L’albero nell’arte romanica

Sezione: Studi


in memoriam Matris dilectissimæ meæ:

arbor virtutum et suavitatis,

arbor vitæ et sapientiæ,

arbor amoris et fidei


Dal momento che l’albero è un simbolo del mistero della vita e dunque del sacro, esso ha presso tutte le civiltà la sua collocazione all’ingresso dei templi: come il guardiano della soglia, esso indica il confine con un altro mondo che, del resto, può anche evocare in quanto albero cosmico o pianta cosmica. Si capisce come l’albero venga rappresentato nei portali delle chiese; talvolta è più propriamente all’albero del Paradiso che allude. Il portale di Puyferrand-du-Chatelet è interamente nudo, salvo al centro dell’architrave un piccolo archivolto ornato dell’albero stilizzato: il motivo, qui, appare in tutta la sua purezza; è più sviluppato, invece, sui timpani di Mariana e Marigny.

Mariana, Chiesa di San Parteo – Architrave

Marigny, Chiesa di Saint-Pourçain – Timpano

Lo ritroviamo largamente impiegato a Murbach: si tratta, qui, dell’albero cosmico, la cui cima raggiunge il cielo, che invade l’universo intero, e le cui radici vigorosamente stilizzate in forma di branchie affondano nell’abisso sotterraneo. Il motivo dell’albero si arricchisce sul portale di Farges (Saône-et-Loire); le colonnette che riquadrano l’ingresso sono sormontate da due capitelli che rappresentano due varianti dello stesso soggetto: quello dei quattro alberi del mondo.

Farges-lès-Chalon, Chiesa di Santa Maria Maddalena – Portale, Capitello

Farges-lès-Chalon, Chiesa di Santa Maria Maddalena – Portale, Capitello

Il motivo appare cristianizzato sul celebre capitello dei quattro fiumi paradisiaci del Museo di Cluny: ogni fiume è associato ad un albero, uno per lato; tali alberi sono i più rappresentativi dell’abbondanza nell’ambito biblico: il fico, l’olivo, la vite, oltre il famoso melo; ciò che fa del Paradiso un microcosmo completo.

Cluny, Musée de Farinier – Capitello proveniente dall’antica Abbazia: I quattro fiumi del Paradiso

L’uomo è associato all’albero sul capitello sinistro del portale di Giornico (Svizzera). L’albero può invadere le volute, come nel portale di Avila (Spagna); vi dispiega, infatti, una vegetazione che evoca la pianta dell’immortalità o l’erba medicinale del Paradiso. Spesso verrà cristianizzata la vite delle parabole evangeliche, simbolo del credente, della chiesa e di Cristo che è la sua vita, come a Saint-Michel d’Aiguilhe.

Le Puy, Chiesa di Saint-Miguel d’Aiguilhe – Facciata

Nel contesto biblico, sul portale si rappresenterà una delle scene svoltesi attorno all’albero del Paradiso terrestre, quello che occupa il centro dell’arco. A Besse, in Dordogna, è il peccato originale commesso da Adamo ed Eva vestiti – cosa piuttosto eccezionale – che occupa l’arco del portale. Due angeli svolazzano attorno al semicerchio che inquadra la scena; mostrano l’albero con il dito e trasmettono un messaggio: forse l’avvertimento divino di non toccare il suo frutto. Eva volge il capo per ascoltare e certamente questo gesto allude anche al Protovangelo; Adamo porta la mano alla gola. Da entrambe le parti dietro ad essi, due piccoli alberi si elevano per indicare, come vedremo, il Paradiso; essi compaiono qui in soprannumero. Proprio sotto questo motivo, sulla curva inferiore, si trova un Agnus Dei con la sua croce, quella che ha riscattato i figli di Adamo. Ai due angeli che circondano la scena del peccato originale corrispondono, proprio al di sopra, due angeli che tengono una mandorla all’interno della quale un piccolo personaggio viene assunto in cielo; è la fine della storia della salvezza: l’uomo salvato dal Cristo nuovo Adamo, è condotto nel nuovo Paradiso, quello dei cieli.

Besse, Chiesa di San Martino – Portale, Arcata: Peccato originale

La facciata della cattedrale di Angoulême è interessante per vari motivi. Al centro, si scorgono due angeli ai piedi dell’albero della vita, lo sguardo fisso alla sua cima; l’albero – interrotto dalla larga fascia orizzontale dei medaglioni dei beati nei cieli – continua al di sopra per allargarsi infine ai piedi di Cristo. Il Cristo occupa il posto dell’uccello tradizionale, in cima all’albero, ma ne rende manifesto il simbolismo, poiché si tratta di un Cristo in ascesa che sta già penetrando fra le nubi vaganti al di sopra del suo capo. Numerosi concetti si sovrappongono: l’Albero della vera Vita è il Cristo, ed è anche la Chiesa di cui la chiesa di pietra è segno (tutta questa facciata è dedicata al tema della Chiesa); il mistero è quello di una crescita spirituale, concepita come un’ascensione retta al pari dell’albero, il più verticale tra i simboli vegetali. Gli angeli tutt’attorno rinforzano quest’idea di volo, di distacco dalla condizione terrena: privilegio di coloro che per la fede partecipano dell’ascensione di Cristo da quaggiù, nell’attesa di raggiungerlo dopo la morte, nella gloria.

Angoulême, Cattedrale di San Pietro – Facciata: Ascensione (Cristo attorniato dal Tetramorfo)

L’indagine deve essere completata dall’esame di un tema più particolare, quello dei due alberi, motivo codesto piuttosto diffuso. Sopra la porta meridionale di Bourgheim (Alsazia), l’albero si divide in due rispetto ad un’asse verticale, ed occupa tutto il timpano. La separazione, che nulla giustifica, è intenzionale: isola due alberi distinti che sono un motivo iconografico paleocristiano simboleggiante il Paradiso e più ancora il Paradiso ritrovato. Sull’architrave di Bergholtz-Zell in Alsazia, della prima metà dell’XI secolo, i due alberi del Paradiso sono carichi di frutti della felicità e popolati di beati sotto forma di uccelli; essi inquadrano la croce salvifica, dispensatrice di luce e di vita (la ruota solare). La decorazione appare più schematizzata sull’architrave di Mutzig: una croce circondata da due alberi e nulla più. Il portale del lato meridionale inferiore di Saint-Jean-les-Saverne (Basso Reno) riprende il tema semplicemente sostituendo alla croce salvifica l’Agnus Dei recante la croce.

Saint-Jean-les-Saverne, Chiesa abbaziale di San Giovanni Battista – Portale, Timpano: Agnus Dei

A Vézelay, Abramo accogliendo fra le braccia, cioè in Paradiso, l’anima di Lazzaro, si stacca da uno sfondo costituito da due alberi.

Vézelay, Basilica di Sainte-Madeleine – Navata, Capitello: Lazzaro nel seno di Abramo

Questi due alberi, uniti a due angeli, formano la decorazione celeste nella quale appare il Cristo in gloria sul timpano meridionale di Thuret (Puy-de-Dome).

Thuret, Chiesa di San Martino – Timpano: Cristo in gloria nella mandorla sorretta da due angeli

I miniaturisti medioevali ameranno rappresentare l’Albero della croce di Cristo fra questi due alberi e talvolta uniranno le due punte degli alberi nel centro della croce per sottolineare l’unità nel mistero dell’Albero centrale e dei due alberi tipologici laterali.

Londra, British Museum – Salterio di New Minster: Crocefisso tra due alberi, al centro del Tetramorfo

La figura mostra in più il crocifisso in mezzo ai quattro Viventi, nella gloria del Signore.

Hildesheim, Diözesanmus. mit Domschatzkammer – Evangeliario di San Bernoardo: Crocifissione

La figura si riconduce ugualmente ad un tetramorfo: il toro di Luca appare ai piedi di Cristo. L’ambiente cosmico circostante è sviluppato: il sole e la luna in alto, in basso l’acqua e la terra, ereditari dall’Antichità pagana, e che compaiono spesso sotto i crocifissi o sotto i Cristi in gloria, soprattutto verso l’epoca carolingia, nelle placche d’avorio degli evangeliari.

Come l’acqua e la terra, i due alberi appartengono all’arte pagana e più precisamente all’iconografia della terra e della sua fecondità. Talvolta si ritrovano nell’arte cristiana tali e quali; ma la fecondità tellurica è diventata abbondanza e felicità della nuova terra rigenerata da Cristo.

Il tema dei due alberi è vasto e complesso, e spesso è degenerato in semplice schema decorativo.

Parigi, Louvre – Coppa etrusca: I due alberi

La splendida coppa etrusca (metà del VI secolo a. C.), attualmente al Louvre, è semplicemente decorativa, ma è interessante distinguere il tema iconografico soggiacente. Nel centro, un uomo afferra con le mani i rami dei due alberi tra cui deve scegliere. Questi alberi sono diametralmente opposti e occupano l’intero disco dell’universo. Il personaggio si volge verso l’albero in cima al quale riposa tranquillamente un uccello; volge le spalle all’altro albero sul quale si scorge un nido verso cui vola un uccello con un insetto nel becco; ma il nido è minacciato da un serpente che si avvicina. Il fogliame dei due alberi non si confonde… È una versione del tema dei due alberi di cui uno dona la vita e l’altro la morte, e il cui tipo perfetto è rappresentato dai due alberi del Paradiso terrestre: non si vuole intendere che quanto di cattivo esiste sia uscito dalle mani del Creatore come un’insidia tesa all’uomo, ma che il comando dato da Dio alla sua creatura libera, per guidare la sua condotta morale e fare così la sua felicità, se trasgredito, comporta la rovina annunciata: «è successo che l’ordine dato per condurmi alla vita, mi ha condotto alla morte» (Romani, VII).

L’esempio precedente si chiarisce ancor di più se lo mettiamo a confronto con una versione romanica più esplicita. Per esempio quella del Liber floridus di Lamberto di Sant’Omero (prima del 1120).

Lamberto di Sant’Omero, Liber floridus – Miniatura: L’albero del Bene e l’albero del Male

In doppia pagina, i due alberi si oppongono dalle radici che si confondono nella piega di mezzo. Qui, è l’universo del mondo spirituale che si vuole esprimere: basta leggere le iscrizioni. L’antitesi contrappone da una parte l’Albero buono, la Chiesa, la fede e dall’altra l’Albero «cattivo», là Sinagoga, il Fico (le cui foglie vogliono rammentare la nudità impudica dei nostri progenitori dopo il peccato. Il fico è reso secco dalla maledizione di Nostro Signore). L’albero del bene è fiorito e splendente di colori; tutte le sue foglie sono diverse l’una dall’altra, ciascuna d’una specie rara e preziosa, simbolo di una virtù che è rappresentata in un medaglione posto come un frutto; alla radice, la carità. Le foglie dell’albero del male sono invece tutte uguali, avvizzite, tristemente monocrome e collegate ai medaglioni dei vizi; alla radice la scure annunciata da Giovanni Battista come segno del Giudizio imminente e il medaglione della madre di tutti i vizi raffigurata con duplice testa: cupiditas sive avaritìa, la ricerca sfrenata solo dei beni e dei piaceri terreni.

Il portale di Andlau, in Alsazia, è senza dubbio la più bella delle porte romaniche in cui compaia il tema dell’albero, a cui è interamente dedicato; il suo esame ci offre l’occasione di fare delle ulteriori osservazioni riguardo questo soggetto.

Andlau, Chiesa abbaziale – Portale occidentale

Il centro del timpano è occupato dalla scena monumentale della Traditio legis: il Cristo affida a san Pietro, che ha già il suo libro, una chiave, simbolo del potere di aprire e chiudere le porte del Regno dei Cieli; a san Paolo porge invece il libro delle Scritture, insieme all’intelligenza spirituale per comprenderle e che farà di lui il Dottore dei popoli.

La scena ha dunque come tema il mistero della Chiesa, di cui san Pietro e san Paolo sono, per usare l’espressione tradizionale, le due colonne. Su di loro sorge l’edificio spirituale, la Chiesa costruita con le pietre viventi che sono i fedeli. C’è l’esortazione che san Pietro rivolge ai fedeli nella sua prima epistola: «Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale». Ed anche i due stipiti della porta sono concepiti come una costruzione architettonica formata da sei archetti sovrapposti. Nei loro vani compaiono le coppie dei benefattori dell’abbazia che, con la loro generosità, hanno permesso la costruzione della chiesa e meritato di divenirne pietre vive. Un testo di Durand de Mende illustra questo concetto: «Come la chiesa corporale è fatta di pietre unite insieme, così quella spirituale è composta da un gran numero di uomini. Tutte le pietre delle pareti, levigate e squadrate, rappresentano i santi, cioè gli uomini puri che sono posti dalle mani del supremo artigiano a dimorare per sempre nella Chiesa. Essi sono uniti proprio come con il cemento dalla carità, fino a quando, divenute pietre vive della Sion celeste, saranno stretti dal vincolo della pace». Alla base di ogni stipite vi è un solo personaggio isolato, che incarna forse il gruppo dei benefattori non sposati che si saran voluti ricordare, nonostante il tema del portale dovesse essere quello della coppia umana. Peraltro, la Chiesa è un mistero di vita e di crescita.

E questo il motivo simboleggiato nei due fregi verticali a motivi vegetali mescolati a leoni e ad uccelli, fregi che affiancano gli stipiti ornati dei benefattori e che simboleggiano la vita spirituale che deve continuare ad animarli. Ai personaggi-atlanti corrispondono qui personaggi interrati o, per essere più precisi, radicati al suolo fino a metà corpo. Con entrambe le mani, essi afferrano i viticci che si intrecciano al di sopra delle loro teste, i cui fusti si riconducono ai motivi vegetali del fregio dell’architrave per metterne in evidenza la continuità tematica; il loro atteggiamento è quello che l’iconografia cristiana attribuisce di preferenza a Jesse. È chiaro, così, che i fedeli della Chiesa formano una pianta, un albero, e che questo albero deve crescere, irrobustirsi, per congiungersi finalmente con gli alberi del Paradiso raffigurati nell’architrave.

La vocazione cristiana è insieme individuale e collettiva. Alla nostra sinistra, il Creatore crea Eva dal costato di Adamo addormentato, mentre in secondo piano si staglia l’albero della vita. Attraverso un grazioso portico a cupola, Iahvè introduce i nostri progenitori nel Paradiso che ha preparato per loro: «Iahvè Dio piantò un giardino nell’Eden, a Oriente, e vi pose l’uomo che aveva modellato. Iahvè fece spuntare dal suolo ogni erba piacevole a vedersi e gradevole a mangiarsi e in mezzo l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male». E proprio quest’ultimo che scorgiamo in mezzo all’architrave. I due alberi, come spesso avviene, sono unificati poiché il testo sacro ora citato li colloca entrambi in mezzo al giardino, (cfr. Genesi, II, 9 e III, 3). Iahvè, tenendo per mano Adamo, che stringe a sua volta quella di Eva, li conduce presso l’albero. Essi sono nudi, ma ancora innocenti, senza vergogna e ignorano del tutto la loro nudità.

Saujon, Monastero di San Martino – Capitello: Pesatura delle anime

«E Iahvè Dio diede all’uomo questo comando: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino ma dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non mangerai perché il giorno in cui lo farai ne morirai certamente”». Quando Dio si fu allontanato, il serpente compare. Esso si rivolge alla donna: «Non è vero! Voi non morirete. Ma Dio sa che il giorno in cui mangerete di quest’albero, i vostri occhi si apriranno ed allora sarete come dei che conoscono il bene e il male… La donna vide che l’albero era buono a mangiarsi e allettante a vedersi e che quell’albero era desiderabile per acquistare il discernimento. Ella ne colse un frutto (con la mano destra) e ne mangiò; ne diede anche (con la mano sinistra) a suo marito: allora i loro occhi si aprirono ed essi videro che erano nudi; unirono delle foglie di fico e ne fecero due perizomi». In tal modo, li vediamo uscire dal Paradiso, tenendo con una mano la foglia e coprendosi il petto con l’altra in un gesto la cui ingenua similarità esprime la tragica profondità della loro comune confusione. L’angelo dalla spada folgorante li insegue alle spalle. All’estrema destra, essi sono seduti, di spalle, coprendosi ancora con le mani; non solo turbati dalla prima manifestazione del disordine generato dal peccato che essi percepiscono come concupiscenza sregolata ma anche sconvolti nell’armonia della loro vita coniugale: «La tua concupiscenza ti spingerà verso tuo marito ed egli dominerà su di te». Doppio egoismo che comunque allontana. Ormai, l’atto di generazione sia carnale che spirituale, sarà segnato dal peccato originale. Il portale di una chiesa evidentemente non si limita a questa visione del peccato. Il seguito della visione cristiana è esposto nel timpano: una piccola teologia della salvezza fondata sull’opposizione fra due alberi. Quello di sinistra privo di rami, spoglio, disseccato come il fico del Vangelo: immagine delle conseguenze determinate dal peccato. Una piccola figura, spogliata di ogni abito per ribadire la sua estrema miseria, tenta faticosamente di arrampicarvisi.

È la condizione dell’uomo decaduto che monta con pena lungo il tronco dell’albero cosmico la cui cima lambisce il cielo e al di sopra del quale san Pietro gli aprirà, grazie alla sua chiave, la porta della città celeste, il nuovo Paradiso. Di fronte, una vigna fertile, meravigliosamente rigogliosa: immagine della città celeste e delle gioie inebrianti concesse anche sulla terra, come pregustazione, al credente che apre il suo cuore alla dottrina dello Spirito d’amore insegnata da san Paolo (l’antichità cristiana ha più volte raffigurato il neofita che riceve il battesimo tra un albero secco e uno fiorito). La colomba che becca i grappoli della vita costituisce il simbolo tradizionale dell’anima ammessa al banchetto eucaristico.

Facciamo ora un passo indietro per chiarire con altre opere il simbolismo dei due uccelli di questo timpano. Effettivamente, lo splendido uccello che si pavoneggia nella vigna contrasta con uno piccolo, magro e affamato appollaiato di fronte, sull’albero secco del mondo rovinato dal peccato. Non è quasi neanche più un uccello, un essere alato, simbolo inalienabile della nostalgia dell’uomo decaduto che non può dimenticare che la sua anima non è destinata alla terra ma al cielo. La piccola figura sale più verso il luogo di soggiorno degli uccelli, simboleggiato dai rami degli alberi, che verso la cima dell’albero cosmico. Vi si riconosce il tema dell’uccello sull’albero la cui fronda è considerata come un altro mondo, di per sé inaccessibile all’uomo e spesso paradisiaco. Il tema esprime l’aspirazione dell’uomo a passare al di là, ad una rottura, ad una spiritualizzazione o alla riscoperta di uno stato di beatitudine una volta posseduto e perso per il peccato.

Sull’esempio dell’arte pagana che l’aveva preceduta, l’iconografia cristiana dei primi secoli ha moltiplicato le figure degli oranti, dei santi o della Vergine mentre pregano davanti ad un albero su cui si scorgono una o più colombe, immagini della purezza dell’anima o della presenza dello Spirito Santo. L’albero con gli uccelli fa ancora parte dell’iconografia della Resurrezione concepita come pienezza di vita superiore e ormai impossibile. Li si rintracciano su alcune tombe antiche.

Un capitello di Payerne rappresenta nel centro un abate, insolitamente distinguibile da una piccola corona piatta, circondato da monaci.

Payerne, Chiesa abbaziale – Capitello del transetto meridionale

L’abate regge il libro delle Scritture, poiché la sua prima funzione è quella di spiegare la dottrina sacra ai fratelli; anche i monaci di sinistra come allievi fedeli sono raffigurati con la Bibbia in mano; quelli di destra, invece, tengono gli uccelli, simboli della vita spirituale che attingono dalle sante Scritture. Il gruppo della colonna sviluppa il tema dell’albero della vita; ai suoi piedi, due leoni indicano con la loro presenza la soglia sacra; il tronco dell’albero è essenzialmente costituito dal gruppo dei monaci e dei loro uccelli e lo considereremo fra poco; sopra le loro teste, una maschera da cui escono i pampini generosi della vite eucaristica che nutre l’anima dei credenti, comunicando loro la vita celeste; il cesto più in alto si ricollega ai capitelli di Farges e di Cluny, che presentano un albero su ciascuno dei quattro lati.

Il manoscritto delle Tre Colombe mostra il Cristo troneggiarne tra le foglie di un cedro verde in forma di gloria e circondato da uccelli che’simboleggiano i credenti.

Troyes, Biblioteca Municipale – Manoscritto delle Tre Colombe: Cristo albero del mondo

Gesù, nella sua persona, realizza la parola già citata messa da Osea sulla bocca di Iahvè: «Io sono come il cipresso verdeggiante; è da me che viene il frutto». Esso è il vero albero del mondo spirituale tra i rami del quale si annidano tutti gli uccelli della nuova creazione.

Ad Andlau tale spiritualizzazione, cioè tale salvezza, è ancora da conquistare: da qui, il tema dell’arciere che tende il suo arco in direzione dell’uccello, di un uccello appollaiato su un albero. La freccia è un efficace ed universale simbolo del superamento della condizione normale; è una liberazione immaginaria dalla distanza e dalla pesantezza; un’anticipazione mentale della conquista di un bene al di là di ogni attesa. Così, per esempio, la freccia diventa l’attributo che il centauro sagittario cristico scocca sul cervo, immagine dell’anima cristiana perseguitata per la sua salvezza. Lanciata verso l’alto, la sua traiettoria disegna una scala immaginaria in pieno cielo. Anche il lancio verticale fa parte di alcuni riti laddove altri usano l’ascensione rituale di un albero, di una scala, di una torre. L’uomo s’identifica al suo proiettile. L’arciere è il simbolo dell’uomo che mira a qualcosa e che già in certo modo se la prefigura.

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Nella figura vediamo l’uomo disceso dal carro mentre si protende verso l’albero cosmico ove stanno gli uccelli; un arciere ne prende di mira uno fra gli altri, a bruciapelo. Sul manoscritto di una Bibbia del XII secolo proveniente da Saint-Aubin, il motivo è diventato puramente decorativo secondo l’abituale processo di degenerazione dei simboli.

Ad Andlau, per evitare la simmetria, di cui l’arte romanica ha orrore, l’artista ha collocato a sinistra un arciere e a destra un fromboliere; il simbolismo resta evidentemente lo stesso. L’arciere ambisce al ritorno allo stato spirituale, aereo, attraverso il quale realizzerà la scalata dei cieli attraverso il cosmo mutilato. Il fromboliere con il dito puntato verso l’oggetto del suo desiderio ambisce alla felicità dell’animo in cui abita lo Spirito già da quaggiù grazie alla Eucarestia e più avanti, in pienezza, nel Paradiso ritrovato.

Questi due aspetti sintetizzano le leggi della salvezza cristiana. Così in ogni coppia di buoni, la disarmonia della coppia originale deve essere superata. Noi vediamo ogni marito indicare col dito alla propria moglie il Cristo del timpano, nuovo Adamo, nuovo albero di vita, piantato nel cuore del loro focolare; gli atteggiamenti delle figure sottolineano questo concetto nel loro linguaggio di pietra: la seconda coppia (a partire dall’alto) dello stipite di sinistra riproduce esattamente la posizione di Iahvè che conduce per mano Adamo ed Eva innocenti verso l’albero che indica loro col dito; se lahvè è scomparso, il marito è là che ripete il suo gesto: rappresentandolo, lo rende presente. L’ordine naturale è ristabilito.

Il fatto che la vita spirituale sia simboleggiata da un albero non ci deve stupire. Spesso, la Bibbia canta con meraviglia il giusto sotto le spoglie di un albero fiorente:

Il giusto fiorirà come la palma
si moltiplicherà come il cedro del Libano

Parigi, Biblioteca Nazionale – Apocalisse del Beato di Liébana: Iustus ut palma florebit

La figura illustra il primo di questi due versi: la palma da dattero è l’albero sacro degli antichi abitanti della Mesopotamia. Abbiamo visto, poco sopra, come il Cristo stesso, il giusto per eccellenza venisse rappresentato al centro di un magnifico cedro verdeggiante. Attenzione, tuttavia! Le apparenze quaggiù possono essere fallaci e i cattivi possono rivestire i panni di alberi rigogliosi, mentre i giusti conoscono la miseria materiale… Ma giungerà l’ora in cui Dio ristabilirà le cose nella verità e nella giustizia. Quel giorno,

tutti gli alberi dei campi sanno che sono io, Iahvè,
che umilia l’albero che si è innalzato e che innalza l’albero umiliato
che fa seccare l’albero verde e rinverdire l’albero secco.
Io, Iahvè, ho detto, io eseguo.
(Ezechiele, XVIII)

Verrà il giorno in cui questa onnipotenza creatrice, amante della vera umiltà e dei sentimenti nascosti in fondo al cuore, creerà l’oggetto di una delle più belle parabole di Gesù «Il regno dei cieli è simile ad un granello di senape che un uomo ha preso e seminato nel suo campo. È il più piccolo di tutti i semi, ma quando è cresciuto diventa il più grande degli ortaggi, diventa persino un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono ad abitare tra i suoi rami» (Matteo, XIII).

La prosperità del giusto gli viene da Dio come ricompensa della sua fiducia e della speranza:

Felice l’uomo che confida in Iahvè
e di cui Iahvè è la speranza.
Egli è simile ad un albero piantato sulle rive dell’acqua
che allunga le sue radici verso la corrente
Esso non teme nulla quando viene il caldo,
le sue foglie restano verdi;
in un anno di siccità esso non prova inquietudine
e non tralascia di dare frutto.
(Geremia, XVII).

Il suo frutto, il più bello di tutti, ed anche il più gratuito perché è puro dono di Dio, è una posterità:

Beati coloro che temono Iahvè
e camminano nelle sue vie…
Il tuo sposo: una vigna fruttuosa
all’interno della tua casa.
I tuoi figli: piante d’olivo
attorno alla tua tavola.
(Salmo CXXVIII)

Da questo sfondo di benedizioni divine accordate ai giusti, si stacca l’allegoria dell’albero di Jesse. Il Miroir de la Redemption (1478), un esemplare del quale si trova alla Biblioteca di Troyes, illustra numerosi tratti iconografici che abbiamo avuto l’occasione di citare.

Troyes, Biblioteca Nazionale – Mirouer de la Redemption: Albero di Jesse

Il re David, figlio di Jesse e capostipite della discendenza messianica, dorme e sogna; un albero esce dal suo petto. Tra le foglie, nel centro, la Vergine Maria che darà alla luce Cristo (confrontare col Cristo nell’albero). Quattro personaggi coronati rappresentano gli antenati coronati del Messia; essi sono volti verso Maria. L’uccello dello Spirito Santo si posa sulla Vergine e realizza l’Incarnazione. Nell’albero simbolico, la terra e il cielo si uniscono; l’uomo, tratto dal frutto della terra del Paradiso (Jesse, radice), collabora con Dio per farne l’Uomo-Dio che abbiamo visto ad Angoulême, in cima all’albero del mondo.

Nel suo simbolismo naturalistico, l’albero si presta ad evocare il mistero della vita in quanto donata da Dio. Tale simbolismo è adatto ad essere valorizzato con allusioni bibliche. Nella volta di Saint-Savin, sullo sfondo della scena in cui Iahvè promette una discendenza indefettibile e numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare ad Abramo, scorgiamo un albero sul quale si arrampica un bambino: il simbolo più tradizionale della discendenza; la coincidenza sarà fortuita? Fu per un miracoloso intervento di Dio che Abramo divenne padre di Isacco quando aveva passato i cento anni ed avendo una moglie sterile: dono meraviglioso e gratuito come la crescita dell’albero benedetto cantato dalla Bibbia.

Digione, Biblioteca Municipale – Leggendario di Citeaux: Albero di Jesse

Sulla stessa linea tipologica, un manoscritto del Leggendario di Citeaux utilizza il simbolismo dell’albero per illustrare la maternità verginale di Maria. In basso, Jesse con i suoi viticci nella posa dei personaggi semi-avviticchiati del portale di Andlau; nel centro, in una specie di trionfo di foglie, la Théotokos, la madre di Dio, mentre allatta il divin Figlio. Sulla cima dell’albero la colomba dello Spirito Santo che l’ha presa sotto le ali realizzando l’Incarnazione e insieme l’Annunciazione. Le due scene che si trovano sotto il nucleo centrale si riconducono al mistero della Maternità verginale prefigurata da alcuni episodi dell’Antico Testamento. In basso, a sinistra, Mosè, per ordine di Dio, si toglie i sandali davanti alla visione del roseto ardente che brucia senza consumarsi, in mezzo al quale compare Iahvè, DNS IN RUBO: «il Signore nel roseto». Il roseto prefigura Maria che ha accolto in sé il Verbo senza consumare la sua verginità e nella quale egli si è reso presente agli uomini attraverso l’Incarnazione (Esodo, III). A destra, Gedeone guarda cadere la rugiada che intride copiosamente il vello, mentre, per la sua preghiera, il suolo tutt’attorno resta perfettamente asciutto (Giudici, VI), a immagine di Maria che fu sola fra tutte le altre donne ad accogliere nel suo seno il Verbo disceso dal cielo; l’iscrizione PLUVIA DESCENDENS IN VELLUS, «discendendo la pioggia sul vello», allude al salmo LXXII (secondo il testo delle versioni, in riferimento all’episodio di Gedeone) che descrive la venuta del re messianico, nella prospettiva ripresa dal noto canto d’Avvento: Rorate coeli desuper, «Cieli, fate cadere la rugiada dall’alto e fate che le nubi facciano piovere il Giusto; che la terra si apra e generi il Salvatore!» (Isaia, XLV). Le due scene del roseto e del vello di Gedeone hanno ispirato due delle antifone che la Chiesa canta l’ottavo giorno di Natale e all’ufficio della Santa Vergine fino al 2 febbraio. I due episodi rappresentati in alto si ricollegano al mistero della salvezza recata da Cristo. A sinistra, si legge DANIEL-LACUS LEONUM: «Daniele-la fossa dei leoni»; a destra, TRES PUERI IN CAMINO: «I tre fanciulli nella fornace». Poiché i leoni e il fuoco sono tradizionalmente simboli di lussuria, forse si è voluto vedere nello sfondo di queste due scene un’allusione simbolica alla verginità che Dio solo può preservare: verginità del corpo e dell’anima, come nella maternità di Maria o nella verginità consacrata, o solamente verginità dell’anima per la difesa dal peccato e dalla morte che la insidia. In basso nella miniatura, si legge a grossi caratteri: «La beatissima madre del Signore, sempre vergine, ecc…»

L’albero di Jesse è un albero mariano. È l’albero della chiesa universale, paradisiaco per natura. «L’albero della vita celato in mezzo al Paradiso è cresciuto in Maria. Uscito da lei, ha esteso la sua ombra sull’universo, ha sparso i suoi frutti sui popoli più lontani, come sui più vicini» (San Cirillo di Alessandria). Maria è veramente la nuova Eva. L’albero di Jesse è dunque di più di un semplice albero genealogico come ne conosciamo tanti, spesso relegati a non essere nulla più che volgari tavole sinottiche, simboli intellettualizzati e congelati. L’albero di Jesse è un albero che rimane carico dei suoi valori di sacralità naturale. Inoltre è latore di promesse storiche divine; nella prospettiva biblica di restaurazione di un universo turbato dal peccato, lo vedremo assimilato alla croce redentrice, come in un affresco della cattedrale di Pamplona, in cui l’albero di Jesse continua, – oltre la Vergine col Bambino collocata fra i rami – nella croce su cui muore Cristo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx   
PubblicazioneI simboli del medioevo  
EditoreJaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine324-356 

Martino di Tours

Fonti

La storia di san Martino, apostolo delle Gallie e vescovo di Tours, è narrata nella Vita di san Martino scritta da Sulpicio Severo, nel trattato Sulle virtù di san Martino di Gregorio di Tours, ed è stata abbellita dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine.

Martino, nato nel IV secolo in Ungheria ed educato a Pavia, si arruola nelle legioni romane. Un giorno, ad Amiens, incontra un mendicante al quale dona la metà del mantello dopo averlo tagliato con la spada. La notte seguente, vede in sogno Cristo, circondato dagli Angeli, avvolto nella metà del mantello. Il Figlio di Dio loda la sua virtù: «Martino, sebbene semplice catecumeno, mi ha coperto con questa veste».

Dopo questa visione, Martino lascia l’esercito, si fa battezzare a Poitiers e fonda il monastero di Ligugé. Diventa poi vescovo di Tours, e si distingue per il suo zelo: demolisce templi pagani, abbatte alberi sacri e compie molti miracoli a sostegno della predicazione del Vangelo.

Martino è uno dei santi più popolari in Francia, e il suo culto è celebrato in particolare presso la sua tomba, anche se sono molte le chiese romaniche a lui dedicate: Saint-Martin-des-Champs, a Parigi; Saint-Martin du Canigou e Saint-Martin di Fenollar nel Roussillon; Saint-Martin di Vicq nel Berry.

Iconografia

San Martino è raffigurato sia come soldato romano, a piedi o a cavallo, sia come vescovo di Tours, con la mitra e il pastorale.

1. La divisione del mantello

Quello della divisione del mantello è l’episodio più illustrato di tutta la sua storia. Martino vi è quasi sempre rappresentato a cavallo.

Un capitello del chiostro di Moissac sviluppa il tema nei particolari presentando sulle diverse facce:

  • un edificio che rappresenta la città di Amiens;
  • Martino che taglia il mantello per donarlo al mendicante: il santo è a cavallo mentre il povero, mezzo nudo, indica con la mano i propri stracci; sulla spada, un’iscrizione che spiega la scena: DIR(im)IT V(este)M;

Moissac, Chiostro – Capitello: San Martino dona la metà del mantello al povero

  • il Cristo nimbato, che mostra il mantello portato dagli Angeli. La scena, già realizzata a tutto tondo certamente alla fine del XII secolo, compare nella cattedrale di Lucca.

Lucca, Duomo – Statua: San Martino e il povero

2. I miracoli

Il miracolo dell’albero è quello ricordato più spesso. Preso da uno slancio evangelizzatore, Martino vuole che sia abbattuto un pino, pianta sacra per i pagani. I loro sacerdoti accettano a patto che il santo stia nel punto in cui l’albero deve cadere: pensano così di vederlo schiacciato. L’albero viene abbattuto ma il vescovo, con un segno di croce, devia la caduta del pino che si abbatte sui pagani. L’episodio compare su un capitello della basilica di Vézelay in cui vediamo Martino che alza la mano per fermare l’albero che un boscaiolo sta tagliando con un’ascia.

Sul capitello di Moissac già citato, troviamo un altro miracolo, molto più raro: san Martino, che indossa gli abiti vescovili e ha nelle mani il pastorale e un libro, risuscita un neofita morto a Ligugé senza aver ricevuto il Battesimo.

3. La glorificazione

Dopo la morte, san Martino glorificato è rappresentato entro una mandorla sorretta da Angeli. In un capitello dell’abbazia di Saint-Benoît-sur-Loire, i personaggi celesti sono due, mentre sulla facciata della chiesa di Gensac-la-Pallue, nella Saintonge, sono quattro. Anche un bel paliotto d’altare di Sant Martí de Puigbò, conservato al museo episcopale di Vic, in Catalogna, illustra questo sereno trapasso. Il santo, vestito dei paramenti episcopali, riposa su di un letto a capo del quale sta un chierico con una croce, mentre un Angelo è pronto per accompagnare il morente.

Vic, Museo episcopale – Paliotto d’altare proveniente da Sant Martí de Puigbò: Morte di San Martino

 
Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 277-278

L’albero della croce

Sezione: Studi


La croce rende esplicito il mistero del centro. Essa è diffusione, emanazione, ma anche riunione, sintesi. È il più completo di tutti i simboli; nessun’altro quanto questo sa condensare nel più essenziale dei segni la più vasta delle sintesi. Forse è il simbolo più universale, infatti tutte le civiltà lo hanno compreso nel proprio patrimonio simbologico. La croce costituisce l’elemento fondamentale dello schema alla base delie immagini del mondo o del luogo sacro. È un simbolo spaziale e temporale e questa proprietà privilegiata lo rende adatto ad esprimere il mistero del cosmo animato.

Per questo essa si sovrappone sempre – in un modo o nell’altro, e con una sovrapposizione non tanto geometrica quanto immaginaria – al tempio cosmico che è la chiesa. La chiesa costituisce la sintesi liturgica dell’universo animato da Dio, dell’universo reso presente dalla epifania permanente delle strutture e dei cicli naturali. La chiesa è al centro del mondo, e l’uomo liturgico è al centro della chiesa. In essa e per essa, egli si orienta e con il suo orientarsi determina la direzione e il senso del mondo. Egli lo ricapitola e così lo dilata nell’espansione cruciforme. La croce del microcosmo-chiesa non è tanto quella costituita dal suo perimetro (la navata che si incrocia con i bracci del transetto, dal momento che questa forma può fare difetto) quanto quello della sua intima espansione nelle quattro direzioni dello spazio. È questa relazione psicologica, così imperativa nell’uomo, che gli conferisce misteriosamente la coestensione dei quattro orizzonti, dei quattro venti dello spazio. È ancora essa che inscrive nello spazio il cerchio delle stagioni, scandito dall’alternanza rituale dei solstizi e degli equinozi che sono i quattro punti cardinali del ciclo liturgico (Natale, Pasqua, San Giovanni, San Michele). È ancora essa che salda la croce cardinale terrestre sulla celeste e fonda il simbolismo dei loro rapporti. Questo rapporto è animazione, e la sua espressione più vivamente percepita dalla psiche umana è quella della rotazione della sfera del mondo attorno al suo asse polare; tale asse è perpendicolare al grande cerchio dell’orizzonte, del luogo sacro, e forma con una qualsiasi delle parallele al suolo una croce, questa volta drizzata verticalmente.

Queste due croci, croce orizzontale, d’orientamento cardinale, e croce verticale assiale, in realtà non sono che una sola croce: quella a tre dimensioni e a sei bracci che orna i campanili delle chiese orientali. In Occidente, essa assume la forma della girandola in cima ai campanili divisa alla base da una croce orizzontale orientata. Tale è la croce del mondo vivente, la croce che fa della chiesa il centro e la ripetizione del cosmo liturgico. Poiché essa è perfettamente coestensibile ai simboli del cosmo naturale non meno perfettamente misura il microcosmo che è la chiesa. In essa e per essa la vita e il movimento emanati dal polo celeste, simbolo di divinità, si trasmettono al centro sacro terrestre: all’altare, al santuario, alla chiesa, e raggiando da questo centro, a tutto l’universo.

La croce tridimensionale è la più perfetta immagine sacra del mondo. È il segno visibile della trinità nell’unità. Il sei caratterizza la creazione-emanazione; si ricordino l’opera di sei giorni e tutti i motivi sestuplici incontrati nel contesto della creazione, per esempio sui portali romanici ove si potrà incontrare sei volte la maschera della terra che vomita viticci tra cui giocano alcuni animali. Il settenario indica la conclusione e la pienezza (il settimo giorno) ottenuti quando si aggiunge al computo dei sei bracci il punto centrale da cui essi emanano o dove vengono riassorbiti nell’unità indifferenziata. Dio sta in questo centro: «Volgendo il suo sguardo verso queste sei estensioni come, verso un numero sempre uguale, egli conclude compiutamente il mondo; egli è l’inizio e la fine; in lui si compiono le sei fasi del tempo e da lui esse ricevono la loro indefinita estensione; là è il segreto del numero sette» (Clemente d’Alessandria).

La croce tridimensionale può essere rappresentata in modi assai differenti. Sulla superficie piana, la sua forma più semplice è la stella a sei bracci, più o meno regolari sia per la loro dimensione che per la disposizione; la verticale zenith-nadir appare spesso distinta dalla croce orizzontale e orientata da una freccia, una fiamma, un cerchio, un motivo qualsiasi. Si riconosce la forma nota del crisma , simbolo polivalente vecchio come il mondo, che la simbologia cristiana si è compiaciuta di utilizzare, dopo un semplice battesimo mentale che risultava sia dalla lettura della X e della P, le prime due lettere del nome di Cristo in greco, sia dall’incrocio di questa X con la I di Jesus. Il monogramma di Cristo diventava la formula simbolica della salvezza universale operata dalla croce di Gesù Cristo.

Crisma

Quest’ultima non appariva sul labaro di Costantino, mentre compariva il crisma; la conversione dell’imperatore consentì la sostituzione con mezzo secolo di ritardo: l’impero divenuto cristiano, abolendo il supplizio della croce, soppresse l’odiosa sensazione connessa allo strumento di tortura finché restò in uso; verso la fine del IV secolo il segno, spogliato di quel senso, diviene degno di rivestire la livrea di gloria sopra il segno delle ferite. La croce latina compare in seno al crisma stesso ma conserva in alto l’anello che ricorda la P e costringe a rilevare nell’incrocio l’antica X raddrizzata. All’inizio del V secolo l’anello sparisce, e nasce la nostra tradizionale croce cristiana. Il crisma viene usato ancora, anzi in quest’epoca raggiunge le sue espressioni più perfette e trae dalla croce latina l’alfa e l’omega che spesso e volentieri gli vengono associate per assicurargli una cristianizzazione aliena da ogni equivoco segnico: questo riferimento al Cristo dell’Apocalisse, Pantocratore e Maestro del tempo, conferisce al vecchio simbolo le dimensioni della Rivelazione. Il mosaico del battistero di Albenga (V-VI secolo) rappresenta a questo proposito un vero capolavoro. Tutta la simbologia dell’emanazione-espansione, dell’’exitus-reditus, che abbiamo osservato sul piano dei fenomeni naturali e che abbiamo visto sottesa alla presentazione, da parte di san Paolo e dei Padri della Chiesa, del mistero dell’amore di Cristo, è qui presente.

Albenga, Battistero: Mosaico: Crisma

Si noteranno il centro origine, i cerchi disposti in triplice risalto (allusione trinitaria), la croce tridimensionale dei crismi, gli alfa e omega, le dodici colombe che rendevano presente la Chiesa universale diffusa in tutto il mondo, occupando il quadrato terrestre segnato ai quattro angoli dalle quattro stelle.

Si giunge così alla simbologia del tracciato di consacrazione delle chiese che si riassume in un segno, e precisamente nel crisma inquadrato dall’alfa e dall’omega. Il crisma è il simbolo del tempio cristiano considerato nel suo dinamismo liturgico che mira a fare del mondo umanizzato il corpo consacrato del Pantocratore: «Il corpo di Cristo è la Chiesa» (san Paolo).

Simbolo dell’universo, simbolo della chiesa di pietra, la croce tridimensionale è ugualmente il simbolo dell’ultimo microcosmo della catena, l’uomo. La sagoma dell’uomo con le braccia aperte evoca spontaneamente quella della croce eretta; questo tracciato però è semplicemente uno schema incompleto; se infatti esso esprime a meraviglia l’orientazione verticale ed ascensionale dell’uomo come pure la sua lateralità destra e sinistra, non fa apparire la seconda dimensione della sua intima croce orizzontale: il davanti-dietro che privilegia l’incrocio laterale (ciò è ancor più chiaro nell’animale a quattro zampe che ha solo due dimensioni fondamentali: il davanti-dietro e la lateralità). La croce tridimensionale è la croce completa dell’uomo: essa struttura la sua spina dorsale che costituisce l’asse verticale dell’organismo. La simbologia dei microcosmi-macrocosmi si rivela perfettamente omogenea a tutti i livelli.

La croce completa del Cristo salvatore non è né panteista né semplicemente d’ordine naturale. La sua coestensione al mondo è opera dell’amore universale e ricreatore di Gesù. I simboli sensibili aprono alle realtà spirituali. «Radicati in questo amore voi riceverete la capacità di comprendere con tutti i santi ciò che è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, voi conoscerete l’amore di Cristo che va oltre ogni conoscenza ed entrerete per la vostra pienezza nella pienezza di Dio» (Lettera agli Efesini, cap. III). Vi si riconosce la simbologia storica diffusa al tempo dell’apostolo per designare la totalità dell’universo. Di comune accordo, i Padri della chiesa hanno interpretato questo testo leggendovi la croce cosmica di Cristo che invade l’universo per ricrearlo, quella croce che i Greci chiamavano «sèmeion ekpétaséôs», il segno dell’estensione. Il testo più classico dell’antichità cristiana a questo proposito è quello di sant’Ireneo: «Per obbedienza cui è stato fedele fino alla morte sul legno della croce, il Verbo ha espiato l’antica disobbedienza (quella dei nostri progenitori). E dal momento che Egli è il Verbo onnipotente la cui invisibile presenza è estesa in noi e riempie il mondo intero, la sua azione sul mondo continua ad esercitarsi in tutta la sua lunghezza, larghezza, altezza e profondità. Grazie al Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’opera redentrice e il Figlio di Dio, con la sua benedizione, ha posto il segno della croce su tutte le cose. Perché era giusto e necessario che colui che si è reso visibile conducesse tutte le cose visibili a partecipare alla croce, ed è così che sotto una forma sensibile la sua influenza si è fatta sentire nelle cose visibili stesse. Infatti è lui che illumina le altezze cioè i cieli, lui che penetra le profondità di quaggiù, lui che percorre la lunga distesa dall’Oriente all’Occidente, lui che congiunge lo spazio immenso da nord a sud richiamando gli uomini dispersi in tutti i luoghi alla conoscenza del Padre».

Il Cristo morendo inchiodato ad una traversa fissata ad un palo ne ha fatto il segno storico del compiersi del disegno divino.

Per il credente, la croce primaria è l’ultima nella storia: quella che fu piantata nella sera dei tempi sul Golgota, una croce silenziosa che con le sue braccia aperte esprime un amore grande come il mondo non aveva mai conosciuto. Un amore che ha trovato nello strumento del sacrificio il simbolo della sua grandezza. La passione di Cristo ha trasfigurato il segno della croce; ormai, al di là dell’antica immagine, è l’universale e misteriosa bontà del suo Signore che l’uomo redento percepisce e venera. Attraverso la comunione con il segno sacro, egli penetra nelle vertiginose profondità del disegno di Dio sul mondo, così come diceva san Paolo agli Efesini.

«Dalla croce su cui morì il Verbo creatore del mondo, il cristiano sposta lo sguardo verso il cielo stellato in cui si muove il cerchio di Elios e di Selene. Quindi, se egli si addentra nelle più profonde strutture del cosmo o penetra le leggi della costituzione del corpo umano, dappertutto – e fino nella forma dei più piccoli oggetti familiari – egli vede impresso il misterioso sigillo: la croce del suo Signore ha mutato radicalmente il mondo». Se egli considera la croce tridimensionale di san Paolo, essa è per lui «la legge della costruzione, lo schema fondamentale che Dio imprime ad ogni sua opera, quel Dio che segretamente, fin dalle origini, teneva gli occhi fissi sulla croce di suo Figlio» (H. Rahner). Certo, è proprio nel suo mistero «che sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, create da lui e per lui» (Lettera ai Colossesi, cap. I). Se egli scopre negli scritti di Platone che la grande X costituita dall’intersezione del cerchio dell’equatore con quello dell’eclittica disegna sulle nostre teste una croce piana che è il simbolo dell’anima del mondo, egli vede in ciò il grandioso annuncio della croce-in-cielo di Cristo.

San Cirillo di Gerusalemme spiega ai suoi catecumeni: «Dio ha steso le mani sulla croce per abbracciare le estremità dell’universo. Anche il monte Golgota è diventato il perno del mondo». Con Firmico Materno, il perno diventa l’asse dinamico che unisce cielo e terra: «Il legno della croce sostiene la volta celeste, e consolida le fondamenta della terra». E così pure mette in comunicazione i piani del mondo, costituitivi del luogo sacro. Andrea di Creta, riprendendo san Paolo, fa una litania della croce: «Riconciliazione del mondo, determinazione delle frontiere terrestri, altezza del cielo, profondità della terra, legame che unisce la creazione, lunghezza di tutte le cose visibili e larghezza dell’universo!».

«Il segno della croce apparirà nel cielo il giorno del Giudizio finale», canta l’inno della festa dell’Esaltazione della santa Croce nella liturgia latina.

La croce salda il ciclo del tempo del mondo, il grande cerchio creazionale: essa pone su tutte le cose il sigillo ultimo che le giudicherà secondo l’amore incarnato: «O croce piantata nella terra che rechi frutti in cielo! O nome della croce che racchiudi in te l’universo! Salute a te, o croce che tieni legato il cerchio del mondo! Salute, o croce che hai saputo dare alla tua sembianza informe una forma piena di senso profondo!» (Atti apocrifi di Andrea). Essa è il polo e il motore immobile di un mondo in movimento; stat crux dum volvitur orbis, la croce sta fissa mentre il mondo ruota: è il motto dei monaci.

L’uomo stesso trova nella croce l’espressione sintetica della sua intrinseca identità strutturale con il cosmo, con il vivente e con il cielo che lo chiama. Egli vi legge anche il segno della sua irriducibile originalità. «Fisicamente l’uomo non differisce in nulla dagli altri animali, fuorché per il fatto che egli è diritto (verticalizzazione-umanizzazione) e può stendere le mani» (Giustino). Inoltre, egli, anch’egli croce viva e attiva, croce eretta, può conservare e concludere il cerchio del mondo iscrivendosi all’interno del suo disegno, può ricreare in sé il mondo tracciando le fondamenta dei suoi santuari.

Solsona, Museo Diocesano – Affresco (proveniente da Pedret): L’uomo, centro del mondo

«La volta celeste non è forse anch’essa a forma di croce? E l’uomo che cammina, che alza le braccia, anch’egli descrive una croce… Per questo noi dobbiamo pregare con le braccia stese, al fine di esprimere fino nell’atteggiamento le sofferenze del Signore» (Massimo di Torino). Perché dopo tutto è sempre di Lui che si tratta. «Così tutto si riempie del mistero amato. Questo punto di vista è decisivo per la comprensione dell’arte cristiana. C’è un mistero nella piattezza e nella semplicità apparenti dei simboli della croce che si vedono dipinti o incisi rozzamente nelle catacombe, così come nella semplicità primitiva della posizione del cristiano in preghiera. L’uomo antico possiede ancora un senso assai vivo dell’opposizione, per così dire dialettica, tra l’insignificante gesto da nulla, o simbolo e il contenuto grandissimo che vi si nasconde». (Rahner). L’arte romanica risulta impregnata di questa sensazione che costituisce il fondamento dell’arte sacra. Essa ha conservato vivamente questa intuizione fondamentale che la forza dei simboli risiede in un contrasto paradossale tra l’inesprimibile realtà significata e l’irrilevanza del simbolo che ad essa conduce.

La croce è il grande segno cosmico; il segno dell’universo, il segno dell’uomo; il segno di Dio presente e agente in entrambi. È allo stesso modo un segno biblico, un segno storico, un segno personale: e di nuovo si verifica il contrasto incredibile tra questo insignificante simbolo con l’incommensurabile e adorabile ricchezza del mistero della Croce di Gesù Figlio di Dio che lo fa essere fra tutti i simboli il più evocativo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo 
Editore Jaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine369-374 

Daniele

Sezione: Lessico


Fonti

A Daniele, uno dei grandi profeti dell’Anti­co Testamento, è dedicato un intero libro della Bibbia. Esule a Babilonia dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, vive a corte dove conquista il favore del principe. È il protagonista di mol­ti episodi leggendari dai quali è nata una ric­chissima iconografia.

Beaulieu-sur-Dordogne, Abbazia di San Pietro – Facciata, rilievo: Daniele

Anzitutto, Daniele è l’unico che riesce ad interpretare un sogno che spaventa il re, divenendo così intimo del monarca (Dn 2,1-49).

Segue l’episodio dei tre giovani Ebrei, uno dei quali è Daniele, gettati nella fornace. Il re ha affidato loro il governo della provin­cia di Babilonia, ma essi si rifiutano di ado­rare gli dei del luogo, come pure una statua d’oro eretta dal sovrano. Gettati nella forna­ce per ordine di Nabucodonosor, i tre ven­gono risparmiati dalle fiamme. «Sopra i loro corpi il fuoco non aveva avuto nessun potere e neppure un capello del loro capo era stato bruciato, (…) e neppure l’odore del fuoco era penetrato in essi» (Dn 3,94). La tradizio­ne cristiana vede in questo brano l’immagi­ne dei morti che Dio protegge dalle fiamme dell’Inferno.

Daniele spiega al re un secondo sogno, nel quale quest’ultimo ha visto un grande al­bero completamente distrutto, ad eccezione delle radici. Secondo il profeta, l’albero è simbolo del monarca, precipitato dal trono e spogliato della sua gloria finché, attingendo la fede dalle radici rimaste intatte, ricono­scerà Dio (Dn 4).

Viene poi il banchetto durante il quale Baldassarre, che pretende a torto di essere il figlio di Nabucodonosor, profana alcuni vasi sacri del Tempio di Gerusalemme: Daniele decifra un’iscrizione apparsa prodigiosamen­te, che annuncia la rovina di Baldassarre e del suo regno. La notte seguente, Babilonia è presa da Dario, re dei Medi (Dn 6). La tradi­zione ha assimilato il re empio all’Anticristo.

Uno degli episodi più noti della storia del profeta è quello della fossa dei leoni, ripreso due volte nel libro, che lo colloca pri­ma all’epoca di Dario (Dn 6), poi a quella di Ciro (Dn 14). I due racconti sono simili: avendo infranto un decreto reale che proibi­sce, per trenta giorni, di pregare un dio o un uomo che non sia il re, Daniele, rimasto fe­dele al Dio degli Ebrei, è gettato alle fiere; ma l’Onnipotente gli manda un Angelo che chiude le fauci dei leoni «che non gli hanno fatto alcun male, poiché davanti a Lui è sta­to trovato innocente». Durante la perma­nenza nella fossa, Daniele è stato nutrito dal profeta Abacuc: quest’ultimo stava per an­dare a portare il cibo a dei mietitori, quando un Angelo lo aveva preso per i capelli depo­nendolo a Babilonia, di fianco al prigionie­ro; i Cristiani hanno interpretato la scena co­me un simbolo dell’Eucaristia. Alla fine, il sovrano libera Daniele e getta nella fossa i suoi accusatori, che vengono immediata­mente fatti a pezzi dalle fiere. Il libro ag­giunge che «Daniele prosperò durante il regno di Dario e il regno di Ciro il Persiano» (Dn 6).

Daniele è celebre anche per le sue visio­ni, riprese in parte da Giovanni nell’Apoca­lisse. Il profeta vede quattro animali che escono dal mare: un leone, un orso, un grifo­ne e un’idra a dieci corna (Dn 7); Dio gli ri­vela che si tratta di quattro re, l’ultimo dei quali, il più potente, opprimerà «i santi del­l’Altissimo»; ma verrà il Giudizio e il suo do­minio sarà abbattuto. Poi, Daniele vede in sogno un montone nel fiume e un capro che viene dall’Occidente, con «un grosso corno fra i suoi occhi» (Dn 8).

Madrid, Biblioteca Nacional de España – Ms. Vit. 14-2 (Beatus di Facundus): visione di Daniele del capro e dell’ariete

In epoca relativamente tarda, il libro di Daniele è stato arricchito dalla storia di Su­sanna e dei vecchi. La giovane donna, sor­presa al bagno, respinge le profferte dei due libertini che, per il dispetto, l’accusano di avere un giovane amante; il profeta, chiama­to a risolvere la questione, dà un giudizio che smaschera i due colpevoli.

Per i Cristiani, il personaggio di Daniele prefigura Cristo. La permanenza nella fossa dei leoni è paragonata alla discesa agli Inferi del Salvatore, dopo la Crocifissione. Inoltre egli trionfa sulle fiere, come Gesù domina Satana.

Iconografia

Nell’arte medievale, il profeta ha l’aspetto di un giovane imberbe, che porta il berretto frigio dei Babilonesi; suoi attributi sono i leoni della fossa e il montone della visione apocalittica.

In età romanica gli sono stati dedicati molti cicli figurativi: nel manoscritto di Saint-Sever, il commento di san Gerolamo al libro di Daniele è illustrato dettagliatamen­te, seguendo il commento del Beatus all’A­pocalisse; la stessa cosa accade per molti ma­noscritti del Beatus. Cicli narrativi notevoli sono anche quelli delle miniature della Bib­bia di Roda e dei bassorilievi della facciata della chiesa di Ripoll. Esaminiamo le diverse scene della vita del profeta.

1. I tre giovani Ebrei nella fornace

Nel trattare questo tema, gli artisti romanici si sono ispirati all’arte delle catacombe; di solito, i tre indossano il costume mesopotamico, composto da brache e berretto frigio. In alcuni capitelli della chiesa di Saint-Pierre a Moissac e della cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, un Angelo inviato da Dio li pro­tegge dall’azione mortale del fuoco mentre, in una miniatura della Bibbia di santo Stefa­no Harding, è Cristo in persona che li pren­de sotto la sua protezione. Ad Autun, si ve­de anche un diavolo che si dispera vedendo­si sfuggire la preda. A Moissac, l’artista ha istituito un rapporto simbolico fra i tre mar­tiri e le tre Persone della Trinità: sull’abaco del capitello, alcuni Angeli affrontati sorreg­gono dei medaglioni con una figura umana, un agnello e una colomba, immagini rispetti­vamente del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. L’autore delle miniature della Bibbia di Roda ci dà un saggio di realismo un po’ ingenuo: i carnefici attizzano il fuoco con dei mantici. La scena compare anche in un bassorilievo della chiesa di Saint-Phal a Gyl’Évêque, nella Yonne.

2. Daniele nella fossa dei leoni

Per ragioni di simmetria, gli artisti rappre­sentano quasi sempre un numero pari di leo­ni, mentre il testo parla di sette. Nella maggior parte dei capitelli romanici la composi­zione, molto semplice, presenta il profeta tra due belve.

Le fiere affrontate attorno ad un perso­naggio sono un motivo la cui origine risale all’antichità orientale, e che è stato creato per illustrare il ciclo dell’eroe sumero Gilgamesh. La stessa rigorosa simmetria si incontra anche nell’arte persiana, che ha moltiplicato i personaggi attorno all’albero sacro di Hom, a cui si sono ispirate le rappresentazioni di Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden. Come abbiamo visto, l’episodio è riportato due vol­te nel libro di Daniele: la Bibbia di Roda e i capitelli del chiostro di Moissac ne presenta­no entrambe le sequenze, cosa eccezionale nell’arte romanica: nel primo capitello di Moissac, il profeta, con le braccia alzate, prega fra le due belve che lo guardano senza osare avvicinarsi; nel secondo, è seduto in mezzo a sei fiere.

Moissac, Saint-Pierre – Capitello: Daniele nella fossa dei leoni

In un capitello della chiesa di Saint-Eutrope a Saintes, Daniele è nell’atteggiamento dell’orante cristiano, fra i leoni che gli leccano i piedi. Il profeta è nella stessa posizione su di un capitello di Varen, nella Linguadoca, e anche a San Pedro de la Nave, in Spagna.

Varen, Chiesa di San Pietro – Capitello: Daniele nella fossa dei leoni

San Pedro de la Nave, Chiesa – Capitello: Daniele nella fossa dei leoni

3. Daniele nutrito da Abacuc

La scena, molto rara nell’arte romanica, si trova tuttavia ad Autun e a Moissac. Nel primo caso, il profeta è seduto sotto un arco che rappresenta la fossa dei leoni; due teste di fiere sovrapposte lo fissa­no; dall’altro lato di Daniele, Abacuc, solle­vato da un Angelo, porta il cibo.

Autun, Cattedrale di San Lazzaro – Capitello nord: il profeta Abacuc, afferrato da un Angelo, porta da mangiare a Daniele nella fossa dei leoni

A Moissac la composizione è abbastanza simile: l’ange­lo prende per i capelli Abacuc, che ha in spalla due ceste di viveri; una volta compiu­ta la sua missione, il profeta vivandiere torna in Giudea.

4. Il sogno dell’albero abbattuto

Il soggetto è ancora più raro del precedente, tuttavia è illustrato da una miniatura della Bibbia di Roda.

5. La punizione di Nabucodonosor trasformato in bestia

La punizione del re troppo orgoglioso è sta­ta diffusa dai manoscritti dei commenti all’Apocalisse di Beatus di Liébana, in particolare nel Beatus di Astorga.

Un capitello del chiostro di Moissac è interamente dedicato a questo tema. Sulle quattro facce compaiono, in successione:

  • Nabucodonosor prima della punizione: il re, incoronato, assiso in trono fra i suoi con­siglieri, sotto delle arcate fiancheggiate da torri che simboleggiano il suo palazzo;
  • la città di Babilonia, simboleggiata da ba­stioni;
  • la punizione: Nabucodonosor è stato tra­sformato in un quadrupede mostruoso; con­serva però la testa umana, sempre coronata, e bruca l’erba, a quattro zampe; l’artista ha insistito di proposito sul carattere derisorio della sua nuova condizione; di fianco all’animale, un Angelo annuncia la punizione;
  • Nabucodonosor recupera il trono dopo essersi umiliato: il suo nome è inciso sul car­tiglio che tiene in mano trionfalmente per indicare la dignità ritrovata.

Nella Bibbia di Roda, la scena della pu­nizione è molto simile: il re nudo, con lunghi capelli e artigli ai piedi, cammina a quattro zampe accanto a un bue che bruca.

Immagini dello stesso tipo si trovano in molti capitelli, nelle chiese di Saint-Gaudens, Saint-Benoît-sur-Loire, Saint-Hilaire di Foussay nel Poitou, o ancora a Bourg-Ar­gentat.

6.   Il convito di Baldassarre

L’episodio è illustrato dagli artisti medievali in maniera molto convenzionale. È una sce­na di banchetto, nella quale si riconoscono il re, per la corona, e il profeta, per il gesto della mano che indica l’iscrizione misteriosa. La troviamo nell’Apocalisse di Saint-Sever, nella Bibbia di Farfa e in un capitello della tribuna del nartece di Vézelay.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 141-145

Elefante

Sezione: Lessico


L’elefante è uno di quegli animali meravigliosi che hanno profondamente colpito e sedotto l’immaginazione medievale. Le numerose leggende che l’avevano avuto protagonista, o comunque attore, alle origini, si sono però protratte ben al di là dell’epoca medievale e hanno dato vita a un florilegio imponente.

Zona egiziana

Il numero degli elefanti raffigurati in epoca romanica sui capitelli è di per se piuttosto sorprendente: per limitarci alla Francia, si possono citare una ventina di esempi distribuiti per tutte le province, ma presenti principalmente in Borgogna-Sens, Vézelay, Souvigny, Perrecy-les-Forges – e nelle regioni occidentali del Poitou e della Saintonge-Poitiers, Foussais, Aulnay. Certo, gli scultori romanici non potevano avere modelli a portata di mano: i testi scritti, a scorrerli bene, non menzionano altro che il dono fatto da Harun ar-Rashid, califfo di Bagdad, a Carlomagno nel 797. Ciò nonostante, non si può negare che gli elefanti effigiati siano di un notevole realismo: basta pensare a quelli di Aulnay e di Perrecy-les-Forges. Ma se i modelli vivi mancavano, gli scultori romanici disponevano pur sempre dei tessuti d’Oriente, come quelli di San Isidoro a León o di Saint-Josse-en-Ponthieu (oggi al Louvre), e certamente anche di pezzi per il giuoco degli scacchi dello stesso tipo dell’elefante offerto a Carlomagno da Harun ar-Rashid, rimasto a lungo nel Tesoro di Saint-Denis.

Collocazione

A far sì che le raffigurazioni dell’elefante fossero così numerose e che fosse tanto apprezzata la lavorazione dell’avorio, proveniente per l’appunto dalle sue zanne, fu la rarità, l’esotismo: sulla colonna di Souvigny, l’elefante, insieme col liocorno, col grifone, con la sirena, con la manticora, ecc., è inserito fra gli animali strani, accanto ai popoli immaginati.

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Ad Aulnay, gli elefanti sono accompagnati dall’iscrizione HI SUNT ELEPHANTES e si trovano nella navata laterale sud, cioè a dire dallo stesso lato in cui si apre il portale ornato con tutte le figure possibili di mostri e in cui la parte absidale, concepita come una vasta bilancia del Giudizio, presenta la raffigurazione dei dannati, in contrapposizione all’abside nord, nella quale si vedono gli eletti, gli eroi Daniele e Giorgio vittoriosi sui leoni e sui draghi. Anche nel portico di Perrecy-les-Forges gli elefanti sono accostati alla sirena e ai fauni persecutori dei celebri eremiti san Paolo e sant’Antonio. Nel coro di svariate chiese borgognoni, come Saint-Menoux nell’Allier o Saint-Sauveur di Nevers, e soprattutto nel coro del grande priorato cluniacense di La-Charité-sur-Loire, un dromedario, un drago e un grifone stanno vicini all’elefante e all’Agnus Dei, a imitazione dei fregi absidali di Aulnay.

Significati

Con tutto ciò, non è assolutamente da credere che gli elefanti rappresentino il male: al contrario, se mai Spesso sono posti l’uno di fronte all’altro: a Perrecy stanno ai lati di un magnifico albero cosmico che tocca il cielo (come indica la croce riversa collocata in cima). Ad Aulnay sono tre, due dei quali anch’essi faccia a faccia, mentre il terzo segue quello di destra; di tutti i soggetti esotici posti da questo lato, essi sono i più vicini al cielo dell’abside, preceduti soltanto da alcuni uccelli dal lungo collo che s’incrociano e beccano degli hom, delle felci arborescenti. Sull’abaco è inoltre associato loro il fregio a zig-zag, simbolo dell’avventura, mentre i dadi la scacchiera, sovrastano il lato della dannazione, evocazione più certa delle realtà inferiori, terrestri. La prossimità di una vegetazione lussureggiante fa dell’elefante uno dei felici abitatori del Paradiso terrestre, allo stesso titolo di Adamo ed Eva. Ma indenne dal peccato originale e automaticamente ammesso alla beatitudine eterna, per quel tanto che un animale può goderne, tutti i comportamenti che gli venivano attribuiti, tutte le caratteristiche della sua bizzarra anatomia, quanto mai idonei a esercitare l’immaginazione, avevano valore esemplare, a giudizio degli autori medievali. Gli si prestava il dono di sapere sempre scegliere la direzione giusta, la saggezza e innanzi tutto la castità: lo si riteneva di temperamento freddo e quindi incapace di procreare se non dopo avere ingerito la radice della mandragora. Gli venivano riconosciute tutte le virtù della moderazione, la temperanza, e perfino la benignità dei principi, perché privo di fiele. Ma era nello stesso tempo il simbolo della forza inespugnabile, con l’edicola che portava sulla schiena per ospitare il re o la regina: e ciò in stretta relazione con l’«elefante» dei giuochi di scacchi orientali, nei quali esso fa le veci della nostra «torre» incaricata della difesa reale. C’era poi un’ulteriore ragione per accostarlo alla Vergine, e più precisamente il testo biblico di 1 Macc. VI, 37, in cui si parla di Antioco, il nemico di Giuda, che aveva equipaggiato i suoi giganteschi ausiliari con una torre di legno, legata con delle cinghie, sulla quale potevano stare e combattere 32 uomini; ad esso poteva aggiungersi la descrizione della donna del Cantico dei Cantici (IV, 4):

Come torre di Davide è il tuo Collo,
edificata a guisa di fortezza;
mille scudi le sono appesi intorno,
tutti scudi di eroi

Secondo Riccardo di Saint-Laurent, questi passi evocano la Chiesa e quindi la Vergine, ma possono anche applicarsi all’elefante, simbolo di castità e di forza, circondato da soldati, quale appare negli scacchi di Carlomagno. L’elefante simboleggia infine il battesimo, perché la sua femmina partorisce nell’acqua di uno stagno, mentre il maschio monta la guardia per mettere in fuga il drago; in effetti, come tutti gli animali illustri, l’elefante è il vincitore del serpente e, per Riccardo da Saint-Laurent, è questa una ragione in più per paragonarlo alla Vergine che, accogliendo in sé il Verbo incarnato, guarisce dal veleno della concupiscenza.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 131-132

Disposizione anteriore: i portali e l’idea di interdizione, arcata o timpano

Sezione: Lessico


Émile Mâle ha ravvisato l’origine dei portali romanici e soprattutto borgognoni, e contemporaneamente dell’insieme dei portali gotici, nel Tetramorfo di Moissac, nell’Ascensione della porta Miégeville o più precisamente di Cahors e nel Giudizio infine di Beaulieu. Non c’è alcun dubbio che la porta in quanto tale e la sua funzione essenziale risaltino in maniera più netta nella zona mesopotamica che nella zona egiziana, e che per tanto il ruolo di tali portali sia stato grande. Priorato di Cluny, Moissac è la prima a collocare all’entrata della chiesa il Cristo circondato dal Tetramorfo e da Vegliardi con una sistemazione assolutamente originale; il tema si propaga immediatamente, con rapidità incredibile, a Chartres, a Cluny, a Bourg-Argental, ecc. Quelli che in esso appaiono più nuovi e stupefacenti sono i Vegliardi, tema ispirato più precisamente dalle Apocalissi di Beato di Liebana, le stesse appunto che hanno fornito il modello al motivo circolare di Moissac, giacché il Tetramorfo di per sé non è un tema inusitato. Gli «angeli annunciatori» di Cahors si ritrovano a Chartres, così come a Saint-Denis si ritrovano la croce e la posa del Cristo di Beaulieu; sono tutte opere, d’altronde, di maestranze provenienti dalla Linguadoca.

A nostro avviso, però, un’analisi siffatta non tiene conto della realtà nella sua interezza. Quantunque il tema del timpano sia spessissimo d’una estrema chiarezza, non bisogna confondere il timpano con la porta o col portale presi nell’insieme. Si può infatti parlare di «timpani» a proposito del sud ovest francese, ovverosia della zona mesopotamica? Le rappresentazioni dei timpani sono qui movimentate e non statiche, quando esse esistono: esistenza che comunque non riguarda assolutamente la zona Charente-Poitou, nella quale solo gli archivolti presentano una ornamentazione tematica, mentre invece la funzione di un timpano è quella di esibire una immagine stabile, permanente, che dia l’idea dell’eternità. Nelle «porte» autentiche, tipo quelle di León, di Ripoll, di Tolosa (porta Miégeville), le rappresentazioni «ascendenti» poste esternamente ad esse, nei pennacchi, sono più importanti di quelle del timpano propriamente detto. L’arcata spoglia e la cornice riccamente ornata al rovescio rendono più sensibile l’analogia con l’arco di trionfo romano. Anche nei veri e propri timpani di Moissac, Beaulieu e Souillac le rappresentazioni ascendenti dei muri laterali, dei piedritti e dei pilastri mediani sono quasi più importanti di quelle dei timpani. Si tratta, ogni volta, di riportare l’attenzione sulla forma quadrata, verso la terra, nella stessa misura almeno che può essere riservata alla visione circolare. I timpani sono per contro fondamentali nel sud est, dove la decorazione dei pennacchi è limitata a casi eccezionali; la visione circolare costituisce infatti il centro verso cui convergono le raffigurazioni dei piedritti, delle statue-colonne, per esempio in Provenza, e soprattutto quelle degli archivolti, ornati sovente con oggetti iconografici, della Borgogna. Nel caso di una insistenza sull’idea della Chiesa militante, sull’immagine della terra, concetti che impongono la concentrazione dei parati decorativi sulla cornice quadrata della porta, il tema del timpano – come quello della Consegna delle chiavi a san Pietro e del libro a san Paolo che vediamo ad Andlau (Bas-Rhin) e a Basilea – è frequentemente un tema glorioso, trionfale e simmetrico, che si ritrova anche nelle absidi, come molti dei temi rappresentati sul portali di questa zona: ecco perché il cerchio ha un ruolo superiore a quello del quadrato.

Certo, non si può mettere in dubbio che la formula della porta guardata dai leoni, dell’arcata di difesa o dell’arco di trionfo che rappresentano una minaccia per il vinto, e più in generale della porta sic et simpliciter, che, è vero, sta aperta, ma che in tempi d’insicurezza si chiude di fronte agli assalitori, sia molto più significativa dell’idea di interdizione espressa dal portale propriamente detto, interamente imperniato sulla rappresentazione del timpano, offerta a tutti gli sguardi, quando invece la si sarebbe dovuta occultare nell’oscurità del santuario o addirittura della cripta.

Il fatto è che, al contrario degli antichi templi, la chiesa cristiana è per principio ostile all’essoterismo e come tale accessibile a chicchessia. La formula iconografica del portale è quindi conforme all’insegnamento che ci viene impartito dal Cristo: con essa vengono proiettati in facciata i temi confinati nelle absidi. Se si considera la disposizione dei soggetti sui portali della Linguadoca, ci si accorge facilmente che questi sono innanzi tutto dei portici, più che dei portali, e che temi importanti, ripetiamolo un’altra volta, sono in essi anche, e forse più ancora, quelli che ornano i piedritti e i muri laterali del portico; attraverso tali temi, attraverso la loro disposizione sotto un portico, si è posto con più forza l’accento sull’idea di interdizione, tradizionale ma non specificamente cristiana, destinata comunque a sparire nella disposizione gotica.

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Il moltiplicarsi dei leoni di difesa anche sui timpani, come a Jaca, oltre che dinanzi ai portali, il diffondersi delle rappresentazioni allegoriche imperniate sulla figura del leone, come alla porta Miégeville e a Compostella, che arrivano ad invadere perfino i capitelli con il tema ambiguo dell’uomo col leone, e al tempo stesso l’importanza accordata alla parte anteriore della chiesa – basta pensare ad Oviedo o alla famosa cappella dei re a León –, sono tutti segni distintivi della formula mesopotamica che mirano in certa misura a vietare l’accesso alla chiesa. È ben noto, d’altronde, quanto disparata e non di rado poco raccomandabile fosse la provenienza dei pellegrini, quanto numerosi fossero i pericoli che essi affrontavano da parte dei briganti lungo le vie su cui sorgevano tali portali, e soprattutto quanto incombente fosse la minaccia dell’eresia: ce ne è a iosa per spiegarsi i motivi di questa preoccupazione difensiva. Il principio del timpano, intorno al quale tutti i temi – sugli architravi sugli archivolti, sulle strombature, sui piedritti, sui pilastri mediani delle porte – si concatenano e si ravvolgono, alla maniera di un’immagine tradizionale, è un derivato dall’arte copta e non siriana: il complesso di Charlieu non è isolato nel sud est e nella zona egiziana. Le iscrizioni aggiunte sui portali borgognoni dimostrano che al Cristo in maestà che in essi troneggia si accoppia un’idea di accoglimento e di benedizione ma anche un’idea di rispetto per la maestà divina che è, senza alcun dubbio, un’idea di messa in guardia, di interdizione. A Condeyssiat (Ain) si poteva, per esempio, leggere: «E così che tu troneggi in Cielo, o Cristo, e che ci benedici». A Vandeins, nella stessa regione, accanto a un portale del tipo eucaristico, con un Cristo simile a quello dell’antico portale di Charlieu, dominante la rappresentazione di un’Ultima Cena associata alla Lavanda dei piedi, si legge: «Benedite il Signore, ecco la maestà di Dio». E più in basso: «Che la volontà onnipotente esaudisca coloro che entrano e che l’angelo di Dio protegga coloro che escono». Sono, come si vede, iscrizioni significative, proprio perché implicano un invito al fedele che penetra nella chiesa a rispettare la maestà dell’Altissimo, simboleggiata dal Cristo assiso in trono – il che ci richiama automaticamente alla memoria i timpani copti. Ma l’iscrizione che compare inserita insieme con la Cena e con la Lavanda dei piedi sull’architrave di numerosi portali, tipo Saint-Julien-de-Jonzy, Savigny, Bellenaves, Saint-Pons, Saint-Gilles, non è certo meno significativa. É. Mâle traduce: «Quando il peccatore si accosta alla mensa del Signore, bisogna ch’egli chieda con tutto il cuore il perdono del Signore». Non solamente il fedele che entrava nella chiesa doveva considerare con reverenziale timore il fatto di avvicinarsi al Signore, ma era soprattutto l’idea di rispetto a imporglisi con forza nella imprescindibile esigenza di sottoporsi al sacramento della penitenza prima di prendere parte al sacramento della eucaristia. San Pietro, a cui il Cristo lava i piedi all’estremità della lastra scolpita, tende al Signore – per esempio, a Saint-Gilles, a Bellenaves e a Clermont-Ferrand (sull’architrave murato di rue des Gras) –, contemporaneamente i piedi e la testa; gesto che palesemente ricorda il testo evangelico di Giovanni, là dove l’Apostolo chiede a Gesù: «Signore, non i piedi soltanto, ma la testa anche». Come il principe degli Apostoli, così il fedele deve abbandonare se stesso, completamente, con tutto il suo essere, alla purificazione richiesta dal Signore.

Un tema del genere, che dà luogo a quello che Mâle chiama «portale eucaristico», proprio perché in esso viene posta in evidenza l’importanza dei sacramenti, corrisponde in pieno alla definizione già accennata a proposito degli ingressi romanici sui quali appaiono fianco a fianco il Cristo eterno e la Chiesa presente. Si tratta, praticamente, di un caso particolare di «tema doppio». Al posto dell’avvertimento dell’angelo che costituisce un tema d’interdizione, in quanto esorta il fedele a riportare il suo sguardo sul Cristo che deve venire piuttosto che su quello che s’innalza alla vista di tutti, è la Presenza reale che qui viene evocata ed è Dio stesso che invita il fedele a rivolgersi a lui con rispetto e ad attendere la sua grazia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 124-126

Disposizione: varietà dei tipi di disposizione

Sezione: Lessico


I diversi tipi di disposizione adottati dipendono da cause complesse, storiche e geografiche. Si può distinguere la disposizione «anteriore» o «basilicale», secondo che l’importanza maggiore sia data alla decorazione del nartece o a quella dell’abside; e la disposizione «esterna» o «interna», secondo che tale importanza sia data ai rilievi scolpiti all’esterno – sulla facciata o nel coro – oppure ai capitelli e agli affreschi dell’interno. Sappiamo da numerose testimonianze scritte che le chiese antiche erano interamente rivestite di affreschi all’interno, dove era facile dipingere delle scene in serie. Nelle chiese romaniche, per contro, i progressi tecnici dell’architettura, che tende ad aumentare il numero delle finestre per accrescere l’illuminazione e al tempo stesso a rialzare le volte, determinano un diradamento dei punti d’appoggio e quindi una riduzione della superficie disponibile oppure un allontanamento dalla vista delle parti da decorare, soprattutto delle volte delle navate. Ecco perché si deve considerare eccezionale un caso come Saint-Savin-sur-Gartempe. Se non che, come stabiliscono anche i canoni del concilio del 1050, la Chiesa ha come sua missione il compito di istruire e di moralizzare. Ed è proprio questo che spiega le disposizioni multiple: si fa fuoco, cioè, con tutta la legna che s’ha a portata di mano e può succedere, quando la navata è troppo buia, ma il materiale lo permette, che un programma venga trasferito sui modiglioni esterni, troppo piccoli per potere accogliere scene di un qualche respiro, e che queste debbano perciò essere ridotte a semplici schemi, il cui senso, s’intende, oggi in buona parte ci sfugge.

Negli affreschi di Saint-Savin, per esempio, i personaggi delle volte, che altrimenti sarebbero poco visibili, sono ingranditi al massimo, al contrario di quelli dell’abside o del portico, più accessibili alla vista. Sempre per ragioni di leggibilità, nelle cripte oscure, tipo Tavant, Billom e ancora Saint-Savin, le pose sono forzate, i personaggi non fanno che gesticolare; l’artista è trascinato da un espressionismo a volte delirante.

Esaminiamo, a questo punto, alcuni tipi diversi secondo le regioni, sulla base della geografia. Troveremo che una disposizione «interna» è tipica delle regioni del Centro, come il Velay, il Brivadois, l’Alvernia: i portali e i fregi esterni sono rari qui, più dei capitelli interni sui quali è concentrato il significato simbolico (o degli affreschi a volte, nel Velay). Non si ravvisa l’utilità di una decorazione esterna, a causa del clima rigido in inverno, mentre le arenarie e le lave che abbondano nella regione si prestano benissimo alla scultura dei capitelli. Basta cominciare a discendere la valle del Rodano per imbattersi invece in una decorazione esterna, fatta essenzialmente di fregi – come ad Ainay (Lione), a Saint-Restitut, a Saint-Paul-Trois-Chàteaux, a Nimes –, che controbilancia la disposizione interna. Si arriva addirittura a dei portali a portico, che ricordano da vicino i peristili greci, in certe chiese della Provenza favorite dall’amenità del clima. È facile in queste zone fare arrivare per via fluviale i materiali migliori. Per ragioni analoghe, però, una progressiva inversione di tendenza si osserverà movendo dalla Charente e dai paesi della costa atlantica verso la Linguadoca. L’apogeo della decorazione esterna si troverà nella Saintonge, indifferentemente, sia sulle facciate (Echillais, per esempio), sia sulle absidi e i cori (Vaux, Rioux, Rétaud, ecc.). Ci troviamo infatti qui in una regione dal clima relativamente temperato dalla vicinanza dell’Oceano, mentre invece la pietra calcarea che vi si estrae permette, sì, di eseguire decorazioni a rilievo minuziosamente traforate, simili a quelle di un cofanetto d’avorio, e istoriate, in certi casi, perfino con dovizia di particolari, ma assolutamente non è propizia alle vaste ambizioni architettoniche. È evidente, d’altro canto, che la migliore visibilità si incontra all’esterno, e che sono i parati murari – capitelli, fregi, archivolti, cornici delle finestre, cornicioni, mensole, metope, gocciolatoi – che permettono, meglio della decorazione interna, dei veri e propri concatenamenti più o meno narrativi. È il caso di Aulnay, dove ci viene esibita un’accurata decorazione interna sui capitelli dei quali pur anco gli abachi sono istoriati, ma dove al tempo stesso non ci si è astenuti dall’utilizzare tutti gli elementi esterni al fine di creare una vasta sinfonia di segni e di scene che s’accordano sulle «direzioni» dello spazio. Vi si può rilevare una straordinaria raffinatezza, congiunta a una volontà di insegnare nella maniera più eloquente e più leggibile: basti considerare che una pietra dorata, di una rara finezza di grana, tale da consentire all’artista tutte le possibili sottigliezze, è stata riservata alle scene più sacre e più ricche di significato: sugli archivolti dei portali occidentali e sulla finestra assiale del coro. Non solo. Sul famoso archivolto esterno del portale meridionale, quello che presenta la Caccia al cervo e i Quattro Temperamenti umani, la pietra in questione è stata adoperata solo per la parte simbolicamente solare del fregio, e non dalla parte del male, della malattia e della morte.

Questa decorazione esterna si conserva nella cosiddetta scuola dell’ovest francese, ma essenzialmente sulle facciate (Angoulême, Poitiers, Civray, Saint-Jouin-de-Marnes), giacché un apparato di tal genere s’accorda perfettamente con una più grande ambizione architettonica e con la qualità della pietra, leggibile anche da grande distanza, come ad Angoulême. Qui il calcare invecchia infatti molto bene sotto l’azione dell’aria iodata e indurisce invece di essere corroso come quello della Charente.

Una disposizione interna, anzi proprio absidale (Chauvigny), entra invece in concorrenza con quella esterna non appena ci si avvicina alla media Loira, dove domina una disposizione interna fondata sull’affresco, a volte anche absidale, che persisterà ancora in epoca gotica. Analogamente, se ci si dirige verso sud, la scuola della Linguadoca farà valere una disposizione che è più interna rispetto a quella della Charente, pur restando, grazie ai suoi portali a portico, una disposizione anteriore, forse anche perché qui la luce solare è più intensa e riesce a penetrare meglio entro la chiesa. Succede tuttavia che il desiderio di sottolineare nel portico la presenza di una interdizione, faccia mantenere una decorazione anche sulla facciata (tipo porta Miégevile), ma in questo caso c’è una cornice che la sovrasta a mezza altezza, e questa disposizione non esclude il programma interno dei capitelli, che viene semplicemente limitato quantitativamente. Si ha l’impressione per contro che il programma che ricopre la facciata sia in certo modo la trasposizione di uno spartito interno completo, che riepiloga quello della chiesa intera. Ad esso non corrisponde un ricco e denso programma interno o come minimo quest’ultimo sarà di tutt’altra natura; a Poitiers, per esempio, sulle volte dell’abside di Notre-Dame-la-Grande una decorazione ad affresco sviluppa ciò che non sarebbe stato visibile nelle parti alte della facciata. Questo programma interno dà spazio alle gerarchie angeliche e al Cristo troneggiante nella sua gloria, al modo bizantino, mentre la Vergine occupa la posizione di spicco all’esterno.

Andando ancora avanti nel sud della Linguadoca, ovverosia avvicinandoci alle montagne, la disposizione puramente interiore diventa predominante, nonostante l’originalità dei portali, per esempio nel Béarn (basti come esempio il portale di Oloron con il timpano diviso a sua volta da un doppio timpano). Nel nord della Spagna, poi, troviamo di nuovo una disposizione simile a quella della Linguadoca – accostamento, questo, che è stato fatto anche a proposito della scultura propriamente detta, sia sotto il profilo della fattura che sotto quello della iconografia (Gaillard). La disposizione avrà tuttavia un carattere più interno che in Linguadoca, giacché la Spagna è per eccellenza il paese delle cappelle-nartece (Cámara Santa di Oviedo, Panteón de los Reyes di León, ecc.), e vi si troverà perfino una disposizione interna interessante la navata, se non l’abside, esattamente al contrario del sud est francese.

Egitto e Mesopotamia

L’edificio cristiano s’è formato principalmente nelle zone del Vicino Oriente, anche se poi l’Occidente, per ragioni di comodità, ha optato per la basilica romana. Non c’é nulla di strano quindi, che si siano adattate alla nuova religione le cupole dei mausolei, i triconchi imperiali (il Cristo, nell’orbita bizantina, eredita addirittura alcuni simboli imperiali), le absidi iraniane dei templi del fuoco, l’accuratissima orientazione dei santuari egiziani, l’arcata che ricorda la porta gigantesca dei templi-montagne mesopotamici, e infine la colonna ellenistica: tutto quanto c’era di più bello e di più carico di significati negli antichi edifici è stato ripreso e restituito a nuova vita. In maniera analoga, Leroi-Gourhan nota che, per noi, quei templi remotissimi che sono le grotte preistoriche restano sorprendentemente simili a se stessi nel corso dei millenni – il che naturalmente non vuol dire che il pensiero non si evolva né che dogmi e riti restino immutati attraverso le epoche. Passando al setaccio queste multiformi contaminazioni del passato e della decorazione antica, è addirittura agevole far risalire, con l’aiuto dei tipi di disposizione più correnti, absidale o anteriore, un qualche riflesso di certi santuari naturali: dopo tutto, le antiche religioni imitate dall’Egitto e dalla Mesopotamia non erano forse religioni naturiste?

Come si sa, i santuari mesopotamici erano in generale dei templi-montagne; le loro proporzioni immense non consentivano di sistemare ai diversi piani dello ziggurath una ricca decorazione che potesse essere esposta alla vista del popolo; a loro volta l’altare o l’osservatorio erano collocati sulla cima, perché solo gli iniziati, sacerdoti o re, avevano il diritto di contemplare le immagini divine. In compenso le facciate, le porte o gli ingressi, presentavano una vasta decorazione profana. È il caso soprattutto dei palazzi assiri dei quali sfingi e leoni proteggevano simbolicamente la soglia. Né meno numerose erano le figure di guardia, sfingi o geni cinocefali, all’entrata dei templi egiziani anch’essi vietati al popolo; solo che qui la disposizione, assai prossima a quella della grotta, permetteva di disporre una decorazione d’una estrema ricchezza che investiva l’insieme del santuario, arrestandosi sempre più in prossimità della cella, dove la divinità veniva quotidianamente resuscitata e rivivificata, in teoria dal faraone, di fatto dai sacerdoti.

Questo impregnamento continuo dell’Occidente da parte dell’Oriente doveva far sì che influenze orientali vive e profonde si manifestassero nelle regioni che sarebbero state teatro della rinascita della scultura; fu là che fecero la loro comparsa, in un modo che ancora oggi c’impressiona profondamente, due tipi di disposizione, opposti e complementari, strettamente, sorprendentemente imparentati con quanto abbiamo fin qui descritto per sommi capi. Benché costruita secondo il tipico piano delle chiese «di pellegrinaggio», in cui l’importanza maggiore è riservata alla parte absidale, la basilica di Saint-Sernin a Tolosa non presenta alcun programma scultoreo nell’abside. L’accento è posto decisamente sulla disposizione anteriore e l’abside perciò rimane nuda: il pensiero simbolico sembra rifugiarsi per intero sulla fronte dell’altare maggiore – il modello più perfetto del quale è rappresentato proprio da quello della chiesa in questione. Oppure sul ciborio che lo ricopre: celebre fra tutti quello di Cuxa. Al contrario, l’importanza dell’abside esplode letteralmente nella regione del Forez-Velay. Né certo può essere trascurato il grandioso programma di Ainay, ispirato anch’esso dalle absidi copte. Tutti i santuari della regione lionese, anche i più umili, presentano, come fa osservare C. Jullian, una straordinaria ricchezza nell’abside.

Se nelle diverse trattazioni della presente opera, a proposito dei temi affrontati, differenziamo l’aspetto che essi presentano in quelle che chiamiamo rispettivamente zona egiziana e zona mesopotamica, è perché influenze precise di queste due tradizioni prebibliche possono essere rilevate in zone infinitamente più vaste, che toccano la Francia più o meno di sbieco: la Francia sud orientale, a partire dall’Italia, e la Francia sud occidentale, a partire dalla Spagna. Lo stesso portale cluniacense che appartiene all’insieme sud orientale, Provenza compresa, può ricollegarsi alla disposizione absidale che sopravvive soprattutto nelle regioni della media Loira, mentre d’altra parte c’è una evidente parentela di programma fra i portali a portico, le cappelle-nartece e le facciate della Francia atlantica, dal momento che sia quelli che queste si richiamano indiscutibilmente alla moda, sorta d’improvviso poco dopo l’anno mille e rapidamente diffusasi, delle Apocalissi di Beato di Libana, con le conseguenti imitazioni della Città cubica e della visione cosmica bizantina legata al tema della montagna.

Non è affatto strano che il principio dell’orientazione delle chiese sia debitore in grandissima parte alla influenza egiziana: esisteva già, di fatto, in certi santuari dell’antico Egitto, l’uso di illuminare direttamente con la luce del sole, in determinati periodi dell’anno, la statua del dio custodita nella cella, e il Nilsen ha potuto dimostrare che la stessa cosa avveniva nelle antiche chiese cristiane, dove ci si sforzava di far coincidere la festa del santo locale con l’illuminazione, mediante un raggio di sole, della sua reliquia contenuta nell’altare. Senza dubbio, la differenza fondamentale fra i santuari tradizionali e la chiesa cristiana è data dal fatto che quest’ultima è aperta a tutti, mentre invece l’antico santuario era chiuso: in esso era infatti la temibile dimora del dio, e solo quelli ch’erano al suo servizio avevano il diritto di penetrarvi. Eppure questa tradizionale tendenza alla chiusura non scomparirà completamente dalla chiesa cristiana; la chiusura dell’abside sacra, che ha lo scopo di accrescerne il mistero e di suscitare un reverenziale timore, s’inserisce nella logica della disposizione anteriore tipica della zona egiziana: i primitivi «cancelli», sorta di sipari che venivano tesi intorno al presbiterio, per impedire la comunione eucaristica a coloro che non potevano o non volevano parteciparvi, e che sarebbero diventati più tardi «pontili» (o jubés), non faranno che perpetuarne la tradizione. Nella disposizione bizantina, per lo meno dopo il trionfo del culto delle icone, questa chiusura sarà ancora più radicale con l’iconostasi, sbarramento autentico e fisso, che con molta probabilità era già presente nelle antiche chiese, ricoperto d’immagini sacre, la cui contemplazione doveva tenere occupati i fedeli durante lo svolgimento del rito del sacrificio. Nella liturgia bizantina, inoltre, esisteva la «processione della porta», cerimonia essenziale del rito della «dedicazione».

Esaminiamo ora alcuni aspetti più significativi della disposizione copta. Tutti conoscono l’importanza del tema doppio di Bawit: le piccole cappelle copte denotano una disposizione di affreschi preromanici, aventi programmi diversi nelle navate laterali e sulle pareti secondo una progressione, nella quale il tema più importante – non sempre lo stesso, ma generalmente di carattere solare – è posto nell’abside: così il carro, per esempio di Elia ed Eliseo, il Cristo fra il sole e la luna, ecc. Appare evidente una diffusa mescolanza di temi pagani e temi cristiani: ecco infatti la Sibilla che si mescola con le Virtù fra i medaglioni dell’arco trionfale, ecco il graffito di Bawit col cervo inseguito dal leone, ecco la sirena di Ahnas, ecco il san Giorgio che schiaccia i mostri, identico a Horo, su un affresco delle catacombe di Alessandria. Fra questi temi delle absidi o dei timpani che trionferanno poi sulle icone, occorre citare la Vergine che allatta il Bambino: la troviamo su un affresco in un’abside-cripta di Montjmorillon e su un altro in una cappella di Le Puy. E. Mâle segnala un angelo dalle ampie ali che porta con reverenza sulle mani velate delle piccole anime da presentare a Dio: un bel motivo che è stato riprodotto con grazia squisita da uno degli scultori del Giudizio universale nella Cattedrale di Reims. Per avere conferma della grande importanza attribuita alle absidi, basta pensare che alcune grandi chiese, come quella di San Saba sulla laguna Mareotis, ne possedevano due contrapposte e che altre disponevano addirittura del triconco imperiale. Sugli architravi degli ingressi si vede frequentemente una «immagine circolare», un cerchio sorretto da angeli, a imitazione dell’antico disco solare alato; il primo timpano segnalato da E. Mâle è copto. In una catacomba di Alessandria si trova invece il modello di un altro motivo, egualmente centrato, secondo la disposizione degli antichi affreschi egiziani (così com’è indicata da Badawui), con un personaggio centrale di statura maggiore: è il tema del timpano di Valence, dominato dal Cristo della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Troviamo in questi affreschi la prima rappresentazione dell’Inferno, col dannato che bolle entro una marmitta – tema che sarà sviluppato non senza qualche truculenza dall’arte gotica. Una disposizione d’insieme appare a volte iscritta all’esterno delle grandi chiese mediante dei fregi continui formati da cerchi inseriti in trecce di nastri: si tratta di medaglioni con motivi simbolici, di origine siriana. Tutto un repertorio interno, ispirato dal Physiologus alessandrino, la cui diffusione sarà enorme nell’arte romanica, si trova in germe in un affresco che mostra san Sisinnio, paludato da cavaliere come san Giorgio, intento a schiacciare i vizi, raffigurati rispettivamente come un pidocchio, uno scorpione, un serpente doppio, un centauro e una sirena. Gli affreschi delle cupole nelle cappelle funerarie della Grande Oasi di Bagauat, a occidente dell’antica Diospoli-Tebe, presentano una sapiente disposizione imperniata sulla figura della Vergine; vi si scorge il tema della Conversazione mistica, ereditato anch’esso dall’Antichità, con santa Tecla su una seggiola a croce di san’Andrea come quella della Vergine a Cunault, nonché la contrapposizione simmetrica di Eva a Maria e di Adamo al Cristo. Si sa d’altronde che lo spirito tipologico è stato attinto al giudaismo alessandrino (Filone), per conto del cristianesimo, ad opera dell’egiziano Origene il quale, come già il suo predecessore Clemente di Alessandria, ha saputo trasporre lo spirito dei geroglifici nella nuova iconografia. Il cerchio solare ocellato, geroglifico egiziano, lo si può qui vedere al centro, circondato da un pentacolo, disegnato a sua volta dalla vigna mistica. Questi motivi che mettono insieme paganesimo e cristianesimo si sono propagati grazie specialmente ai tessuti copti, la cui produzione non ha conosciuto interruzioni, mentre i motivi stessi passavano dal paganesimo al cristianesimo – non diversamente da ciò che avveniva per gli avori (vedi la cattedra di Massimiano a Ravenna con la storia di Giuseppe) e per l’oreficeria (vedi il calice cosiddetto di Antiochia).

Veniamo ora a qualche esempio della disposizione opposta, quella mesopotamica.

Indipendentemente dallo straordinario interesse che senza dubbio suscitano, non si può certo riconoscere altrettanta ricchezza simbolica di disposizione negli affreschi rupestri della Cappadocia; qui, ciascun anacoreta ha iscritto un certo numero di scene narrative prese in prestito dal Nuovo Testamento secondo un ordine cronologico, a simiglianza degli evangelari tipici della zona siro-palestinese; l’intento simbolico non risulta così apparente, né certo la disposizione poteva essere altrettanto diligente e precisa in ambienti sotterranei così ristretti. Gli affreschi dell’Asia Minore non esitano a rappresentare i supplizi dei santi in tutta la loro terrificante realtà. Il vescovo Asterio di Amasea, per esempio, parla del Martirio di Santa Eufemia dipinto nella grande chiesa di Calcedonia e san Gregorio di Nissa ci informa che nella chiesa di Euchaita, dove era sepolto san Teodoro, c’erano affreschi che rappresentavano la storia del suo martirio. È in questa stessa regione che è stato inventato, secondo quanto afferma san Giovanni Crisostomo, il tema del santo portatore della propria testa tagliata – pegno per «tutto ottenere dal re del cielo» –, destinato a incontrare notevole fortuna. Contrariamente alla disposizione in profondità con due cori posti l’uno dirimpetto all’altro o con tribune dalle quali era possibile contemplare l’abside, come a San Mennas, in Egitto, le chiese siriane e mesopotamiche nella loro maggioranza presentano un piano centrale e contribuiscono così all’affermazione della formula che doveva poi prevalere a Bisanzio. E il caso, in particolare, degli heroa, edifici destinati al culto dei martiri. Il loro piano si ispira sovente alla croce greca; basta pensare alla celebre grande chiesa di San Simeone Stilita, oggetto di un pellegrinaggio non meno frequentato di quella di San Mennas in Egitto.

Degno certamente di nota è il fatto che nei canoni degli evangelari egiziani, costantemente citati a proposito dei piedritti di Moissac e Souillac, con i loro grovigli di animali, sono le colonne quelle che richiamano tutta l’attenzione, non i timpani, che non presentano alcuna decorazione. Mentre infatti il timpano propriamente detto è nato nell’Egitto copto, quella che invece ha svolto un ruolo immenso in Siria ai fini della creazione di un repertorio decorativo estremamente elementare e portatore di remote tradizioni risalenti all’arte decorativa della Persia, dell’Assiria, perfino dell’antica Mesopotamia, è la decorazione degli architravi o dei piedritti – quindi degli elementi che delineano il quadrato, mentre il timpano è una derivazione del cerchio. Uno dei più famosi complessi che prefigurano la grammatica ornamentale romanica e che sono decorati di motivi esterni è il misterioso palazzo di M’chatta, con i suoi racemi di vite stilizzati, coi suoi animali posti faccia a faccia ai due lati di un vaso, col suo parato ornamentale in filigrana d’una straordinaria ricchezza che ricopre l’intera superficie del muro esterno. Fra i motivi della decorazione di questi ingressi troviamo la stella a sei punte già riprodotta sulla soglia di un palazzo di Ninive, frequente in Persia, in Lidia, in Fenicia, e che sarà fatta propria più tardi dagli Arabi. Oppure la margherita dei monumenti assiri, nel palazzo di Ninive, posta a separare due geni alati. L’elica del sole rotante, originaria della Fenicia, è soprattutto frequente sugli architravi della regione di Antiochia (Mudjeleia). La treccia, ovvero successione di motivi circolari disegnati da nastri incrociati, è anch’essa un motivo presente su questi architravi: all’interno degli avvolgimenti dei nastri si scorgono i motivi circolari di cui si parlava poc’anzi; la treccia compare inizialmente sui cilindri caldei. L’albero a palmette è un’eredità dell’hom iraniano. Si trova inoltre su questi ingressi il motivo del cuore, del quale è nota la diffusione avuta nell’arte romanica, precisamente in zona mesopotamica.

Abbiamo già citato per l’Egitto copto diverse formule architettoniche che attestano la fecondità della creazione nel campo delle absidi; potremmo citare un parallelo nell’Oriente mesopotamico. Uno dei piani che ha avuto la sua influenza nella disposizione anteriore romanica è quello delle «tre navate», detto «cappadociano», caratteristico del Poitou: lo stesso dicasi per le due torri ai lati dell’entrata che ritroviamo a Tourmanin e a Saint-Nectaire. Ma di tutti i temi cruciali che distingueranno le due zone e che renderanno possibili due disposizioni differenti, sono gli animali che si ricollegano in maniera più evidente a queste due tradizioni: da una parte il leone di Cibele, vinto da Gilgamesh, e i leoni che già difendono i templi di Ur; dall’altra il serpente, l’uraeus che orna la fronte del Faraone, il serpente del disco alato, incarnazione degli dei dopo la loro sparizione, il Tifone vinto da Osiride, ecc. Si vede chiaramente come il leone di difesa si leghi normalmente alla disposizione anteriore, mentre il serpente, associato come tale al cerchio, si collega alla disposizione in profondità, al cerchio magico.

Da ultimo, mentre gli dei egiziani sono estremamente differenziati e caratterizzati dalla loro maschera animale, gli dei mesopotamici sono spesso sostituiti dai loro simboli o comunque mal definiti. È la disposizione della grotta che porta a questa immagine, bisognosa di essere resuscitata quotidianamente e che dev’essere resa viva; la disposizione della montagna tende alla non-rappresentazione ebraica. In Mesopotamia si è portati a moltiplicare gli intermediari che separano l’uomo da Dio. Nelle scene di «presentazione al dio» vediamo sempre interporsi un intermediario, prefigurazione degli angeli, e tutti sanno che è in Asia Minore che compare la loro gerarchia diligentemente spiegata dallo pseudo Dionigi l’Aeropagita. Il tema delle squame romaniche che caratterizza la zona mesopotamica era, nel suo paese d’origine, una maniera di simboleggiare la montagna sotto i piedi delle divinità. Dei e geni dalle gambe incrociate costituiscono a loro volta uno di quei temi ambigui ch’è dato d’incontrare frequentemente nelle allegorie di questa zona.

Ma vediamo di riassumere. Attraverso questi apporti divergenti, attraverso queste disposizioni opposte e complementari che vanno affermandosi nelle due zone, movendo dalle rispettive fonti bisogna pure tener conto della reviviscenza oscura o palese degli elementi naturali, così importanti in qualsiasi tradizione: la grotta e la montagna. La disposizione egiziana, o copta, si identifica con la grotta sacra, in cui il Cristo, secondo l’iconografia bizantina e siriana, sarebbe nato; l’altro tipo di disposizione s’innesta invece nella logica della montagna degli antichi ziggurat, montagna sulla cui cima è posta la Città, secondo l’Apocalisse, destinata a rivelarsi solo alla fine dei tempi e sulla quale l’arca di Noé si è già posata.

Grotta e montagna svolgono un ruolo che non manca di sorprendere, in epoca romanica: ci riferiamo ai più venerati santuari dedicati all’Arcangelo Michele. Quello del Gargano, che è fra le più celebri mete di pellegrinaggio, quello del monte Gauro presso Sorrento, lo stesso Castel Sant’Angelo a Roma, e poi il Mont-Saint-Michel normanno, l’Aiguilhe di Le Puy, il san Michele della Chiusa, sulla strada della valle di Susa, nelle Alpi piemontesi, Rocamadour infine, sono tutti concepiti come delle grotte scavate in cima a delle alture sacre. L’unione di questi due elementi di per sé contrastanti – e come tali indicanti il Cielo e la Terra – finisce con l’avvantaggiarsi enormemente della particolare predilezione che circonda qualsiasi «congiunzione di contrari». Il perdurare dell’iconografia egiziana si lega tanto alla psicostasia dell’arcangelo, erede di Thot – l’uccello ibis –, quanto all’assimilazione del Cristo al Sole di Giustizia. Grazie al giuoco dei contrasti, l’oscurità della grotta, al pari di quella dell’abside, è propizia alle fantasie della luce misteriosa che viene a rischiarare la reliquia o l’immagine che ivi ha stanza; il meccanismo è identico a quello delle religioni misteriche. La disposizione mesopotamica insiste soprattutto sui tabù, sugli elementi doppi che proteggono la montagna sacra.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 113-118

Architrave e pilastro centrale (trumeau)

Sezione: Lessico


Zona egiziana

Gli architravi sbarrano gli ingressi delle chiese così come l’arco costituisce una minaccia per chi osasse entrare senza essere nelle disposizioni l’animo volute. L’architrave dei portali ha, come parte integrante del timpano e su un piede di perfetta parità con esso, nella zona egiziana una importanza superiore rispetto all’altra zona. Ne vediamo chiaramente la funzione, sotto questo profilo, leggendo l’iscrizione che accompagna la Lavanda dei piedi a Vandeins, nell’Ain. Si tratta di un portale che, come altri portali di chiese cluniacensi nella valle del Rodano, obbedisce alla formula che E. Mâle ha definito «eucaristica»: l’iscrizione invita alla penitenza, e dunque al sacramento della confessione, mentre la Cena chiama al sacramento dell’Eucarestia.

La maggiore importanza dell’architrave in questa zona si rileva anche dal fatto che esso di sovente diventa frontone: lo si chiama allora «architrave a due spioventi» (en bâtière) e assume la simbologia del triangolo: è il caso, per esempio, dell’architrave di Champagne (Ardèche) con la raffigurazione dell’Ultima Cena, e di quello di Notre-Dame-du-Port a Clermont-Ferrand con l’Adorazione dei Magi e il Battesimo del Cristo. Su quest’ultimo, in contrapposizione al Cristo in gloria collocato in alto, la Vergine rappresenta la Chiesa militante. Sui due portali di Neuilly-en-Donjon, e di Anzy-le-Duc, dove il tema centrale e glorioso del timpano è rappresentato dall’Adorazione dei Magi, questa funzione di avvertimento culmina con l’accento posto sul Giudizio finale: nel primo, infatti, i capitelli completano gli architravi e, sul capitello di sinistra, ad Adamo e Eva sono associati i dannati nudi e brulicanti, mentre agli Apostoli della scena di destra è accostato Daniele fra i suoi leoni, immagine dell’eletto. Ad Anzy, è lo spettacolo della Dannazione che appare sull’architrave, Genesi e Inferno; l’Adorazione dei Magi della lunetta soprastante è invece completata dagli eletti, dei quali, secondo i Padri della Chiesa, essi sono la prefigurazione, e vi si vedono anche gli angeli con le trombe, comprimari abituali del Giudizio. Gli Apostoli «troneggianti su dodici troni» di certi temi doppi sono pur essi simbolo degli eletti, e l’espressione con cui li abbiamo citati indica al tempo stesso che essi fungono da consiglieri del giudice, il che implica ancor sempre Giudizio e avvertimento. Questi Apostoli, raffigurati talvolta sotto serie di arcate (come a Beaulieu e come sugli antichi architravi del Roussillon), ricordano inoltre la Città celeste più frequentemente rappresentata sui timpani. Abbiamo notato, d’altro canto, numerosi architravi ornati con motivi apparentemente solo decorativi, quasi sempre dei racemi combinati o con un simbolismo numerico, come a Saint-Ursin e a Sainte-Jalle, o con degli animali, come nel Saint-Saveur di Nevers, o ancora talvolta con dei fioroni, come a Chassignoles. In questi casi precisi, i timpani esprimono sia un tema profano, sia una relazione col mondo. La loro collocazione inferiore per esprimere l’asse cosmico, la relazione col cielo, può parere bizzara; ma si tratta sempre di esprimere l’avvertimento, il monito, il ritorno alla terra nell’attesa dell’ultimo Giudizio, frequentemente simboleggiato dal mondo vegetale.

Zona mesopotamica

In questa zona, la distribuzione dei temi è in un certo senso più logica; grazie alla disposizione in altezza che si contrappone alla disposizione in larghezza della zona egiziana, i trumeaux, così come si presentano a Moissac e a Beaulieu, e analogamente i due piedritti di Souillac, rappresentano, a simiglianza del capitello degli atlanti sulla tribuna di Serrabone, il centro ideale o i lati del cubo simboleggiato dal portale con i suoi piedritti sporgenti.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 62-63

Cervo; caccia al cervo

Sezione: Lessico


Il reale valore del tema del cervo nell’arte romanica non è stato generalmente riconosciuto, perché non si è accordata che una dimensione aneddotica alla sua caccia da pane del centauro sagittario o da parte dei cavalieri armati di lance che vediamo nella chiesa di Saint-Ursin a Bourges. La scena infatti dell’inseguimento o della caccia al cervo appare inserita entro programmi iconografici particolarmente densi, collocata nella parte centrale degli edifici (disposizione anteriore), a Saint-Gilles, ad Aulnay, nella Charente (sui modiglioni), ad Angoulême (sull’arcata inferiore), a Serrabone (nella tribuna), a Cahors, ecc. Collocata invece all’interno (disposizione interna o absidale) la troviamo a Saint-Aignan-sur-Cher (nell’abside), a Saint-Pons-de-Thomières, a Cruas (nella cripta), a Saint-Parize-le-Châtel (ancora nella cripta), a Saint-Pierre-de-Chabrillan (nell’abside). Essa appare abbastanza frequente e ricca di interessanti dettagli, oppure si integra a programmi più generali – la qual cosa ci vieta di pensare che si tratti di un semplice elemento decorativo, preso in prestito dai tessuti o per esempio da una scena di caccia di ispirazione sassanide.

Il cervo è talvolta sostituito da una gazzella, come nel caso del fregio di Saint-Restitut. La stessa gazzella è inseguita da un leone sulla balaustra di Pommiers, tema di ispirazione copta, imitato con molta esattezza dal graffito di una cappella di Bawit, dove una iscrizione indica esplicitamente che si tratta dell’anima inseguita dal demonio; in effetti è la illustrazione del testo liturgico: «Liberaci, o Signore, dalla gola del leone!».

Altre volte il cervo si disseta «alla corrente delle acque», come dice il salmo 41, che gli paragona l’anima ansiosa di avvicinarsi a Dio, oppure lo vediamo bramire presso la fonte, come nel caso di un capitello del nartece di Moissac, al piano terreno: sorreggendo con la fronte altrettante spirali che formano come degli uncini, i busti dei cervi emergono su ciascun angolo del capitello da una triplice fascia di forme arrotondate, turgide, con le punte anch’esse a uncino, che fanno venire in mente le acque vorticose di un fiume. Nella iconografia cristiana primitiva è a causa di questo rapporto con l’onda che il cervo è stato assimilato all’anima del battezzato, il quale veniva immerso per tre volte nell’acqua della piscina battesimale, a immagine del Cristo che aveva trascorso tre giorni nel sepolcro: il rito rappresentava la morte, secondo l’insegnamento di san Paolo (Rom. VI). Alla base dei pilastri absidali di Ainay, la presenza del cervo accanto al battesimo per immersione insieme col pesce emergente dalle acque che rappresenta il Cristo – il suo nome greco ICHTUS è formato dalle iniziali delle parole Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore – e col dragone infernale, vinto e spodestato dallo stesso Gesù, testimonia del perdurare della forma antica del rito.

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Questa ha in generale cessato di essere praticata nel secolo VIII, ma i battisteri indipendenti che esistono a Lione, Vienne, Le Puy, Saint-Rambert, Vic-le-Comte (Puy-le-Dôme), talvolta ampliati in epoca romanica, attestano che essa rimase praticata in queste regioni.

Il tema delle tre tappe (Saint-André-le-Bas a Vienne e Rozier-Côtes-d’Aurec) sembra essere in relazione con l’idea della morte iniziatica del battesimo, immagine della resurrezione dell’anima alla luce divina nel mondo di là – idea espressa ad Ainay per mezzo di allegorie e di fregi animali; a Roziet, dove sono rappresentate le tre tappe, la caccia al cervo compare sul fregio più recente della facciata (rifatta). Ad Ainay, chiesa che sorge in prossimità di corsi d’acqua (fra Rodano e Saona) e dove abbiamo già visto il cervo nell’abside, troviamo una Caccia al cervo raffigurata all’esterno, sulla facciata occidentale, dove si dispiega a mo’ di fregio sulla torre, ai due lati di una grande croce gemmata. Da ultimo, ancor sempre in una accezione simile, c’imbattiamo nei due cervi affrontati che stanno brucando il grappolo eucaristico: è il caso di una chiave di archivolto sul portale della facciata ovest di Saint-Jouin-de-Marnes; l’idea qui espressa è quella dell’anima che ha accesso al cielo, poiché gli animali sono raffigurati solo dal petto in su, e l’onda a cui essi si abbeverano evoca il Paradiso, poiché l’Apocalisse parla di innaffiare un albero, i cui rami vediamo piegarsi sotto il peso dei pesanti grappoli; l’idea del Cielo si trova altresì nel ramo a tre foglie (Tre = Cielo), da cui spunta bizzarramente un grappolo. I cervi che brucano il grappolo eucaristico sono presenti anche sul timpano di Rheinau (Svizzera), nella seconda fascia di un programma tripartito evocante le tappe; nella fascia più bassa la maschera umana simboleggia lo spirito che sopravvive al disfacimento della carne: è affiancato dalle fiere che lo minacciano con le fauci spalancate, minacciate a loro volta da altre fiere che le seguono da presso e che danno la schiena ad altre fiere ancora, alle quali stanno allacciate con le spire delle loro code da draghi (tali code disegnano a sinistra, il lato della carne peritura, un asso di cuori). I cervi posti faccia a faccia che stanno mangiando il grappolo, immagine dell’accesso al cielo sono minacciati anch’essi da delle fiere. In cima a tutto l’Agnello, entro un’aureola, distoglie lo sguardo dalla carne, simboleggiata dalla lepre o dal prolifico coniglio, e si volge, vittima consenziente, inginocchiata e in posizione di contrasto, verso il frutto unico a forma di grappolo, avvolgendosi col corpo attorno alla croce astata. Alla destra dell’agnello, due uccelli, anch’essi faccia a faccia, attorno allo stesso frutto, simboleggiano il Paradiso finale.

I significati cristiani del cervo discendono da antichissime credenze e tradizioni pagane. Gli Egiziani vedevano in esso il vanitoso che si lascia gabbare, con le corna impigliate nei rami degli alberi al pari dei capelli di Assalonne. Tutti, poi, conoscono il mito di Atteone innamorato di Diana. Cernunnos, dio dell’abbondanza, aveva corna di cervo; sul vaso di Gundestrup, così come sul sarcofago di Déols, imitato a Saint-Ursin, foglie e frutti spuntano dalle corna del cervo. Parimenti, gli adepti degli antichi misteri ellenici portavano alla statua di Demetra o di Kore delle pelli di cervo, allo scopo di poter entrare più sicuramente in comunicazione con l’aldilà. Né molto diversamente agivano i Barbari che portavano spesso indosso delle fibbie con lamine o dischetti, su cui era incisa la figura del cervo; motivo: il premunirsi contro le ferite in combattimento.

Nel cristianesimo primitivo, oltre al suo significato battesimale, si riconobbe al cervo un simbolismo di attività, di apostolato, a proposito in particolare di san Paolo, l’apostolo dei gentili. Nell’inseguimento a opera del centauro, sul piedritto di Saint-Gilles-du-Gard, il cervo si trova giusto ai piedi dell’Apostolo. Tertulliano, polemizzando con i catafrigi, eretici africani che consideravano un obbligo l’accettazione del martino senza resistenza, portava loro ad esempio il cervo in fuga dinanzi ai cacciatori. Quanto all’idea di apostolato, numerosi vasi merovingi ci mostrano la caccia al cervo accompagnata da croci e da palme. Tutte queste immagini possono essere ricollegate a diversi testi biblici: «I miei nemici mi hanno circondato come un branco di cani» (Salmo 59); «Jahvè è la mia forza; egli dà ai miei piedi l’agilità dei cervi e delle gazzelle» (Abacuc, III, 19); «Fuggi, diletto mio, quale gazzella, sii simile ai cerbiatti sui monti profumati» (Cantico dei Cantici, VIII, 14).

Prova della ricchezza dell’iconografia romanica, i monumenti ci mostrano nel cervo l’immagine del giovane che, una volta pervenuto alla dignità del cristiano, diventa automaticamente un uomo in tutta l’accezione del termine: pur disciplinandosi contro le tentazioni, egli mette in pratica la massima di san Paolo: «Se non sanno osservare la continenza, che si sposino, perché è molto meglio sposarsi che bruciare». È noto il significato che ha il centauro nel mito di Achille, personaggio lubrico e al tempo stesso pedagogo di un eroe: l’arciere è controfigura del lussurioso e simbolo erotico chiarissimo, diffuso nella zona mesopotamica. Frequentemente il centauro porta in testa il berretto frigio, simbolo di libertà, come le Donne di Tolosa; se non che, nella zona mesopotamica, la sirena si sostituisce normalmente al cervo: ed è questo il caso della Daurade, di Saint-Sernin, della porta degli Orafi a Compostella. In quest’ultimo complesso, di una grande densità di pensiero, sui pennacchi a mezza altezza il centauro col busto rivolto all’indietro, che ha appena scagliato la sua freccia, si trova alla sinistra della porta di sinistra, nei pressi di un cespuglio che disegna un motivo a incrocio; a destra della porta di destra, invece, la sirena-pesce ostenta tre attributi: il pesce, simbolo del Cristo, la tromba, alla quale essa dà fiato in segno di avvertimento, e la freccia che le ha trafitto il cuore. Questo tema della caccia si lega, qui come nella zona egiziana, al tema delle tappe, particolarmente sviluppato nel programma in questione. La sirena-pesce che suona la tromba si ritrova sul piedritto di Saint-Gilles, nel pennacchio inferiore formato dai due cerchi intrecciati col centauro e il cervo, rivolta nella stessa direzione del cervo sovrastante; nel pennacchio superiore invece si vede l’aquila che volge la testa in direzione opposta e che viene a stabilire, messa in quel punto, un legame con la immagine della zona superiore, dove si trovano gli Apostoli Giacomo il Minore e Paolo. La contrapposizione dell’aquila e della sirena intende illustrare numerosi passi in cui quest’ultimo esalta la carità, separando lo spirito dalla carne: «Camminate secondo lo spirito e non soddisferete i desideri della carne. Poiché la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito, e lo spirito ne ha di contrari a quelli della carne». O ancora: «Fratelli, voi siete stati chiamati alla libertà; solamente, non fate di questa libertà un pretesto per vivere secondo la carne, ma rendetevi attraverso la carità servitori gli uni degli altri». «Se siete guidati dallo spirito, voi non siete sottoposti alla legge». Questa separazione troppo marcata fra la carne e lo spirito che sembra di trovare nell’opera di san Paolo, se non si ha dimestichezza col suo vocabolario, è comunque estranea all’iconografia romanica; la sola cosa che essa condanna è la lussuria.

Il cervo è dunque associato alla sirena, che significa la tentazione della carne, ma più spesso ancora lo è al caprone, simbolo della caduta nella lussuria. Tale associazione si riscontra a Saint-Algoan-sur-Cher, dove la contrapposizione carne-spirito è espressa con un grande sfoggio di dettagli: il centauro, simbolo dell’iniziatore, del male, unisce la carne (il corpo da cavallo) allo spirito; il mezzo busto umano si trova per di più fra il caprone che lo osserva ritto sulle zampe e la colomba che volge indietro lo sguardo, immagine anch’essa dello spirito, in contrapposizione all’animale lussurioso per eccellenza. La difformità di comportamento degli animali dimostra che, trafiggendo il cervo con la sua freccia, egli fa si che lo spirito ceda il passo alla carne: nell’angolo, la testa sorridente sotto la pigna simbolo di eternità esprime la beatitudine paradisiaca dell’eletto che come il cervo si abbevera alla sorgente. Sulla destra il cervo, colto in piena corsa, crolla, colpito dalla freccia. Con la lingua a penzoloni fuori dalla bocca, il suo corpo è ormai in preda agli spasimi finali della morte. Lo dimostrano anche l’uccello che volge indietro il capo, simbolo dell’anima, e la fiera, ritratta nella stessa posa, la cui coda fallica termina a punta di lancia e disegna un nodo, simbolo ben noto del maleficio. Un sottile giuoco di linee accompagna il tema: scanalature verso destra dal lato dell’eletto e linee incrociate nei paraggi del frutto e del collo dell’uccello; un gallone, inoltre, a forma di triangolo diritto, simile a un reggiseno, spicca sul petto del centauro, equivalente del berretto frigio che esso ha in testa altrove; viceversa, una serie di bande a spina di pesce rivestono dalla testa alla coda il pelame del cervo che invece di solito è liscio; analogamente, a spina di pesce sono pure le corna dell’animale: ne risulta il segno di una Y, tutt’al contrario di quello che è il simbolo dell’iniziatore: la virilità, infatti, ci schiude la capacità di prendere decisioni, quando si è di fronte alla Y, alla bivias.

Anche sull’archivolto del portale meridionale di Aulnay il caprone è vicino al cervo. L’asino che segue, nella serie dei temperamenti umani è il corrispettivo dell’aquila di Saint-Gilles o degli uccelli con la testa all’indietro precedenti; in effetti, portando la lira, esso è in diretto contatto con le armonie divine. I tre animali che si susseguono, in piedi come il caprone di prima, ma rivolti verso sinistra, sono pur essi fortemente sessuati e precedono la coppia formata dall’essere femminile a forma di S e dall’uomo col leone. il caprone non è soltanto espressione di sessualità, ma anche di violenza: della violenza legata al libero corso che viene lasciato all’istinto. Se l’asino, simbolo della passività, viene dopo, ciò vuol dire che questa non basta per raggiungere l’amore vero: occorre anche una disponibilità e il rispetto dell’altro. E quello appunto che indicano gli animali che si susseguono: stranamente, la femmina è associata all’uomo col leone.

La caccia al cervo e i temperamenti umani

È il caso a questo punto di considerare il raffronto fra il timpano di Saint-Ursin e il sarcofago di Déols: il primo è concepito a imitazione del secondo, profondamente simbolico, sul quale è illustrato un tema corrente della medicina e della filosofia antiche – quello dei temperamenti umani –, che è al tempo stesso il tema delle stagioni e delle età della vita. Si tratta dunque di una di quelle «quaternità» che Rodolfo il Glabro enumera m una famosa sequenza nel prologo delle sue Storie: i quattro animali del Tetramorfo, i quattro fiumi del Paradiso, le quattro virtù cardinali e i quattro diversi temperamenti dell’uomo; con una serie di sottili spiegazioni egli giustifica questo sistema di corrispondenze fra realtà apparentemente eterogenee.

Una quantità straordinaria di rappresentazioni figurate paleocristiane ci presenta delle cacce allegoriche, nelle quali si vede l’albero coprirsi di foglie e l’uomo denudarsi, alle prese con due distinte categorie di animali: quelli a cui si dà la caccia per lo più in inverno, come per esempio l’orso, e quelli che invece si cacciano in estate, tipo la gazzella, il cui aspetto è ovviamente differente. A Déols i quattro animali sono bizzarramente rappresentati riuniti con una simmetria troppo perfetta perché possa trattarsi di una semplice caccia, mentre è messa bene in evidenza la contrapposizione fra l’uomo e l’animale; compaiono due cavalieri che simboleggiano l’inverno e l’estate: il primo, all’estrema destra, indossa un cappuccio foderato di pelliccia e lo stesso corto mantello del personaggio accovacciato di Saint-Ursin; ha due fasce che gli arrivano fino alle ginocchia, le mollettiere, l’uso delle quali, a detta di C. Enlart, s’è conservato nelle campagne francesi fino al secolo XII, e volge la testa all’indietro; l’altro, invece, quello che simboleggia l’estate, ha le gambe nude, la clamide ondeggiante, come quelle che si vedono sugli altri sarcofagi della Francia sud occidentale o sui sarcofagi copti, e la testa scoperta. Quanto a quello che rappresenta la primavera, non si può dire che sia molto vestito, però conserva il mantello invernale; quello dell’autunno, infine, porta un mantello non foderato, dei gambali e una tunica corta.

L’idea dei temperamenti dell’uomo è stata espressa in modi diversi dai medici e dai poeti dell’Antichità. Lucrezio non ne cita che tre solamente: il collerico, l’indolente e il pauroso – ripresi dai moderni e ribattezzati: sanguigno, linfatico e bilioso; per simboleggiarli, ricorre al leone, al bue e al cervo, vale a dire suppergiù agli stessi animali che ritroviamo a Saint-Ursin. Dal canto loro, i medici Ippocrate e Galeno ne distinguono invece quattro: il primo, che corrisponderebbe qui al cinghiale, sarebbe il sanguigno, collerico, respiratorio, mobile o nomade; il secondo – l’orso di Déols o la biscia di Saint-Ursin –, sarebbe il linfatico, digestivo, sedentario; il terzo – cervo a Saint-Ursin, leone a Déols –, sarebbe il nervoso, cerebrale, pensatore; il quarto, infine, rappresentato a Déols dal cervo, impersonificherebbe il temperamento bilioso, attivo. Tali distinzioni corrispondono al comportamento degli animali.

Tutte queste indicazioni bastano a dimostrare quale ricchezza di significati potesse attingere questo programma dei temperamenti umani unito alla contrapposizione uomini-vegetali. Si ha la sensazione che a Saint-Ursin e a Déols si sia voluto assimilare l’albero che perde le foglie per acquistarne di nuove all’uomo che per realizzarsi deve spogliarsi dell’uomo vecchio ch’è in lui e acquisire nuove virtù. Egli deve quindi staccarsi, al tempo stesso, dagli aspetti animali che risiedono nel suo animo: lo attestano gli animali ai quali si dà la caccia, paragonati in egual modo all’antico fogliame del quale è necessario liberarsi.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 90-94

Bue

Sezione: Lessico


Si è veduta, nella giovenca rossa (Num., XIX, 1-15) o nel vitello grasso immolato dal Padre al ritorno del Figliuol prodigo, la prefigurazione del Cristo in croce trafitto dalla lancia del centurione (cfr. i copiosi commentari di Filone, di Rabano Mauro, di Bruno di Asti, di Gubernatis). Quest’ultimo ha visto inoltre nella giovenca rossa l’immagine dell’aurora, della vita, in contrapposizione alla giovenca nera che rappresenta la sera e la morte. L’assimilazione al sacrificio supremo del Signore è conforme a ciò che ci dice lo stesso Rabano Mauro circa il valore del vitello sacrificale, nel suo commentario alla Visione di Ezechiele che è all’origine del Tetramorfo.

Come si sa, nel cristianesimo antico, l’insegnamento relativo ai quattro Animali veniva impartito ai catecumeni durante la quarta settimana di quaresima. Quest’uso si è senza dubbio protratto fino all’epoca romanica, fino cioè alla scomparsa del battesimo per immersione. Si insegnava loro, in particolare, che il vitello era l’attributo di san Luca, perché il suo vangelo comincia col racconto del sacrificio di Zaccaria. In relazione alle tappe della vita del Cristo, il Vitello, vittima tradizionale ai tempi dell’Antica Legge, fa pensare al sacrificio della propria vita che il Redentore ha accettato di fare a beneficio di tutta l’umanità. A sua volta anche il cristiano, nel cammino della propria esistenza, deve essere immagine del vitello: vero cristiano è infatti colui che domina le voluttà del mondo e s’immola esso stesso.

L’idea di castità poteva accordarsi con l’usanza di castrare il bue, ma non con l’accezione corrente del toro stallone né coi valori di fecondità che in linea generale si attribuivano ai bovini. Ecco perché, pur lasciando al Bue il suo posto nel Tetramorfo – un posto inferiore, comunque, in basso e a destra, quale punto di arrivo della linea discendente –, gli si preferì l’Agnello, per evocare le virtù cristiane – perché l’agnello richiamava anche il concetto di sacrificio e al tempo stesso, grazie alla sua bianchezza, la purità verginale –, oppure il cervo, immagine del battezzato, collegantesi al rituale della caccia coi cani. Va ad ogni modo riconosciuto che il paragone del Cristo col toro fecondatore, principio di vita, fatto da taluni Padri, non poteva incontrare molto favore, non più, di certo, del tentativo fatto da ceni teologi di assimilare il Cristo a Giove che s’era tramutato in toro per rapire Europa: il Cristo-toro si era infatti fatto carico dei peccati del mondo nel suo sacrificio!

Vitello, giovenca e toro hanno dunque generalmente conservato nell’arte romanica il loro significato pagano, quello di un vizio: ingordigia e violenza, nel caso del toro infuriato. La Bibbia, d’altro canto, fornisce delle prefigurazioni: il vitello era presso i Moabiti l’immagine del dio Beelfegor e i Cananei ne avevano fatto un idolo; non solo, ma anche gli Ebrei, come si sa, durante il soggiorno di Mosè sul Sinai avevano fuso un vitello d’oro per adorarlo.

È proprio questo episodio che è stato illustrato in maniera superba a Vézelay, dove vediamo Mosè, appena ridisceso con le tavole della Legge, che si accinge a distruggere l’idolo a colpi di bastoni; un demonio tutto irto di peli – non mancano davvero i demoni a Vézelay – fugge via dalla bocca del vitello atterrito, mentre a destra un Ebreo si avvicina portando una capra per il sacrificio.

Gli antichi sacrifici del toro, che un uomo tiene per le corna, del vitello, dell’ariete e della capra compaiono sull’architrave del piccolo portale di Charlieu, in contrapposizione al miracolo delle Nozze di Cana, preannuncio della istituzione dell’eucaristia. Come si sa, l’Agnello è raffigurato in alto, entro la lunetta del portale maggiore. Secondo E. Mâle, ci troveremmo qui di fronte a una illustrazione del trattato di Pietro il Venerabile contro Pietro di Bruys: «Il bue, il vitello, l’ariete, la capra, irroravano del loro sangue gli altari degli Ebrei; solo l’Agnello di Dio che toglie i peccati del monto giace sull’altare dei Cristiani».

Troviamo un’ulteriore illustrazione del medesimo tema sul portale dell’Agnello a León: vi s’incontrano riuniti tutti gli animali sacrificali, mentre l’Agnello occupa la sommità del timpano: pecora e agnello a far da mensole, l’ariete del sacrificio di Abramo sull’architrave fra l’ebreo e il gentile vestiti da cavalieri, e infine i tori sotto i piedi dei due santi che impersonano la fede e la speranza: sant’Isidoro e san Vincenzo; questi ultimi inquadrano il timpano, entro i due pennacchi, alla maniera del san Pietro e del san Giacomo sulla porta Miégeville a Tolosa. Le figure di tori di cui sopra sono al tempo stesso l’immagine del paganesimo di un tempo, sconfitto proprio da questi santi: i tauroboli, eseguiti al servizio della Grande Dea, svolgevano infatti un ruolo di prim’ordine all’epoca gallo-romana, come dimostra in particolare il bassorilievo che si trovava una volta nella cattedrale della stessa Tolosa e che rappresentava il martirio di san Semino. Di questo bassorilievo non resta altro che l’aries-leo.

A giudizio del Thioller, il «cornute» (= toro infuriato) e la svastica del fregio esterno di Saint-Roman-le-Puy sono le prove della imitazione delle monete marsigliesi, raffiguranti questi stessi motivi, che son tornate alla luce in abbondanza nella medesima regione, soprattutto nell’oppidum di Essalois, presso Saint-Rambert (Loire). La maschera di bue non infrequente sui fregi di modiglione o sui capitelli, nel Velay, commista a delle rotelle o a delle S rovesciate, del tipo celtico, è un ricordo del paganesimo anteriore.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 76-77