno a ricordare quei giardini ben chiusi caratteristici del medioevo, descritti nel Roman de la Rose; ma l’interesse sta altrove, in quella forma circolare propria della rappresentazioni del Paradiso terrestre considerato nel suo insieme, come un tutto compiuto.

Cosmografia universale (1559): Paradiso

Il Paradiso terrestre della figura è circolare: il centro è occupato dalla Fontana della vita, come nelle Ricchissime ore del duca di Berry, e dai due alberi del Paradiso, come nel Paradiso terrestre di Frate Mauro.

Autore Gerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx
Pubblicazione  I simboli del medioevo
Editore Jaca Book
Luogo Milano
Anno 1981
Pagine 97-99

Figure semplici: la croce e il quadrato

Sezione: Studi


Due simboli fondamentali sono la croce e il quadrato. La loro correlazione è così stretta che diventa necessario studiarli insieme. Il pericolo maggiore, in questo frangente, è quello della logica. Il simbolismo non è logico; è piuttosto pulsione vitale, conoscenza istintiva; è un’esperienza della totalità del soggetto che nasce al dramma di se stesso per il gioco complesso e inafferrabile degli innumerevoli legami che tessono il suo divenire contemporaneamente a quello dell’universo cui appartiene e al quale attinge la materia di tutte le sue conoscenze.

Poiché, infine, si tratta sempre di nascere con, ponendo l’accento su questo con, piccola parola misteriosa alla quale converge tutto il mistero del simbolo. Cerchiamo di discernere il legame che intercorre tra il centro (o il cerchio) e la croce che conduce al quadrato. Il simbolo quadrangolare è determinato dai contatto della perfezione trascendente con la creazione contingente che ne deriva. Ciò s’impone con una determinazione esistenziale tutta particolare nell’ordine cosmico, al quale siamo continuamente ricondotti.

Poiché il beduino si lascia assorbire dalla sola stella Polare che tutto attrae, gli è impossibile privilegiare o distinguere un punto qualunque dei cerchi astrali disegnati sopra ai suoi occhi. Al contrario, da che li abbassa verso l’orizzonte per fissare lì la sua attenzione, da che abbandona la contemplazione di Lassù, del Trascendente, dell’Ultratemporale per volgersi al Basso, le costellazioni che interferiscono con questo orizzonte entrano nella storia: una storia che fa parte integrante con la sua stessa esistenza. Il celeste sopratemporale si unisce con il terreno per costituire il paesaggio nel quale si svolge la vita degli uomini: paesaggio mitico e sacro prima che cosmologico. Allora inizia il tempo numerato, scandito da quelle sveglie astrali, vere e proprie sincronie che fanno ingranare la vita terrena sul movimento celeste.

Grant Kalendier – Pastore che calcola il procedere della notte dal passaggio delle stelle sulla verticale della Polare

Questa rigorosa interdipendenza tra i due mondi celeste e terrestre costituisce uno dei fenomeni naturali più sbalorditivi. Ogni giorno il sorgere e il tramontare del sole, con l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del caldo e del freddo, condiziona profondamente la vita vegetale ed animale. Ma c’è di più. Il sole che ogni mattina compare in ‘quella direzione e che sparisce al contrario nella direzione opposta, che nel corso della giornata culmina a mezzogiorno, poi discende dalla parte opposta, descrive nello spazio abitato dall’uomo quattro direzioni primordiali che sono le quattro grandi strade attraverso le quali l’uomo stesso prende coscienza del suo dominio terreno. La prima consapevolezza del quaggiù-generato-dal-cielo si manifesta così sotto lo schema generale immaginario di questa quaternìtà; ricordiamo bene questo concetto. La ragione è che l’uomo è un animale essenzialmente orientato per struttura psichica, organica e scheletrica. C’è una faccia ventrale ed una dorsale, una lateralità destra e una sinistra. Esso non può compiere nulla senza riferire, almeno inconsciamente, la propria orientazione a quella del paesaggio cosmico in cui bisogna necessariamente inserirsi per essere se stessi ed agire. Di qui egli attingerà la pienezza dell’animalità sulla quale si fonderà la sua attività propriamente umana, cioè informata dallo spirito. La rivelazione del sole delle quattro direzioni rivela così l’uomo a se stesso e, insieme, alla distesa spaziale che con lui ed in lui entra nella realtà.

Si concepisce, allora, l’importanza del sole nella vita dell’umanità e si comprende come varie religioni abbiano potuto prenderlo per un vero dio. Tuttavia, occorre evitare accuratamente di esagerare l’importanza che riveste. Coloro che vivono costantemente in contatto con la natura sanno bene che a lato di questo prestigioso signore altri attori più discreti entrano in scena. Meno appariscenti, sono più ammantati di mistero. Gli spiriti più profondi vi discernono dei simboli rivelatori di misteri ancora più nascosti. Ricordiamo, fra gli altri esempi, l’importanza che riveste presso tante civiltà la luna, le cui fasi coincidono in maniera così strana con i cicli dei vegetali e con i ritmi della fecondità della donna.

Nondimeno, i pianeti appaiono svantaggiati dal carattere anacronistico della loro corsa paragonata al movimento fondamentale della volta celeste; e così si rifiuta loro l’attitudine a simboleggiare la trascendenza che l’uomo appassionatamente reclama. Dopo tutto è nel firmamento immutabile che egli deve cercare le coordinate ideali ed esemplari del suo orientamento terreno. Il sole si vede allora ridotto al ruolo ancora decisivo, ma non più definitivo, di cursore celeste: gigantesco faro luminoso che segna sulla carta della volta stellata gli spostamenti quotidiani e stagionali del divenire storico della nostra terra. La contemplazione concreta del firmamento ce l’ha mostrato: è lui, il sole, che per la circostanza delle sue levate e dei suoi tramonti davanti all’una o all’altra costellazione permette di distinguere sul cerchio della banda zodiacale le quattro costellazioni stagionali, dell’Acquario, del Toro, del Leone, dello Scorpione: è grazie al suo intermediario che il cerchio percepito nel cielo entra in rapporto con la croce d’orientamento terrestre. L’orientazione totale dell’uomo esige soprattutto un triplice accordo: l’orientazione del soggetto animale in rapporto a se stesso; l’orientazione spaziale in rapporto ai punti cardinali terrestri, l’orientazione temporale, infine, in rapporto ai punti cardinali celesti. L’orientazione spaziale si articola sull’asse est-ovest scandito dalla levata e dal tramonto del sole. L’orientazione temporale si articola sull’asse di rotazione del mondo, insieme sud-nord e basso-alto. L’incontro di questi due assi maggiori realizza la croce d’orientazione totale. La concordanza nell’uomo dei due orientamenti, animale e spaziale, fa sì che egli sia in rapporto con il mondo terrestre immanente; ecco il triplice accordo, animale, spaziale e temporale con il mondo soprannaturale trascendente per e attraverso il contingente.

Il ciclo quaternario conferisce al nostro mondo terreno il suo ritmo vitale fondamentale che è quello delle stagioni e per questo lo caratterizza. Il quaternario è apparso sulla banda di una figura circolare (cerchio zodiacale o orizzonte) da cui si è distinto per una sorta d’emanazione a partire dai quattro punti maggiori.

Schema del ciclo quaternario

Tale emanazione continuerà per ulteriori sotto-distinzioni, suddividendosi il quaternario in 8, 12, 16, ecc. realizzando così la rosa dei venti. Questo processo annuncia e realizza il passaggio dell’aldilà trascendente al quaggiù immanente.

Attraverso un passaggio simbolico che già riflette qualche cosa del mistero della creazione, si giunge, dunque, alla presa di coscienza simultanea di due direzioni vitali rettangolari e di quattro punti diametralmente opposti; ciò che si può evocare anche se piuttosto astrattamente, sulla carta, attraverso i simboli della croce o del quadrato che ne deriva.

Angkor – Tempio di Bakong

Questi due simboli correlativi della croce e del quadrato sono universalmente riconosciuti come simboli perfetti della terra.

Giada rituale cinese – Ts’ong (simbolo della terra)

Per terra intendiamo tutto ciò che si oppone al trascendente celeste; è opportuno che questo concetto venga sempre tenuto presente. La figura quadrata, e più precisamente la squadra che ne costituisce l’elemento fondamentale, materializza simbolicamente due direzioni spaziali: è il noto sistema delle coordinate cartesiane. Allo stesso modo simboleggia lo spazio che, del resto, è una dimensione propriamente terrena; il cielo gli è immediatamente rapportato come incommensurabile, aspaziale.

Quanto al cerchio, simboleggia il cielo nei suoi rapporti con la terra anche quando è considerato sotto il suo aspetto trascendente (significa allora il totalmente diverso dalla terra, ciò che implica ancora un riferimento negativo alla terra).

L’idea astratta della trascendenza metafisica non ha spazio nel simbolismo; l’intuizione concreta che se ne può avere ha senso solo all’interno del simbolismo negativo; ciò che è infinitamente differente dal terreno perché lo oltrepassa infinitamente. In pari contesto, il cerchio simboleggia l’attività del cielo, il suo inserimento dinamico nel cosmo, la causalità, l’esemplarità, il ruolo provvidente. Di qui, raggiunge i simboli della divinità protesa sulla creazione, di cui regola, produce e ordina la vita.

È interessante rilevare qui l’accordo dei simboli con il pensiero concettuale più alto: si conosce la forma sotto la quale Dante, al termine della sua ascensione, scopre le tre Persone divine: «nella profonda e chiara sussistenza dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza» (Paradiso, XXXIII). Dionigi l’Aeropagita (Nomi divini IV, 4; Gerarchia Celeste I, 1) vi aveva riconosciuto il simbolo dell’Amore divino. Su questo punto l’accordo delle più antiche tradizioni, dei grandi pensatori e della filosofia cristiana è significativo. Un secolo prima di Copernico, due secoli prima di Galileo (1564-1642) che doveva fare le spese della questione, quel tedesco di genio che fu Nicola Cusano (1401-1464), cardinale, teologo, filosofo e uomo di scienza, spostò la terra dal centro dell’universo. Cinque secoli prima del suo compatriota Albert Einstein (1879-1955), egli pose i principi della famosa teoria della relatività destinata a rivoluzionare la meccanica classica diventata insufficiente a dare ragione dei fenomeni atomici o astronomici. «Il mondo, spiegava Nicola, è come una ruota in una ruota, una sfera in una sfera». Di colpo si viene ad affondare tutta la costruzione tolemaica. Ora ecco la sua conclusione – come Platone o Aristotele egli non s’inganna sulle parole, testimone piuttosto di un’età che sta per finire, età in cui gli uomini sapevano tradurre le più alte scoperte scientifiche in un linguaggio simbolico che conferiva loro continuità su un diverso piano del sapere umano -: «Dunque, egli continua, i poli delle sfere coincidono con il centro che è Dio… Dio è circonferenza e centro, Lui che è dappertutto e in nessun luogo». Il tribunale che condannò Galileo per aver osato sostenere che la terra girava attorno al sole, idea non solo incompatibile con le affermazioni della Bibbia ma che per di più disprezzava i principi fondamentali della rappresentazione simbolica dell’epoca, non seppe o non volle accettare questo cambio di prospettiva. Sarebbe puerile scandalizzarsi dell’oscurantismo di allora e della mancanza di apertura ai risultati delle osservazioni scientifiche. Noi non possiamo immaginare la portata del rivoluzionamento di prospettiva che era richiesta agli uomini di quel periodo. Occorre, dunque, giudicare con cautela, considerando anche la difficoltà che noi stessi sperimentiamo nel cambiare opinione su questioni molto meno gravi. Comunque, siamo al punto in cui il male di cui oggi soffriamo comincia a manifestarsi prepotentemente: il tragico dilemma che sembra opporre la conoscenza scientifica alla conoscenza simbolica… Qui si rompe la grande tradizione che risale alle radici comuni dell’umanità, all’interno della quale ci accontenteremo di rilevare l’accordo di un cristiano e di un pagano, entrambi rappresentativi: sant’Ireneo e Platone.

Sant’Ireneo (secondo vescovo di Lione, morto nel 202), instancabile oppositore degli gnostici eretici, appare colpito dal fatto di poterli combattere con l’autorità di Platone: «Paragonato a questi uomini (gli eretici e Marcione), Platone risulta molto più religioso, egli che riconosce un Dio che è lo stesso, giusto e buono, che ha potere su tutte le cose; ed eccone le parole: “Dio, seguendo una antica tradizione, è l’inizio, la fine e il mezzo di tutte le cose che sono. Egli agisce in linea retta mentre per natura è circonferenza” (Leggi, 4) e dimostra che l’Autore e l’Artefice di questo universo è buono» (Adv. Haer., 136). Il cerchio, dunque, può simboleggiare la divinità considerata non solamente nella sua immutabilità ma anche nella bontà elargitrice quale origine, essenza e divenire ultimo di tutte le cose; la tradizione cristiana dirà come alfa e come omega. Il rapporto che esso ha con il mondo creato è invece espresso da simboli di linea retta: il lampo, la freccia, il raggio, la pioggia, la colonna, il campanile.

Il mondo generato riflette così nella sua struttura l’azione che l’ha prodotto. Rimane caratterizzato innanzitutto da figure formate da rette la cui prima associazione è la squadra, elemento di base del quadrato terrestre.

Così, il cerchio e il quadrato si uniscono spesso per costituire un complesso indistruttibile al di fuori del quale essi perdono il loro significato.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Questo è fondamentale. Insieme simboleggiano il cosmo, cioè il cielo e la terra, quell’universo di cui sant’Agostino ama sottolineare che trae il nome dal fatto che è uno, che forma un tutto inscindibile. Ma cerchio e quadrato rappresentano ugualmente il tempo e lo spazio nella loro inevitabile correlazione: il famoso continuum spazio-temporale, fondamento dell’antropologia di san Tommaso d’Aquino e di cui tanto si parla ai nostri giorni; una delle principali chiavi d’interpretazione degli edifici romanici in generale e dei loro timpani in particolare. A condizione tuttavia di mantenere chiara una gerarchia tra questi due elementi: lo spazio è subordinato al tempo davanti al quale deve costantemente cancellarsi dopo avervi condotto lo spirito. Non si vuol dire che bisognerebbe equiparare da una parte il cielo e il tempo e dall’altra la terra e lo spazio; una tale logica, estranea per natura alla simbologia, porterebbe a conclusioni per lo meno assurde.

Boher, Reliquiario – Borchia semisferica

Ciò che bisogna dire è che il rapporto della terra e del cielo è simbolicamente dello stesso tipo del rapporto spazio-temporale e quindi anche dell’immanente con il trascendente. Si ha, così, a che fare con due coppie che non bisogna scindere ma considerare sempre nella loro dualità complementare.

In tal modo, guardandoci da semplicistiche astrazioni, non bisognerà mai dimenticare che sul piano delle gerarchie immaginarie il quadrato appare in dipendenza del cerchio, nella sua aureola in espansione; esso segue non per una successione cronologica, ma nell’ordine delle ripercussioni simboliche. Il peggiore dei quadrati non è altro che un cerchio a quattro angoli, o a quattro facce, un cerchio ammaccato che si ricorda dell’antica perfezione. Si tratta dunque di tempo cristallizzato nell’attimo, di un riflesso dell’aldilà. La Gerusalemme celeste dell’Apocalisse sarà quadrata. In geometria la quadratura del cerchio è un non-senso; in simbologia diventa un’operazione fondamentale. La simbologia aggira il problema ricostruendo attorno al quadrato il suo originale cerchio circoscritto, trasfigurando così lo spazio fisso nella rotondità mobile del tempo. Le chiese sono quadrilateri all’interno dei quali i raggi luminosi ruotano per il corso della giornata, mentre esternamente, l’ombra segnata dal campanile traccia il cerchio del tempo celeste. I simboli consentono l’accesso ad ambiti preclusi al pensiero discorsivo. Non è sempre possibile esprimere la correlazione di natura che lega il cerchio al quadrato. Non si può mai eluderla, ancor meno combatterla. Cosa che risulterà ancor più chiara considerando in che modo l’immagine circolare sia connessa dinamicamente a quella quadrata. Il cerchio, questo punto ingrandito, possiede una superficie limitata, circoscritta, chiusa. Ha una frontiera; è un hortus conclusus, un giardino chiuso.

Libro delle ore del Duca di Berry – Paradiso

E ciò è esattamente quanto il quadrato ha in comune con esso. Dal momento che c’è un limite, è possibile che un osservatore vi si trovi all’interno. Questo riconduce al principio fondamentale secondo cui non esiste simbologia se non in rapporto ed a partire da un uomo all’interno chiamato centro. La simbologia non è affatto la geometria nonostante abbia alcuni punti in comune con essa. A questo osservatore, il quadrato si manifesta non già come la secca figura geometrica che comunemente si designa con quel nome, ma come un’estensione espansa in quattro direzioni a due a due opposte – estensione che null’altro è se non quella della propria struttura animale percettiva – o, ancora, come una divisione dello spazio in quattro settori.

Così, il quadrato evidenzia l’orientamento fisso o durevole mentre il cerchio non denuncia alcuna propria orientazione. Il quadrato è figura antidinamica fissata su quattro angoli; simboleggia la stasi o l’attimo prestabilito; implica un’idea di ristagno, di solidità, simbolo di stabilità nella perfezione: sarà il caso della Gerusalemme celeste. Il movimento agevole, invece, è circolare, rotondo. L’arresto, la stabilità s’associano con figure angolose e linee opposte e movimentate. Ciò che stimola nell’immaginazione il quarto simbolo fondamentale: la croce.

Quadrato e croce sono entrambi caratterizzati dalla quaterna che è un simbolo d’universalità spaziale e d’universalità creata: la loro cifra è il quattro. Sul piano della simbolica dei numeri, essendo la triade il simbolo della divinità e dei principi trascendenti dell’universo, l’aggiunta di un’unità rompe la perfezione e costituisce un numero simbolo del mondo materiale, il 4.

Dopo le epoche vicine alla preistoria, il 4 venne utilizzato per significare il solido, il tangibile, il sensibile. Ma il suo rapporto con la croce ne faceva, per altro, un simbolo incomparabile di pienezza, di universalità, un simbolo totalizzante. Da qui si comprende come natti i popoli abbiano considerato la terra come divisa in quattro settori. Il sanscrito, l’antico babilonése, il cinese, i testi dell’America precolombiana designano i capi e i re con il titolo di «Signore dei quattro mari», «Maestro delle quattro parti del mondo», «Maestro dei quattro soli». Gli stati sono stati spesso divisi in quattro province o in multipli di quattro. Le grandi religioni hanno ciascuna quattro libri sacri. «Nelle Indie, Brahma, l’Anima del mondo, il Padre, il più antico degli Dei, il regolatore degli elementi ha quattro teste e quattro facce corrispondenti ai quattro Veda, libri sacri dell’India che sono le quattro Rivelazioni corrispondenti alle quattro Bocche. È noto che Brahma inviò suo figlio nel mondo per diffondervi l’insegnamento dei quattro libri». (Loeffler-Delachaux). Vedremo la conseguenza che ne ha tratto a sua volta la simbolica biblica.

La cifra della croce, noi affermiamo, è il 4. Ma è ancor più il 5… La simbologia cinese ci ha aiutato a ritrovare questa paradossale verità. Ci ha esortato a non considerare mai i quattro angoli del quadrato o i quattro bracci della croce al di fuori del necessario rapporto con il centro della croce o col punto d’intersezione dei suoi bracci. Senza giocare sulle parole, si potrebbe dire senza fallo che questo quinto punto è il più importante della quaterna.

Ahenny – Croce celtica in pietra

Come il cerchio, il quadrato è una figura centrale. Ed ecco che il centro del quadrato coincide con il centro del cerchio; questo punto comune è il grande incontro del piano dell’immaginario. È il luogo favorevole di tutte le rotture di livello, di tutti i passaggi da un mondo all’altro: l’omphalos dei Greci, l’ombelico del mondo degli antichi, la scalinata rimale di tante religioni, la scala degli dei. Di lì si passa dal cielo alla terra e viceversa, per di lì spazio, tempo, eternità, entrano in comunicazione.

La croce è ancora quella figura che congiunge a due a due i punti diametralmente opposti comuni al cerchio ed al quadrato inscritto. Per tutte queste funzioni – quella del centro che si diffonde nelle quattro direzioni o quella della riduzione all’unità dei punti estremi delle due ortogonali -, la croce ha carattere di sintesi e di misura: in essa si riuniscono il cielo e la terra nella maniera più intima possibile.

Zurigo, Museo Nazionale – Smalto ad alveoli

In essa si confondono il tempo e lo spazio. Essa è il cordone ombelicale mai tagliato del cosmo legato al centro d’origine. Tra tutti ì simboli essa è il più universale, il più completo. È il simbolo dell’intermediario, del mediatore, di colui che è per natura eterna unità dell’universo e comunicazione tra terra e cielo e cielo e terra.

Quest’ultima proprietà appare ancora più netta nell’ordine dei volumi. I volumi non aggiungono nulla in fatto di nuovi valori simbolici alle figure piane che li generano: il simbolismo della sfera è lo stesso del cerchio; quello del cubo è lo stesso del quadrato. I volumi però, appaiono talvolta più espressivi; rendono meglio alcune proprietà meno evidenti e ne conferiscono un’esperienza più sviluppata. La percezione tridimensionale è strettamente inerente all’agire umano; l’immaginario si annette il suo potere di valorizzazione. Per questa ragione la totalità celeste-terrestre si esprime meravigliosamente nella coppia cubo-sfera. In architettura la ritroviamo sotto forma di quadrilatero sormontato dalla sfera. Quest’ultima è riconducibile ordinariamente alla mezza sfera come nei casi di cupole o al quarto di sfera come nei casi dei catini delle absidi. Tuttavia, in questo caso, come sempre, il simbolo è e resta quello della forma pura, della linea e non dell’oggetto materiale. L’immaginazione s’avvale del supporto che le si offre, per quanto imperfetto sia, a condizione che sia evocatore, per ricrearlo in sé perfetto. Essa è generatrice di forme ideali.

I simboli danno all’uomo il potere, unico, di rendere presente e tangibile, fin nei suoi segreti più riposti, il mondo che ci circonda. Per non contraddire questa verità dovremo avere la lealtà di non separare mai i simboli dal loro accoppiamento esistenziale; di non scinderli mai dall’atmosfera luminosa in seno della quale essi ci sono stati rivelati, per esempio, il grande, sacrale silenzio delle notti di fronte all’immensità del firmamento, maestoso, totale; di ritrovare sempre sotto le parole usate la linfa vivificante, al di là del simbolo, il simbolismo che ne deriva. In secondo luogo, bisognerà non inventare ma informarci. Cercare le costanti più certe per essere sicuri di cogliere le espressioni simboliche universali relative all’uomo in quanto tale.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano
Anno 1981
Pagine29-52

Figure semplici: il centro e il cerchio

Sezione: Studi


Il centro

Come una pietra gettata nel centro di uno stagno determina delle onde concentriche che trasmettono il movimento originale fino all’orizzonte del creato, così il centro è prima di tutto il Principio. La stella Polare fornisce l’espressione naturale più stupefacente di questo simbolismo.

Cerchio luminoso attorno alla Stella Polare

È noto che per gli antichi il cielo è un mare costituito da quelle che essi chiamano le acque superiori e che le cosmogenesi iniziano dall’elemento acqueo. La stella Polare manifesta il punto primordiale dell’oceano celeste di cui il mondo terrestre non è che una frangia estrema e l’ultima creata. Essa costituisce il centro principale a partire dal quale tutto prende origine, il punto indiviso, senza forma né dimensione, immagine perfetta della unità primigenia e finale nella quale ogni cosa trova inizio e conclusione; perché tutte le cose ritornano a colui che le ha create e non può affidare loro altro fine che la propria perfezione assoluta.

Albenga, Battistero – Mosaico: Crisma

Per irradiazione, questo punto principale determina tutti gli esseri come la cifra unitaria produce tutti i numeri. In questi casi c’è parallelismo tra il simbolismo geometrico e il simbolismo aritmetico; entrambi sono ugualmente adatti a tradurre i simbolismi cosmici della espansione creatrice; questa rivela uno degli aspetti essenziali del mistero divino. La stessa realtà può essere simboleggiata su piani differenti e spesso complementari al punto di vista dell’osservatore. Il punto centrale è l’Essere puro, l’Assoluto e il Trascendente. Esso è diffuso nello spazio-tempo che non è null’altro che l’irraggiarsi di questo Assoluto; senza tale riferimento naturale lo spazio-tempo non satebbe che privazione, vuoto del caos mitico.

Il cerchio

Il cerchio è il secondo simbolo fondamentale. Gli astri circumpolari ne disegnano continuamente la sacra figura nel cielo e più ancora nella psiche di quelli che l’osservano. Attorno alla stella fissa, il cerchio fisso di ogni stella appare come la prima manifestazione del Punto primordiale. Il cerchio, innanzi tutto, è un punto esteso, quindi partecipa della sua perfezione

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (particolare)

Così punto e cerchio hanno proprietà simboliche comuni: perfezione, omogeneità, assenza di distinzione o di divisione.

Se su questo non occorre insistere, non si ripeterà mai abbastanza che un tale simbolismo non ha alcun valore, fintanto che non ha costituito l’oggetto di un’autentica esperienza umana, ciò che non ha nulla a che vedere con un elenco di nozioni astratte.

Allora e solo allora ci si meraviglia dell’intensità del sacro che emana da tutte le forme circolari. Il cerchio può per di più simboleggiare non solo le perfezioni nascoste del Punto primordiale, ma i suoi effetti creati; detto in altro modo il mondo in quanto si distingue dal suo Principio. I cerchi concentrici rappresentano i gradi degli esseri, le gerarchie create che costituiscono la manifestazione universale dell’Essere Unico e Non-Manifesto. In tutto ciò il cerchio è considerato nella sua indivisa totalità.

Al contrario, se noi distinguiamo sulla circonferenza uno o più punti, siamo condotti verso il movimento circolare, quello così ben rivelato dagli astri che non sono altro che punti luminosi che ruotano in tondo.

Cardona – Cupola del transetto

Cardona – Cupola del transetto

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (vista dal basso)

Diversamente dagli altri movimenti (rettilineo, sinusoidale, disordinato) questo movimento è perfetto, immutabile, senza inizio né fine né variazioni; ciò che l’abilita a simboleggiare il tempo. Il tempo si definisce come una successione continua e invariabile di momenti tutti identici gli uni agli altri.

Nell’ordine delle strutture cosmiche, il cerchio simbolizzerà facilmente il cielo, di cui abbiamo rilevato che il movimento circolare e inalterabile è la caratteristica più espressiva.

Giada rituale cinese – Pi (simbolo del cielo)

Appare significativo che la parola latina caelum indichi insieme il cielo, il firmamento e la forma circolare. Cerchio, tempo e cielo comunicano attraverso il loro aspetto di perfezione che li ha fatti considerare rispettivamente come punto, eternità e trascendente, cioè tutt’altro dal mondo corruttibile terreno.

Secondo un altro punto di vista, il cerchio può rivestire delle valenze d’imperfezione; esso diventa la ruota; si pensi alla linea ondulata della sinusoide che instancabilmente sale e scende sempre avanzando. La rotazione della ruota genera i cicli, le riprese, il rinnovarsi. Ruota e linea ondulata si prestano ai simbolismi della creazione in atto. Ci troviamo, così, nell’ordine del divenire, del mutevole, del caduco, del creato, del dipendente. Gli archi intrecciati caratterizzano i cicli del tempo terreno.

Payerne – Capitello

Non è più l’eternità radiosa ma il tempo che trascorre inesorabilmente e che occorrerà considerare nella giusta prospettiva o addirittura esorcizzare per liberarsi dei condizionamenti terreni… Quanto al cielo, esso si presenta allora nel suo innegabile rapporto con la terra che da esso emana; diventa, insomma, il modello che in certo modo riporta allo stato preesistente il divenire del mondo terreno.

Non possiamo non prendere in considerazione la spirale: essa suggerisce o, meglio, è emanazione, estensione, sviluppo, continuità ciclica ma progressiva, rotazione creativa.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Essa manifesta l’apparizione del movimento circolare dal suo punto originale; movimento che essa trattiene e prolunga all’infinito: è il genere di linea continua che lega incessantemente le due estremità del divenire. Il disco di bronzo di Somerset (età del ferro) confonde per la sua incredibile perfezione.

Dublino, Museo Nazionale – Disco di Somersst

Nell’ordine delle figure cruciformi, la spirale ha come equivalente la svastica, simbolo tra i più complessi che moltissime civiltà hanno adottato come emblema principale. La svastica simboleggia l’asse verticale di un tiro a quattro braccia il cui movimento di rotazione è espresso dal ritorno di ciascun braccio come tanti nastri mossi dal vento o come altrettanti piedi che imprimano il movimento.

Londra, British Museum – Ciotola di Sutton Hoo

Visby, Gotland Fornsal – Pietra sferica di Myrvalder in Tingstäde

Le immagini mostrano la continuazione immaginaria della svastica e della spirale ed evidenziano come la percezione simbolica si faccia gioco delle interpretazioni. Inoltre si notano le risorse decorative che tali simboli puri offrono all’arte sacra.

I Cristi romanici sono spesso concepiti attorno ad una spirale o ad una svastica: queste figure ritmano la posizione, ambientano i gesti, le pieghe del vestito. Con queste figure si trova per di più reintrodotto il vecchio simbolo del turbine creativo attorno al quale si collocano le gerarchie create che ne emanano.

 

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano 
Anno 1988
Pagine27-29

Fioroni: i fioroni delle cornici

Sezione: Lessico


Significato simbolico possono avere a volte, nella zona mesopotamica, anche i fregi posti in alto, sotto le cornici; è il caso del portale di León, dove temi paragonabili a quelli degli archivolti di Bourg-Argental sono presentati proprio nella maniera suddetta. Ma, dettaglio significativo, a parte alcuni Eletti inseriti entro delle scanalature concentriche, circolari, il coro degli angeli che accompagna David e i Segni dello zodiaco – che a Bourg-Argental appaiono iscritti rispettivamente entro dei medaglioni circolari e semicircolari – sono a León entro delle cornici quadrate o rettangolari.

In linea di massima questi fioroni, al pari di quelli degli architravi, non obbediscono a un preciso programma, e questo si spiega facilmente, data l’altezza a cui si trovano e la conseguente scarsa visibilità da parte dei fedeli. Sulla porta Miégeville sono tutti disposti alla stessa maniera, sulle mètope: si tratta di magnifiche margherite, pienamente sbocciate, che si ripetono sul fianco; quelle però che probabilmente formano un programma e completano il significato di questi fioroni sono le otto mensole che sorreggono la cornice. Bisogna leggere il tutto da sinistra a destra mettendolo in relazione con quella specie di svastica o di disco ruotante che disegnano i temi della porta: da Eva a Maria, cioè da destra a sinistra in basso, poi salendo, dal lato di san Giacomo fino al personaggio accovacciato, quindi il fregio da sinistra a destra e, infine, dal lato di san Pietro, di nuovo dal basso in alto. Si notano così, sulla linea orizzontale della parte alta, da sinistra a destra, l’uomo in groppa al leone, un grappolo d’uva, una serie di felini il sole, la luna, il capricorno con valore cosmico e un animale con la testa in basso. Assai significativi sono anche i tre ombelichi (3 = Cielo) a forma di spirale che scandiscono la cornice propriamente detta. L’insieme richiama il perpetuo movimento della natura e della vita: la nascita con l’animale a testa in basso, poi l’uomo col leone l’età adulta, quindi la morte con l’androfago e da ultimo il Cielo con gli astri che disegnano il movimento della spirale.

Quantunque non si tratti, a rigor di termini, di una vera cornice, la sommità della profonda nicchia in cui è collocato il Cristo col Tetramorfo, in alto, sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande a Poitiers, presenta in maniera più raccolta lo stesso significato dell’insieme delle mensole e delle margherite della cornice di Tolosa: le margherite propriamente dette sono qui inquadrate da due fregi vegetali complementari; al di sopra del Cristo, le figurazioni a mezzo busto del sole e della luna circondate da striature ondulate hanno un aspetto del tutto originale: il sole, nimbato, regge un albero cosmico a sette bracci simile al candelabro biblico del tempio di Salomone; la luna è accompagnata dall’animale falce crescente. Inoltre alle margherite si alternano, sui modiglioni, delle figure leonine: l’accostamento dei leoni, in quanto animali solari, ai fiori è un fatto frequente e risalente a tempi assai remoti. Nessuna di queste margherite è perfettamente identica alla sua vicina, ma costituiscono tutte altrettante variazioni sul tema della rosa dei venti, della stella cioè a otto raggi, il cui significato è piuttosto complesso. Può anche essere esclusivamente solare, come sembra esser qui, alternato a dei leoni; sul manoscritto di Beato conservato nel tesoro della cattedrale di Gerona vediamo infatti la donna rivestita di sole (Apocalisse, XII) coperta da un fiorone perfettamente simile; la mezzaluna è sotto i suoi piedi e le fanno da cornice delle stelle a otto raggi. Il ripetersi dei fiori solari e dei leoni sta a indicare il sole di Giustizia che splende eternamente. Più sopra, un fregio vegetale disegna delle specie di ellissi o delle mandorle successive: è un’allusione al livello celeste dell’aria acquosa o pesante, secondo Herrade di Landsberg, mentre i fioroni, alternativamente diritti e ripiegati, con le corolle volte in senso contrario agli steli, formano un tema maschile e, proprio per la suddetta posizione di «contrasto» delle corolle, intendono riferirsi, con ogni probabilità, all’etere invisibile.

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Segnaliamo anche le strane ruote a sei o sette raggi della interessante facciata di Echillais, nella Saintonge. Sembra che la ruota a sei raggi equivalente al crisma, sia un’allusione al Cristo onnipotente, «terribile coi malvagi», mentre quella a sette raggi rappresenta il Cristo «buono con i buoni», in relazione con tutti i significati benefici del numero sette. Inoltre, il sette opposto al sei evoca il valore superiore, sacro, che Pitagora riconosceva ai numeri dispari. In effetti, le ruote in questione, collocate in modo da essere perfettamente visibili, esprimono l’idea del Giudizio, al pari delle diverse mensole che reggono la cornice soprastante, una delle più belle che siano state create dall’arte romanica, al cui centro spicca, fra due motivi vegetali che ricordano la Y, la testa del Cristo, mentre i restanti numerosi temi che vi sono raffigurati vogliono dare l’idea della bilancia del Giudizio.

Ritroviamo le stesse ruote sulle mensole della parte absidale anche qui con valore simbolico. Le vediamo però circondate da una corona di perle. È segno che ci troviamo dal lato del cielo, l’oriente; del resto è del molto particolare l’importanza che veniva attribuita in Saintonge all’orientazione dell’edificio, come abbiamo sottolineato con particolare evidenza esaminando la finestra assiale di Aulnay. Una di queste ruote possiede otto raggi (otto = vita futura) ed è posta accanto a una variante puramente animale dell’uomo col leone. L’uomo è infatti qui rimpiazzato dall’uccello, simbolo dell’anima, alle prese con un intreccio formato da tre belve. il tema in questione si trova sul lato sud. Più avanti, su tutto il circuito del coro, si trovano invece delle ruote a sette raggi, numero che supera di una unità la famosa cifra della bestia (6) ed evoca così, al di la della distruzione, l’idea del Paradiso.

Bisogna avvicinare tutte queste ruote alla figura del disco celtico, giacché le influenze celtiche – come nel Forez, del resto, specialmente a Rozier-Côtes d’Auree – sono vivissime nella Saintonge: basta pensare ai numerosi tricefali, alla mazza del dio Esus, al disegno della greca ecc. Bisogna soprattutto avvicinarle alle ruote degli archivolti di svariati portali che ostentano, con ogni evidenza, un simbolismo solare.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 137-138

Fioroni: collocazione

Sezione: Lessico


La collocazione nei portali romanici di fioroni e di altre figure di forma circolare è tipica e frequentissima sia nella zona egiziana che nella zona mesopotamica: ai fioroni degli architravi di Beaulieu e di Moissac corrispondono i fioroni dell’archivolto di Charlieu, ma anche i Segni dello zodiaco e i Lavori dei mesi di Autun (cfr. La Borgogna, cit., tav. 88) e di Vezelay (cfr. La Borgogna, cit., tav. 110), gli Eletti di Bourg-Argental, i Vegliardi di Cluny. I primi fanno venire in mente i fioroni di M’chatta o i motivi degli architravi siriani, i secondi i cerchi contenenti raffigurazioni delle Virtù o immagini di martiri nelle absidi copte (arco trionfale). Nell’uno e nell’altro caso queste figure circolari evocano la «musica delle sfere» di cui parlava Platone e le «ripetizioni» celesti, siano queste da intendere come i pianeti che governano la vita degli uomini o come i segni zodiacali, o infine come le costellazioni del cielo, più o meno precise, più o meno reali.

Ai rosoni in serie che compaiono nella disposizione anteriore, sia sugli architravi, sia sui timpani (nel Rouergue), con un sapiente simbolismo numerico, sia sulle cornici, fanno riscontro i fioroni dei capitelli, ché in questi casi diventano a volte semplici rosette, con un simbolismo numerico più sapiente ancora, in ossequio alla disposizione interna caratteristica dell’altra zona.

Zona mesopotamica

Sugli architravi delle chiese siriane si potevano incontrare dei motivi a treccia ornati al centro da una stella a sei punte, antichissimo simbolo mesopotamico, oppure la figura dell’elice, sorta di disco o di sole ruotante, che era a sua volta di origine fenicia: è qui che va individuata l’origine remota dei fioroni della Linguadoca, giacché anche questi, al pari dei loro antenati orientali, corrispondono a un significato di carattere astrale. I due architravi siriani di Mudjeleia e di el-Barah sembrano il prototipo lontano dei portali a portico francesi: quello di Beaulieu ricorda el-Barah per via del risalto dato alla croce del Giudizio e per i racemi ingoiati dai mostri; quello di Mudjeleia prefigura senza alcun dubbio il portale di Moissac per i fioroni posti ai piedi del Signore e per la croce rovesciata del Tetramorfo, anche se non è affatto nascosta la croce del Giudizio. R. Rey, però, ha mostrato un prototipo più immediato di questi splendidi fiori di cardo allineati sotto la figura del Cristo: si tratta semplicemente dei fiori di carlina, una specie di cardo, appunto, senza stelo ma di aspetto assai bello, che cresce spontaneo sulle pendici pirenaiche e fa un fiore dall’ampia corolla irta di punte, capace di offrire un’idea perfetta degli astri del firmamento e specialmente dell’astro solare. Prima ancora che sorgesse l’arte romanica, questi fiori ornavano già un timpano di epoca merovingia a Saint-Sernin-du-Thézel, esso stesso imitato dall’arte antica, al quale M.lle Jalabert attribuisce grande importanza, anche per quanto riguarda l’elaborazione della flora romanica. Il famoso fiore della carlina si trova qui nella parte inferiore della lastra, cioè sulla faccia più larga di questa, mentre in quella anteriore, la più visibile, c’è un comunissimo crisma, entro il solito cerchio, tal quale si vede agli ingressi delle chiese copte, formato dalle lettere greche khi e ro sovrapposte, fra l’alfa e l’omega.

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Sull’architrave di Moissac il numero dei fioroni, otto, simbolo delle «ripetizioni», indica la vita futura e le tonalità della musica; ma senza dubbio questi fiori di carlina rappresentano al tempo stesso i cieli visibili, i pianeti, mentre la greca che avvolge l’intero timpano significherebbe l’etere invisibile, pur facendo insieme allusione al Cristo Sole di Giustizia. S’impone comunque un accostamento con i racemi dell’architrave di Saint-Ursin di Bourges, perché anche qui troviamo il numero Otto dei pianeti, insieme per altro con il nove dei cieli mobili, a cui si aggiunge il decimo cielo simboleggiato da un nodo, una figura incrociata. In effetti questo motivo dei racemi disegnanti delle spirali e, specialmente a Saint-Ursin, delle spirali ravvolte l’una in senso contrario all’altra, rendeva meglio dei fioroni propriamente detti l’idea di quel «movimento alternativo», di quelle spirali appunto, che i pianeti descrivevano in cielo, secondo le convinzioni dei cosmografi o degli astronomi del medioevo.

A Moissac due mostri, l’uno di faccia all’altro, inquadrano gli otto fioroni: riteniamo siano entrambi da mettere in relazione con le maschere della terra, asimmetriche, poste più in alto, e con le maschere solari alla sommità del portale. Essi evocano senza dubbio le «ripetizioni» lunari: l’uno le vomita o le deglutisce, l’altro le ingoia, a simiglianza delle due maschere della sommità, una delle quali, orizzontale, dà origine alla greca, mentre l’altra, accostata alla croce del giudizio, vuole alludere al momento fatale in cui non brilleranno più né sole né luna. Osserviamo, inoltre, che queste maschere sono sei, come sei sono i fregi verticali del piedritto e sei le leonesse sul trumeau: il sei è infatti la cifra «cristica» della potenza e della creazione. Infatti, se al di sopra del regno vegetale, al di sopra dei fioroni di carlina, trionfa la greca solare, è indiscutibile che ci troviamo di fronte a un chiaro riferimento al Cristo Sole di Giustizia; è la stessa ragione per cui all’estrema destra un vegliardo, messo in evidenza attraverso l’impossibile positura incrociata delle sue gambe, presenta ostensibilmente la croce diritta del Giudizio. Quest’ultima pone fine alla greca che attorno alla sua asta avvolge l’ultima spira per perdersi lì stesso dietro una maschera frontale che dalla greca suddetta sembra essere bizzarramente incoronata – particolare questo che non può non ricordare i capelli solari dell’uomo col leone o della maschera sul pilastro nord occidentale della crociera di Aulnay, associata ai quattro Animali e all’omega. La croce suddetta appare perciò simile, nel caso specifico, a quella degli affreschi di tradizione carolingia: alla croce di Oberzell, diciamo, per fare un esempio. È veramente una visione che va ben oltre la dimensione umana quella che qui ci viene presentata: il Cristo è gigantesco, è Dio che si libra al di là dei secoli, nell’assoluto; i Vegliardi, i Profeti, disegnano degli incroci con la positura delle loro gambe. Né bisogna dimenticare che la realtà della visione ineffabile era resa ancora più sconvolgente dalla pittura che la ricopriva. La sua magnificenza è conforme in pieno all’idea mesopotamica ed ebraica della trascendenza divina. Ma bisogna anche osservare, in contrapposizione alle regioni del sud est, dove i Tetramorfi e i Pantocratori sono immagini correnti, il carattere unico del timpano di Moissac. Fioroni, stelle, greche sembrano essere lì a bella posta per illustrare il salmo di Davide: «I cieli raccontano la gloria di Dio e l’universo celebra l’opera delle sue mani». E la stessa cosa si può dire sia delle volute, delle foglie cuoriformi, degli animali, delle maschere che ornano gli stipiti, sia degli steli terminanti anch’essi in foglie cuoriformi che tracciano sul trumeau il disegno dell’incrocio.

Altri particolari da ammirare, il significato stupefacente attribuito al sole sotto la forma della greca e delle rose che ornano il nimbo del Salvatore, la grandezza di quest’ultimo, la svastica o disco ruotante che descrivono i quattro Animali, l’atteggiamento dei Vegliardi che sembrano accecati dalla luce divina, il loro movimento stesso che doveva, con le ombre sottolineare dal colore, accrescere lo splendore della visione centrale. Quanto doveva essere più impressionante, questa, quando aveva le sue tinte originali e quanto giustificata doveva essere l’emozione che suscitava fra i pellegrini!

Un’analisi serrata del primo archivolto di Beaulieu, dove i fioroni sono undici – numero che indica l’imperfezione, il mondo perituro –, dà un’idea più chiara della rotazione delle sfere che essi simboleggiano. La loro presenza si armonizza infatti con quella delle scimmie, simboli solari, che brandiscono dei serpenti uscenti dalle spire del mostro, e con quella del drago, simbolo pur esso delle «ripetizioni», che sta per essere a sua volta divorato dal famoso dragone a sette teste.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 134-135

Disposizione: varietà dei tipi di disposizione

Sezione: Lessico


I diversi tipi di disposizione adottati dipendono da cause complesse, storiche e geografiche. Si può distinguere la disposizione «anteriore» o «basilicale», secondo che l’importanza maggiore sia data alla decorazione del nartece o a quella dell’abside; e la disposizione «esterna» o «interna», secondo che tale importanza sia data ai rilievi scolpiti all’esterno – sulla facciata o nel coro – oppure ai capitelli e agli affreschi dell’interno. Sappiamo da numerose testimonianze scritte che le chiese antiche erano interamente rivestite di affreschi all’interno, dove era facile dipingere delle scene in serie. Nelle chiese romaniche, per contro, i progressi tecnici dell’architettura, che tende ad aumentare il numero delle finestre per accrescere l’illuminazione e al tempo stesso a rialzare le volte, determinano un diradamento dei punti d’appoggio e quindi una riduzione della superficie disponibile oppure un allontanamento dalla vista delle parti da decorare, soprattutto delle volte delle navate. Ecco perché si deve considerare eccezionale un caso come Saint-Savin-sur-Gartempe. Se non che, come stabiliscono anche i canoni del concilio del 1050, la Chiesa ha come sua missione il compito di istruire e di moralizzare. Ed è proprio questo che spiega le disposizioni multiple: si fa fuoco, cioè, con tutta la legna che s’ha a portata di mano e può succedere, quando la navata è troppo buia, ma il materiale lo permette, che un programma venga trasferito sui modiglioni esterni, troppo piccoli per potere accogliere scene di un qualche respiro, e che queste debbano perciò essere ridotte a semplici schemi, il cui senso, s’intende, oggi in buona parte ci sfugge.

Negli affreschi di Saint-Savin, per esempio, i personaggi delle volte, che altrimenti sarebbero poco visibili, sono ingranditi al massimo, al contrario di quelli dell’abside o del portico, più accessibili alla vista. Sempre per ragioni di leggibilità, nelle cripte oscure, tipo Tavant, Billom e ancora Saint-Savin, le pose sono forzate, i personaggi non fanno che gesticolare; l’artista è trascinato da un espressionismo a volte delirante.

Esaminiamo, a questo punto, alcuni tipi diversi secondo le regioni, sulla base della geografia. Troveremo che una disposizione «interna» è tipica delle regioni del Centro, come il Velay, il Brivadois, l’Alvernia: i portali e i fregi esterni sono rari qui, più dei capitelli interni sui quali è concentrato il significato simbolico (o degli affreschi a volte, nel Velay). Non si ravvisa l’utilità di una decorazione esterna, a causa del clima rigido in inverno, mentre le arenarie e le lave che abbondano nella regione si prestano benissimo alla scultura dei capitelli. Basta cominciare a discendere la valle del Rodano per imbattersi invece in una decorazione esterna, fatta essenzialmente di fregi – come ad Ainay (Lione), a Saint-Restitut, a Saint-Paul-Trois-Chàteaux, a Nimes –, che controbilancia la disposizione interna. Si arriva addirittura a dei portali a portico, che ricordano da vicino i peristili greci, in certe chiese della Provenza favorite dall’amenità del clima. È facile in queste zone fare arrivare per via fluviale i materiali migliori. Per ragioni analoghe, però, una progressiva inversione di tendenza si osserverà movendo dalla Charente e dai paesi della costa atlantica verso la Linguadoca. L’apogeo della decorazione esterna si troverà nella Saintonge, indifferentemente, sia sulle facciate (Echillais, per esempio), sia sulle absidi e i cori (Vaux, Rioux, Rétaud, ecc.). Ci troviamo infatti qui in una regione dal clima relativamente temperato dalla vicinanza dell’Oceano, mentre invece la pietra calcarea che vi si estrae permette, sì, di eseguire decorazioni a rilievo minuziosamente traforate, simili a quelle di un cofanetto d’avorio, e istoriate, in certi casi, perfino con dovizia di particolari, ma assolutamente non è propizia alle vaste ambizioni architettoniche. È evidente, d’altro canto, che la migliore visibilità si incontra all’esterno, e che sono i parati murari – capitelli, fregi, archivolti, cornici delle finestre, cornicioni, mensole, metope, gocciolatoi – che permettono, meglio della decorazione interna, dei veri e propri concatenamenti più o meno narrativi. È il caso di Aulnay, dove ci viene esibita un’accurata decorazione interna sui capitelli dei quali pur anco gli abachi sono istoriati, ma dove al tempo stesso non ci si è astenuti dall’utilizzare tutti gli elementi esterni al fine di creare una vasta sinfonia di segni e di scene che s’accordano sulle «direzioni» dello spazio. Vi si può rilevare una straordinaria raffinatezza, congiunta a una volontà di insegnare nella maniera più eloquente e più leggibile: basti considerare che una pietra dorata, di una rara finezza di grana, tale da consentire all’artista tutte le possibili sottigliezze, è stata riservata alle scene più sacre e più ricche di significato: sugli archivolti dei portali occidentali e sulla finestra assiale del coro. Non solo. Sul famoso archivolto esterno del portale meridionale, quello che presenta la Caccia al cervo e i Quattro Temperamenti umani, la pietra in questione è stata adoperata solo per la parte simbolicamente solare del fregio, e non dalla parte del male, della malattia e della morte.

Questa decorazione esterna si conserva nella cosiddetta scuola dell’ovest francese, ma essenzialmente sulle facciate (Angoulême, Poitiers, Civray, Saint-Jouin-de-Marnes), giacché un apparato di tal genere s’accorda perfettamente con una più grande ambizione architettonica e con la qualità della pietra, leggibile anche da grande distanza, come ad Angoulême. Qui il calcare invecchia infatti molto bene sotto l’azione dell’aria iodata e indurisce invece di essere corroso come quello della Charente.

Una disposizione interna, anzi proprio absidale (Chauvigny), entra invece in concorrenza con quella esterna non appena ci si avvicina alla media Loira, dove domina una disposizione interna fondata sull’affresco, a volte anche absidale, che persisterà ancora in epoca gotica. Analogamente, se ci si dirige verso sud, la scuola della Linguadoca farà valere una disposizione che è più interna rispetto a quella della Charente, pur restando, grazie ai suoi portali a portico, una disposizione anteriore, forse anche perché qui la luce solare è più intensa e riesce a penetrare meglio entro la chiesa. Succede tuttavia che il desiderio di sottolineare nel portico la presenza di una interdizione, faccia mantenere una decorazione anche sulla facciata (tipo porta Miégevile), ma in questo caso c’è una cornice che la sovrasta a mezza altezza, e questa disposizione non esclude il programma interno dei capitelli, che viene semplicemente limitato quantitativamente. Si ha l’impressione per contro che il programma che ricopre la facciata sia in certo modo la trasposizione di uno spartito interno completo, che riepiloga quello della chiesa intera. Ad esso non corrisponde un ricco e denso programma interno o come minimo quest’ultimo sarà di tutt’altra natura; a Poitiers, per esempio, sulle volte dell’abside di Notre-Dame-la-Grande una decorazione ad affresco sviluppa ciò che non sarebbe stato visibile nelle parti alte della facciata. Questo programma interno dà spazio alle gerarchie angeliche e al Cristo troneggiante nella sua gloria, al modo bizantino, mentre la Vergine occupa la posizione di spicco all’esterno.

Andando ancora avanti nel sud della Linguadoca, ovverosia avvicinandoci alle montagne, la disposizione puramente interiore diventa predominante, nonostante l’originalità dei portali, per esempio nel Béarn (basti come esempio il portale di Oloron con il timpano diviso a sua volta da un doppio timpano). Nel nord della Spagna, poi, troviamo di nuovo una disposizione simile a quella della Linguadoca – accostamento, questo, che è stato fatto anche a proposito della scultura propriamente detta, sia sotto il profilo della fattura che sotto quello della iconografia (Gaillard). La disposizione avrà tuttavia un carattere più interno che in Linguadoca, giacché la Spagna è per eccellenza il paese delle cappelle-nartece (Cámara Santa di Oviedo, Panteón de los Reyes di León, ecc.), e vi si troverà perfino una disposizione interna interessante la navata, se non l’abside, esattamente al contrario del sud est francese.

Egitto e Mesopotamia

L’edificio cristiano s’è formato principalmente nelle zone del Vicino Oriente, anche se poi l’Occidente, per ragioni di comodità, ha optato per la basilica romana. Non c’é nulla di strano quindi, che si siano adattate alla nuova religione le cupole dei mausolei, i triconchi imperiali (il Cristo, nell’orbita bizantina, eredita addirittura alcuni simboli imperiali), le absidi iraniane dei templi del fuoco, l’accuratissima orientazione dei santuari egiziani, l’arcata che ricorda la porta gigantesca dei templi-montagne mesopotamici, e infine la colonna ellenistica: tutto quanto c’era di più bello e di più carico di significati negli antichi edifici è stato ripreso e restituito a nuova vita. In maniera analoga, Leroi-Gourhan nota che, per noi, quei templi remotissimi che sono le grotte preistoriche restano sorprendentemente simili a se stessi nel corso dei millenni – il che naturalmente non vuol dire che il pensiero non si evolva né che dogmi e riti restino immutati attraverso le epoche. Passando al setaccio queste multiformi contaminazioni del passato e della decorazione antica, è addirittura agevole far risalire, con l’aiuto dei tipi di disposizione più correnti, absidale o anteriore, un qualche riflesso di certi santuari naturali: dopo tutto, le antiche religioni imitate dall’Egitto e dalla Mesopotamia non erano forse religioni naturiste?

Come si sa, i santuari mesopotamici erano in generale dei templi-montagne; le loro proporzioni immense non consentivano di sistemare ai diversi piani dello ziggurath una ricca decorazione che potesse essere esposta alla vista del popolo; a loro volta l’altare o l’osservatorio erano collocati sulla cima, perché solo gli iniziati, sacerdoti o re, avevano il diritto di contemplare le immagini divine. In compenso le facciate, le porte o gli ingressi, presentavano una vasta decorazione profana. È il caso soprattutto dei palazzi assiri dei quali sfingi e leoni proteggevano simbolicamente la soglia. Né meno numerose erano le figure di guardia, sfingi o geni cinocefali, all’entrata dei templi egiziani anch’essi vietati al popolo; solo che qui la disposizione, assai prossima a quella della grotta, permetteva di disporre una decorazione d’una estrema ricchezza che investiva l’insieme del santuario, arrestandosi sempre più in prossimità della cella, dove la divinità veniva quotidianamente resuscitata e rivivificata, in teoria dal faraone, di fatto dai sacerdoti.

Questo impregnamento continuo dell’Occidente da parte dell’Oriente doveva far sì che influenze orientali vive e profonde si manifestassero nelle regioni che sarebbero state teatro della rinascita della scultura; fu là che fecero la loro comparsa, in un modo che ancora oggi c’impressiona profondamente, due tipi di disposizione, opposti e complementari, strettamente, sorprendentemente imparentati con quanto abbiamo fin qui descritto per sommi capi. Benché costruita secondo il tipico piano delle chiese «di pellegrinaggio», in cui l’importanza maggiore è riservata alla parte absidale, la basilica di Saint-Sernin a Tolosa non presenta alcun programma scultoreo nell’abside. L’accento è posto decisamente sulla disposizione anteriore e l’abside perciò rimane nuda: il pensiero simbolico sembra rifugiarsi per intero sulla fronte dell’altare maggiore – il modello più perfetto del quale è rappresentato proprio da quello della chiesa in questione. Oppure sul ciborio che lo ricopre: celebre fra tutti quello di Cuxa. Al contrario, l’importanza dell’abside esplode letteralmente nella regione del Forez-Velay. Né certo può essere trascurato il grandioso programma di Ainay, ispirato anch’esso dalle absidi copte. Tutti i santuari della regione lionese, anche i più umili, presentano, come fa osservare C. Jullian, una straordinaria ricchezza nell’abside.

Se nelle diverse trattazioni della presente opera, a proposito dei temi affrontati, differenziamo l’aspetto che essi presentano in quelle che chiamiamo rispettivamente zona egiziana e zona mesopotamica, è perché influenze precise di queste due tradizioni prebibliche possono essere rilevate in zone infinitamente più vaste, che toccano la Francia più o meno di sbieco: la Francia sud orientale, a partire dall’Italia, e la Francia sud occidentale, a partire dalla Spagna. Lo stesso portale cluniacense che appartiene all’insieme sud orientale, Provenza compresa, può ricollegarsi alla disposizione absidale che sopravvive soprattutto nelle regioni della media Loira, mentre d’altra parte c’è una evidente parentela di programma fra i portali a portico, le cappelle-nartece e le facciate della Francia atlantica, dal momento che sia quelli che queste si richiamano indiscutibilmente alla moda, sorta d’improvviso poco dopo l’anno mille e rapidamente diffusasi, delle Apocalissi di Beato di Libana, con le conseguenti imitazioni della Città cubica e della visione cosmica bizantina legata al tema della montagna.

Non è affatto strano che il principio dell’orientazione delle chiese sia debitore in grandissima parte alla influenza egiziana: esisteva già, di fatto, in certi santuari dell’antico Egitto, l’uso di illuminare direttamente con la luce del sole, in determinati periodi dell’anno, la statua del dio custodita nella cella, e il Nilsen ha potuto dimostrare che la stessa cosa avveniva nelle antiche chiese cristiane, dove ci si sforzava di far coincidere la festa del santo locale con l’illuminazione, mediante un raggio di sole, della sua reliquia contenuta nell’altare. Senza dubbio, la differenza fondamentale fra i santuari tradizionali e la chiesa cristiana è data dal fatto che quest’ultima è aperta a tutti, mentre invece l’antico santuario era chiuso: in esso era infatti la temibile dimora del dio, e solo quelli ch’erano al suo servizio avevano il diritto di penetrarvi. Eppure questa tradizionale tendenza alla chiusura non scomparirà completamente dalla chiesa cristiana; la chiusura dell’abside sacra, che ha lo scopo di accrescerne il mistero e di suscitare un reverenziale timore, s’inserisce nella logica della disposizione anteriore tipica della zona egiziana: i primitivi «cancelli», sorta di sipari che venivano tesi intorno al presbiterio, per impedire la comunione eucaristica a coloro che non potevano o non volevano parteciparvi, e che sarebbero diventati più tardi «pontili» (o jubés), non faranno che perpetuarne la tradizione. Nella disposizione bizantina, per lo meno dopo il trionfo del culto delle icone, questa chiusura sarà ancora più radicale con l’iconostasi, sbarramento autentico e fisso, che con molta probabilità era già presente nelle antiche chiese, ricoperto d’immagini sacre, la cui contemplazione doveva tenere occupati i fedeli durante lo svolgimento del rito del sacrificio. Nella liturgia bizantina, inoltre, esisteva la «processione della porta», cerimonia essenziale del rito della «dedicazione».

Esaminiamo ora alcuni aspetti più significativi della disposizione copta. Tutti conoscono l’importanza del tema doppio di Bawit: le piccole cappelle copte denotano una disposizione di affreschi preromanici, aventi programmi diversi nelle navate laterali e sulle pareti secondo una progressione, nella quale il tema più importante – non sempre lo stesso, ma generalmente di carattere solare – è posto nell’abside: così il carro, per esempio di Elia ed Eliseo, il Cristo fra il sole e la luna, ecc. Appare evidente una diffusa mescolanza di temi pagani e temi cristiani: ecco infatti la Sibilla che si mescola con le Virtù fra i medaglioni dell’arco trionfale, ecco il graffito di Bawit col cervo inseguito dal leone, ecco la sirena di Ahnas, ecco il san Giorgio che schiaccia i mostri, identico a Horo, su un affresco delle catacombe di Alessandria. Fra questi temi delle absidi o dei timpani che trionferanno poi sulle icone, occorre citare la Vergine che allatta il Bambino: la troviamo su un affresco in un’abside-cripta di Montjmorillon e su un altro in una cappella di Le Puy. E. Mâle segnala un angelo dalle ampie ali che porta con reverenza sulle mani velate delle piccole anime da presentare a Dio: un bel motivo che è stato riprodotto con grazia squisita da uno degli scultori del Giudizio universale nella Cattedrale di Reims. Per avere conferma della grande importanza attribuita alle absidi, basta pensare che alcune grandi chiese, come quella di San Saba sulla laguna Mareotis, ne possedevano due contrapposte e che altre disponevano addirittura del triconco imperiale. Sugli architravi degli ingressi si vede frequentemente una «immagine circolare», un cerchio sorretto da angeli, a imitazione dell’antico disco solare alato; il primo timpano segnalato da E. Mâle è copto. In una catacomba di Alessandria si trova invece il modello di un altro motivo, egualmente centrato, secondo la disposizione degli antichi affreschi egiziani (così com’è indicata da Badawui), con un personaggio centrale di statura maggiore: è il tema del timpano di Valence, dominato dal Cristo della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Troviamo in questi affreschi la prima rappresentazione dell’Inferno, col dannato che bolle entro una marmitta – tema che sarà sviluppato non senza qualche truculenza dall’arte gotica. Una disposizione d’insieme appare a volte iscritta all’esterno delle grandi chiese mediante dei fregi continui formati da cerchi inseriti in trecce di nastri: si tratta di medaglioni con motivi simbolici, di origine siriana. Tutto un repertorio interno, ispirato dal Physiologus alessandrino, la cui diffusione sarà enorme nell’arte romanica, si trova in germe in un affresco che mostra san Sisinnio, paludato da cavaliere come san Giorgio, intento a schiacciare i vizi, raffigurati rispettivamente come un pidocchio, uno scorpione, un serpente doppio, un centauro e una sirena. Gli affreschi delle cupole nelle cappelle funerarie della Grande Oasi di Bagauat, a occidente dell’antica Diospoli-Tebe, presentano una sapiente disposizione imperniata sulla figura della Vergine; vi si scorge il tema della Conversazione mistica, ereditato anch’esso dall’Antichità, con santa Tecla su una seggiola a croce di san’Andrea come quella della Vergine a Cunault, nonché la contrapposizione simmetrica di Eva a Maria e di Adamo al Cristo. Si sa d’altronde che lo spirito tipologico è stato attinto al giudaismo alessandrino (Filone), per conto del cristianesimo, ad opera dell’egiziano Origene il quale, come già il suo predecessore Clemente di Alessandria, ha saputo trasporre lo spirito dei geroglifici nella nuova iconografia. Il cerchio solare ocellato, geroglifico egiziano, lo si può qui vedere al centro, circondato da un pentacolo, disegnato a sua volta dalla vigna mistica. Questi motivi che mettono insieme paganesimo e cristianesimo si sono propagati grazie specialmente ai tessuti copti, la cui produzione non ha conosciuto interruzioni, mentre i motivi stessi passavano dal paganesimo al cristianesimo – non diversamente da ciò che avveniva per gli avori (vedi la cattedra di Massimiano a Ravenna con la storia di Giuseppe) e per l’oreficeria (vedi il calice cosiddetto di Antiochia).

Veniamo ora a qualche esempio della disposizione opposta, quella mesopotamica.

Indipendentemente dallo straordinario interesse che senza dubbio suscitano, non si può certo riconoscere altrettanta ricchezza simbolica di disposizione negli affreschi rupestri della Cappadocia; qui, ciascun anacoreta ha iscritto un certo numero di scene narrative prese in prestito dal Nuovo Testamento secondo un ordine cronologico, a simiglianza degli evangelari tipici della zona siro-palestinese; l’intento simbolico non risulta così apparente, né certo la disposizione poteva essere altrettanto diligente e precisa in ambienti sotterranei così ristretti. Gli affreschi dell’Asia Minore non esitano a rappresentare i supplizi dei santi in tutta la loro terrificante realtà. Il vescovo Asterio di Amasea, per esempio, parla del Martirio di Santa Eufemia dipinto nella grande chiesa di Calcedonia e san Gregorio di Nissa ci informa che nella chiesa di Euchaita, dove era sepolto san Teodoro, c’erano affreschi che rappresentavano la storia del suo martirio. È in questa stessa regione che è stato inventato, secondo quanto afferma san Giovanni Crisostomo, il tema del santo portatore della propria testa tagliata – pegno per «tutto ottenere dal re del cielo» –, destinato a incontrare notevole fortuna. Contrariamente alla disposizione in profondità con due cori posti l’uno dirimpetto all’altro o con tribune dalle quali era possibile contemplare l’abside, come a San Mennas, in Egitto, le chiese siriane e mesopotamiche nella loro maggioranza presentano un piano centrale e contribuiscono così all’affermazione della formula che doveva poi prevalere a Bisanzio. E il caso, in particolare, degli heroa, edifici destinati al culto dei martiri. Il loro piano si ispira sovente alla croce greca; basta pensare alla celebre grande chiesa di San Simeone Stilita, oggetto di un pellegrinaggio non meno frequentato di quella di San Mennas in Egitto.

Degno certamente di nota è il fatto che nei canoni degli evangelari egiziani, costantemente citati a proposito dei piedritti di Moissac e Souillac, con i loro grovigli di animali, sono le colonne quelle che richiamano tutta l’attenzione, non i timpani, che non presentano alcuna decorazione. Mentre infatti il timpano propriamente detto è nato nell’Egitto copto, quella che invece ha svolto un ruolo immenso in Siria ai fini della creazione di un repertorio decorativo estremamente elementare e portatore di remote tradizioni risalenti all’arte decorativa della Persia, dell’Assiria, perfino dell’antica Mesopotamia, è la decorazione degli architravi o dei piedritti – quindi degli elementi che delineano il quadrato, mentre il timpano è una derivazione del cerchio. Uno dei più famosi complessi che prefigurano la grammatica ornamentale romanica e che sono decorati di motivi esterni è il misterioso palazzo di M’chatta, con i suoi racemi di vite stilizzati, coi suoi animali posti faccia a faccia ai due lati di un vaso, col suo parato ornamentale in filigrana d’una straordinaria ricchezza che ricopre l’intera superficie del muro esterno. Fra i motivi della decorazione di questi ingressi troviamo la stella a sei punte già riprodotta sulla soglia di un palazzo di Ninive, frequente in Persia, in Lidia, in Fenicia, e che sarà fatta propria più tardi dagli Arabi. Oppure la margherita dei monumenti assiri, nel palazzo di Ninive, posta a separare due geni alati. L’elica del sole rotante, originaria della Fenicia, è soprattutto frequente sugli architravi della regione di Antiochia (Mudjeleia). La treccia, ovvero successione di motivi circolari disegnati da nastri incrociati, è anch’essa un motivo presente su questi architravi: all’interno degli avvolgimenti dei nastri si scorgono i motivi circolari di cui si parlava poc’anzi; la treccia compare inizialmente sui cilindri caldei. L’albero a palmette è un’eredità dell’hom iraniano. Si trova inoltre su questi ingressi il motivo del cuore, del quale è nota la diffusione avuta nell’arte romanica, precisamente in zona mesopotamica.

Abbiamo già citato per l’Egitto copto diverse formule architettoniche che attestano la fecondità della creazione nel campo delle absidi; potremmo citare un parallelo nell’Oriente mesopotamico. Uno dei piani che ha avuto la sua influenza nella disposizione anteriore romanica è quello delle «tre navate», detto «cappadociano», caratteristico del Poitou: lo stesso dicasi per le due torri ai lati dell’entrata che ritroviamo a Tourmanin e a Saint-Nectaire. Ma di tutti i temi cruciali che distingueranno le due zone e che renderanno possibili due disposizioni differenti, sono gli animali che si ricollegano in maniera più evidente a queste due tradizioni: da una parte il leone di Cibele, vinto da Gilgamesh, e i leoni che già difendono i templi di Ur; dall’altra il serpente, l’uraeus che orna la fronte del Faraone, il serpente del disco alato, incarnazione degli dei dopo la loro sparizione, il Tifone vinto da Osiride, ecc. Si vede chiaramente come il leone di difesa si leghi normalmente alla disposizione anteriore, mentre il serpente, associato come tale al cerchio, si collega alla disposizione in profondità, al cerchio magico.

Da ultimo, mentre gli dei egiziani sono estremamente differenziati e caratterizzati dalla loro maschera animale, gli dei mesopotamici sono spesso sostituiti dai loro simboli o comunque mal definiti. È la disposizione della grotta che porta a questa immagine, bisognosa di essere resuscitata quotidianamente e che dev’essere resa viva; la disposizione della montagna tende alla non-rappresentazione ebraica. In Mesopotamia si è portati a moltiplicare gli intermediari che separano l’uomo da Dio. Nelle scene di «presentazione al dio» vediamo sempre interporsi un intermediario, prefigurazione degli angeli, e tutti sanno che è in Asia Minore che compare la loro gerarchia diligentemente spiegata dallo pseudo Dionigi l’Aeropagita. Il tema delle squame romaniche che caratterizza la zona mesopotamica era, nel suo paese d’origine, una maniera di simboleggiare la montagna sotto i piedi delle divinità. Dei e geni dalle gambe incrociate costituiscono a loro volta uno di quei temi ambigui ch’è dato d’incontrare frequentemente nelle allegorie di questa zona.

Ma vediamo di riassumere. Attraverso questi apporti divergenti, attraverso queste disposizioni opposte e complementari che vanno affermandosi nelle due zone, movendo dalle rispettive fonti bisogna pure tener conto della reviviscenza oscura o palese degli elementi naturali, così importanti in qualsiasi tradizione: la grotta e la montagna. La disposizione egiziana, o copta, si identifica con la grotta sacra, in cui il Cristo, secondo l’iconografia bizantina e siriana, sarebbe nato; l’altro tipo di disposizione s’innesta invece nella logica della montagna degli antichi ziggurat, montagna sulla cui cima è posta la Città, secondo l’Apocalisse, destinata a rivelarsi solo alla fine dei tempi e sulla quale l’arca di Noé si è già posata.

Grotta e montagna svolgono un ruolo che non manca di sorprendere, in epoca romanica: ci riferiamo ai più venerati santuari dedicati all’Arcangelo Michele. Quello del Gargano, che è fra le più celebri mete di pellegrinaggio, quello del monte Gauro presso Sorrento, lo stesso Castel Sant’Angelo a Roma, e poi il Mont-Saint-Michel normanno, l’Aiguilhe di Le Puy, il san Michele della Chiusa, sulla strada della valle di Susa, nelle Alpi piemontesi, Rocamadour infine, sono tutti concepiti come delle grotte scavate in cima a delle alture sacre. L’unione di questi due elementi di per sé contrastanti – e come tali indicanti il Cielo e la Terra – finisce con l’avvantaggiarsi enormemente della particolare predilezione che circonda qualsiasi «congiunzione di contrari». Il perdurare dell’iconografia egiziana si lega tanto alla psicostasia dell’arcangelo, erede di Thot – l’uccello ibis –, quanto all’assimilazione del Cristo al Sole di Giustizia. Grazie al giuoco dei contrasti, l’oscurità della grotta, al pari di quella dell’abside, è propizia alle fantasie della luce misteriosa che viene a rischiarare la reliquia o l’immagine che ivi ha stanza; il meccanismo è identico a quello delle religioni misteriche. La disposizione mesopotamica insiste soprattutto sui tabù, sugli elementi doppi che proteggono la montagna sacra.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 113-118

Leone: il leone e il drago

Sezione: Lessico


Un’associazione o una opposizione costante fra questo animale e questo mostro caratterizza il simbolismo romanico, ispirato dall’Apocalisse. Alla radice del contrasto instauratosi fra i due sembra essere, fra l’altro, una frase di san Cesario di Arles: «È meglio essere vittima del leone che vittima del serpente». Leggendo fra le righe, bisogna interpretarla come un’affermazione della natura androfaga del leone, nel senso che questi ha solamente il potere di divorare la carne al momento della morte, come molti testi e molte figurazioni ci confermano. La carne infatti il leone la dovrà restituire nel giorno del giudizio, mentre invece il demonio, gola dell’inferno, i peccatori li ingoia e li rinserra per l’eternità. Dice del resto san Matteo (X, 28): «Non temete coloro che uccidono il corpo, ma che non possono uccidere l’anima; temere piuttosto colui (Dio) che può mandare l’anima e il corpo nella geenna del fuoco!» Nel primo consiglio, l’allusione al mostro divoratore sembra abbastanza chiara, Se Dio ci abbandona, è evidentemente al potere del drago infernale che ci consegna.

W. Déonna ritiene, dal canto suo, che gli uomini alle prese con i mostri di Daniele sul secondo architrave di Beaulieu siano ispirati al testo apocalittico (XX, 13): «Il mare rese i morti che conteneva, mentre la morte e il mondo dei morti restituirono i loro, e furono giudicati ciascuno secondo le loro opere». A me sembra invece che i veri leoni romanici di Beaulieu, così come i draghi d’altronde, siano piuttosto da ravvisare nei mostri del primo architrave; sono questi i prescelti a rappresentare gli animali distruggitori, gli stessi di Ap. XI, 17-19: cavalli che «avevano teste simili a quelle dei leoni e dalla cui bocca usciva fuoco, fumo e zolfo», che seminavano morte fra gli uomini; «infatti», precisa l’evangelista, «il potere dei cavalli sta nelle loro bocche e nelle loro code, giacché le loro code sono simili a serpenti con teste umane ed è per mezzo di queste che fanno del male». Ma anche locuste che, «a vederle, parevano cavalli preparati per la guerra…, e le loro facce erano come volti umani. Esse avevano capelli simili a quelli delle donne e i denti come i leoni… Avevano le code come quelle degli scorpioni, irte di pungiglioni, e nelle code il potere di nuocere agli uomini per cinque mesi» (Ap. IX, 7-10). Animali del genere non erano facili a rappresentarsi, in particolare la bestia a sette teste di Ap. XII, 3, ma sembra evidente che era soprattutto il leone a costituire per queste figurazioni un denominatore comune, tanto più che s’avevano a disposizione innumerevoli passi dei salmi, qualcuno dei quali lo abbiamo citato anche noi, che parlavano apertamente dei leoni come di nemici spaventosi. Ad ogni buon conto, i cavalli con testa di leone compaiono negli affreschi di Brioude, le locuste a Vézelay e il mostro con sette teste a Beaulieu. Una caratteristica, inoltre, accomuna questi animali e giustifica la ripugnanza per essi da parte di san Cesario: il ruolo più terrificante assegnato alla coda di serpente che alla testa di leone.

L’associazione leone-drago con significato nefasto ha un altro punto di partenza nel salmo 90,13:

Tu camminerai sull’aspide e sulla vipera,
e schiaccerai sotto i tuoi piedi
il leoncello e il drago.

Proprio questo versetto ha ispirato un affresco delle catacombe di Alessandria (sec. IV), nel quale si vede il Cristo vincitore di questi mostri, affiancato dal dio Horos alle prese con dei coccodrilli e nella medesima positura. È arcinota, in ogni caso, la rappresentazione famosa sul trumeau della cattedrale di Amiens, dove il «Beau Dieu» calpesta i quarto mostri.

a) Programmi storici

L’associazione di questi due mostri, collegata ai testi sopra citati, può entrare anche in programmi di carattere storico, quando vi domina l’idea apocalittica. Per esempio quando contrappone la sconfitta finale del serpente, simbolo della morte, alla sua iniziale vittoria in occasione della colpa dei nostri progenitori narrata dalla Genesi, o ancora quando si contrappone la lotta contro il serpente all’accostamento dei due animali, o meglio del leone maschio al grifone femmina, che, come la coppia del «dragone azzurro» e della «tigre bianca» alla quale è affidata in Cina la direzione dell’universo sembra esprimere l’idea della ierogamia, delle reiterazioni.

Il contrasto invece lo troviamo ad Ainay. Come si sa, sui due pilastri della campata del coro è rappresentata una sene di temi in cui si mescolano Antico Testamento e Apocalisse, ma che nell’insieme sembra una variante del tema doppio, tipico dell’area copta. Un particolare, fra l’altro, conferma tale sorgente: tre fregi, tutti e tre posti entro delle cornici formate da animali messi in fila, in coppia o isolati, esprimono l’idea delle tappe, delle virtù teologali. Il leone, incantato da Orfeo o da Davide, si trova dallo stesso lato della speranza, insieme con l’ancora. il drago invece precede il cervo e il pesce, ed è seguito dal battesimo per immersione; l’insieme vuoi porre l’accento sull’elemento acqua, sui valori umani, e si trova dalla parte del fregio che addita l’ordine della fede. Se poi ci si riferisce ai temi dei pilastri, ci si accorge che il leone e la speranza sono messi in relazione, sul lato dell’epistola, a destra, con la Vergine dell’Annunciazione, simbolo anch’essa della speranza; la Vergine, infatti, come ricordano i timpani di Neuilly-en-Donjon (Allier) e di Anzy-le-Duc (Saône-et-Loire), riscatta la colpa di Eva, ed è per questo che le scene della Genesi si trovano sulla faccia laterale. Essa prepara in pari tempo la venuta del Cristo del Ritorno finale sotto forma di Tetramorfo, e il significato del tema doppio sta proprio in questo ritorno. Drago e Battesimo si presentano, non meno logicamente, dalla parte del vangelo, sul lato nord, associate ad alcune allusioni più precise all’Apocalisse (san Michele vittorioso sul drago), all’Antica Alleanza (ciclo di Caino e Abele che mette in mostra il contrasto fra l’eletto e il dannato) e all’ultimo dei Profeti, il Battista. È noto, del resto, che secondo le regole liturgiche il battistero o la cappella del fonte battesimale dovevano essere collocati sul fianco nord della chiesa, perché il nord è la regione delle tenebre, nelle quali sono ancora immersi i catecumeni, coloro che non si sono ancora purificati col battesimo. Il programma risulta così d’una magnifica coerenza, in asse, da un lato, col dragone del peccato, della morte del corpo perituro, e dall’altro col leone della resurrezione, della speranza, della vita eterna, ecc. Benché la loro lotta non sia rappresentata, è facile indovinare la vittoria finale del secondo.

Un pensiero analogo governa l’insieme dei capitelli della crociera e delle due absidiole di Aulnay-de Saintonge (Charente-Maritime), dove questo contrasto appare ancora più significativo per il fatto che ad esso corrisponde l’altro contrasto, quello degli eletti e dei dannati, esposto sulla finestra assiale esterna dai personaggi inseriti fra le spirali delle quattro S, ma anche sui modiglioni, e soprattutto sull’intero paramento scultoreo della porta meridionale: si è ottenuta così una stretta coerenza fra l’interno e l’esterno dell’edificio. Gli uomini col leone stanno a nord e sono: Sansone col leone di Thimna (?), Daniele coi suoi leoni, Sansone e Dalila; ad essi si contrappongono Adamo ed Eva col loro serpente. Sono loro a preparare l’avvento della Città celeste, sintetizzato dai quattro Animali, dai due uomini abbracciati nei quali si riconoscono gli apostoli Pietro e Paolo, e infine dalla vittoria di san Giorgio sul drago. Vi si scorgono anche i quattro temperamenti umani, dei quali l’uomo col leone rappresenta quello più nobile. A sud c’è poi la porta famosa, con il capitello degli elefanti, che completa l’opposizione fra eletti e dannati, fra Abele e Caino, e con le sue maschere lunari, con i suoi uccelli in barca, con i dannati, coi demoni che si stanno portando via quattro dannati, ecc. E qui che dominano i serpenti: draghi avvinghiati fra loro, asini alle prese col semente, e così via. All’esterno, nella zona absidale, le cose s’invertono di nuovo; i personaggi sugli stipiti della finestra assiale sono incastrati in vario modo entro una serie di anelli formati da volute di racemi, e quelli che corrispondono all’ordine della terra, sulla sinistra, si trovano dalla parte di san Michele che pesa le anime degli eroi biblici, Sansone e Daniele, alle prese coi rispettivi leoni: cioè a sud. A destra, viceversa, ovverosia sul lato nord, compaiono degli uomini portati al cielo da aquile, o comunque da uccelli, e un’altra volta la vittoria di san Giorgio contro il drago. La stessa contrapposizione si rincontra a Varaize, nelle mensole del coro.

b) Programmi morali

I programmi precedenti iscrivono leone e drago in una prospettiva storica, in quanto evocano sia la continuità del tempo, sia la fine di tutti i tempi. Nonostante ciò, gli animali non hanno solo un significato apocalittico o cosmico in relazione con le costellazioni; hanno anche un significato morale. Ci restano perciò da vedere dei programmi iconografici che mettano in risalto le relazioni fra questi due mostri nel significato di contrasto, al quale abbiamo già accennato con l’aiuto di san Cesario e di san Matteo: in funzione, cioè, di un discorso morale.

Già nei programmi precedenti, tuttavia, si poteva intravvedere, ad Ainay per esempio, come il discorso morale facesse capolino, presentandosi sotto forma di riflessione aggiuntiva ternaria che inevitabilmente veniva a complicare la semplice contrapposizione binaria fra i due animali: come riflessione, vogliamo dire, sulle tappe dell’esistenza. Tale differenziazione distingueva da tutti gli altri un programma tipicamente appartenente alla zona egiziana. In questi programmi morali, Rozier-Côtes d’Auree, che non è meno caratteristica di questa zona, mostra l’incidenza esercitata dalla medesima riflessione.

Ciascun programma, infatti, ha qui ancora la propria specificità. In contrasto col ritmo ternario delle immagini dell’abside, i temi vanno a gruppi di quattro, nella navata di Anzy-le-Duc, e i numeri Tre e Quattro sono in accordo con le proporzioni scelte per la struttura architettonica dell’edificio. I rapporti dell’uomo col leone sono raffigurati, da soli, sul lato sud: si tratta del combattimento di Eracle, immagine dell’incarnazione o della Giovinezza, scolpito su un capitello a soggetto storico e cosmico che intende mettere in mostra anche i popoli della terra, e dei leoni con teste umane, che rappresentano la morte (cfr. LEONI DISTRUTTORI E ANDROFAGI), ecc. Il vero programma morale si presenta invece sul lato nord; due capitelli nei pressi dell’entrata, da mettere in rapporto con quello appena citato perché collocati allo stesso livello, contrappongono, sotto le sembianze degli eroi cristiani o biblici, il falso Daniele e Sansone-Daniele nudo e in atteggiamento meditativo accoccolato fra i suoi leoni, Sansone, per contro, vestito e in atto di attaccare il leone alle spalle per vincerlo meglio –, all’eroe pagano che sembra, a sua volta, dominato dalla bestia.

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Sempre in parallelo col capitello meridionale della morte, la speranza cristiana è sintetizzata da altri due capitelli: uno, da una parte, sul quale si vede il cristiano che come un acrobata sopraffatto dal doppio dragone accetta la morte della carne, l’altro, dalla parte opposta, sul quale il dragone è finalmente sconfitto l’ultimo giorno per l’intervento dell’arcangelo Michele. I quattro capitelli suddetti illustrano quindi, letteralmente, la frase di san Cesario: affrontate il leone, se non volete essere abbandonati alle spire del drago, cioè all’inferno.

Un’idea non dissimile si trova espressa a Rozier-d’Aurec secondo un ritmo ternario; ad Anzy si poteva pensare a un rapporto con le quattro virtù cardinali, qui bisogna invece vedere le virtù teologali, o le tappe della vita, come ad Ainay. L’uomo vittima della belva appare in una rappresentazione dell’androfago, cioè della morte secondo la concezione celtica: il leone è rimpiazzato dal lupo, animale tipico di tale tradizione. La testa dell’uomo fra il lupo ululante e il personaggio ignudo del secondo capitello vuole esprimere l’idea della testa che sopravvive alla decomposizione del corpo, collegata all’esaltazione della maschera umana, caratteristica anch’essa della civiltà celtica. L’uomo vestito, infine, che sale al cielo, circondato dal disco gallico e dal triangolo pitagorico, reggendo in mano la borsa, è l’uomo che ha preso su di sé la nuova carne della vita eterna. In altra pane di questo libro è detto ben chiaro, del resto, che tutti i numeri pitagorici possono essere espressi in modi diversi, soprattutto con l’ausilio di simboli vegetali. Qui inoltre non è più la fiera ad accompagnare il defunto alla sua dimora eterna, bensì il serpente gallico, dotato d’ali e di corna, simbolo anch’esso della resurrezione. E se anche l’alternativa posta da san Cesario rimane sempre valida, giacché l’uomo in preghiera dà la sensazione di volere sfuggire al dragone, in realtà lo spirito del contrasto leone-drago è quanto meno profondamente modificato, in relazione col significato diverso che viene dato al serpente nella zona egiziana. L’uomo non è più come ad Ainay la vittima del doppio serpente: ne è diventato l’alleato, si potrebbe dire. Il ritmo ternario deve comunque essere collegato ai tre giorni trascorsi da Cristo nel sepolcro, alla triplice immersione del battesimo primitivo o alla triplice aspersione del battesimo attuale nel nome della Santissima Trinità: il battesimo non è infatti che una morte simbolica, e una resurrezione altrettanto simbolica, non molto dissimile dalle iniziazioni primitive. Esso però si ispira pure all’importanza estrema che i Celti attribuivano al numero Tre.

Nella cripta di Hagetmau, il ritmo dualistico è tipico della zona mesopotamica e s’inserisce in un contesto apocalittico che ricorda i due architravi sovrapposti di Beaulieu – però è anche evidente la presenza di una riflessione morale; l’uomo alle prese col leone rappresenta anche qui i vizi della carne come tutti gli uomini col leone. Due uomini infatti, stanno scaraventando le vittime ignude entro le fauci dei mostri; per contro, sull’altra faccia del capitello, un personaggio vestito ne tira fuori altri due da altrettante fauci, afferrandoli pei capelli: esso incarna la speranza cristiana, la vittoria dell’asceta sui peccati corporali. Sul capitello accanto, poi, più vicino al fondo della cripta, degli uomini che indossano tuniche folte di panneggi lottano a colpi di spada contro degli uccelli orrendi, con teste di drago, assai simili a basilischi: la loro è la vittoria sui peccati dello spirito, secondo le norme di un leitmotiv insito nel pensiero romanico.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 186-189

Nastri: il nastro perlato o liscio

Sezione: Lessico


I programmi iconografici del Roussillon presentano elementi sia dell’una che dell’altra zona: ciò è particolarmente vero per il programma apocalittico dell’ultimo pilastro di Elne, nel quale è contemporaneamente presente un simbolismo numerico. I nastri doppi appaiono annodati e incrociati con dei nastri semplici, nella parte superiore, in accordo con una figurazione di soggetto, come si è già detto, apocalittico, rappresentata sempre da immagini di animali in posizioni diverse, inseriti all’interno di cerchi formati da altri nastri. Questi ultimi sono alternativamente doppi o semplici, dal basso verso l’alto, in modo da indicare il passaggio dai valori doppi, ovverosia dalla vita terrena, all’unità, che è invece celeste ed evoca l’ordine nuovo.

Il leone e il drago che si voltano la schiena rappresentano gli ultimi assalti del maligno, di cui parla l’Apocalisse; come i pavoni che si fronteggiano, simboli del Paradiso restaurato, si ispirano ai disegni delle stoffe bizantine.

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A trasformare simbolicamente il nastro doppio in un nastro semplice sono la zampa sinistra del drago e la zampa destra del leone. Il drago, essendo più vicino ai valori di fecondità, in quanto volge il dorso verso il cielo simboleggiato dai pavoni, posa la zampa sul nastro doppio nella parte inferiore; gli sono associate due palmette ricurve e contrapposte. Queste ultime, avendo insito un simbolismo numerico (quattro palme in alto, tre in basso), sembrano anch’esse ostacolare l’ordine della Redenzione, poiché lo stelo da cui esse si staccano è liscio, mentre i nastri sono nell’insieme come striati da file di perle quadrate. La stessa cosa non succede invece per la palmetta unica che piega verso il basso dal lato del leone. Le palmette doppie disegnano questa volta una S – la S della salvezza – a otto foglie (Otto = Vita futura) e sono collocare là dove i pavoni si fronteggiano; la palmetta unica è ora girata verso l’alto e assolcata a una pigna (il frutto, l’eternità) e al pavone femmina di destra. Da questa parte, al livello superiore, i quadratini all’interno del nastro diventano perle perfettamente rotonde. Nell’insieme del programma, si distinguono, come ad Ainay, le tappe della vita. Se san Pietro evoca la Fede redentrice con lo sconfiggere Simon Mago sul capitello del pilastro precedente, Leone e Drago sembrano invece simboleggiare la Speranza, l’ordine intermedio; sul loro abaco infatti si legge: Ecce salutare pariter fratres habitare; a tutto ciò rispondono infine i pavoni con l’iscrizione dell’altro abaco – Ecce quam bonum et quam jocundum habitare fratres in unum –, che evoca la Carità. Ci troviamo di fronte a qualcosa di equivalente ai tre soggetti terminali della navata di Anzy-le-Duc e alle figure della tavola II di Villard de Honnecourt.

Nel paramento scultoreo della facciata di Angoulême si può cogliere il passaggio dal nastro liscio al nastro perlato in maniera piuttosto singolare: dieci personaggi, dei quali si vede solo la testa, si presentano all’interno degli anelli formati dall’intrecciarsi di altrettanti nastri privi di ornamenti, ai piedi del Cristo circondato dal Tetramorfo. Un Cristo, questo di Angoulême, che è al tempo stesso il Cristo dell’Ascensione, in quanto proprio nella fascia scolpita sottostante si vedono gli angeli che danno l’annuncio agli Apostoli: il numero Dieci evoca la pienezza, ma i nastri incrociati, anch’essi, come si è visto, in numero di dieci, significano la totalità delle anime in attesa del Giudizio. La stessa cosa ad Ainay, dove l’insieme degli esseri umani e degli animali avente significato simbolico – il dieci anche qui – e inteso a esprimere i vari comportamenti dell’uomo sembra, come nella dottrina di Origene sull’apocatastasi, sottoposto al Giudizio divino, alla protezione dell’Agnello. Gli uomini nel caso specifico sono separati in due gruppi di cinque, numero esoterico. Quanto invece ai personaggi entro i cerchi perlati, che sempre ad Angoulême fiancheggiano il Cristo centrale, alcuni di essi sono girati verso di lui e altri no, e rappresentano, al pari di una bilancia, coloro che si trovano in buona posizione, e ai quali è quindi già schiuso il Paradiso, e coloro che si trovano in una posizione meno buona, pei quali occorre verosimilmente un periodo di Purgatorio. L’allusione all’Inferno non sta a quest’altezza: è relegata nelle parti basse della facciata.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 208-209