Sezione: Lessico
Il Tre e il Quattro, che addizionati danno Sette e moltiplicati fanno Dodici, sono i numeri ai quali il Cristianesimo assegna il maggior numero di virtù. Nel pensiero di sant’Agostino essi esprimono rispettivamente lo spirito e la materia, l’anima e il corpo: «Numerus ternarius ad animam pertinet quaternarius ad corpus». Sommati o moltiplicati, designano l’unione dell’anima e del corpo nella creatura umana oppure la Chiesa universale.
Tre è il numero dell’anima. Esso corrisponde alla Trinità, ai giorni trascorsi da Cristo nel sepolcro, ai tre significati della Scrittura nella esegesi tipologica (significato storico, allegorico e morale), alle tre età del popolo ebreo. La Trinità è simboleggiata nell’Antico Testamento dai tre angeli alla mensa di Abramo. Tre patriarchi, nell’iconografia bizantina e a Saint-Gilles du Gard, accolgono nel loro grembo gli eletti al Paradiso.
Nella costruzione delle chiese, è alla Trinità che fanno allusione la triade delle absidi e i tre portali della facciata. Questa disposizione è pressoché generale; tuttavia bisogna eccettuare, nel cuore della zona mesopotamica, i casi significativi delle due porte meridionali di Saint-Sernin a Tolosa (porta dei Conti e porta Miégeville), di San Isidoro a León (porta dell’Agnello e porta del Perdono), i due portali riuniti della porta degli Orafi a Santiago de Compostela: non c’è dubbio – la cosa è troppo evidente – che in tali casi è la tendenza dualista tipica della zona ad avere il sopravvento.
Queste annotazioni sul tre vanno poi completate con quanto è detto altrove, su un piano generale, a proposito delle tappe della mistica o delle virtù teologali. Il Tre è in relazione stretta col rito del battesimo, rito per eccellenza iniziatico: si battezza infatti nel nome della Santissima Trinità e originariamente, prima che si riducesse la piscina battesimale alle dimensioni di una semplice vasca, il neofita veniva immerso in essa tre volte, per ricordare i tre giorni trascorsi fra la deposizione di Gesù nel sepolcro e la sua resurrezione. Si praticava inoltre la triplice exsufflatio, triplice esorcismo destinato a mettere in fuga il demonio. Collegata al tema cardinale della morte e della resurrezione, l’idea delle tappe – che vuoI dire anche vittoria sulla morte, giacché la carità non perirà mai – è, nell’iconografia battesimale, caratteristica della zona egiziana: basta pensare ai famosi battisteri provenzali. Un elemento architettonico, questo dei battisteri, che è parimenti importante nelle regioni fra Rodano e Loira.
Bisogna rapportare altresì il numero Tre a ciò che noi diciamo sul tema del triangolo. La forma più corrente e più importante che il triangolo assume nella zona mesopotamica è quella del cuore o della palmetta che imita il cuore; il triangolo-palmetta è diffusissimo in quest’area, specialmente sugli abachi dei capitelli. Il triangolo architettonico è invece riservato alla zona egiziana, nella forma dell’architrave a doppio spiovente, assai simile al frontone del tempio greco, ma anche in quella del campanile a piramide che ricorda il Monte primordiale dell’Antico Egitto o la Sfera celeste di Alessandria. Chiostri decorati solo su tre lati (Aix, Vienne), personaggi disposti a tre a tre sui piedritti (Le Puy, Vienne), allegorie tripartite, sono tutti particolari che dimostrano quale ricchezza di pensiero fosse attribuita al numero tre in questa zona.
Ma non meno vane e numerose sono le manifestazioni del Quattro simbolico. Quattro è il numero degli elementi (terra, aria, acqua e etere o fuoco), delle stagioni, dei fiumi del Paradiso (Fison, Geon, Eufrate e Tigri) che irrigano le quattro regioni della terra, degli umori che irrorano il corpo dell’uomo (sanguis, phlegma, cholera, melancholia) e che determinano i temperamenti, o complessioni, degli individui (sanguigno, linfatico, bilioso, nervoso). Le quattro lettere che compongono il nome di Adam, l’uomo per eccellenza, sono anche le iniziali dei quattro punti cardinali (anatolê, dysis, arto, mesêmbria). Quattro è altresì il numero degli Evangelisti, dei grandi Profeti, dei principali Padri della Chiesa, sia d’Oriente che d’Occidente, delle Virtù cardinali. E non basta: a tutti questi significati del Quattro bisogna aggiungere ancora quelli analizzati a proposito del Tetramorfo, del Cervo, dei Temperamenti.
Infine, come il Tre celeste era caratteristico, sul piano dell’architettura, nella zona egiziana, così lo è il Quattro nella zona mesopotamica. E, per esempio, la forma cubica, ereditata dalla descrizione apocalittica della Città celeste e da certe planimetrie paleocristiane e bizantine, quella che domina nelle regioni dell’ovest, precisamente nelle cappelle-nartece anteposte alle facciate; la disposizione anteriore, che attribuisce particolare importanza al quadrato della campata e a quello che delimita il portale visto come arco di trionfo, s’impone insieme col diffondersi delle figure leonine, isolate o assodate all’uomo, dinanzi alle entrate, a loro difesa. Per di più, è proprio in questa zona che nascono le nuove città a pianta rettangolare, le cosiddette hastides; e non è solo con le necessità militari che si spiega la loro forma; vi concorre anche una visuale mistica, in contrasto con quella che aveva predominato m precedenza e che aveva trovato espressione nel piano circolare «radiocentrico», per dirla col Lavedan.
Il Tre e il Quattro contrapposti
Sono innumerevoli i complessi monumentali che mettono in risalto la contrapposizione fra il Tre e il Quattro, fra la terra e il cielo, fra il corpo e lo spirito.
A Saint-Genis-des-Fontaines, tre perle decorano l’abaco del capitello alla sinistra dell’uomo in meditazione, che tiene una mano sulla guancia; questi si trova a sua volta alla destra del Cristo dell’Ascensione (a sinistra per noi) e rappresenta l’eletto, il monaco, colui che, obbediente all’avvertimento dell’angelo, non sta a contemplare il Cristo che sale al Cielo. Per contro sul lato destro dell’architrave, a destra dell’uomo agitato che invece non sa trattenersi dal contemplare il Cristo e che, con la sua mano alzata, sembra provare una viva emozione allo spettacolo dell’Ascensione – dell’uomo quindi che non sa staccarsi dalle cose del mondo e che non si attiene all’ingiunzione dell’angelo –, le perle sull’abaco del piccolo capitello sono quattro.
Analogamente, sono le proporzioni fra il quattro e il tre a dominare l’intera struttura di un santuario popolare come la chiesa di Anzy-le-Duc, sia dal punto di vista architettonico, sia sul piano della iconografia: per prima cosa, sono quattro i temi che appaiono sul capitello principale sud e quattro sono i temi del programma apocalittico svolto, secondo un’accorta progressione, su altrettanti capitelli del lato nord. Si ha in questo modo una bipartizione fra il sud, riservato alle imperfezioni della carne, e il nord, dedicato all’Apocalisse. Più avanti, nel coro, compaiono tre dei quattro Animali – Aquila, Angelo e Leone – e anche dei personaggi, nell’arco trionfale, che evocano le tappe della vita umana, con in più i quattro fiumi del Paradiso. Una sottile indicazione, volta a dare rilievo al numeri della terra e del cielo, si può intravedere sul capitello in cui è raffigurato un uomo capovolto, a testa in giù, attaccato al petto e ai piedi da due serpenti annodati fra loro: il primo di questi, quello che addenta il petto del malcapitato, ha lui stesso una testa umana e il suo corpo disegna tre spire; l’altro ha una maschera di coccodrillo e le spire che disegna sono invece quattro. Si ha perciò una netta contrapposizione fra la testa e i piedi, fra il lato celeste e il lato terrestre, e in più si deve osservare la sottolineatura di una non meno netta disuguaglianza fra questi due domini: la testa ricciuta dell’uomo, il quale non ha neppure l’aria di soffrire troppo, sembra infatti relativamente risparmiata, mentre è molto più evidente l’aggressione ai piedi da parte del coccodrillo; questo vuol dire che l’anima sopravviverà al corpo.
Sul timpano di La Lande-de-Fronsac (Gironde) si vedono quattro arbusti alla sinistra del Cristo e tre sulla destra; dalla bocca del Cristo sembra sia appena uscita una spada, e il suo petto è cinto d’una fascia d’oro (cfr. Apocalisse, I, 13). Si direbbe che ci troviamo di fronte a una trasposizione dei sette misteriosi candelabri del testo sacro. D’altra parte, il numero Sette è presente su questo stesso timpano anche sotto altra forma: nel riferimento alle sette Chiese d’Asia a cui si rivolge l’Apostolo, le teste che rappresentano sono distribuite sotto gli archetti di un paliotto d’altare diviso in due piani: quattro in basso e tre in alto; e sette sono anche le margherite (o le stelle) dentro il cerchio tenuto in equilibrio dalla mano destra del Cristo. Ulteriori indicazioni vengono fornite da altri dettagli, tutti riferiti al contrasto fra il lato del cielo e il lato della terra: sul primo, due arbusti disegnano un nodo simbolico, mentre il terzo si piega verso il suolo; sull’altro regna invece un confuso groviglio che sta a indicare l’ordine della terra.
Delle due sante che si trovano sotto l’arcata di sinistra nella facciata del portale, a Saint-Saveur di Dinan, una, quella di destra, si iscrive in un senso positivo, giacché la vediamo posare i piedi su un leone girato verso destra; l’altra, invece, quella di sinistra, in un senso negativo, giacché il leone sul quale i suoi piedi poggiano è girato verso sinistra; non solo, la prima è sormontata da un’urna con tre archetti (= cielo), l’altra da un’altra urna, ma con quattro archetti (= terra).
A Saint-Pierre di Chabrillan, il lupo androfago affonda le zanne in un festone a quattro nastri, simbolo terrestre; inoltre, sull’angolo destro, a sud, compare la caccia al cervo, simbolo dell’iniziazione battesimale, rito in cui lo spirito, con l’ausilio della grazia divina, risulta vincitore del corpo; sull’angolo sinistro, a nord, si vedono invece dei «geni armati di martello» che battono in senso positivo, verso destra, l’albero di vita. Dopo l’immagine della luna, rotonda, legata al numero Due, si passa al livello celeste propriamente detto, evocato da una maschera triangolare, alla quale sono associati dei ghirigori a tre fili, disegnanti un festone, e l’incrocio formato da un doppio nastro, simbolo della fine dei tempi.
Il Tre e il Quattro nel paramento scultoreo di Rozier-Côtes d’Aurec
Da nessun’altra parte probabilmente l’ebbrezza dei numeri pitagorici – soprattutto del Tre e del Quattro, naturalmente – si manifesta in maniera così evidente come sui capitelli straordinariamente significativi della chiesetta di Rozier-Côtes d’Aurec (Loire). Sembra certo che a dare il via all’intero programma sia stata una stele antica, così come il sarcofago di Déols ha ispirato il timpano di Saint Ursin a Bourges e come una stele neopitagorica, che si conserva ancora nella cripta, ha promosso il programma di Saint-Vincent a Chalon-sur-Saône; ma potremmo ricordare benissimo anche l’immagine dell’aries-leo, parente stretta degli avori copti di stile alessandrino, tipo quelli dell’ambone di Aquisgrana. In tutti questi esempi noi ravvisiamo una prova di quell’autentico Rinascimento romanico che si è manifestato movendo precisamente dalla consapevolezza del profondo significato dei soggetti e dei miti che essi esprimono. il nome di arte romanica, dato a queste manifestazioni della civiltà medievale prendendo spunto dal nome di Roma e dagli esempi della sua arte, è a parer nostro espressione fedele della realtà delle cose; i monaci che dell’arte romanica furono gli ispiratori e gli artefici principali avevano indubbiamente saputo penetrare non solo le forme esteriori ma anche gli schemi simbolici che nelle immagini antiche erano contenuti. La tradizione fu mantenuta intatta.
Nell’abside della chiesa di cui stiamo parlando vediamo infatti l’immagine ridicolizzata di un Ermes, o di un Teutates-Thor, che si ispira con ogni evidenza a un tipo di stele diffuso nelle regioni di Lione e di Vienne, ma anche ai geni della morte delle Apocalissi spagnole; questo essere volutamente mostruoso, al quale sono stati messi in bocca dei serpenti per sottolinearne il carattere diabolico, è circondato da tutti i simboli pitagorici, cristianizzati da sant’Ireneo, uno dei primi vescovi di Lione: stringe nella destra l’accetta, con la quale vuole abbattere un arbusto a due rami (l’albero a Y), simboli, sia questo che quella, della doppia via, e con la sinistra brandisce una vanga, levandola minacciosa contro l’edicola, completa di frontone triangolare, che gli sta accanto.
Nella navata, poi, troviamo il numero Tre, legato all’immagine del lupo, versione medievale del mostro androfago dei Celti; la belva ha assalito un uomo, lo ha gettato a terra e gli sta addentando la testa; questi a sua volta cerca di afferrare il lupo per il petto, o di respingerlo; il numero Tre è nella coda dell’animale, nel ciuffo a trifoglio (una specie di fiordaliso), con cui essa termina dopo avergli attraversato il corpo; suo scopo è quello di dimostrare che, conformemente al mito, l’uomo, dopo essere passato per le fauci del mostro, rinascerà alla vita celeste: il Tre, ricordiamolo, è il numero del Cielo. Il Nove, invece, multiplo del tre, corrispondente al numero dei cieli, si trova nelle ciocche verticali che scendono lungo il collo del lupo; la funzione di queste ciocche è identica a quella delle nove foglie che fiancheggiano a Chabrillan il lupo celeste. Il lupo infine viene da sinistra, il lato infausto, e l’uomo è disteso sotto le sue zampe: rappresenta perciò il paganesimo.
Dopo la rappresentazione della morte così com’è, vista dal lato della terra, ci troviamo di fronte il destino ch’è riservato al nostro essere una volta avvenuto il misterioso transito al mondo di là. E questo il senso del secondo capitello, nel quale predomina il numero Quattro. Siamo infatti passati dall’altra parte: il lupo, le cui orecchie sembrano ancora tese a cogliere rumori che giungono da dietro, arriva qui dal lato opposto al precedente, da destra; le ciocche sul suo collo sono sempre nove, numero celeste. La contrapposizione è tra la maschera umana che si trova sulla quarta foglia (il lupo celeste poggia le zampe sulle prime tre) e l’uomo posto subito al di là che evoca la decomposizione della carne. Una simmetria rigorosa governa dunque questi due capitelli, in relazione con i due numeri; e in questo succinto programma si può ben riconoscere una illustrazione delle parole di san Paolo: «Coloro che sono con Gesù Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se noi viviamo grazie allo spirito, ci moviamo anche grazie allo spirito» (Galati, 5,24-25).
La stessa cosa vale per il terzo capitello, ma qui tutti i numeri sono sapientemente riuniti insieme. L’uomo che sale al Cielo, probabile imitazione anch’esso di una stele romana, del genere di quella che si conserva sotto il portico della chiesa di Saint-Rambert, è in effetti l’immagine tipica dell’uomo sulla bilancia del Giudizio: è cioè l’eletto all’interno della bivias, che volge lo sguardo in direzione di una colonnina tortile con spirali ascendenti verso destra e che ad essa si afferra. Il dragone minaccioso, legato all’«uno», alla conoscenza, rappresentata dalla sfera del mondo, che esso stringe fra gli artigli, viene da sinistra, come il primo lupo, e si trova associato come quello al numero tre – il triangolo – e alla S coricata, simbolo del tempo presente e dei suoi continui ricominciamenti. Quanto al Due, sono due le braccia dell’uomo, due le colonnine a spirali contrapposte che lo fiancheggiano e due anche le punte del mento divise da una fossetta. L’Uno invece si ritrova nella sfera che l’eletto tiene nella mano destra, mentre il Cinque, numero sacro che schiude la conoscenza, è rappresentato – aspetto tipico, questo, del pitagorismo – dalle cinque dita della mano bizzarramente mozze. La quaternità pitagorica, essa pure numero sacro, è data a sua volta da quella specie di quadrifoglio a destra dell’uomo. C’è poi l’Otto (due volte quattro) – ché proprio di esso senza dubbio si tratta –, il quale è evocato dalla S diritta, simbolo precisamente dell’accesso al cielo; e il Sei anche, simbolo di potenza, emblema del Cristo della Creazione, espresso dal fiore a sei petali. Il Sette dell’altro fiore, posto al di sopra del precedente, non è però meno importante: come affermano i testi pitagorici, nel Sette si realizza l’unione fra la quaternità e la triade divina. Al Nove corrispondono le spirali delle due colonne. Né certo poteva mancare il Dieci fatidico dell’ignoto, del mistero: lo si scorge sotto forma di X romano nell’incrocio delle due bandelle della cintura, espressione della vittoria sugli istinti. Sia come sia, però, anche se tutti i numeri sono presenti, fino al Dieci, il Tre e il Quattro sono quelli più importanti. L’insieme nel suo complesso esprime l’idea che l’uomo, nato per la vita futura, realizza se stesso attraverso il sacrificio e il dominio sulle cose del mondo; la condizione essenziale è che egli tenga costantemente gli occhi rivolti al Cielo: solo così si assicurerà la salvezza. E se in questo caso specifico ci troviamo davanti a una serie piuttosto fitta di figure, tutte aventi attinenza con l’aritmetica sacra, è perché la conoscenza dell’Uno, del cerchio della perfezione, è il punto di partenza di una sequela di immagini delle quali esso fornisce la chiave.
I capitelli di Rozier sono usciti con ogni evidenza dalle mani di un monaco cluniacense invasato da questa «ebbrezza dei numeri»; sono un’opera rozza, ma di un interesse eccezionale, e vanno accostati al portale di Bourg-Argental, nella stessa regione, indubbio riflesso, a parere del Mâle, di quello della grande abbaziale di Cluny.
Non possiamo però concludere la trattazione di un tema fondamentale come quello del Tre e del Quattro simbolici, importantissimo tanto in se stesso quanto nelle sue componenti, senza menzionare, almeno, l’iscrizione volutamente esoterica del chiostro di Vaison-la-Romaine, in Provenza. Eccone anzitutto il testo:
OBSECRO VOS FRATRES AQUILONIS VINCITE PATRES
SECTANTES CLAUSTRUM QUIA SIC VENIENTIS AD AUSTRUM
TRIFIDA QUADRIFIDUM MEMORET SUCCENDERE NIDUM
IGNEA BISSENIS LAPIDUM SIT UT ADDITA VENIS
PAX HUIC DOMUI
Lo si può tradurre come indirizzato ai dodici canonici della cattedrale: «Io vi esorto, fratelli, a trionfare del partito dell’Aquilone (cioè a dire, del rifugio dei demoni), osservando fedelmente la regola del chiostro, perché così perverrete all’Austro (cioè a dire, al Cristo); che il triplice fuoco divino non dimentichi d’infiammare la (nostra) dimora quadrangolare, in modo da vivificare le pietre viventi in numero di due volte sei. Sia pace a questa casa».
L’interesse di una simile iscrizione sta nel fatto che essa sostiene il simbolismo solare e rotatorio dei chiostri illuminati dal Cristo, Sole di Giustizia (cfr. Malachia, III, 20: «Per voi che temete il mio nome sorgerà il sole di giustizia con la salvezza nei suoi benefici raggi, e voi uscirete e sarete liberi, come vitelli ingrassati che escono dalla stalla»); lo stesso simbolismo che si ritrova a Le Puy, a Elne e nei chiostri musicali della Catalogna. Questo interesse viene ulteriormente rafforzato dalla presenza di un Cristo cornuto – si tratta di corna lunari –, la cui doppia barba sta a indicare i raggi del sole; si trova su un architrave, nello stesso chiostro. Quanto al simbolismo dei punti cardinali, Aquilone e Austro, esso si ispira a Geremia, I, 14 («Mi disse il Signore: Dal settentrione si diffonderanno i mali sopra tutti gli abitanti della terra») e a Giobbe, XXVI, 7 («Egli stende il settentrione sul vuoto e sospende la terra senza alcunché che l’appoggi»), mentre le espressioni trifidus e quadrifidus provengono da Virgilio e da Ovidio, e i numeri mistici da sant’Agostino (De musica), Eucherio di Lione e Rabano Mauro. Li riprenderà più tardi Ugo da San Vittore. L’espressione bissenis è invece un modo d’insistere sul numero Sei, numero importante così ripetuto; altrettanto significativo è, insieme col Tre e col Quattro, il loro prodotto: Dodici. Come l’alfabeto del chiostro di Moissac, come la scrittura a «rovescio» dei nomi degli Evangelisti a Brioude, come le corrispondenze musicali dei chiostri catalani, l’iscrizione di Vaison-la-Romaine mette in luce la tendenza esoterica dell’iconografia romanica – tendenza che non agevola certo chi si propone di decifrarne i significati.
Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 218-221