L’albero della croce

Sezione: Studi


La croce rende esplicito il mistero del centro. Essa è diffusione, emanazione, ma anche riunione, sintesi. È il più completo di tutti i simboli; nessun’altro quanto questo sa condensare nel più essenziale dei segni la più vasta delle sintesi. Forse è il simbolo più universale, infatti tutte le civiltà lo hanno compreso nel proprio patrimonio simbologico. La croce costituisce l’elemento fondamentale dello schema alla base delie immagini del mondo o del luogo sacro. È un simbolo spaziale e temporale e questa proprietà privilegiata lo rende adatto ad esprimere il mistero del cosmo animato.

Per questo essa si sovrappone sempre – in un modo o nell’altro, e con una sovrapposizione non tanto geometrica quanto immaginaria – al tempio cosmico che è la chiesa. La chiesa costituisce la sintesi liturgica dell’universo animato da Dio, dell’universo reso presente dalla epifania permanente delle strutture e dei cicli naturali. La chiesa è al centro del mondo, e l’uomo liturgico è al centro della chiesa. In essa e per essa, egli si orienta e con il suo orientarsi determina la direzione e il senso del mondo. Egli lo ricapitola e così lo dilata nell’espansione cruciforme. La croce del microcosmo-chiesa non è tanto quella costituita dal suo perimetro (la navata che si incrocia con i bracci del transetto, dal momento che questa forma può fare difetto) quanto quello della sua intima espansione nelle quattro direzioni dello spazio. È questa relazione psicologica, così imperativa nell’uomo, che gli conferisce misteriosamente la coestensione dei quattro orizzonti, dei quattro venti dello spazio. È ancora essa che inscrive nello spazio il cerchio delle stagioni, scandito dall’alternanza rituale dei solstizi e degli equinozi che sono i quattro punti cardinali del ciclo liturgico (Natale, Pasqua, San Giovanni, San Michele). È ancora essa che salda la croce cardinale terrestre sulla celeste e fonda il simbolismo dei loro rapporti. Questo rapporto è animazione, e la sua espressione più vivamente percepita dalla psiche umana è quella della rotazione della sfera del mondo attorno al suo asse polare; tale asse è perpendicolare al grande cerchio dell’orizzonte, del luogo sacro, e forma con una qualsiasi delle parallele al suolo una croce, questa volta drizzata verticalmente.

Queste due croci, croce orizzontale, d’orientamento cardinale, e croce verticale assiale, in realtà non sono che una sola croce: quella a tre dimensioni e a sei bracci che orna i campanili delle chiese orientali. In Occidente, essa assume la forma della girandola in cima ai campanili divisa alla base da una croce orizzontale orientata. Tale è la croce del mondo vivente, la croce che fa della chiesa il centro e la ripetizione del cosmo liturgico. Poiché essa è perfettamente coestensibile ai simboli del cosmo naturale non meno perfettamente misura il microcosmo che è la chiesa. In essa e per essa la vita e il movimento emanati dal polo celeste, simbolo di divinità, si trasmettono al centro sacro terrestre: all’altare, al santuario, alla chiesa, e raggiando da questo centro, a tutto l’universo.

La croce tridimensionale è la più perfetta immagine sacra del mondo. È il segno visibile della trinità nell’unità. Il sei caratterizza la creazione-emanazione; si ricordino l’opera di sei giorni e tutti i motivi sestuplici incontrati nel contesto della creazione, per esempio sui portali romanici ove si potrà incontrare sei volte la maschera della terra che vomita viticci tra cui giocano alcuni animali. Il settenario indica la conclusione e la pienezza (il settimo giorno) ottenuti quando si aggiunge al computo dei sei bracci il punto centrale da cui essi emanano o dove vengono riassorbiti nell’unità indifferenziata. Dio sta in questo centro: «Volgendo il suo sguardo verso queste sei estensioni come, verso un numero sempre uguale, egli conclude compiutamente il mondo; egli è l’inizio e la fine; in lui si compiono le sei fasi del tempo e da lui esse ricevono la loro indefinita estensione; là è il segreto del numero sette» (Clemente d’Alessandria).

La croce tridimensionale può essere rappresentata in modi assai differenti. Sulla superficie piana, la sua forma più semplice è la stella a sei bracci, più o meno regolari sia per la loro dimensione che per la disposizione; la verticale zenith-nadir appare spesso distinta dalla croce orizzontale e orientata da una freccia, una fiamma, un cerchio, un motivo qualsiasi. Si riconosce la forma nota del crisma , simbolo polivalente vecchio come il mondo, che la simbologia cristiana si è compiaciuta di utilizzare, dopo un semplice battesimo mentale che risultava sia dalla lettura della X e della P, le prime due lettere del nome di Cristo in greco, sia dall’incrocio di questa X con la I di Jesus. Il monogramma di Cristo diventava la formula simbolica della salvezza universale operata dalla croce di Gesù Cristo.

Crisma

Quest’ultima non appariva sul labaro di Costantino, mentre compariva il crisma; la conversione dell’imperatore consentì la sostituzione con mezzo secolo di ritardo: l’impero divenuto cristiano, abolendo il supplizio della croce, soppresse l’odiosa sensazione connessa allo strumento di tortura finché restò in uso; verso la fine del IV secolo il segno, spogliato di quel senso, diviene degno di rivestire la livrea di gloria sopra il segno delle ferite. La croce latina compare in seno al crisma stesso ma conserva in alto l’anello che ricorda la P e costringe a rilevare nell’incrocio l’antica X raddrizzata. All’inizio del V secolo l’anello sparisce, e nasce la nostra tradizionale croce cristiana. Il crisma viene usato ancora, anzi in quest’epoca raggiunge le sue espressioni più perfette e trae dalla croce latina l’alfa e l’omega che spesso e volentieri gli vengono associate per assicurargli una cristianizzazione aliena da ogni equivoco segnico: questo riferimento al Cristo dell’Apocalisse, Pantocratore e Maestro del tempo, conferisce al vecchio simbolo le dimensioni della Rivelazione. Il mosaico del battistero di Albenga (V-VI secolo) rappresenta a questo proposito un vero capolavoro. Tutta la simbologia dell’emanazione-espansione, dell’’exitus-reditus, che abbiamo osservato sul piano dei fenomeni naturali e che abbiamo visto sottesa alla presentazione, da parte di san Paolo e dei Padri della Chiesa, del mistero dell’amore di Cristo, è qui presente.

Albenga, Battistero: Mosaico: Crisma

Si noteranno il centro origine, i cerchi disposti in triplice risalto (allusione trinitaria), la croce tridimensionale dei crismi, gli alfa e omega, le dodici colombe che rendevano presente la Chiesa universale diffusa in tutto il mondo, occupando il quadrato terrestre segnato ai quattro angoli dalle quattro stelle.

Si giunge così alla simbologia del tracciato di consacrazione delle chiese che si riassume in un segno, e precisamente nel crisma inquadrato dall’alfa e dall’omega. Il crisma è il simbolo del tempio cristiano considerato nel suo dinamismo liturgico che mira a fare del mondo umanizzato il corpo consacrato del Pantocratore: «Il corpo di Cristo è la Chiesa» (san Paolo).

Simbolo dell’universo, simbolo della chiesa di pietra, la croce tridimensionale è ugualmente il simbolo dell’ultimo microcosmo della catena, l’uomo. La sagoma dell’uomo con le braccia aperte evoca spontaneamente quella della croce eretta; questo tracciato però è semplicemente uno schema incompleto; se infatti esso esprime a meraviglia l’orientazione verticale ed ascensionale dell’uomo come pure la sua lateralità destra e sinistra, non fa apparire la seconda dimensione della sua intima croce orizzontale: il davanti-dietro che privilegia l’incrocio laterale (ciò è ancor più chiaro nell’animale a quattro zampe che ha solo due dimensioni fondamentali: il davanti-dietro e la lateralità). La croce tridimensionale è la croce completa dell’uomo: essa struttura la sua spina dorsale che costituisce l’asse verticale dell’organismo. La simbologia dei microcosmi-macrocosmi si rivela perfettamente omogenea a tutti i livelli.

La croce completa del Cristo salvatore non è né panteista né semplicemente d’ordine naturale. La sua coestensione al mondo è opera dell’amore universale e ricreatore di Gesù. I simboli sensibili aprono alle realtà spirituali. «Radicati in questo amore voi riceverete la capacità di comprendere con tutti i santi ciò che è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, voi conoscerete l’amore di Cristo che va oltre ogni conoscenza ed entrerete per la vostra pienezza nella pienezza di Dio» (Lettera agli Efesini, cap. III). Vi si riconosce la simbologia storica diffusa al tempo dell’apostolo per designare la totalità dell’universo. Di comune accordo, i Padri della chiesa hanno interpretato questo testo leggendovi la croce cosmica di Cristo che invade l’universo per ricrearlo, quella croce che i Greci chiamavano «sèmeion ekpétaséôs», il segno dell’estensione. Il testo più classico dell’antichità cristiana a questo proposito è quello di sant’Ireneo: «Per obbedienza cui è stato fedele fino alla morte sul legno della croce, il Verbo ha espiato l’antica disobbedienza (quella dei nostri progenitori). E dal momento che Egli è il Verbo onnipotente la cui invisibile presenza è estesa in noi e riempie il mondo intero, la sua azione sul mondo continua ad esercitarsi in tutta la sua lunghezza, larghezza, altezza e profondità. Grazie al Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’opera redentrice e il Figlio di Dio, con la sua benedizione, ha posto il segno della croce su tutte le cose. Perché era giusto e necessario che colui che si è reso visibile conducesse tutte le cose visibili a partecipare alla croce, ed è così che sotto una forma sensibile la sua influenza si è fatta sentire nelle cose visibili stesse. Infatti è lui che illumina le altezze cioè i cieli, lui che penetra le profondità di quaggiù, lui che percorre la lunga distesa dall’Oriente all’Occidente, lui che congiunge lo spazio immenso da nord a sud richiamando gli uomini dispersi in tutti i luoghi alla conoscenza del Padre».

Il Cristo morendo inchiodato ad una traversa fissata ad un palo ne ha fatto il segno storico del compiersi del disegno divino.

Per il credente, la croce primaria è l’ultima nella storia: quella che fu piantata nella sera dei tempi sul Golgota, una croce silenziosa che con le sue braccia aperte esprime un amore grande come il mondo non aveva mai conosciuto. Un amore che ha trovato nello strumento del sacrificio il simbolo della sua grandezza. La passione di Cristo ha trasfigurato il segno della croce; ormai, al di là dell’antica immagine, è l’universale e misteriosa bontà del suo Signore che l’uomo redento percepisce e venera. Attraverso la comunione con il segno sacro, egli penetra nelle vertiginose profondità del disegno di Dio sul mondo, così come diceva san Paolo agli Efesini.

«Dalla croce su cui morì il Verbo creatore del mondo, il cristiano sposta lo sguardo verso il cielo stellato in cui si muove il cerchio di Elios e di Selene. Quindi, se egli si addentra nelle più profonde strutture del cosmo o penetra le leggi della costituzione del corpo umano, dappertutto – e fino nella forma dei più piccoli oggetti familiari – egli vede impresso il misterioso sigillo: la croce del suo Signore ha mutato radicalmente il mondo». Se egli considera la croce tridimensionale di san Paolo, essa è per lui «la legge della costruzione, lo schema fondamentale che Dio imprime ad ogni sua opera, quel Dio che segretamente, fin dalle origini, teneva gli occhi fissi sulla croce di suo Figlio» (H. Rahner). Certo, è proprio nel suo mistero «che sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, create da lui e per lui» (Lettera ai Colossesi, cap. I). Se egli scopre negli scritti di Platone che la grande X costituita dall’intersezione del cerchio dell’equatore con quello dell’eclittica disegna sulle nostre teste una croce piana che è il simbolo dell’anima del mondo, egli vede in ciò il grandioso annuncio della croce-in-cielo di Cristo.

San Cirillo di Gerusalemme spiega ai suoi catecumeni: «Dio ha steso le mani sulla croce per abbracciare le estremità dell’universo. Anche il monte Golgota è diventato il perno del mondo». Con Firmico Materno, il perno diventa l’asse dinamico che unisce cielo e terra: «Il legno della croce sostiene la volta celeste, e consolida le fondamenta della terra». E così pure mette in comunicazione i piani del mondo, costituitivi del luogo sacro. Andrea di Creta, riprendendo san Paolo, fa una litania della croce: «Riconciliazione del mondo, determinazione delle frontiere terrestri, altezza del cielo, profondità della terra, legame che unisce la creazione, lunghezza di tutte le cose visibili e larghezza dell’universo!».

«Il segno della croce apparirà nel cielo il giorno del Giudizio finale», canta l’inno della festa dell’Esaltazione della santa Croce nella liturgia latina.

La croce salda il ciclo del tempo del mondo, il grande cerchio creazionale: essa pone su tutte le cose il sigillo ultimo che le giudicherà secondo l’amore incarnato: «O croce piantata nella terra che rechi frutti in cielo! O nome della croce che racchiudi in te l’universo! Salute a te, o croce che tieni legato il cerchio del mondo! Salute, o croce che hai saputo dare alla tua sembianza informe una forma piena di senso profondo!» (Atti apocrifi di Andrea). Essa è il polo e il motore immobile di un mondo in movimento; stat crux dum volvitur orbis, la croce sta fissa mentre il mondo ruota: è il motto dei monaci.

L’uomo stesso trova nella croce l’espressione sintetica della sua intrinseca identità strutturale con il cosmo, con il vivente e con il cielo che lo chiama. Egli vi legge anche il segno della sua irriducibile originalità. «Fisicamente l’uomo non differisce in nulla dagli altri animali, fuorché per il fatto che egli è diritto (verticalizzazione-umanizzazione) e può stendere le mani» (Giustino). Inoltre, egli, anch’egli croce viva e attiva, croce eretta, può conservare e concludere il cerchio del mondo iscrivendosi all’interno del suo disegno, può ricreare in sé il mondo tracciando le fondamenta dei suoi santuari.

Solsona, Museo Diocesano – Affresco (proveniente da Pedret): L’uomo, centro del mondo

«La volta celeste non è forse anch’essa a forma di croce? E l’uomo che cammina, che alza le braccia, anch’egli descrive una croce… Per questo noi dobbiamo pregare con le braccia stese, al fine di esprimere fino nell’atteggiamento le sofferenze del Signore» (Massimo di Torino). Perché dopo tutto è sempre di Lui che si tratta. «Così tutto si riempie del mistero amato. Questo punto di vista è decisivo per la comprensione dell’arte cristiana. C’è un mistero nella piattezza e nella semplicità apparenti dei simboli della croce che si vedono dipinti o incisi rozzamente nelle catacombe, così come nella semplicità primitiva della posizione del cristiano in preghiera. L’uomo antico possiede ancora un senso assai vivo dell’opposizione, per così dire dialettica, tra l’insignificante gesto da nulla, o simbolo e il contenuto grandissimo che vi si nasconde». (Rahner). L’arte romanica risulta impregnata di questa sensazione che costituisce il fondamento dell’arte sacra. Essa ha conservato vivamente questa intuizione fondamentale che la forza dei simboli risiede in un contrasto paradossale tra l’inesprimibile realtà significata e l’irrilevanza del simbolo che ad essa conduce.

La croce è il grande segno cosmico; il segno dell’universo, il segno dell’uomo; il segno di Dio presente e agente in entrambi. È allo stesso modo un segno biblico, un segno storico, un segno personale: e di nuovo si verifica il contrasto incredibile tra questo insignificante simbolo con l’incommensurabile e adorabile ricchezza del mistero della Croce di Gesù Figlio di Dio che lo fa essere fra tutti i simboli il più evocativo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo 
Editore Jaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine369-374 

Figure semplici: la croce e il quadrato

Sezione: Studi


Due simboli fondamentali sono la croce e il quadrato. La loro correlazione è così stretta che diventa necessario studiarli insieme. Il pericolo maggiore, in questo frangente, è quello della logica. Il simbolismo non è logico; è piuttosto pulsione vitale, conoscenza istintiva; è un’esperienza della totalità del soggetto che nasce al dramma di se stesso per il gioco complesso e inafferrabile degli innumerevoli legami che tessono il suo divenire contemporaneamente a quello dell’universo cui appartiene e al quale attinge la materia di tutte le sue conoscenze.

Poiché, infine, si tratta sempre di nascere con, ponendo l’accento su questo con, piccola parola misteriosa alla quale converge tutto il mistero del simbolo. Cerchiamo di discernere il legame che intercorre tra il centro (o il cerchio) e la croce che conduce al quadrato. Il simbolo quadrangolare è determinato dai contatto della perfezione trascendente con la creazione contingente che ne deriva. Ciò s’impone con una determinazione esistenziale tutta particolare nell’ordine cosmico, al quale siamo continuamente ricondotti.

Poiché il beduino si lascia assorbire dalla sola stella Polare che tutto attrae, gli è impossibile privilegiare o distinguere un punto qualunque dei cerchi astrali disegnati sopra ai suoi occhi. Al contrario, da che li abbassa verso l’orizzonte per fissare lì la sua attenzione, da che abbandona la contemplazione di Lassù, del Trascendente, dell’Ultratemporale per volgersi al Basso, le costellazioni che interferiscono con questo orizzonte entrano nella storia: una storia che fa parte integrante con la sua stessa esistenza. Il celeste sopratemporale si unisce con il terreno per costituire il paesaggio nel quale si svolge la vita degli uomini: paesaggio mitico e sacro prima che cosmologico. Allora inizia il tempo numerato, scandito da quelle sveglie astrali, vere e proprie sincronie che fanno ingranare la vita terrena sul movimento celeste.

Grant Kalendier – Pastore che calcola il procedere della notte dal passaggio delle stelle sulla verticale della Polare

Questa rigorosa interdipendenza tra i due mondi celeste e terrestre costituisce uno dei fenomeni naturali più sbalorditivi. Ogni giorno il sorgere e il tramontare del sole, con l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del caldo e del freddo, condiziona profondamente la vita vegetale ed animale. Ma c’è di più. Il sole che ogni mattina compare in ‘quella direzione e che sparisce al contrario nella direzione opposta, che nel corso della giornata culmina a mezzogiorno, poi discende dalla parte opposta, descrive nello spazio abitato dall’uomo quattro direzioni primordiali che sono le quattro grandi strade attraverso le quali l’uomo stesso prende coscienza del suo dominio terreno. La prima consapevolezza del quaggiù-generato-dal-cielo si manifesta così sotto lo schema generale immaginario di questa quaternìtà; ricordiamo bene questo concetto. La ragione è che l’uomo è un animale essenzialmente orientato per struttura psichica, organica e scheletrica. C’è una faccia ventrale ed una dorsale, una lateralità destra e una sinistra. Esso non può compiere nulla senza riferire, almeno inconsciamente, la propria orientazione a quella del paesaggio cosmico in cui bisogna necessariamente inserirsi per essere se stessi ed agire. Di qui egli attingerà la pienezza dell’animalità sulla quale si fonderà la sua attività propriamente umana, cioè informata dallo spirito. La rivelazione del sole delle quattro direzioni rivela così l’uomo a se stesso e, insieme, alla distesa spaziale che con lui ed in lui entra nella realtà.

Si concepisce, allora, l’importanza del sole nella vita dell’umanità e si comprende come varie religioni abbiano potuto prenderlo per un vero dio. Tuttavia, occorre evitare accuratamente di esagerare l’importanza che riveste. Coloro che vivono costantemente in contatto con la natura sanno bene che a lato di questo prestigioso signore altri attori più discreti entrano in scena. Meno appariscenti, sono più ammantati di mistero. Gli spiriti più profondi vi discernono dei simboli rivelatori di misteri ancora più nascosti. Ricordiamo, fra gli altri esempi, l’importanza che riveste presso tante civiltà la luna, le cui fasi coincidono in maniera così strana con i cicli dei vegetali e con i ritmi della fecondità della donna.

Nondimeno, i pianeti appaiono svantaggiati dal carattere anacronistico della loro corsa paragonata al movimento fondamentale della volta celeste; e così si rifiuta loro l’attitudine a simboleggiare la trascendenza che l’uomo appassionatamente reclama. Dopo tutto è nel firmamento immutabile che egli deve cercare le coordinate ideali ed esemplari del suo orientamento terreno. Il sole si vede allora ridotto al ruolo ancora decisivo, ma non più definitivo, di cursore celeste: gigantesco faro luminoso che segna sulla carta della volta stellata gli spostamenti quotidiani e stagionali del divenire storico della nostra terra. La contemplazione concreta del firmamento ce l’ha mostrato: è lui, il sole, che per la circostanza delle sue levate e dei suoi tramonti davanti all’una o all’altra costellazione permette di distinguere sul cerchio della banda zodiacale le quattro costellazioni stagionali, dell’Acquario, del Toro, del Leone, dello Scorpione: è grazie al suo intermediario che il cerchio percepito nel cielo entra in rapporto con la croce d’orientamento terrestre. L’orientazione totale dell’uomo esige soprattutto un triplice accordo: l’orientazione del soggetto animale in rapporto a se stesso; l’orientazione spaziale in rapporto ai punti cardinali terrestri, l’orientazione temporale, infine, in rapporto ai punti cardinali celesti. L’orientazione spaziale si articola sull’asse est-ovest scandito dalla levata e dal tramonto del sole. L’orientazione temporale si articola sull’asse di rotazione del mondo, insieme sud-nord e basso-alto. L’incontro di questi due assi maggiori realizza la croce d’orientazione totale. La concordanza nell’uomo dei due orientamenti, animale e spaziale, fa sì che egli sia in rapporto con il mondo terrestre immanente; ecco il triplice accordo, animale, spaziale e temporale con il mondo soprannaturale trascendente per e attraverso il contingente.

Il ciclo quaternario conferisce al nostro mondo terreno il suo ritmo vitale fondamentale che è quello delle stagioni e per questo lo caratterizza. Il quaternario è apparso sulla banda di una figura circolare (cerchio zodiacale o orizzonte) da cui si è distinto per una sorta d’emanazione a partire dai quattro punti maggiori.

Schema del ciclo quaternario

Tale emanazione continuerà per ulteriori sotto-distinzioni, suddividendosi il quaternario in 8, 12, 16, ecc. realizzando così la rosa dei venti. Questo processo annuncia e realizza il passaggio dell’aldilà trascendente al quaggiù immanente.

Attraverso un passaggio simbolico che già riflette qualche cosa del mistero della creazione, si giunge, dunque, alla presa di coscienza simultanea di due direzioni vitali rettangolari e di quattro punti diametralmente opposti; ciò che si può evocare anche se piuttosto astrattamente, sulla carta, attraverso i simboli della croce o del quadrato che ne deriva.

Angkor – Tempio di Bakong

Questi due simboli correlativi della croce e del quadrato sono universalmente riconosciuti come simboli perfetti della terra.

Giada rituale cinese – Ts’ong (simbolo della terra)

Per terra intendiamo tutto ciò che si oppone al trascendente celeste; è opportuno che questo concetto venga sempre tenuto presente. La figura quadrata, e più precisamente la squadra che ne costituisce l’elemento fondamentale, materializza simbolicamente due direzioni spaziali: è il noto sistema delle coordinate cartesiane. Allo stesso modo simboleggia lo spazio che, del resto, è una dimensione propriamente terrena; il cielo gli è immediatamente rapportato come incommensurabile, aspaziale.

Quanto al cerchio, simboleggia il cielo nei suoi rapporti con la terra anche quando è considerato sotto il suo aspetto trascendente (significa allora il totalmente diverso dalla terra, ciò che implica ancora un riferimento negativo alla terra).

L’idea astratta della trascendenza metafisica non ha spazio nel simbolismo; l’intuizione concreta che se ne può avere ha senso solo all’interno del simbolismo negativo; ciò che è infinitamente differente dal terreno perché lo oltrepassa infinitamente. In pari contesto, il cerchio simboleggia l’attività del cielo, il suo inserimento dinamico nel cosmo, la causalità, l’esemplarità, il ruolo provvidente. Di qui, raggiunge i simboli della divinità protesa sulla creazione, di cui regola, produce e ordina la vita.

È interessante rilevare qui l’accordo dei simboli con il pensiero concettuale più alto: si conosce la forma sotto la quale Dante, al termine della sua ascensione, scopre le tre Persone divine: «nella profonda e chiara sussistenza dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza» (Paradiso, XXXIII). Dionigi l’Aeropagita (Nomi divini IV, 4; Gerarchia Celeste I, 1) vi aveva riconosciuto il simbolo dell’Amore divino. Su questo punto l’accordo delle più antiche tradizioni, dei grandi pensatori e della filosofia cristiana è significativo. Un secolo prima di Copernico, due secoli prima di Galileo (1564-1642) che doveva fare le spese della questione, quel tedesco di genio che fu Nicola Cusano (1401-1464), cardinale, teologo, filosofo e uomo di scienza, spostò la terra dal centro dell’universo. Cinque secoli prima del suo compatriota Albert Einstein (1879-1955), egli pose i principi della famosa teoria della relatività destinata a rivoluzionare la meccanica classica diventata insufficiente a dare ragione dei fenomeni atomici o astronomici. «Il mondo, spiegava Nicola, è come una ruota in una ruota, una sfera in una sfera». Di colpo si viene ad affondare tutta la costruzione tolemaica. Ora ecco la sua conclusione – come Platone o Aristotele egli non s’inganna sulle parole, testimone piuttosto di un’età che sta per finire, età in cui gli uomini sapevano tradurre le più alte scoperte scientifiche in un linguaggio simbolico che conferiva loro continuità su un diverso piano del sapere umano -: «Dunque, egli continua, i poli delle sfere coincidono con il centro che è Dio… Dio è circonferenza e centro, Lui che è dappertutto e in nessun luogo». Il tribunale che condannò Galileo per aver osato sostenere che la terra girava attorno al sole, idea non solo incompatibile con le affermazioni della Bibbia ma che per di più disprezzava i principi fondamentali della rappresentazione simbolica dell’epoca, non seppe o non volle accettare questo cambio di prospettiva. Sarebbe puerile scandalizzarsi dell’oscurantismo di allora e della mancanza di apertura ai risultati delle osservazioni scientifiche. Noi non possiamo immaginare la portata del rivoluzionamento di prospettiva che era richiesta agli uomini di quel periodo. Occorre, dunque, giudicare con cautela, considerando anche la difficoltà che noi stessi sperimentiamo nel cambiare opinione su questioni molto meno gravi. Comunque, siamo al punto in cui il male di cui oggi soffriamo comincia a manifestarsi prepotentemente: il tragico dilemma che sembra opporre la conoscenza scientifica alla conoscenza simbolica… Qui si rompe la grande tradizione che risale alle radici comuni dell’umanità, all’interno della quale ci accontenteremo di rilevare l’accordo di un cristiano e di un pagano, entrambi rappresentativi: sant’Ireneo e Platone.

Sant’Ireneo (secondo vescovo di Lione, morto nel 202), instancabile oppositore degli gnostici eretici, appare colpito dal fatto di poterli combattere con l’autorità di Platone: «Paragonato a questi uomini (gli eretici e Marcione), Platone risulta molto più religioso, egli che riconosce un Dio che è lo stesso, giusto e buono, che ha potere su tutte le cose; ed eccone le parole: “Dio, seguendo una antica tradizione, è l’inizio, la fine e il mezzo di tutte le cose che sono. Egli agisce in linea retta mentre per natura è circonferenza” (Leggi, 4) e dimostra che l’Autore e l’Artefice di questo universo è buono» (Adv. Haer., 136). Il cerchio, dunque, può simboleggiare la divinità considerata non solamente nella sua immutabilità ma anche nella bontà elargitrice quale origine, essenza e divenire ultimo di tutte le cose; la tradizione cristiana dirà come alfa e come omega. Il rapporto che esso ha con il mondo creato è invece espresso da simboli di linea retta: il lampo, la freccia, il raggio, la pioggia, la colonna, il campanile.

Il mondo generato riflette così nella sua struttura l’azione che l’ha prodotto. Rimane caratterizzato innanzitutto da figure formate da rette la cui prima associazione è la squadra, elemento di base del quadrato terrestre.

Così, il cerchio e il quadrato si uniscono spesso per costituire un complesso indistruttibile al di fuori del quale essi perdono il loro significato.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Questo è fondamentale. Insieme simboleggiano il cosmo, cioè il cielo e la terra, quell’universo di cui sant’Agostino ama sottolineare che trae il nome dal fatto che è uno, che forma un tutto inscindibile. Ma cerchio e quadrato rappresentano ugualmente il tempo e lo spazio nella loro inevitabile correlazione: il famoso continuum spazio-temporale, fondamento dell’antropologia di san Tommaso d’Aquino e di cui tanto si parla ai nostri giorni; una delle principali chiavi d’interpretazione degli edifici romanici in generale e dei loro timpani in particolare. A condizione tuttavia di mantenere chiara una gerarchia tra questi due elementi: lo spazio è subordinato al tempo davanti al quale deve costantemente cancellarsi dopo avervi condotto lo spirito. Non si vuol dire che bisognerebbe equiparare da una parte il cielo e il tempo e dall’altra la terra e lo spazio; una tale logica, estranea per natura alla simbologia, porterebbe a conclusioni per lo meno assurde.

Boher, Reliquiario – Borchia semisferica

Ciò che bisogna dire è che il rapporto della terra e del cielo è simbolicamente dello stesso tipo del rapporto spazio-temporale e quindi anche dell’immanente con il trascendente. Si ha, così, a che fare con due coppie che non bisogna scindere ma considerare sempre nella loro dualità complementare.

In tal modo, guardandoci da semplicistiche astrazioni, non bisognerà mai dimenticare che sul piano delle gerarchie immaginarie il quadrato appare in dipendenza del cerchio, nella sua aureola in espansione; esso segue non per una successione cronologica, ma nell’ordine delle ripercussioni simboliche. Il peggiore dei quadrati non è altro che un cerchio a quattro angoli, o a quattro facce, un cerchio ammaccato che si ricorda dell’antica perfezione. Si tratta dunque di tempo cristallizzato nell’attimo, di un riflesso dell’aldilà. La Gerusalemme celeste dell’Apocalisse sarà quadrata. In geometria la quadratura del cerchio è un non-senso; in simbologia diventa un’operazione fondamentale. La simbologia aggira il problema ricostruendo attorno al quadrato il suo originale cerchio circoscritto, trasfigurando così lo spazio fisso nella rotondità mobile del tempo. Le chiese sono quadrilateri all’interno dei quali i raggi luminosi ruotano per il corso della giornata, mentre esternamente, l’ombra segnata dal campanile traccia il cerchio del tempo celeste. I simboli consentono l’accesso ad ambiti preclusi al pensiero discorsivo. Non è sempre possibile esprimere la correlazione di natura che lega il cerchio al quadrato. Non si può mai eluderla, ancor meno combatterla. Cosa che risulterà ancor più chiara considerando in che modo l’immagine circolare sia connessa dinamicamente a quella quadrata. Il cerchio, questo punto ingrandito, possiede una superficie limitata, circoscritta, chiusa. Ha una frontiera; è un hortus conclusus, un giardino chiuso.

Libro delle ore del Duca di Berry – Paradiso

E ciò è esattamente quanto il quadrato ha in comune con esso. Dal momento che c’è un limite, è possibile che un osservatore vi si trovi all’interno. Questo riconduce al principio fondamentale secondo cui non esiste simbologia se non in rapporto ed a partire da un uomo all’interno chiamato centro. La simbologia non è affatto la geometria nonostante abbia alcuni punti in comune con essa. A questo osservatore, il quadrato si manifesta non già come la secca figura geometrica che comunemente si designa con quel nome, ma come un’estensione espansa in quattro direzioni a due a due opposte – estensione che null’altro è se non quella della propria struttura animale percettiva – o, ancora, come una divisione dello spazio in quattro settori.

Così, il quadrato evidenzia l’orientamento fisso o durevole mentre il cerchio non denuncia alcuna propria orientazione. Il quadrato è figura antidinamica fissata su quattro angoli; simboleggia la stasi o l’attimo prestabilito; implica un’idea di ristagno, di solidità, simbolo di stabilità nella perfezione: sarà il caso della Gerusalemme celeste. Il movimento agevole, invece, è circolare, rotondo. L’arresto, la stabilità s’associano con figure angolose e linee opposte e movimentate. Ciò che stimola nell’immaginazione il quarto simbolo fondamentale: la croce.

Quadrato e croce sono entrambi caratterizzati dalla quaterna che è un simbolo d’universalità spaziale e d’universalità creata: la loro cifra è il quattro. Sul piano della simbolica dei numeri, essendo la triade il simbolo della divinità e dei principi trascendenti dell’universo, l’aggiunta di un’unità rompe la perfezione e costituisce un numero simbolo del mondo materiale, il 4.

Dopo le epoche vicine alla preistoria, il 4 venne utilizzato per significare il solido, il tangibile, il sensibile. Ma il suo rapporto con la croce ne faceva, per altro, un simbolo incomparabile di pienezza, di universalità, un simbolo totalizzante. Da qui si comprende come natti i popoli abbiano considerato la terra come divisa in quattro settori. Il sanscrito, l’antico babilonése, il cinese, i testi dell’America precolombiana designano i capi e i re con il titolo di «Signore dei quattro mari», «Maestro delle quattro parti del mondo», «Maestro dei quattro soli». Gli stati sono stati spesso divisi in quattro province o in multipli di quattro. Le grandi religioni hanno ciascuna quattro libri sacri. «Nelle Indie, Brahma, l’Anima del mondo, il Padre, il più antico degli Dei, il regolatore degli elementi ha quattro teste e quattro facce corrispondenti ai quattro Veda, libri sacri dell’India che sono le quattro Rivelazioni corrispondenti alle quattro Bocche. È noto che Brahma inviò suo figlio nel mondo per diffondervi l’insegnamento dei quattro libri». (Loeffler-Delachaux). Vedremo la conseguenza che ne ha tratto a sua volta la simbolica biblica.

La cifra della croce, noi affermiamo, è il 4. Ma è ancor più il 5… La simbologia cinese ci ha aiutato a ritrovare questa paradossale verità. Ci ha esortato a non considerare mai i quattro angoli del quadrato o i quattro bracci della croce al di fuori del necessario rapporto con il centro della croce o col punto d’intersezione dei suoi bracci. Senza giocare sulle parole, si potrebbe dire senza fallo che questo quinto punto è il più importante della quaterna.

Ahenny – Croce celtica in pietra

Come il cerchio, il quadrato è una figura centrale. Ed ecco che il centro del quadrato coincide con il centro del cerchio; questo punto comune è il grande incontro del piano dell’immaginario. È il luogo favorevole di tutte le rotture di livello, di tutti i passaggi da un mondo all’altro: l’omphalos dei Greci, l’ombelico del mondo degli antichi, la scalinata rimale di tante religioni, la scala degli dei. Di lì si passa dal cielo alla terra e viceversa, per di lì spazio, tempo, eternità, entrano in comunicazione.

La croce è ancora quella figura che congiunge a due a due i punti diametralmente opposti comuni al cerchio ed al quadrato inscritto. Per tutte queste funzioni – quella del centro che si diffonde nelle quattro direzioni o quella della riduzione all’unità dei punti estremi delle due ortogonali -, la croce ha carattere di sintesi e di misura: in essa si riuniscono il cielo e la terra nella maniera più intima possibile.

Zurigo, Museo Nazionale – Smalto ad alveoli

In essa si confondono il tempo e lo spazio. Essa è il cordone ombelicale mai tagliato del cosmo legato al centro d’origine. Tra tutti ì simboli essa è il più universale, il più completo. È il simbolo dell’intermediario, del mediatore, di colui che è per natura eterna unità dell’universo e comunicazione tra terra e cielo e cielo e terra.

Quest’ultima proprietà appare ancora più netta nell’ordine dei volumi. I volumi non aggiungono nulla in fatto di nuovi valori simbolici alle figure piane che li generano: il simbolismo della sfera è lo stesso del cerchio; quello del cubo è lo stesso del quadrato. I volumi però, appaiono talvolta più espressivi; rendono meglio alcune proprietà meno evidenti e ne conferiscono un’esperienza più sviluppata. La percezione tridimensionale è strettamente inerente all’agire umano; l’immaginario si annette il suo potere di valorizzazione. Per questa ragione la totalità celeste-terrestre si esprime meravigliosamente nella coppia cubo-sfera. In architettura la ritroviamo sotto forma di quadrilatero sormontato dalla sfera. Quest’ultima è riconducibile ordinariamente alla mezza sfera come nei casi di cupole o al quarto di sfera come nei casi dei catini delle absidi. Tuttavia, in questo caso, come sempre, il simbolo è e resta quello della forma pura, della linea e non dell’oggetto materiale. L’immaginazione s’avvale del supporto che le si offre, per quanto imperfetto sia, a condizione che sia evocatore, per ricrearlo in sé perfetto. Essa è generatrice di forme ideali.

I simboli danno all’uomo il potere, unico, di rendere presente e tangibile, fin nei suoi segreti più riposti, il mondo che ci circonda. Per non contraddire questa verità dovremo avere la lealtà di non separare mai i simboli dal loro accoppiamento esistenziale; di non scinderli mai dall’atmosfera luminosa in seno della quale essi ci sono stati rivelati, per esempio, il grande, sacrale silenzio delle notti di fronte all’immensità del firmamento, maestoso, totale; di ritrovare sempre sotto le parole usate la linfa vivificante, al di là del simbolo, il simbolismo che ne deriva. In secondo luogo, bisognerà non inventare ma informarci. Cercare le costanti più certe per essere sicuri di cogliere le espressioni simboliche universali relative all’uomo in quanto tale.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano
Anno 1981
Pagine29-52

Figure semplici: il centro e il cerchio

Sezione: Studi


Il centro

Come una pietra gettata nel centro di uno stagno determina delle onde concentriche che trasmettono il movimento originale fino all’orizzonte del creato, così il centro è prima di tutto il Principio. La stella Polare fornisce l’espressione naturale più stupefacente di questo simbolismo.

Cerchio luminoso attorno alla Stella Polare

È noto che per gli antichi il cielo è un mare costituito da quelle che essi chiamano le acque superiori e che le cosmogenesi iniziano dall’elemento acqueo. La stella Polare manifesta il punto primordiale dell’oceano celeste di cui il mondo terrestre non è che una frangia estrema e l’ultima creata. Essa costituisce il centro principale a partire dal quale tutto prende origine, il punto indiviso, senza forma né dimensione, immagine perfetta della unità primigenia e finale nella quale ogni cosa trova inizio e conclusione; perché tutte le cose ritornano a colui che le ha create e non può affidare loro altro fine che la propria perfezione assoluta.

Albenga, Battistero – Mosaico: Crisma

Per irradiazione, questo punto principale determina tutti gli esseri come la cifra unitaria produce tutti i numeri. In questi casi c’è parallelismo tra il simbolismo geometrico e il simbolismo aritmetico; entrambi sono ugualmente adatti a tradurre i simbolismi cosmici della espansione creatrice; questa rivela uno degli aspetti essenziali del mistero divino. La stessa realtà può essere simboleggiata su piani differenti e spesso complementari al punto di vista dell’osservatore. Il punto centrale è l’Essere puro, l’Assoluto e il Trascendente. Esso è diffuso nello spazio-tempo che non è null’altro che l’irraggiarsi di questo Assoluto; senza tale riferimento naturale lo spazio-tempo non satebbe che privazione, vuoto del caos mitico.

Il cerchio

Il cerchio è il secondo simbolo fondamentale. Gli astri circumpolari ne disegnano continuamente la sacra figura nel cielo e più ancora nella psiche di quelli che l’osservano. Attorno alla stella fissa, il cerchio fisso di ogni stella appare come la prima manifestazione del Punto primordiale. Il cerchio, innanzi tutto, è un punto esteso, quindi partecipa della sua perfezione

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (particolare)

Così punto e cerchio hanno proprietà simboliche comuni: perfezione, omogeneità, assenza di distinzione o di divisione.

Se su questo non occorre insistere, non si ripeterà mai abbastanza che un tale simbolismo non ha alcun valore, fintanto che non ha costituito l’oggetto di un’autentica esperienza umana, ciò che non ha nulla a che vedere con un elenco di nozioni astratte.

Allora e solo allora ci si meraviglia dell’intensità del sacro che emana da tutte le forme circolari. Il cerchio può per di più simboleggiare non solo le perfezioni nascoste del Punto primordiale, ma i suoi effetti creati; detto in altro modo il mondo in quanto si distingue dal suo Principio. I cerchi concentrici rappresentano i gradi degli esseri, le gerarchie create che costituiscono la manifestazione universale dell’Essere Unico e Non-Manifesto. In tutto ciò il cerchio è considerato nella sua indivisa totalità.

Al contrario, se noi distinguiamo sulla circonferenza uno o più punti, siamo condotti verso il movimento circolare, quello così ben rivelato dagli astri che non sono altro che punti luminosi che ruotano in tondo.

Cardona – Cupola del transetto

Cardona – Cupola del transetto

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (vista dal basso)

Diversamente dagli altri movimenti (rettilineo, sinusoidale, disordinato) questo movimento è perfetto, immutabile, senza inizio né fine né variazioni; ciò che l’abilita a simboleggiare il tempo. Il tempo si definisce come una successione continua e invariabile di momenti tutti identici gli uni agli altri.

Nell’ordine delle strutture cosmiche, il cerchio simbolizzerà facilmente il cielo, di cui abbiamo rilevato che il movimento circolare e inalterabile è la caratteristica più espressiva.

Giada rituale cinese – Pi (simbolo del cielo)

Appare significativo che la parola latina caelum indichi insieme il cielo, il firmamento e la forma circolare. Cerchio, tempo e cielo comunicano attraverso il loro aspetto di perfezione che li ha fatti considerare rispettivamente come punto, eternità e trascendente, cioè tutt’altro dal mondo corruttibile terreno.

Secondo un altro punto di vista, il cerchio può rivestire delle valenze d’imperfezione; esso diventa la ruota; si pensi alla linea ondulata della sinusoide che instancabilmente sale e scende sempre avanzando. La rotazione della ruota genera i cicli, le riprese, il rinnovarsi. Ruota e linea ondulata si prestano ai simbolismi della creazione in atto. Ci troviamo, così, nell’ordine del divenire, del mutevole, del caduco, del creato, del dipendente. Gli archi intrecciati caratterizzano i cicli del tempo terreno.

Payerne – Capitello

Non è più l’eternità radiosa ma il tempo che trascorre inesorabilmente e che occorrerà considerare nella giusta prospettiva o addirittura esorcizzare per liberarsi dei condizionamenti terreni… Quanto al cielo, esso si presenta allora nel suo innegabile rapporto con la terra che da esso emana; diventa, insomma, il modello che in certo modo riporta allo stato preesistente il divenire del mondo terreno.

Non possiamo non prendere in considerazione la spirale: essa suggerisce o, meglio, è emanazione, estensione, sviluppo, continuità ciclica ma progressiva, rotazione creativa.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Essa manifesta l’apparizione del movimento circolare dal suo punto originale; movimento che essa trattiene e prolunga all’infinito: è il genere di linea continua che lega incessantemente le due estremità del divenire. Il disco di bronzo di Somerset (età del ferro) confonde per la sua incredibile perfezione.

Dublino, Museo Nazionale – Disco di Somersst

Nell’ordine delle figure cruciformi, la spirale ha come equivalente la svastica, simbolo tra i più complessi che moltissime civiltà hanno adottato come emblema principale. La svastica simboleggia l’asse verticale di un tiro a quattro braccia il cui movimento di rotazione è espresso dal ritorno di ciascun braccio come tanti nastri mossi dal vento o come altrettanti piedi che imprimano il movimento.

Londra, British Museum – Ciotola di Sutton Hoo

Visby, Gotland Fornsal – Pietra sferica di Myrvalder in Tingstäde

Le immagini mostrano la continuazione immaginaria della svastica e della spirale ed evidenziano come la percezione simbolica si faccia gioco delle interpretazioni. Inoltre si notano le risorse decorative che tali simboli puri offrono all’arte sacra.

I Cristi romanici sono spesso concepiti attorno ad una spirale o ad una svastica: queste figure ritmano la posizione, ambientano i gesti, le pieghe del vestito. Con queste figure si trova per di più reintrodotto il vecchio simbolo del turbine creativo attorno al quale si collocano le gerarchie create che ne emanano.

 

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano 
Anno 1988
Pagine27-29

Fregio a zig-zag: il simbolo romanico

Sezione: Lessico


Come ci ha confermato la testimonianza dei Dogon, l’acqua considerata in Africa come benefica, a causa della calura tropicale, è stata intuitivamente vista nell’arte romanica come simbolo della vita che rinasce, giacché questa deperisce, se essa manca. Si è dunque guardato al tracciato a zig-zag come alla figurazione degli alti e bassi della vita, e lo si è iscritto in orizzontale o in verticale, secondo le due linee che formano la croce. Nel primo caso, voleva dire porsi nella prospettiva terrestre; per esempio, sulla facciata di Saint-Jouin-de-Marnes (Deux-Sévres), i pellegrini si muovono verso la Vergine (la Chiesa) che cammina su una fascia a zig-zag orizzontale.

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Sulla stessa facciata, però, nella decorazione a rombi di pietra che fa da sfondo alle figure di Costantino e di Sansone col Leone, il fregio assume l’aspetto di un motivo verticale (tav. 86); ed è proprio nella prospettiva celeste così indicata che compare, alla sommità, il Cristo Giudice con la croce greca. Il segno verticale mostrava al cristiano che, una volta superate, come quegli eroi, le prove della vita su questa terra, egli si sarebbe potuto dirigere sia verso destra, dal lato degli eletti, sia verso sinistra: il segno aveva finito col complicarsi in relazione con l’idea delle «direzioni» e in relazione con la Y.

Ma non per questo era caduto in dimenticanza il simbolismo dell’acqua. Per esempio, un fregio a zig-zag orna l’acquasantiera di Saint-Paulien (Haute Loire), e un disegno ondulato a zig-zag su un capitello di Chanteuges fa da mare o da fiume alla barca di un vescovo: sta a significare il corso della vita. Ma, come a Saint-Jouin, bisogna osservare altresì le variazioni del motivo nelle restanti parti della chiesa. Il fregio a zig-zag verticale si presenta infatti sotto forma di intarsio di pietra nella zona del coro, soprattutto attorno alle due cappelle absidali, una delle quali contiene, tema unico e perfettamente visibile, gli uomini ravvolti dall’intreccio di uroboros, simboli del giovane e del vecchio, dell’eletto e del dannato, al pari degli uomini entro i racemi sugli stipiti della finestra assiale di Aulnay: ci troviamo insomma di fronte allo stesso significato di Saint-Jouin-de-Marnes.

Il fregio a zig-zag compare infine in una forma intermedia, intesa a stabilire un legame fra il cielo e la terra, nell’arco con coronamento a denti di sega, largamente diffuso nel Velay. A Chanteuges lo troviamo sul lato nord, quello tradizionalmente riservato al Giudizio, dove è stata, per essere precisi, incastrata una stele gallo-romana raffigurante un Priapo, al quale era attribuito un valore profilattico e che veniva chiamato Saint Coudiou. I denti di sega sull’arco in questione sono in numero di otto – il numero della vita futura.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 144-145

Fioroni: i crismi e i fioroni dei timpani

Sezione: Lessico


Abbiamo già parlato del ruolo importante che ha il crisma nella zona mesopotamica. Esso si presenta qui come un tema circolare analogo al Tetramorfo, sempre da solo, e implica i significati più diversi. Esempio tipico è il crisma che campeggia sul timpano di Jaca. Immagine della Trinità, come afferma l’iscrizione che lo accompagna, è anche l’immagine del Sole di Giustizia, perché iscritto in un cerchio perfetto, con Otto fiori che si alternano ai suoi otto bracci. A quest’ultimo proposito, una precisazione è bene fare subito: il crisma romanico ha poco a che vedere col crisma orientale autentico, che presentava non Otto, ma sei bracci, formati dalla sovrapposizione delle due lettere greche khi (X) e ro (P): la ro come tale è infatti scomparsa nel crisma romanico, sostituita da una semplice asta verticale, però in compenso si è inserita una barra orizzontale, che viene così a formare l’immagine della croce eretta, con la quale, aggiunta alla khi si completa l’alleanza simbolica della croce suddetta con la croce rovesciata e si determina implicitamente la figura del sole, della croce dei venti – ovverossia l’otto, simbolo della vita futura. Ricordiamo inoltre che a Jaca il crisma, Sole di Giustizia, è fiancheggiato da due leoni, che implicano, con la loro asimmetria, un significato di giudizio: la coerenza è evidente.

Su certi timpani del Rouergue, al crisma sono congiunti dei fioroni eminentemente simbolici. L’insieme evoca, con l’ausilio di questi schemi astratti, l’avvento della Città futura. Per questo, infatti, a Coupiac (Aveyron), si è inserito il famoso crisma a Otto bracci entro una corona e poi dentro un quadrato inclinato di 90° .

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Negli angoli del suddetto quadrato inclinato si trovano quattro fiori che alludono chiaramente ai quattro Animali: un quadrato, il loro, che intende evocare il livello celeste. Quello di sinistra ha quattordici petali, per dare l’idea dell’incarnazione, dell’Uomo. Quello inferiore è una margherita con quattro petali a forma di croce, ed è simbolo del Bue. Quello in alto di petali ne ha Otto, e corrisponde al Leone – ma i suoi petali non tracciano nessuna linea chiaramente verticale: i due superiori disegnano se mai una V. Al contrario, questo, della margherita di destra, che ha anch’essa Otto petali e che corrisponde a sua volta al livello supremo, quello dell’Aquila. L’insieme inoltre è circondato da quattro efflorescenze, disposte in quadrato, che alludono invece al livello terrestre: le due che stanno alla base disegnano un pentacolo, evidente ulteriore riferimento alla figura dell’Uomo, mentre le due di sopra disegnano la croce eretta, simbolo dell’uomo vivente in questo mondo e che per ciò stesso ha ancora bisogno della croce redentrice. Che l’inclinazione conferita al quadrato sia un fatto voluto è confermato dall’altra croce eretta che appare iscritta in un piccolo cerchio al centro del crisma: è una croce che ha subito una leggera deviazione verso destra, ma si tratta di un’inclinazione che non ha nulla a che spartire con l’inclinazione del quadrato (il quadrato della Gerusalemme celeste) e neppure con quella dell’asta della khi alla cui estremità sventola un’omega. Tutto ciò vuole indicare che se è vero che non siamo lontani dalla fine, altrettanto vero è che i tempi non sono ancora maturi e che «noi non sappiamo né il giorno né l’ora». Vengono a essere distinti, in questo modo, tre diversi gradi di rotazione, segnati dalla cornice e dai quattro fiori, e infine, a delimitare il tutto, le ali dei due angeli posti dall’uno e dall’altro lato. Tutto ciò fa rassomigliare questo complesso, in maniera davvero sbalorditiva, all’immagine dei tempi futuri fornita da quello che è stato impropriamente chiamato il «calendario azteco», nel quale le successive fini del mondo sono indicate da quattro animali con al centro una croce rovesciata: somiglianza invero sconcertante col Tetramorfo romanico e prova, visto che le opere dei due continenti sono contemporanee, della comunione che potevano raggiungere a quell’epoca i simboli, su scala mondiale.

Bisogna analizzare anche i fioroni del timpano di Lévinhac che circondano egualmente un crisma, figurazione dell’eterno Sole; vi si può scorgere una rotazione paragonabile a quella dei fiori precedenti, però il pensiero guida non è lo stesso. Emerge piuttosto la plasticità di un elemento simbolico che può adattarsi ai pensieri più vari: mentre infatti a Beaulieu e a Moissac i fiori di cardo, minacciati da mostri diversi, rimangono apparentemente intatti, qui invece si vede come possano questi fiori, espressione di un certo sistema del mondo, degradarsi progressivamente: le tappe di questa degradazione progressiva si leggono attorno al crisma centra le a Otto bracci, inquadrato dagli angeli e, alle estremità, dal sole e dalla luna, secondo l’ordine tetramorfico: al posto abituale dell’Uomo, in alto a sinistra, sembra che si sia voluto evocare il sistema propriamente celeste, la rotazione delle sfere, facendo ricorso a un cerchio e a delle ellissi che disegnano, con le linee di una croce diritta e di una croce rovesciata, una rosa dei venti; in basso a destra, al posto del Bue, appare il mondo terrestre, sotto l’aspetto di un’altra figura circolare, che presenta al centro un fiorone a sei petali, ad immagine del crisma letterale (il Cristo), attorno al quale gravitano dodici fiori a sei o sette petali (gli Apostoli). Si tratta dunque della Chiesa; i fiori esterni che toccano il bordo del cerchio e che sono da esso tagliati in due indicano che gli Apostoli si spingono fino alle estremità del mondo. In effetti, il Cristo ha ripetutamente affermato che quando tutti i popoli saranno stati evangelizzati e il suo insegnamento sarà conosciuto da tutta la terra, allora egli farà ritorno. In basso a sinistra, al Leone simbolo di morte e di resurrezione corrisponde il fiorone a intrecci che ripete la figurazione dell’incrocio e che tende all’annullamento del cerchio magico con l’ausilio di undici avvolgimenti che segmentano la linea circolare. Infine, ultimo termine a destra in alto, il tema dell’Aquila, sostituito da un mostro androfago, la bocca dell’Inferno, che sta appunto ingoiando un uomo. L’immagine del gufo, al di sopra dell’archivolto, sta a indicare che il regno delle tenebre trionfa; i motivi delle modanature rendono più evidente questo significato: quello della modanatura esterna, assai simile a una greca, disegna delle specie di S dai contorni squadrati e piegate a sinistra, mentre sulla modanatura interna la fascia di quadrettature a scacchiera, termine di significato terrestre, sembra volere esprimere l’alternanza dei giorni e delle notti. C’è infine un terzo motivo, a fogliami, che nella prospettiva generale di portali mesopotamici, con i loro angeli annunciatori, è indizio di una insistenza sul mondo presente più che sul mondo ripristinato.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 135-136

Disposizione anteriore: i portali e l’idea di interdizione, arcata o timpano

Sezione: Lessico


Émile Mâle ha ravvisato l’origine dei portali romanici e soprattutto borgognoni, e contemporaneamente dell’insieme dei portali gotici, nel Tetramorfo di Moissac, nell’Ascensione della porta Miégeville o più precisamente di Cahors e nel Giudizio infine di Beaulieu. Non c’è alcun dubbio che la porta in quanto tale e la sua funzione essenziale risaltino in maniera più netta nella zona mesopotamica che nella zona egiziana, e che per tanto il ruolo di tali portali sia stato grande. Priorato di Cluny, Moissac è la prima a collocare all’entrata della chiesa il Cristo circondato dal Tetramorfo e da Vegliardi con una sistemazione assolutamente originale; il tema si propaga immediatamente, con rapidità incredibile, a Chartres, a Cluny, a Bourg-Argental, ecc. Quelli che in esso appaiono più nuovi e stupefacenti sono i Vegliardi, tema ispirato più precisamente dalle Apocalissi di Beato di Liebana, le stesse appunto che hanno fornito il modello al motivo circolare di Moissac, giacché il Tetramorfo di per sé non è un tema inusitato. Gli «angeli annunciatori» di Cahors si ritrovano a Chartres, così come a Saint-Denis si ritrovano la croce e la posa del Cristo di Beaulieu; sono tutte opere, d’altronde, di maestranze provenienti dalla Linguadoca.

A nostro avviso, però, un’analisi siffatta non tiene conto della realtà nella sua interezza. Quantunque il tema del timpano sia spessissimo d’una estrema chiarezza, non bisogna confondere il timpano con la porta o col portale presi nell’insieme. Si può infatti parlare di «timpani» a proposito del sud ovest francese, ovverosia della zona mesopotamica? Le rappresentazioni dei timpani sono qui movimentate e non statiche, quando esse esistono: esistenza che comunque non riguarda assolutamente la zona Charente-Poitou, nella quale solo gli archivolti presentano una ornamentazione tematica, mentre invece la funzione di un timpano è quella di esibire una immagine stabile, permanente, che dia l’idea dell’eternità. Nelle «porte» autentiche, tipo quelle di León, di Ripoll, di Tolosa (porta Miégeville), le rappresentazioni «ascendenti» poste esternamente ad esse, nei pennacchi, sono più importanti di quelle del timpano propriamente detto. L’arcata spoglia e la cornice riccamente ornata al rovescio rendono più sensibile l’analogia con l’arco di trionfo romano. Anche nei veri e propri timpani di Moissac, Beaulieu e Souillac le rappresentazioni ascendenti dei muri laterali, dei piedritti e dei pilastri mediani sono quasi più importanti di quelle dei timpani. Si tratta, ogni volta, di riportare l’attenzione sulla forma quadrata, verso la terra, nella stessa misura almeno che può essere riservata alla visione circolare. I timpani sono per contro fondamentali nel sud est, dove la decorazione dei pennacchi è limitata a casi eccezionali; la visione circolare costituisce infatti il centro verso cui convergono le raffigurazioni dei piedritti, delle statue-colonne, per esempio in Provenza, e soprattutto quelle degli archivolti, ornati sovente con oggetti iconografici, della Borgogna. Nel caso di una insistenza sull’idea della Chiesa militante, sull’immagine della terra, concetti che impongono la concentrazione dei parati decorativi sulla cornice quadrata della porta, il tema del timpano – come quello della Consegna delle chiavi a san Pietro e del libro a san Paolo che vediamo ad Andlau (Bas-Rhin) e a Basilea – è frequentemente un tema glorioso, trionfale e simmetrico, che si ritrova anche nelle absidi, come molti dei temi rappresentati sul portali di questa zona: ecco perché il cerchio ha un ruolo superiore a quello del quadrato.

Certo, non si può mettere in dubbio che la formula della porta guardata dai leoni, dell’arcata di difesa o dell’arco di trionfo che rappresentano una minaccia per il vinto, e più in generale della porta sic et simpliciter, che, è vero, sta aperta, ma che in tempi d’insicurezza si chiude di fronte agli assalitori, sia molto più significativa dell’idea di interdizione espressa dal portale propriamente detto, interamente imperniato sulla rappresentazione del timpano, offerta a tutti gli sguardi, quando invece la si sarebbe dovuta occultare nell’oscurità del santuario o addirittura della cripta.

Il fatto è che, al contrario degli antichi templi, la chiesa cristiana è per principio ostile all’essoterismo e come tale accessibile a chicchessia. La formula iconografica del portale è quindi conforme all’insegnamento che ci viene impartito dal Cristo: con essa vengono proiettati in facciata i temi confinati nelle absidi. Se si considera la disposizione dei soggetti sui portali della Linguadoca, ci si accorge facilmente che questi sono innanzi tutto dei portici, più che dei portali, e che temi importanti, ripetiamolo un’altra volta, sono in essi anche, e forse più ancora, quelli che ornano i piedritti e i muri laterali del portico; attraverso tali temi, attraverso la loro disposizione sotto un portico, si è posto con più forza l’accento sull’idea di interdizione, tradizionale ma non specificamente cristiana, destinata comunque a sparire nella disposizione gotica.

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Il moltiplicarsi dei leoni di difesa anche sui timpani, come a Jaca, oltre che dinanzi ai portali, il diffondersi delle rappresentazioni allegoriche imperniate sulla figura del leone, come alla porta Miégeville e a Compostella, che arrivano ad invadere perfino i capitelli con il tema ambiguo dell’uomo col leone, e al tempo stesso l’importanza accordata alla parte anteriore della chiesa – basta pensare ad Oviedo o alla famosa cappella dei re a León –, sono tutti segni distintivi della formula mesopotamica che mirano in certa misura a vietare l’accesso alla chiesa. È ben noto, d’altronde, quanto disparata e non di rado poco raccomandabile fosse la provenienza dei pellegrini, quanto numerosi fossero i pericoli che essi affrontavano da parte dei briganti lungo le vie su cui sorgevano tali portali, e soprattutto quanto incombente fosse la minaccia dell’eresia: ce ne è a iosa per spiegarsi i motivi di questa preoccupazione difensiva. Il principio del timpano, intorno al quale tutti i temi – sugli architravi sugli archivolti, sulle strombature, sui piedritti, sui pilastri mediani delle porte – si concatenano e si ravvolgono, alla maniera di un’immagine tradizionale, è un derivato dall’arte copta e non siriana: il complesso di Charlieu non è isolato nel sud est e nella zona egiziana. Le iscrizioni aggiunte sui portali borgognoni dimostrano che al Cristo in maestà che in essi troneggia si accoppia un’idea di accoglimento e di benedizione ma anche un’idea di rispetto per la maestà divina che è, senza alcun dubbio, un’idea di messa in guardia, di interdizione. A Condeyssiat (Ain) si poteva, per esempio, leggere: «E così che tu troneggi in Cielo, o Cristo, e che ci benedici». A Vandeins, nella stessa regione, accanto a un portale del tipo eucaristico, con un Cristo simile a quello dell’antico portale di Charlieu, dominante la rappresentazione di un’Ultima Cena associata alla Lavanda dei piedi, si legge: «Benedite il Signore, ecco la maestà di Dio». E più in basso: «Che la volontà onnipotente esaudisca coloro che entrano e che l’angelo di Dio protegga coloro che escono». Sono, come si vede, iscrizioni significative, proprio perché implicano un invito al fedele che penetra nella chiesa a rispettare la maestà dell’Altissimo, simboleggiata dal Cristo assiso in trono – il che ci richiama automaticamente alla memoria i timpani copti. Ma l’iscrizione che compare inserita insieme con la Cena e con la Lavanda dei piedi sull’architrave di numerosi portali, tipo Saint-Julien-de-Jonzy, Savigny, Bellenaves, Saint-Pons, Saint-Gilles, non è certo meno significativa. É. Mâle traduce: «Quando il peccatore si accosta alla mensa del Signore, bisogna ch’egli chieda con tutto il cuore il perdono del Signore». Non solamente il fedele che entrava nella chiesa doveva considerare con reverenziale timore il fatto di avvicinarsi al Signore, ma era soprattutto l’idea di rispetto a imporglisi con forza nella imprescindibile esigenza di sottoporsi al sacramento della penitenza prima di prendere parte al sacramento della eucaristia. San Pietro, a cui il Cristo lava i piedi all’estremità della lastra scolpita, tende al Signore – per esempio, a Saint-Gilles, a Bellenaves e a Clermont-Ferrand (sull’architrave murato di rue des Gras) –, contemporaneamente i piedi e la testa; gesto che palesemente ricorda il testo evangelico di Giovanni, là dove l’Apostolo chiede a Gesù: «Signore, non i piedi soltanto, ma la testa anche». Come il principe degli Apostoli, così il fedele deve abbandonare se stesso, completamente, con tutto il suo essere, alla purificazione richiesta dal Signore.

Un tema del genere, che dà luogo a quello che Mâle chiama «portale eucaristico», proprio perché in esso viene posta in evidenza l’importanza dei sacramenti, corrisponde in pieno alla definizione già accennata a proposito degli ingressi romanici sui quali appaiono fianco a fianco il Cristo eterno e la Chiesa presente. Si tratta, praticamente, di un caso particolare di «tema doppio». Al posto dell’avvertimento dell’angelo che costituisce un tema d’interdizione, in quanto esorta il fedele a riportare il suo sguardo sul Cristo che deve venire piuttosto che su quello che s’innalza alla vista di tutti, è la Presenza reale che qui viene evocata ed è Dio stesso che invita il fedele a rivolgersi a lui con rispetto e ad attendere la sua grazia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 124-126

Fregio a zig-zag: notazioni storiche

Sezione: Lessico


Le manifestazioni «decorative» di questo segno sono numerose, quasi quanto quelle dell’incrocio. È nostra opinione infatti che tutta una serie di elementi ripetuti in modo da formare linee spezzate, tipo il nastro pieghettato detto «angioino», i denti d’ingranaggi, i denti di sega, i tracciati a zig-zag propriamente detti più larghi rispetto ai motivi precedenti, le colonne striate trasversalmente nei due sensi e infine la disposizione a intarsio, cosiddetta «obliqua», non siano altro che espressioni diverse del simbolo FREGIO A ZIG-ZAG. Nell’araldica, il fregio a zig-zag è una «figura», come il dentellato.

Il tema in questione fa parte del linguaggio delle linee elementari, come caratteristica delle immagini di fecondità nelle culture antiche più diverse. Il segno a V, semplice (V) o ripetuto (VVVVVVVVVVV) quest’ultimo era l’immagine dell’acqua, in Egitto), appartiene per eccellenza al linguaggio pittografico, alle indicazioni elementari che per successive trasformazioni sono diventate scrittura. È indubbiamente un fatto significativo che Ferdinand de Saussure sia stato ispirato, nella creazione della semantica comparata, studio delle radici comuni a tutte le lingue, dal disegno della lettera A, il carattere che si ritrova sempre identico a se stesso in quasi tutte le lingue, per lo meno in quelle indo-europee (cfr. Mémoire sur le système primitrif des voyelles dans les langues indoeuropéennes, Paris, 1878). Ebbene, la A, nella sua forma elementare, non è che una V capovolta, ed è nello stesso tempo la vocale più facile da pronunciare.

In quanto elemento decorativo, il fregio a zig-zag, sia verticale che orizzontale, s’incontra dappertutto. Nella cultura dell’antico Messico il trono del sovrano azteco, stando a una tavola del Codex Telleriano Remensis, era ornato con un fregio a zig-zag. Lo stesso fregio si ritrova sui pali all’ingresso delle capanne, nelle isole dell’Oceania, coronati dalla maschera del «Defunto» lunare. Esempi, l’uno e l’altro, che dimostrano come esso sia stato (e sia ancora) utilizzato dovunque per la decorazione degli oggetti sacri. E quindi investito d’un significato particolare. Ma quale?

In base alla «teoria delle strutture» di Claude Lévi-Strauss, è certo che dei segni così elementari e così diffusi, così «parlanti» possiamo dire, hanno, secondo ogni verosimiglianza, un senso generale comune dappertutto, anche se poi, in funzione delle etnie particolari, dell’ambiente geografico, del clima, ciascuno comporta una sfumatura di significato sua propria. In altre parole, partendo da un senso primordiale presente dovunque, è possibile stabilire una serie di associazioni di significati fra loro vicini. Nel caso del fregio a zig-zag, ci troveremmo di fronte all’espressione del carattere relativo delle cose umane, con le alternanze benefiche e malefiche, un fratto di elementare esperienza, intuitivamente associato all’acqua, calma o terribile, delle inondazioni e delle tempeste oppure della pioggia benefica. Sulla scorta di questi dati generali e lasciando quel che loro spetta alle condizioni di razza e di ambiente diverso, sarà interessante esaminare il significato del tema presso i Dogon dell’Africa Sahariana, dove esso si presenta come un vero e proprio segno grafico. Di fatto, quando s’ha a che fare con un simbolo universale, anche se mancano le referenze per poterlo spiegare in un determinato ambiente – nel nostro caso l’arte romanica –, è raro che un’altra cultura, in un’altra pane del globo, non possa procurare una qualche indicazione, e perfino delle certezze, sul suo significato.

È risaputo che, grazie a Marcel Griaule e ai suoi allievi, prima fra tutti M.Ile Dieterlein, abbiamo oggi la fortuna di conoscere a fondo una cultura tradizionale, trasmessa oralmente, la cui origine è misteriosa. Vi si trovano in particolare le tracce di una elaborata cosmogonia, alquanto vicina a quella dell’antico Egitto, nella quale ci s’imbatte qua e là anche nella Bibbia. Si possono così vedere i molteplici significati del fregio a zig-zag spiegati da rapporti assai chiari, specialmente quelli dello «stregone» Ogotomeli; secondo un preciso rituale, questi fregi venivano ripetutamente tracciati sulle facciate dei santuari: ed è piuttosto sorprendente notare come il tracciato a zig-zag, simbolo dell’acqua, abbia anche qui, al pari dell’alfa biblico, valore cosmogonico: il suo ruolo appare infatti fondamentale fin dall’inizio del mondo. Le linee a zig-zag verticali tracciano il corso dei ruscelli terrestri e il modo di cadere del Nommo, cioè a dire del demiurgo, quando esso si precipita sulla terra sotto forma di pioggia (cfr. Dieterlein, Signes graphiques soudanais). Fra i 22 segni della serie di Amma, il segno che vuol dire «imparentato» o «alleato» è formato da tre corde che reggono insieme il sistema del mondo.

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Un altro segno, composto di triangoli neri e bianchi, come delle dentature verticali, rappresenta le parole pronunciate dal «monitore» dopo la discesa nell’arca, ovvero all’atto della creazione primigenia.

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Il primo atto dell’ordinamento dell’universo è infatti la creazione dell’acqua, che è anche l’elemento che serve a dare linfa e alla terra; la linea serpeggiante non è altro che la proiezione su un piano della linea elicoidale che concretizza questo atto primordiale.

I fregi a zig-zag che compaiono nelle pitture sulle facciate dei templi rappresentano «l’andare e venire dell’umidità e del sole. Tirare per far salire, tirare per far discendere, è questa la vita del mondo. Mediante dei raggi, il nommo toglie e ridà la forza vitale: è questo movimento stesso che fa la vita» (M. Griaule, Dieu d’eau, Paris, 1948; trad. ital., Milano, 1968). Lo stesso percorso può essere a volte espresso dal disegno di uno struzzo, il cui corpo a cerchi concentrici è fatto di fregi a zig-zag; il suo correre tutto a scarti improvvisi a destra e sinistra quando è inseguito non si riscontra infatti in nessun altro volatile: è l’animale volubile per eccellenza.

La presenza dell’acqua all’origine del mondo evoca il diluvio e le concezioni antiche, come per esempio quella dei Micenei, che facevano scaturire dall’acqua tutti gli esseri viventi (palese corrispondenza con le moderne teorie sull’evoluzione). Come si sa, la rappresentazione del mondo di cui testimonia la Genesi e che il medioevo conserverà immutata è quella delle acque sotterranee e sopracelesti, delle acque basse e alte. Mircea Eliade ha messo benissimo in evidenza come il mito dei successivi diluvi abbia avuto una diffusione universale, soprattutto nelle regioni minacciate dalle inondazioni. Tutti questi elementi hanno determinato la persistenza del fregio a zig-zag come simbolo dell’acqua, ma è evidente che quelli che hanno assicurato il suo protrarsi fino ai dì nostri sono stati aspetti semplici ed elementari, come le onde che si formano sulla superficie delle acque, per il fregio a zig-zag orizzontale, o come le striature tracciate dalla pioggia che il vento spinge in un senso o nell’altro, per il fregio a zig-zag verticale.

Non vanno però trascurate altre manifestazioni dello stesso simbolo nell’area mediterranea, più vicine all’arte romanica nello spazio, se non nel tempo. Lo vediamo per esempio sugli idoli neolitici della Cappadocia associato a immagini androgine, raffigurazione quasi astratta dell’unione ierogamica: appare evidente che conseguenza dell’unione è l’acqua fecondante. Analogamente sugli avori copti dell’ambone di Enrico II ad Aquisgrana: il fregio a zig-zag si presenta associato alle due effigie di Bacco, immagini dell’Uomo e del Bue, incarnazione e sacrificio, aventi un ruolo propiziatorio simile alla ierogamia e alla partecipazione al corpo e al sangue di Nostro Signore, nel sacramento della comunione, che per molti aspetti ricorda i rituali primitivi. A una di queste effigie di Bacco sono connesse altresì delle striature a destra o a sinistra che decorano l’altare a forma di colonna tronca: una delle Nereidi disegna una striatura a destra, l’altra una striatura a sinistra; segni che, uniti insieme, compongono il fregio appunto a zig-zag, mentre le linee incrociate sulla fronte di Iside, altro modo di riunire le striature, illustrano la nascita divina dal grembo di una vergine – concezione che, come si vede, non è affatto specifica del solo cristianesimo.

Questi due esempi così lontani fra loro – idoli cappadoci e avori copti (riportati in auge sull’ambone all’epoca romanica) – sottolineano e confermano la coerenza di questo linguaggio di linee formato da tratti a zig-zag, da striature trasversali, da triangoli, da incroci, ecc. È un linguaggio che si perpetua attraverso associazioni intuitive, ed è assolutamente normale che, ripetendosi su una gran quantità di oggetti – recinti di presbiteri, balaustrate e stoffe soprattutto –, esso abbia potuto mantenersi in vita dal secolo VI, epoca degli avori copti, fino all’età romanica e perfino oltre, visto che all’interno della cattedrale di Siena, sul mosaico absidale che circonda l’altare del secolo XIV, ritroviamo il fregio a zig-zag associato sia ai sacrifici di Abele e Caino, sia a quello di Melchisedec, prefigurazioni, come tutti sanno, dell’eucaristia. D’altronde il simbolo dell’acqua è comune fin dall’arte paleocristiana sui mosaici pavimentali delle chiese italiane; in Francia lo si incontra su quello di Saint-Benoit-sur-Loire.

Il mosaico di Siena, come se non bastasse, contiene un’immagine di Ermete Trismegisto. Noi stessi abbiamo portato l’esempio degli avori copti: l’iconografia copta, e dunque egiziana, ha avuto la sua parte nell’adozione del fregio a zig-zag da parte dell’arte romanica. Un fatto, questo, che va messo in relazione col ruolo benefico delle inondazioni del Nilo. Al contrario in Mesopotamia l’acqua è generalmente simbolo di devastazione: si pensi al diluvio Universale, per il cui racconto la Bibbia è ricorsa al prestito dell’Ut Napishtim mesopotamico. È evidente che un segno del genere, ripetuto all’infinito e per ciò stesso quanto mai idoneo ad assumere il significato delle «ripetizioni», dei «ritorni», poteva adattarsi solo con qualche forzatura al cristianesimo, per il quale invece la storia ha uno sviluppo lineare; l’unica soluzione, offerta proprio dagli avori copti, era quella di collegarsi particolarmente al significato delle «direzioni»: destra benefica e sinistra malefica, orizzontale terrestre e verticale celeste.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 142-144

Disposizione: disposizione egiziana e disposizione mesopotamica; le città

Sezione: Lessico


A riprova dell’importanza che deve essere riconosciuta ai due tipi di disposizione – quella imperniata sull’abside, o disposizione interna, e quella orientata sulla navata, o disposizione anteriore –, è necessario stabilire un rapporto, per strano che ciò possa apparire, fra le due fonti orientali e le due zone con le città in quanto tali.

In effetti, benché il piano quadrato della città apocalittica abbia impresso in origine un impulso determinante ai raggruppamenti di chiese, che erano allora la regola, la cosa che particolarmente colpisce è come invece le città di nuova fondazione abbiano, in linea generale, sposato il piano circolare, cosiddetto «radiocentrico»… Ciò voleva dire trasferire nell’ordine dello spazio globale, che richiama l’idea del gruppo umano, la struttura dell’«immagine circolare», che di per sé viceversa s’iscrive nell’ordine del tempo. Non si poteva rendere più evidente la supremazia di Dio e della Chiesa su tutti i piani. Essendo la chiesa al centro, virtuale o reale, di tutto l’insieme – parliamo della chiesa madre, ovviamente, della cattedrale –, il Cristo che in essa risiede, sull’altare, irradia se stesso automaticamente su quell’universo microcosmico che è il gruppo urbano. In tale prospettiva, la disposizione egiziana si estende alla città intera.

Fatto comunque non meno singolare, che però non fa che rendere più sensibile l’accordo intimo fra l’edificio sacro e il gruppo profano – a contrario, potremmo dire stavolta, giacché apparentemente la chiesa, esiliata com’è per lo più in periferia a fare da vero e proprio bastione, sia in senso concreto che figurato, perde qui la posizione preminente che le assicurava il punto centrale –, l’ondata mesopotamica che irrompe nella Francia sud occidentale si accompagna al ritorno in auge di un piano quadrato o rettangolare, in relazione con il diffondersi dell’interesse per il testo apocalittico e della imitazione come che sia della Città celeste. Ciò voleva dire tornare al piano della prima Roma mitologica – la Città quadrata sul Palatino –, ovvero a quello di Alessandria e delle altre città fondate in tempi antichi: e tuttavia non si deve pensare che una siffatta disposizione fosse suggerita esclusivamente dalla comodità o da scopi militari (come a volte si tende ad affermare): nel medioevo qualsiasi atto pubblico, e più che mai un atto così importante com’era quello che mirava a definire la cornice del vivere, era per prima cosa un atto rituale.

L’incidenza del piano quadrato appare all’interno stesso delle città, nell’urbanistica. il piano quadrato del castrum romano con le sue due vie ortogonali venne frequentemente adottato per gli antichi santuari, agglomerati di edifici diversi e sempre in relazione con la Città apocalittica. Tali santuari, infatti, formati da edifici fra loro isolati – il battistero era uno di questi – erano protetti da mura e pone poste in asse secondo i punti cardinali. Esempio tipico è la cattedrale di Milano, della quale un antico testo ci dice che era formata da un nucleo centrale, con la chiesa episcopale, un campanile indipendente – formula italiana per eccellenza questa; ancora in epoca romanica la torre, spesso di ragguardevoli dimensioni, era spesso separata dal resto delle costruzioni: basta pensare alla torre di Pisa –, due battisteri e quattro cappelle dedicate ai quattro arcangeli posti a difesa dei quattro punti cardinali: Michele a oriente il più grande di tutti, al posto d’onore, erede di Thor e dello Psicopompo egiziano, con tanto di bilancia in mano; Gabriele a occidente; Raffaele a nord; e Uriele a sud. Quest’ultimo, che veniva considerato l’arcangelo dell’Antico Testamento, doveva essere estromesso (e il suo culto perciò vietato) da un concilio romano del secolo VII: è da qui che deduciamo la data approssimativa del testo in questione: forse il secolo VI. Più tardi, in epoca carolingia, durante la quale le pone di difesa tuttavia furono conservate, per esempio a Centula (= Saint-Riquier), sopravvennero le cappelle con valore profilattico. Venivano in genere sistemate nelle torri, mentre l’atrio, futuro nartece, continuava a chiamarsi paradisus, ricordo della Città celeste così frequentemente imitata: proprio le torri di facciata, infatti, accoglieranno spesso degli altari, al piano superiore, dedicati a san Michele o a san Gabriele. Quanto al coro, esso era protetto, come ci testimonia un testo relativo alla città di Verona, dalle cappelle dedicate ai santi martiri: in questo modo, ci viene assicurato, la città era «protetta contro le potenze malvagie dalla sua corona di corpi santi».

Sembra evidente, tuttavia, che con la progressiva scomparsa della città o dell’agglomerato di edifici così costituito e la sua sempre più diffusa sostituzione con una chiesa organica principale o con un gruppo cattedrale, si sia ben presto adottata, preferendola a quella che ricordava la Roma pagana, la struttura della Gerusalemme tipica, che era circolare. Fu senza dubbio un piano del genere che venne prescelto nel IV secolo da Sulpicio Severo per la sua villa di Primuliacum, presso Auch; da una lettera indirizzatagli dal suo amico Paolino da Nola, formatosi come lui all’Università di Bordeaux, celebre quanto quella di Autun, apprendiamo infatti ch’egli aveva composto due poemi destinati ad abbellire i portici che univano due chiese al battistero: «Queste due chiese simboleggiano l’Antica e la Nuova Legge. L’Antica Legge è la speranza, la Nuova è la fede. Entrambe le Leggi hanno come punto di riferimento il Cristo. E per questo che il battistero è stato posto a egual distanza dalle due basiliche, perché è da esso che s’irradia la gloria del Signore». Ricaviamo questa citazione dall’ultimo libro di E. Mâle, La fin du paganisme en Gaule, libro importante poiché in esso l’autore rivede certe sue affermazioni relative alla scomparsa del simbolismo fino a Suger, e nel quale, anzi, mette in evidenza la posizione incontestabile che «il simbolismo già occupa nel pensiero cristiano». Se quindi il battistero si trova al centro, è a causa dell’importanza del rito battesimale degli adulti nella Chiesa antica, sulla quale ci soffermiamo in altro luogo.

In linea di massima, il piano circolare è tipico dei villaggi, di tende o di capanne, di svariate civiltà primitive. Un esempio che permane ancor oggi: la capanna dei Maquiritares, popolazione indiana dell’Orinoco, in Amazzonia, che riunisce e ripara l’intera tribù attorno al palo di sostegno centrale, e che comunica all’esterno con quattro aperture poste in direzione dei quattro punti cardinali. Era la stessa cosa nel campo di Attila e la stessa tuttora in zone più vicine a noi, in certi villaggi slavi o presso gli Arabi di Bagdad.

D’altronde, come evocare meglio il mondo sottomesso alla Chiesa? Un piano del genere si accorda con quello della città fortificata, appollaiata in cima a un’altura o raggomitolata attorno al castello, al quale il santuario è connesso e dal quale è protetto. Naturalmente non possiamo elencare tutte le città, innumerevoli, che esistono già dall’alto medioevo e che obbediscono a questo piano; citiamo Malines, Milano, Limoges, Saint-Denis, Figeac, Bergerac, Brive-la-Gaillarde. Ma ci sono anche dei villaggi: fra questi, quanto mai caratteristico è il minuscolo borgo di Pommiers (Loire). In ogni caso, si tratta di un piano che viene da lontano, da costruzioni preistoriche ben note come i cromlech bretoni (cfr. Lavedan, Histoire de l’urbanisme).

La cosa certa è che questo piano, il quale continuò ben inteso a svolgere un ruolo di fondamentale importanza, venne bruscamente abbandonato nel Midi della Francia, nel sud ovest, nella Guienna e nella Guascogna, quando queste regioni dovettero organizzarsi a difesa contro gli Inglesi; si crearono allora delle nuove città, le cosiddette bastides, disegnate secondo un piano prettamente «americano» – una scacchiera –, per insediarvi popolazioni sradicate dai loro paesi d’origine. E giusto, naturalmente, invocare le ragioni strategiche o utilitarie che in circostanze del genere fecero di nuovo prevalere l’impianto urbanistico romano. Tuttavia, come tutto ciò che ha a che vedere col medioevo, non bisogna affatto trascurare il punto di vista religioso. Degno di nota è per esempio – e lo rileva anche il Lavedan –, che fra le prime bastides sorte siano da citare nomi del Roussillon, come Sairit-Genis-des-Fontaines, nei quali sono nati i complessi iconografici di spirito apocalittico che hanno dato il la all’arte della Linguadoca e che riflettono nuovamente la diffusa tendenza a imitare la Città celeste, con la porta avente valore di sbarramento, di interdizione, oppure profilattico. La prevalenza del piano di nuovo quadrato si pone infatti in intima relazione con la diffusione del piano quadrato-cubico delle chiese, completo di nartece, chiostri, ecc., che invaderà tutta la Francia sud occidentale. La chiesa ora non si trovava più necessariamente al centro. Nella bastide sono comunemente il pozzo e l’albero a occupare questa posizione, conformemente al testo dell’Apocalisse: come «la Città non ha più bisogno del sole che la illumini», così la chiesa-fortezza non è che un bastione come tutti gli altri, con tanto di porta a cui montare la guardia. Nel Roussillon, a Cuxa e a Serrabone, questa porta ha ereditato l’aspetto delle porte di difesa carolingie, tipo quella di Lorsch, e ospita una cappella dedicata a san Michele: l’immagine dell’arcangelo in vesti sacerdotali, come nell’arte bizantina, si trova al piano superiore. Particolari, questi, che ci fanno venire in mente le immagini di Michele e di Gabriele che difendono l’ingresso della chiesa di Kodja-Kolessi, in Asia Minore, iscritte sui piedritti.

La posizione della chiesa così in disparte si spiega anche col fatto che i fondatori di bastides erano in larga maggioranza signori laici; e il quadrato, infatti, il Quattro, evocava il mondo.

Ma laicità o mondo, nel medioevo, non volevano dire estraneità alle cose della fede o al misticismo. Il diploma di fondazione della bastide di Montauban mostra chiaramente con quale e quanto entusiasmo venissero elevate queste città nuove; emerge perfettamente il simbolismo dei numeri mistici. Vero è infatti che la chiesa non è più il centro sacro, ma al suo posto ecco la piazza quadrata destinata agli scambi e utilizzabile come riparo momentaneo per armenti e mercanti, circondata da portici su cui poggiano le case, coperti da volte ogivali identiche alle volte delle chiese. Troviamo tutto ciò, per esempio, a Villeréal.

Il testo a cui abbiamo appena fatto cenno a proposito di Montauban ha tutta l’aria d’una chanson de geste e ricorda perfino l’Apocalisse: «Ecco il palazzo con i muri aperti da quattro porte… Sulla rupe maestra che scende a picco hanno eretto la dimora più alta ed hanno richiesto al popolo, alla brava gente, di venire ad abitare nel castello, purché paghino lealmente canoni e diritti… Ed ecco 500 borghesi che vengono più che volentieri e popolano in comune la rocca fortificata». Vengono quindi citate le professioni: ci sono fittavoli, pescatori, fornai, mercanti «che fanno negozio fin nelle Indie Maggiori». Il numero di cinquecento è evidentemente simbolico: il cinque, numero esoterico, è quello della materia penetrata da Dio, cioè dell’uomo. Nel romanzo di Perceval, di Chrétien de Troyes, il Palazzo delle regine ha cinquecento finestre; le dame stesse, a loro volta, hanno al proprio servizio cinquecento fra scudieri e giovani valletti.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 119-121

Architrave e pilastro centrale (trumeau)

Sezione: Lessico


Zona egiziana

Gli architravi sbarrano gli ingressi delle chiese così come l’arco costituisce una minaccia per chi osasse entrare senza essere nelle disposizioni l’animo volute. L’architrave dei portali ha, come parte integrante del timpano e su un piede di perfetta parità con esso, nella zona egiziana una importanza superiore rispetto all’altra zona. Ne vediamo chiaramente la funzione, sotto questo profilo, leggendo l’iscrizione che accompagna la Lavanda dei piedi a Vandeins, nell’Ain. Si tratta di un portale che, come altri portali di chiese cluniacensi nella valle del Rodano, obbedisce alla formula che E. Mâle ha definito «eucaristica»: l’iscrizione invita alla penitenza, e dunque al sacramento della confessione, mentre la Cena chiama al sacramento dell’Eucarestia.

La maggiore importanza dell’architrave in questa zona si rileva anche dal fatto che esso di sovente diventa frontone: lo si chiama allora «architrave a due spioventi» (en bâtière) e assume la simbologia del triangolo: è il caso, per esempio, dell’architrave di Champagne (Ardèche) con la raffigurazione dell’Ultima Cena, e di quello di Notre-Dame-du-Port a Clermont-Ferrand con l’Adorazione dei Magi e il Battesimo del Cristo. Su quest’ultimo, in contrapposizione al Cristo in gloria collocato in alto, la Vergine rappresenta la Chiesa militante. Sui due portali di Neuilly-en-Donjon, e di Anzy-le-Duc, dove il tema centrale e glorioso del timpano è rappresentato dall’Adorazione dei Magi, questa funzione di avvertimento culmina con l’accento posto sul Giudizio finale: nel primo, infatti, i capitelli completano gli architravi e, sul capitello di sinistra, ad Adamo e Eva sono associati i dannati nudi e brulicanti, mentre agli Apostoli della scena di destra è accostato Daniele fra i suoi leoni, immagine dell’eletto. Ad Anzy, è lo spettacolo della Dannazione che appare sull’architrave, Genesi e Inferno; l’Adorazione dei Magi della lunetta soprastante è invece completata dagli eletti, dei quali, secondo i Padri della Chiesa, essi sono la prefigurazione, e vi si vedono anche gli angeli con le trombe, comprimari abituali del Giudizio. Gli Apostoli «troneggianti su dodici troni» di certi temi doppi sono pur essi simbolo degli eletti, e l’espressione con cui li abbiamo citati indica al tempo stesso che essi fungono da consiglieri del giudice, il che implica ancor sempre Giudizio e avvertimento. Questi Apostoli, raffigurati talvolta sotto serie di arcate (come a Beaulieu e come sugli antichi architravi del Roussillon), ricordano inoltre la Città celeste più frequentemente rappresentata sui timpani. Abbiamo notato, d’altro canto, numerosi architravi ornati con motivi apparentemente solo decorativi, quasi sempre dei racemi combinati o con un simbolismo numerico, come a Saint-Ursin e a Sainte-Jalle, o con degli animali, come nel Saint-Saveur di Nevers, o ancora talvolta con dei fioroni, come a Chassignoles. In questi casi precisi, i timpani esprimono sia un tema profano, sia una relazione col mondo. La loro collocazione inferiore per esprimere l’asse cosmico, la relazione col cielo, può parere bizzara; ma si tratta sempre di esprimere l’avvertimento, il monito, il ritorno alla terra nell’attesa dell’ultimo Giudizio, frequentemente simboleggiato dal mondo vegetale.

Zona mesopotamica

In questa zona, la distribuzione dei temi è in un certo senso più logica; grazie alla disposizione in altezza che si contrappone alla disposizione in larghezza della zona egiziana, i trumeaux, così come si presentano a Moissac e a Beaulieu, e analogamente i due piedritti di Souillac, rappresentano, a simiglianza del capitello degli atlanti sulla tribuna di Serrabone, il centro ideale o i lati del cubo simboleggiato dal portale con i suoi piedritti sporgenti.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 62-63

Nastri: le origini del tema

Sezione: Lessico


I nastri e i festoni, intrecciati o no, rappresentano di per sé una manifestazione di arcaismo circoscritta grosso modo al sud est della Francia e, nel sud ovest, a degli specifici complessi monastici come quello della Daurade. Si tratta infatti di un tipo di «decorazione continua» dello stesso genere dell’affresco, associata a dei fioroni, a dei dischi o a delle margherite di provenienza orientale, in tutto simili a quelli che compaiono sugli architravi delle chiese siriache. Capita anche però, soprattutto nell’arte copta, che i nastri disegnino dei quadrati e che racchiudano dei fregi con figurazioni animali. Il motivo, per esempio nel mosaico absidale del monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, così come in molte absidi semplicemente dipinte, predilige i fregi a forma di cerchi, entro cui s’iscrivono immagini di santi e di martiri oppure figurazioni delle Virtù – le prime soprattutto nell’arco trionfale o alla base della conca dell’abside stessa. Ma quelli che hanno trasmesso il motivo sono stati in primo luogo i tessuti: i tessuti copti, per esempio, con le loro cornici quadrate per i soggetti terrestri e circolati per i riferimenti al Cielo, all’eucaristia, al vaso di vita; i tessuti sassanidi, poi, nei quali i cerchi di nastri avvolgono scene di caccia; i tessuti bizantini, infine, come quello della basilica di San Gereone a Colonia, che fungeva da custodia per una reliquia, sul quale compaiono la caccia simbolica, il grifone e il bue, con maschere intermedie destinate a unire i nastri che circondano i soggetti principali.

Se il motivo del nastro che delimita scene e personaggi proviene dunque dal Vicino Oriente, sembra tuttavia che esso corrisponda a una tendenza più generale, tipica della Tarda Antichità, alla settorizzazione, alla divisione in compartimenti. Questo tipo di composizione si accorda tanto col sincretismo, la nota propensione della scuola filosofica di Plotino a moltiplicare le allegorie, quanto col fascino escatologico e col suo insistere sugli arcani della vita futura: e per ciò che nell’arte tardo romana si diffonde l’imago clypeata del defunto, separato in questo modo dal mondo, e che tanto successo riscuotono le scene di trionfo, nelle quali vengono posti su un piano a sé i potenti di questa terra: il moltiplicarsi dei cerchi e degli archi determina la rottura con il realismo e il pittoresco delle antiche figurazioni. Ma è essenzialmente nel mosaico che la decorazione così concepita finisce con l’imporsi.

Tuttavia il successo di questa nuova partitura compositiva non sarebbe stato così ampio né così duraturo se essa non fosse stata in sintonia con la tendenza all’astrazione propria delle genti germaniche e celtiche: il festone orientale si congiunge e si fonde con l’intreccio barbarico. Oltre ai rapporti che si sono instaurati con l’Egitto copto, questo particolare spiega in buona misura come mai l’arte irlandese, adepta non di rado esagerata dei vortici e delle contorsioni della spirale celtica, abbia adottato con non minor entusiasmo il repertorio animale entro nastri e festoni intrecciati che le veniva presentato dall’arte copta, così come la sua predilezione per i personaggi incorniciati da archi e loggiati.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 203-204