Sansone

Sezione: Lessico


Fonti

Eroe dalla forza leggendaria, Sansone personifica la lotta degli Ebrei contro i Filistei. La sua storia è raccontata dal libro dei Giudici (13-16).

La sua nascita è eccezionale: un Angelo, mandato da Dio, annuncia alla madre, sterile, che darà alla luce un figlio; il messaggero accompagna la notizia con un’importantissima raccomandazione: «sulla sua testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un nazireo consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei».

Sansone sposa una ragazza filistea; i suoi genitori non approvano quest’unione, perché i Filistei non rispettano i comandamenti di Dio: sono incirconcisi. Ma «suo padre e sua madre non sapevano che questo veniva dal Signore, il quale cercava pretesto di lite dai Filistei». Mentre va a prendere la futura sposa, l’eroe ha una prima occasione di dar prova della propria forza: «ecco un leone venirgli incontro ruggendo. Lo spirito del Signore lo investì e, senza niente in mano, squarciò il leone come si squarcia un capretto».

In seguito, Sansone dà fuoco ai campi di grano dei suoi nemici liberandovi delle volpi alle code delle quali ha legato delle torce.

Infine, si acquista fama combattendo contro i nemici d’Israele e uccidendo con una mascella d’asino mille Filistei, dopo essersi liberato dalle corde che lo tenevano prigioniero.

L’episodio più celebre della sua vita è senza dubbio quello che lo vede alle prese con Dalila, il cui tradimento causerà la sua rovina. Sansone s’innamora di Dalila, originaria della valle di Sorek; i Filistei, nemici dell’eroe, cercano di sfruttare questa passione: «i capi dei Filistei andarono da lei e le dissero: Seducilo, e vedi da dove proviene la sua forza così grande, e come potremmo prevalere su di lui». Sansone, diffidente, si prende gioco di Dalila diverse volte, dandole delle false spiegazioni della propria forza. Sfugge così ai nemici che credono di sottometterlo legandolo, di volta in volta, con «sette corde d’arco fresche, non ancora secche», poi con funi nuove e, infine, intrecciando i suoi capelli con l’ordito di un tessuto. Alla fine, esasperato dall’insistenza di Dalila, Sansone le rivela il suo segreto: «Ora, poiché essa lo importunava ogni giorno con le sue parole e lo tormentava, egli ne fu annoiato fino alla morte e le aprì tutto il cuore e le disse: Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo di Dio dal seno di mia madre; se fossi rasato, la mia forza si ritirerebbe da me, diventerei debole e sarei come un uomo qualunque». La traditrice allora addormenta l’eroe sulle sue ginocchia e rasa le sue sette trecce; i nemici di Sansone riescono a trionfare: «I Filistei lo presero e gli cavarono gli occhi (…) e lo legarono con catene di rame. Ed egli dovette girare la macina nella prigione». Ma, alla fine, Dio gli dà la forza di vendicarsi dei suoi nemici. Quando i Filistei lo espongono in un tempio per divertirsi, rovescia le colonne dell’edificio facendolo crollare. Sansone muore con i suoi aguzzini sotto le macerie. Gli è riservata una triste consolazione postuma: «E furono più numerosi i morti che egli causò con la sua morte di quanti ne aveva uccisi in vita».

Le gesta di Sansone sono ricche di motivi simbolici che sono stati messi in luce dagli esegeti medievali: la lotta col leone preannuncia la vittoria di Cristo sulle forze del male; l’annientamento dei Filistei prefigura la Risurrezione. Nel Medioevo, Sansone è spesso paragonato ad un altro eroe, Ercole. Quanto a Dalila, ella è paragonata ad Eva, come lei tentatrice e causa della Caduta. L’umiliazione che la donna fa subire a Sansone è stata accostata a quella subita da Cristo, dopo la cattura.

Iconografia

L’eroe è rappresentato di solito come un uomo nel fiore degli anni, con una lunga capigliatura. L’episodio più comune è quello in cui Sansone squarcia in due un leone, una scena di lotta che compare su molti capitelli romanici: nella basilica di Sainte-Madeleine a Vézelay, nella cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, nelle chiese di Saint-Benoît-sur-Loire, Vienne, Saint-André-le-Bas a Nevers, Saint-Sauveur a Bourges, la Sauve-Majeure in Guienna, in diversi edifici romanici della Saintonge e anche in un bel mosaico di San Gereone a Colonia. Generalmente Sansone è a cavallo della belva, che volge indietro la testa tentando di afferrare la mano dell’uomo.

Colonia, San Gereone – Mosaico della cripta: Sansone uccide un leone

Ad Autun, oltre alla scena della lotta col leone, compare un episodio rappresentato molto più di rado: Sansone che fa crollare il tempio dei Filistei.

Autun, Cattedrale – Capitello: Sansone fa crollare le colonne del tempio di Dagon

L’edificio è simboleggiato da un’arca che poggia su una massiccia colonna e l’eroe si piega sotto il peso dello sforzo. Il tema ricompare tuttavia anche a San Gereone di Colonia.

Colonia, San Gereone – Mosaico della cripta: Sansone fa crollare le colonne del Tempio

È rara anche la rappresentazione dell’eroe che porta sulle spalle le porte della città di Gaza nella quale i Filistei lo avevano rinchiuso; troviamo tuttavia questo episodio su un capitello di La Sauve-Majeure.

La Sauve-Majeure, Chiesa – Capitello: Sansone uccide un leone; Sansone con le porte della città di Gaza sulle spalle

Del racconto relativo ai rapporti fra Sansone e Dalila, l’arte cristiana rappresenta solo la scena in cui la traditrice taglia i capelli all’eroe. La cosa si spiega col fatto che l’arte romanica ha preferito descrivere gli episodi gloriosi della vita di Sansone, più che la sua rovina. La più bella raffigurazione è quella che ci dà un capitello della chiesa di Saint-Pierre ad Aulnay, nel Poitou, nella quale vediamo Dalila che taglia le trecce di Sansone addormentato sul letto.

Aulnay, Saint-Pierre – Capitello: Sansone e Dalila

Ella usa un paio di forbici enormi rispetto alle dimensioni dei personaggi; l’artista ha voluto mettere in evidenza, in questo modo, la gravità del tradimento, e l’interesse per il simbolo ha avuto la meglio sul realismo. Una donna complice di Dalila lega le mani dell’eroe.

L’episodio compare anche in un mosaico di San Gereone.

Colonai, Basilica di San Gereone – Mosaico della cripta: Sansone e Dalila


Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 343-345

I simboli del dio o del Re del mondo

Sezione: Studi


L’approfondimento di una simbologia non consiste nell’accumulare attorno ad un nucleo originale il maggior numero di particolari complementari o chiarificatori, ma nell’arricchire di armonie nuove il simbolismo fondamentale senza togliergli la purezza e la semplicità primitive.

I simboli del dio e del re del mondo hanno in comune un’intuizione di base sulla quale non è più necessario dilungarci. Il dio del mondo, l’imperatore che lo rappresenta visibilmente sulla terra, il mediatore tra Dio e gli uomini, il gran sacerdote, si collocano di necessità dove maggiormente si esprimono le relazioni tra cielo e terra: nel centro del mondo, sul passaggio dell’asse cosmico; è lì che possono riunire in sé la totalità del reale e risplendere sull’universo intero.

Prendiamo un esempio concreto, molto pregnante, al fine di comprendere bene il processo di incastro che questa straordinaria sintesi dell’immaginazione attorno ad un personaggio assiale ci consente. In Cina, la simbologia cosmica organizzata attorno ai quattro punti cardinali e al loro centro dimostra una coerenza eccezionale. Essa si fonda interamente su quei cinque elementi cui corrispondono colori, sapori, suoni, simboli. Ma tali classificazioni non si limitano a governare lo spazio, s’impongono anche al tempo.

L’ordinamento dello spazio avverrà periodicamente, il dramma celebrato nel rito si ripeterà ogni anno. L’est corrisponde alla primavera, alla nascita della creatura, alla levata del sole (elemento legno); il sud all’estate, al mezzogiorno, alla pienezza (elemento fuoco; in questo punto s’incrocia il centro, l’elemento terra cui corrisponde un tempo fittizio di pienezza); l’ovest all’autunno, alla morte, al tramonto del sole (elemento metallo) e il nord all’inverno, al riposo (elemento acqua).

Ma il microcosmo corrisponde esattamente, o meglio, è la stessa cosa del macrocosmo in cui, se così si può dire, il mondo teoricamente siripete all’infinito e ritualmente in un certo numero di elementi in zone concentriche inserite l’una nell’altra, a partire dal corpo umano e dall’abitazione fino ai confini della terra, passando per il luogo santo, il palazzo, la capitale. Sempre si ritroveranno il cielo e i quattro orientamenti, il tutto raddoppiato da una successione verticale di 3 o 4 piani (cielo e terra, o cielo, terra e sottoterra) dall’umile pantano centrale e dall’apertura del camino della casa primitiva fino al palazzo nel centro della capitale e alla capitale nel centro del regno con le quattro porte ai quattro punti cardinali. L’organizzazione del mondo in zone concentriche e in piani sovrapposti non è statica.

Il loro buon funzionamento dipende dal centro regolatore, sede del potere politico e magico-religioso (il Re, il Santo). Nel Ming-t’ang, sorta di casa del calendario, il sovrano si sposta seguendo le stagioni da un punto cardinale all’altro, in perfetta armonia con la corrispondenza degli elementi che regolano i colori dei suoi abiti, il cibo che mangia, ecc… Se si verifica una simile organizzazione periodica sul piano orizzontale, la coesione del mondo è ugualmente assicurata sul piano verticale. In effetti, fra i due piani del cielo e della terra c’è un legame di comunicazione, un asse piazzato nel centro del mondo; quando la terra è immaginata come il cassone quadrato di un carro, l’asse è rappresentato dal pilastro centrale che sostiene il baldacchino, rotondo come il cielo

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Questo legame con il cielo è ancora l’albero o la pietra su un monticello: il dio del suolo. È anche l’obelisco eretto nel centro della capitale o la torre con tanti piani quanti il cielo (nove) o la Montagna sacra, pilastro del Cielo o essa stessa cielo a piani. A tutte queste forme dell’asse centrale corrisponde il Re o il Santo, ma, come nell’organizzazione del piano orizzontale, il legame tra gli ordini del mondo non è semplicemente statico, bensì dinamico. Il Re e il Santo ascendono e discendono dalla torre, dalla montagna dall’apoteosi luminosa.

Più vicino a noi, Svetonio ci insegna (Nerone, 31) che la stanza principale delle cenationes ruotava come il mondo ininterrottamente attorno al suo asse. Questa straordinaria costruzione resta isolata in Occidente ma trova delle corrispondenze nel palazzo dei Sassanidi. Le torri girevoli cinesi esprimono la stessa concezione (torre di Butthap a Tonchino, torre del tempio lamaico di Young-ho-Kong a Pechino): alcuni uomini sotto la torre, in un sotterraneo, la fanno ruotare con l’aiuto di pali di legno, mentre in cima all’edificio l’imperatore fa il gesto d’azionare egli stesso la costruzione cosmica di cui costituisce il centro.

Dopo aver ricordato qualcuno degli elementi maggiori del simbolismo del re del mondo, riprendiamoli uno per uno al fine di approfondirli ulteriormente, il che ci fornirà l’occasione di constatare che alcuni, non importa quali, sono capaci in un modo o nell’altro, di sinterizzare o di esprimere tutti gli altri: da qui l’incredibile ricchezza d’espressione di simboli apparentemente poco interessanti.

Partiamo da un’opera concreta, la statua romanica di Carlomagno nella chiesa di Müstair (Svizzera). L’imperatore è in piedi e tiene nella mano sinistra uno scettro, nella destra il globo del mondo segnato dei suoi grandi cerchi, con la croce piantata nel polo; egli porta una caratteristica corona. Esaminiamo innanzitutto ciascuno di questi emblemi.

Müstair, Chiesa – Statua: Carlomagno

Lo scettro è una riduzione del grande bastone del comando: verticale pura che gli consente di simboleggiare prima di tutto l’uomo in quanto tale, quindi la superiorità di quest’uomo eletto alla guida, infine il potere ricevuto dall’alto. Lo scettro dei nostri sovrani occidentali non è che il modello ridotto della colonna del mondo con cui le altre civiltà rappresentano la persona del re e del sacerdote. Citiamo, a questo riguardo, gli esemplari così espressivi pur nella loro semplicità, che ci offrono i popoli dell’Asia centrale e settentrionale e che a noi sono molto noti grazie ai lavori di Uno Harva. Egli riporta che l’asta di legno che per essi simboleggia l’asse cosmico è talvolta sormontata da un piccolo ripiano quadrangolare a forma di tetto; l’asta o il ripiano, recano spesso un uccello mitico, normalmente un’aquila considerata un uccello celeste; l’aquila è un simbolo universale dell’ascesa al cielo, della sovranità, del potere ricevuto o esercitato dall’alto o almeno da uno stadio superiore.

Asia centrale e settentrionale: Le colonne del mondo

In cima all’asse del mondo, allo scettro dei sovrani o alle aste delle bandiere, questo emblema diventa il simbolo del re del mondo o della divinità che troneggia nel polo celeste. Conviene sottolineare il carattere sacro di questo simbolismo. «Un’asta simile è oggetto di culto nel santuario a tenda dei Soioti delle steppe. Là, il bastone collocato in modo che la sua estremità superiore emerga dalla cima della tenda conica è abitualmente ornato… di pezzetti di stoffa che sono più spesso bleu, gialli, bianchi, i colori dei punti cardinali. Il bastone stesso è considerato sacro, quasi come un dio. Ai suoi piedi si eleva un altare rudimentale in pietre sovrapposte». In tal modo si avvia l’assimilazione del capo del re, al prete che fa tutt’uno con l’altare e il santuario e infine il mediatore in cui si rende presente la divinità.

La Corona è sempre stara espressione di un simbolismo cosmico. Quella di Carlomagno è tradizionale e caratteristica: di forma circolare, marcata ai quattro punti cardinali da quattro piccoli archi come l’imago mundi, le carte mitiche, le rappresentazioni più stringate delle città sante, lo schema cosmico della nuova Gerusalemme. Corona e scettro sono due simboli complementari che collocano il re in rapporto a tutto ciò che lo circonda; il riferimento cosmico appare chiaramente in un legno inciso del sec. XVI, che riassume perfettamente il simbolismo assiale del re mediatore: in piedi al centro del cerchio cosmico (con le quattro grosse gemme della corona che segnano i punti cardinali). Corona e scettro sono gli emblemi del sovrano in se stesso, mentre il globo rimanda al regno governare da questo sovrano.

Incisione su legno del XVI secolo: Scettro e corona

Il Globo è un simbolo di totalità: esso implica un’affermazione di sovranità universale da parte di colui che lo tiene in mano; ciò non significa sovranità sul mondo intero ma sovranità sul regno; di contro, non bisogna dimenticare che l’idea di regno ha sempre conservato qualcosa della nozione primitiva che lo eguagliava alla totalità del reale umanizzato. Il regno, l’impero, tanto in Occidente, quanto in Oriente – la Cina ha magistralmente sviluppato questo simbolismo geografico – sono costituiti da quattro parti al centro delle quali si colloca il monarca che ne assicura la totale coesione. Egli lo tiene in mano, tuttavia lo riceve anche dai suoi sudditi che collaborano alla stabilità permanente e che gliene fanno omaggio come al rappresentante di Dio sulla terra. Questo doppio movimento ha dato origine in Cina ad un grandioso cerimoniale; più discretamente la concezione occidentale si trova riassunta in una miniatura ottoniana che mostra le quattro parti dell’Europa che vengono ad offrire in omaggio il loro globo ad Ottone II (1002), il figlio di Ottone il Grande; attraverso la sua persona l’omaggio raggiunge il papa che incorona gli imperatori, e al quale questi si sentono uniti nel governo del mondo: Ottone in risiede frequentemente a Roma; l’imperatore coronato regge il globo con la croce e il bastone del comando.

Chantilly, Museo Condé –
Registrum Gregorii: L’imperatore Ottone II riceve in omaggio le quattro parti dell’Impero

Il Costume è talvolta anch’esso fortemente evocativo, soprattutto presso i popoli che sottolineano con vigore l’idea del sovrano assiale. Questa nozione di asse è correlativa a quella degli altri due o tre fori che mettono in comunicazione i diversi piani del mondo. I popoli dell’Altai parlano di un foro per il fumo della terra; da ciò deriva l’immagine del mondo delle antiche popolazioni civilizzate dell’Asia e dell’Asia Minore, per le quali gli inferi sono accessibili da un’apertura che sbocca nell’ombelico della terra: essa è in corrispondenza diretta con l’apertura situata in mezzo al cielo. L’apertura è dunque essenziale a questa simbologia quanto l’asse che ad essa conduce, ed è perché appartiene alla simbologia del re del mondo, del sacerdote o del pellegrino dell’aldilà. Lo sciamano iakuta porta nella schiena una placca di ferro rotonda forata nel centro.

In Cina, l’imperatore indossava una veste rotonda in alto come la pi e quadrata alla base come il ts’ong: la sua persona costituiva la scala della vita che ricongiungeva le due aperture. Non meno interessante la grande casula circolare in un solo pezzo aperta nel centro per far passare la testa: il prete che la indossa si trova ritualmente collocato al centro dell’universo, identificato nell’asse del mondo, essendo la cappa la tenda celeste e trovandosi la testa nell’aldilà, dove si trova Dio, di cui il sacerdote è il rappresentante in terra.

Casula circolare

La cappa detta di Carlomagno a Metz, è ornata d’aquile che convergono verso l’apertura centrale, il che ben sottolinea il loro simbolismo ascensionale e celeste.

Metz – Cappa di Carlomagno

Tale schema viene necessariamente replicato nell’architettura (processo di incastro); pensiamo, per esempio, alla cupola absidale della chiesa di Notre-Dame du Thor, in Provenza, ornata d’aquile in volo che circondano alla chiave di volta l’Agnello di Dio in posizione.

Le Thor, Notre-Dame-du-Lac – Catino absidale

Il Trono non si presenta più come emblema, ma come mobile che «contiene» il sovrano e che costituisce un secondo livello simbolico.

In India l’incastro successivo dei microcosmi che costituiscono il sovrano, il trono su cui siede e il tempio al centro del quale questo trono è collocato, risulta particolarmente illuminante. Colui che siede sul trono è anch’egli una riduzione dell’universo, l’Embrione d’Oro collocato nella Matrice del Mondo. A questo proposito, sono significativi numerosi tipi di trono: il celebre Trono-di-Diamante (Vajrasana) sul quale, a Bodh-Gayā, il Budda Sakyamuni ricevette l’Illuminazione; quelli messi in relazione con la colonna-perno del mondo (illustrati in particolare a Amaravati, II-IV secolo circa); quelli di Pegou e di Mandalay (Birmania) ancora più espliciti, che rappresentano, attraverso una particolare iconografia, il mondo degli dei sostenuto dal monte Meru. Seduto nel centro del cosmo, il re che lo occupa ne è il maestro e il rappresentante; il possesso è assicurato dal profitto di coloro sui quali governa quaggiù. Ciò spiega la grandissima importanza accordata alla fabbricazione del trono reale e alla sua decorazione simbolica che riassume le componenti del cosmo; ciò, inoltre, motiva le severe proibizioni di sedersi sul trono reale senza averne diritto (cioè senza essersi predestinati), o rende ragione della onnipotenza universale di chi vi si siede. Infatti, simbolo minore del Mondo, il Trono nella tradizione indiana fa il re. Le tre colossali sedie di pietra scolpita di Siva, Brama e Visnù di Besaki (Bali), rappresentano dei troni-altari posti sulla cima di torri simboleggianti l’asse cosmico e il Meru: ciascuna torre s’innalza su un’enorme Tartaruga del Mondo.

Le civiltà più disparate testimoniano diffusamente le stesse fondamentali concezioni. Il valore rappresentativo del trono è così forte che costituisce di per sé un simbolo della presenza di colui che ha il diritto di sedervisi. Vuoto, esprime il carattere trascendente – o sperato – di questa presenza. Il tema iconografico del trono vuoto di Cristo, o etimasia, era un modo di assicurargli una presidenza invisibile, (per esempio in occasione dei Concili) e anche d’anticipare l’ora in cui ritornerà per il giudizio, alla fine dei tempi.

Il trono vuoto e l’albero della conoscenza, simboli di Buddha

Il trono è sopraelevato: è una realtà eminente come la montagna cosmica o l’asse del mondo.

Papiro di Hunefer: Osiride in trono

La figura rappresenta Osiride (Dio della vita nell’aldilà) seduto su un trono; quest’ultimo è collocato sulle acque della ricreazione (rappresentate da piccole linee spezzate) da cui emerge, davanti ad esso, un fiore di loto sbocciato; dal fiore escono i quattro figli di Horo che sono gli dèi dei quattro punti cardinali del nuovo cosmo d’oltretomba. Nella stessa prospettiva tradizionale, gli autori cristiani dei primi secoli hanno visto senza difficoltà nella croce piantata sul Calvario il trono cosmico, dall’alto del quale il Salvatore crea il mondo nuovo accogliendolo nel suo mistero: «Quando sarò elevato da terra (cioè sulla croce considerata come la prima tappa o lo strumento della sua esaltazione celeste), io attirerò tutti a me» ha detto Gesù.

Non occorre soffermarsi sui troni che si riconducono essenzialmente al sedile cubico (terra) sormontato da un arco di cerchio che si sviluppa in aureola (cielo). Un secondo tipo, invece, merita di essere considerato a lungo; innanzi tutto, perché meno conosciuto, nonostante sia piuttosto diffuso, e poi perché ci consente di cogliere come un simbolo fondamentale possa essere incredibilmente ricco di significati senza tuttavia alterarsi sensibilmente. Questo secondo tipo di trono è innanzi tutto un simbolo del dio dell’universo o del re del mondo. La sua struttura è quella dell’asse cosmico circondato dai quattro punti cardinali, cioè quella della più tradizionale imago mundi, che abbiamo già rintracciato, per esempio, nelle civiltà dell’Asia orientale (in particolare nei templi assiali indù) e ritrovato tanto alle latitudini tropicali quanto a quelle equatoriali. Leo Frobenius cita un certo numero di esempi che ha personalmente rilevato nell’Africa nera e che sono considerati già molto più che simboli dell’universo. Tale, nel paese di Joruba, quell’area consacrata al dio Edschou, dove si trovavano cinque coni di argilla con al centro il più grande sormontato da una coppa e attorno i quattro più piccoli, il tutto circondato da un canaletto. Vi sono migliaia di santuari dedicati ad Edschou; la maggior parte consiste semplicemente in una massa di argilla, ma eccezionalmente si trovano anche degli esemplari perfetti, come quello di Gbaga, che comprende non solo il cono di Edschou, ma anche delle quattro divinità locali dei quattro punti cardinali e dei giorni della settimana. Edschou è il dio dell’ordine, dell’immagine del mondo. Il cono di Edschou è il monte del mondo.

Nigeria, Gbaba – Area consacrata al dio Edschou degli Joruba

Osserviamo la coppa in cima al monte-asse; essa è il simbolo delle benefiche relazioni cielo-terra, rappresenta il ricettacolo delle elargizioni divine e la disponibilità all’accoglienza dei fedeli (cfr. il calice eucaristico ai piedi della croce, il Graal…), ed è anche ciò che rappresenta simbolicamente la divinità, o la sua sede: al sommo dell’asse cosmico, essa coincide con il polo dell’asse celeste dove egli troneggia. Questo concetto è spesso sviluppato fino a concepire l’immagine cosmica intera come il trono gigantesco della divinità.

Il Baldacchino reale e il parasole da cerimonia o divino meritano una menzione a parte. Ne abbiamo già parlato spesso. Essi compaiono in numerosi protocolli. In Cina, l’universo ha per simbolo tanto la casa del capo quanto il carro cosmico. Questo carro è costituito da un cassone cubico in cui prende posto l’Uomo-Unico, il Figlio del Cielo; un palo centrale, replica dell’Albero della vita e dell’Albero centrale, Kien Mou (legno elevato) per mezzo dei quale i sovrani salgono e scendono, sorregge un grande baldacchino circolare che rappresenta il cielo; esso risponde ad una geometria simbolica precisa che ne determina con rigore i tre elementi: la parte centrale, piatta, i due bordi curvi, il contorno. Il parasole da cerimonia ne costituisce la replica portatile. È un emblema, tanto che, come il trono, esso talvolta sostituisce il sovrano o la divinità quando si voglia evitare di rappresentarli di persona.

Bassorilievo: La partenza del principe Siddharta, che diverrà il Buddha

Un affresco dell’oratorio di S. Silvestro a Roma (sec. XIII) mostra Costantino che offre una tiara conica al Papa Silvestro mentre un personaggio del suo seguito agita il parasole da cerimonia e un altro stringe al petto la corona quadripartita che l’imperatore ha deposto per l’occasione: questi tre simboli appartengono allo stessoordine simbolico. (Rinunciando alla tiara, Paolo vi ha inteso eliminare ogni equivoco di dominio temporale che essa conservava fin dalle sue origini). Dietro il Papa, l’alta croce costituisce la replica dello scettroche teneva Carlo Magno e il simbolo dell’autorità religiosa.

Roma, San Silvestro – Oratorio, Affresco: Costantino offre la tiara al papa Silvestro

La miniatura carolingia che rappresenta Carlo il Calvo sul suo trono (IX secolo) costituisce una piccola sintesi di quanto abbiamo appena detto.

Parigi, Biblioteca Nazionale – Bibbia di Viviano: Carlo il calvo sul trono

Si noti l’incastro: uomo, corona e scettro, trono con predella e schienale; la scena appare in un’arcata formata da un arco di cerchio su due pilastri; il velo che pende simboleggia il firmamento; al di sopra, si stende dunque il cielo. In alto alcuni personaggi si protendono verso il monarca reggendo delle corone per dimostrare che il potere è dato da Dio; la mano divina esce da una nuvola, in verticale e designa il luogotenente di Dio sulla terra, il suo rappresentante, come spesso si rileva nei battesimi di Cristo o nelle Crocifissioni; due lampade da santuario pendono da entrambe le parti per sottolineare la presenza divina. Il fiore di lis sopra l’arcata corrisponde a quello sopra l’arcata del trono: entrambi determinano la verticale che è l’asse della rappresentazione e colloca il monarca al centro del mondo con i suoi dignitari in cerchio attorno a lui come rappresentanti di tutto il popolo.

Cerimoniali e riti esprimono a loro modo lo stesso principio. Nel mondo gallo-germanico, l’antico uso di proclamare un capo elevandolo sul trono costituiva un rito evidente del simbolismo teocratico. Come nella Croce di Saint-Omer, la forma bombata dello scudo – trasformazione occidentale della tartaruga orientale e dei tamburi sciamani – rappresentava il cielo. Innalzare nel suo centro il capo, il bren,significava collocarlo nella posizione di rappresentanza di Dio che troneggia nel cielo. L’idea rimase nei tempi successivi, per esempio fu ripresa dallo scultore Lemoyne in un progetto di monumento dedicato a Luigi XV, in cui il sovrano compare in piedi su un trono elevato da numerosi uomini. Una tradizione che ha dei paralleli nell’antico Egitto, in Cina e in molti altri paesi o civiltà si è perpetuata nel rituale dei re di Ungheria: l’ultima cerimonia consisteva nella salita a cavallo del monarca su un poggio emisferico formato dalla terra portata da tutte le province del regno. Quando il monarca aveva raggiunto la cima di questo luogo simbolico, dava un colpo di spada – in Egitto tirava quattro frecce – verso i quattro orizzonti, per indicare il suo comando sui quattro punti cardinali.

Nell’iconografia cristiana, la funzione di rappresentanza del sovrano rispetto a Dio era vigorosamente sottolineata affinché nessuno l’ignorasse. Ci si compiaceva d’illustrarla chiaramente, come in una miniatura del Salterio d’Egberto (sec. X). Gesù è sul trono: egli stesso incorona Costantino e sua moglie prima di cedere loro il posto; la scena si svolge in un quadro celeste: cherubini e serafini sostengono il trono sopra il quale stanno i quattro Viventi dell’Apocalisse. Così si assicura la continuità del potere terreno con quello celeste e tale continuità è di ordine teologico: essa sarà perfetta quando Cristo in persona si presenterà come sovrano dell’universo, troneggiando su di esso.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo    
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine381-402 

Ingresso di Gesù a Gerusalemme

Sezione: Lessico


Fonti

Dopo aver percorso, in compagnia dei discepoli, la Galilea, la Giudea e la Samaria, Gesù decide di entrare in Gerusalemme in maniera solenne e simbolica per presentarsi apertamente, nel cuore stesso della Città Santa, come il Messia. Egli si è dimostrato poco propenso ad affrontare i capi religiosi ebrei nel loro territorio, perché sa di correre dei grossi rischi. L’Ingresso di Cristo in Gerusalemme è riferito senza grandi varianti dai quattro Vangeli canonici (Mt 21,1-11; Mc 11,1-11; Lc 19,28-38; Gv 12,12-16).

Arrivando a Gerusalemme, Gesù chiede ai discepoli di procurargli una cavalcatura: «Andate nel villaggio (…) troverete legata un’asina e con essa un puledro; scioglieteli e conduceteli a me». La richiesta non è senza significato: consente infatti agli Evangelisti di dimostrare che l’Ingresso in Gerusalemme realizza quanto aveva profetizzato Zaccaria nell’Antico Testamento del quale, dunque, il Vangelo è prosecuzione e piena realizzazione: «Ecco, il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma». Del resto la folla comprende subito il messaggio e, per onorare Gesù, afferra dei rami di palma e grida: «Osanna! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore!». Si apre così il ciclo della Passione.

L’Ingresso di Gesù in Gerusalemme è celebrato dalla Chiesa la domenica delle Palme, con la quale si apre la Settimana Santa che porta alla Pasqua. La scena è stata illustrata spesso dall’arte cristiana, alla quale ha ispirato quadri pieni di vita, dal momento che vi si affollano molti personaggi ed animali.

Iconografia

Nel trattare il tema, l’arte romanica si è ispirata a due grandi tradizioni artistiche: la bizantina e l’orientale. Nella prima, Gesù è rappresentato a cavalcioni sulla sua cavalcatura, seguito da uno o più discepoli; un adolescente stende il mantello sotto gli zoccoli dell’asina mentre un altro giovane, salito su una palma, ne taglia dei rami. Questi motivi derivano dai vangeli sinottici, ripresi dal Vangelo apocrifo di Nicodemo: «I fanciulli ebrei avevano dei rami in mano e stendevano a terra le loro vesti». La versione orientale si differenzia da quella greca solo per la posizione di Cristo sulla cavalcatura: Gesù infatti non è a cavalcioni, ma seduto; una differenza che nasce dalle abitudini del Vicino Oriente. Gli altri elementi della scena sono simili.

Un capitello dell’abbaziale di Saint-Benoît-sur-Loire riprende questa seconda immagine. Bisogna notare, tuttavia, che Cristo avanza da destra a sinistra, mentre negli «Ingressi in Gerusalemme» egli procede sempre da sinistra a destra. Considerata la portata simbolica, nell’arte romanica, dei minimi dettagli, questa puntualizzazione non è senza importanza; tuttavia è difficile sapere se l’artista non si sia preoccupato di questo aspetto della composizione o se abbia voluto inviare un messaggio preciso.

Nella stragrande maggioranza dei casi, a differenza di Saint-Benoît-sur-Loire, gli artisti romanici hanno accolto la versione bizantina, che corrispondeva agli usi occidentali. Un bassorilievo della basilica di Saint-Gilles-du-Gard illustra il racconto nel suo insieme: a sinistra, tre discepoli si occupano dell’asina; uno scioglie le redini dell’animale, l’altro lo sella sotto lo sguardo del terzo. Al centro, Cristo, a cavalcioni sull’asina, avanza alla testa dei dodici Apostoli che procedono in fila: l’asinello si è unito al corteo. A destra, alcuni abitanti di Gerusalemme stendono i mantelli al passaggio del Messia. Due bambini sono saliti su una palma e ne tagliano dei rami. La Città Santa è rappresentata da una cinta turrita. La qualità straordinaria di questo rilievo ricorda l’antica arte greca.

L’Ingresso in Gerusalemme è raffigurato, forse con minor precisione, su alcuni capitelli della facciata della cattedrale di Chartres e del chiostro di Saint-Trophime di Arles.

Arles, Saint-Trophime, Chiostro – Capitello: Ingresso di Gesù in Gerusalemme

I pittori romanici hanno illustrato il tema sui muri delle chiese di Vic nell’Indre, di Brinay nel Cher e di Sant’Angelo in Formis. In questi affreschi, la cavalcatura di Cristo è bianca, colore simbolo di purezza e di innocenza. Anche la Catalogna ci ha lasciato bellissimi dipinti su tavola con questa scena; per esempio il paliotto d’altare di Sagas o quello di Espinelves.

Vic, Museo Episcopale – Paliotto d’altare: Ingresso di Gesù in Gerusalemme

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 235-237

Alexander Neckam, De naturis rerum – Presentazione

Sezione: Studi


Alexander Neckam o Alexander de Sancto Albano, erudito e scienziato inglese vissuto tra il 1157 ed il 1217, può considerarsi uno degli autori più fecondi del Medioevo: scrisse di liturgia e di scolastica, di grammatica e di storia biblica, compose fabulae e trattò di virtù morali come della nomenclatura di strumenti di ogni genere. Tuttavia la sua opera capitale, che lo rese celebre presso i contemporanei e i posteri, fu senz’altro il De naturis rerum, un grande compendio scientifico in prosa.

Innanzi tutto merita attenzione il singolare richiamo che un testo di questo genere porta con sé, ossia l’invito a guardare e pensare l’universo come un meraviglioso tappeto tramato di innumerevoli nomi e figure simbolici, secondo un ordine che coniuga mistero e bellezza, vanità mortale e arcani misticismi, creature ordinarie con monstra e mirabilia. Le cose tutte, dalle stelle ai colori, dalle pietre ai sogni, agli stessi avvenimenti storici o mitici, divengono qui cifre di qualcos’altro, una sorta di poliedrico lessico rischiarato da una mirabile unità: omnia in unum tendunt scrive Agostino nel De ordine. È un mare di creature che, nel rispetto e nei limiti della gerarchia delle cose, pensata neoplatonicamente, costituisce il concento del Creatore e il veicolo attraverso cui l’uomo, aurea medietà tra Dio e i regni naturali, può conoscere se stesso e il senso di ogni cosa nella mirabile cornice redentiva del messaggio cristiano: per visibilia ad invisibilia.

L’uomo medievale si sente il colpevole epigono di Adamo nel perduto Paradiso: come questo dava allora i nomi alle creature, quello, ormai allontanato dal Giardino, prova ora a ritrovarli, perché ne ha dimenticati i suoni e la pronuncia, ignora il senso delle parole e delle immagini edeniche, e le cerca in un pellegrinaggio altrove che coinvolge l’anima e il corpo.

Una volta Adamo conosceva il linguaggio divino, dove il nome e la cosa nominata coincidono sostanzialmente, adesso la sua errante progenie tenta di imitarlo, in ben minor grado e con ben più fatica. Qui, come vuole il dettato paolino, il senso delle cose (dei verba e delle imagines), della creazione e del divino, si può cogliere soltanto “per speculum in aenigmate”, e non più direttamente, “faccia a faccia”.

Ne consegue che, per l’uomo decaduto, l’unica possibile via per accedere alla Sapienza sia quella di una lettura simbolica del fenomeno mondano: tale da trasmutare gli “oscuri riflessi”, che ci appaiono dinanzi, in signa dell’invisibile. L’imperfezione diviene pertanto un umile gradino sulla strada della perfezione, ed il signum o symbolum può coniugare il caduco all’eterno. Così quest’uomo crede di imitare – analogicamente s’intende – la sapiente parola del primo Adamo, il suo colloquio con la natura divina delle cose, come può immaginare di volare di nuovo su quel mare di creature fino ai più alti cieli. In quest’ottica sta la genesi dell’enciclopedismo medievale. Ma non solo. Infatti l’uomo medievale si sente anche l’erede ed il continuatore della cultura antica, dell’idea di una classificazione dello scibile umano secondo dati cosmologici, cronologici ed etimologici, ovvero di una catalogazione della totalità di conoscenze relative ad un determinato campo. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo enciclopedia, termine ignoto al Medioevo e che inizierà a circolare in Europa soltanto agli inizi del XVI secolo. Le Antiquitates di Varrone (116-27 a.C.), oggi perdute ma note ad Agostino, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79), il De lingua latina ancora di Varrone, sono i modelli classici di una simile concezione. È Agostino (354-430) a sottolineare, nel De doctrina Christiana, quanto sarebbe opportuno riunire tutte le conoscenze per interpretare le Scritture: e qui sta il nodo della questione, cioè nella interpretazione e ripresa che il cristianesimo dette del concetto di “enciclopedia” proprio del mondo antico. Difatti mentre nelle opere degli autori classici l’intento è prevalentemente scientifico e documentale, si guarda cioè alla storia del mondo e dei suoi fenomeni rispettandone sia la complessità che le contraddizioni e la molteplicità delle opinioni (naturalistiche, filosofiche, etimologiche o altro che siano), con l’avvento del Cristianesimo tutto ciò si restringe, l’angolo di visuale viene ridotto ad un monocolo: la verità è la dottrina cristiana e ad essa tutto va rapportato e commisurato. Si afferma così, in tempi e modi diversi, con toni più o meno accentuati, quel fenomeno della moralizzazione cristiana del sapere che impregnerà l’intera produzione “enciclopedica” medievale.

Si tratta di un oscillante connubio tra fede e scienza, tra curiositas e accettazione passiva di nozioni bibliche e patristiche, che trova, a seconda di questo o quell’autore, soluzioni discontinue. Tuttavia costante e prevalente rimane per tutti l’intento pedagogico ed evangelico: lo scopo dell’“enciclopedista” o compilatore medievale è soprattutto quello di edificare spiritualmente il lettore, relegando in secondo piano, e talvolta ignorandolo, quell’intento storico-critico ed ermeneutico, alieno da pregiudizi, comune a un Varrone o ad un Plinio il Vecchio. Il fine infatti è di accostare il fedele ad una giusta condotta morale secondo gli insegnamenti cristiani, di favorirne la conoscenza del mondo così come l’ha creato Dio e l’hanno spiegato le Sacre Scritture. Allora nelle pagine degli “enciclopedisti” è comune trovare, accanto a dati scientifici, talvolta di grande interesse, ‘autorevoli’ affermazioni che ‘moralizzano’ cristianamente tali dati, secondo un meccanismo analogico che ne garantisce la veridicità in maniera apodittica. Alcuni esempi: l’astro lunare allude alla Chiesa, perché esso è illuminato dal sole proprio come la Chiesa lo è dal Cristo; la balena “è il pesce che ricevette Giona nel ventre suo”; le candide perle significano la dottrina evangelica o la speranza del regno dei cieli; lo stagno è allegoria del discorso sofistico e della simulazione degli eretici, mentre il ferro della tribolazione e della sofferenza; lo smeraldo reprime la lussuria e protegge dalle illusioni diaboliche.

Dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) al De rerum natura di Beda (673-753), dal De universo di Rabano Mauro (784-856) all’opera di Neckam o al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, composto verso il 1250, fino all’immensa compilazione, lo Speculum mundi, di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), o a Li Livres dou Tresor di Brunetto Latini (1240-1294), il significato delle parole e delle immagini, del tempo e dello spazio verranno trasmessi, mutatis mutandis, sotto l’egida dei dottori cristiani e delle Scritture, in un orizzonte sempre e comunque cristocentrico.

Esemplare testimonianza sono alcune parole del dottissimo Isidoro di Siviglia, il capostipite di questa tradizione, a proposito del suo De natura rerum. Si legge nella dedica: “Quae omnia secundum id quod a veteribus viris ac maxime sicut in litteris catholicorum virorum scripta sunt, proferentes brevi tabella notamus. Neque enim earum rerum naturam noscere superstitiosae scientiae est, si tantum sana sobriaque doctrina considerentur” (“Esponendo tutte queste cose secondo quanto è stato scritto dagli antichi e massimamente come ne hanno trattato gli autori cattolici, ci siamo comportati con grande concisione. Infatti la conoscenza di questi fenomeni naturali non è propria di una scienza superstiziosa, se soltanto vengano esaminati con dottrina incorrotta e giudiziosa”). La non velata distinzione tra autori pagani e quelli cattolici, come il parallelismo tra superstizione e dottrina incorrotta riflette in breve il tema della moralizzazione di cui sopra. Non a caso il De natura rerum è una compilazione musiva di notizie cosmografiche e meteorologiche, inerenti gli anni, la notte e il giorno, le stagioni, la corsa dei pianeti, le stelle, lo zodiaco, i venti, i mari, i fiumi, il fulmine, e così via. Ebbene nel testo, seppure non manchino prelievi, non sempre diretti, da autori come Quintiliano, Marziano Capella, Servio, Igino, Lucano, Lucrezio, Solino o Virgilio, le auctoritates vere e proprie che garantiscono le sue parole, di scienziato e di credente, sono soprattutto Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e Cassiodoro, oltre ovviamente ai Vangeli e all’ Antico Testamento.

Non molto diversamente, circa due secoli dopo, Rabano, altro magister di questa vision du monde, comporrà con il suo De universo una vasta glossa allegorica o mistica alle Etymologiae dello stesso Isidoro. Analogamente, circa cinque secoli dopo, Neckam coniugherà scienza e allegorismo morale, fantasiose etimologie e simbolismi edificanti, avvertendo che la sua opera vuole soprattutto innalzare lo spirito del lettore a Dio attraverso Cristo, citando ancora come indiscutibili autorità i Padri della Chiesa e la verità biblica, senza per altro dimenticare Virgilio, considerato un negromante, Ovidio, Claudiano e altri “antichi”.

Di notevole interesse, per l’intelligenza del pensiero “enciclopedico” medievale, è lo studio dell’organizzazione interna di questi trattati, che non è alfabetica né cronologica tout court, bensì segue di solito una divisione gerarchica o tematica delle cose naturali o artificiali, della storia sacra o di quella profana, delle virtù e dei vizi. In particolare nell’età d’oro dell’“enciclopedismo”, cioè tra il XII ed il XIII secolo, questo tipo di struttura interna risente dello schematismo gerarchico dionisiano. Infatti, la fortunata opera di Dionigi Areopagita, approdata in Europa nel IX secolo con la traduzione dello Scoto Eriugena, propone un modello gerarchico, di conio neoplatonico, per cui l’universo intero è realmente una scala, una catena di creature tra loro interconnesse e disposte gerarchicamente. A partire dall’alto il risultato della causalità divina ha prodotto angeli, uomini, animali, piante ed esseri inanimati. Al di sopra di tutti stanno i nomi divini, che giustificano ontologicamente quella stessa trama gerarchica e costituiscono il vero oggetto di conoscenza per l’uomo. L’artificio dionisiano viene esplicitamente preso come guida tematica da Bartolomeo Anglico per il suo De proprietatibus rerum e Tommaso di Cantimpré, nel Liber de natura rerum composto verso il 1240, suddivide l’opera parlando prima dell’uomo poi degli animali (seguendo naturalmente una processualità che va dai quadrupedi fino ai vermi), successivamente delle piante e infine al mondo minerale.

Un simile tessuto di nozioni se da un lato trova il fondamento della storia e della natura nei fatti biblici e nella parola di Dio, dall’altro individua, come si diceva sopra, nel linguaggio allegorico o simbolico lo strumento più adatto per decifrare e descrivere quella storia e quella natura. La ragione di ciò ha il suo crogiuolo concettuale nella convinzione dei maggiori Padri della Chiesa, da Girolamo a Gregorio, da Origene ad Agostino (ma fondante è Paolo nella Lettera ai Galati, IV,24: “Queste cose sono dette in senso allegorico”), che la Scrittura, “creata” da Dio come il mondo, in quanto rivelazione dell’unico Altissimo e Verbum Redemptionis, costituisca una “infinita sensuum silva”, contenga allegoricamente un oceano di significati e di misteri, la cui profondità benché indecifrabile va scandagliata e meditata dal credente. Infatti interpretare le allegorie ed i simboli delle Scritture permette di decrittare appunto la “scrittura” di Dio e dunque la sua volontà. Similmente spiegarne il senso morale permette di esaltare quei parametri virtuosi che edificano la fede, così come accogliendone il messaggio profetico ed escatologico si risolve il senso della storia e della salvezza.

Il libro della “natura delle cose” si dispiega e scorre dinanzi agli occhi di Neckam e degli altri compilatori enciclopedici allo stesso modo in cui si leggono le pagine della Bibbia: l’analogica e l’allegorica li coniugano, il simbolismo misterico li salda. Ne nasce quello straordinario e mirabolante vocabolario di nuove combinazioni iconologiche, di sincretismi figurativi e verbali, di azzardate e talvolta sconclusionate etimologie, che forse costituisce ancora oggi uno dei contributi più affascinanti del Medioevo. Epoca in cui il simbolo e il traslato non si sovrappongono alla realtà, ma l’accompagnano fino a fondersi con essa, fino all’invenzione di una vera e propria realtà fantastica, ma non fantasiosa.

Il trionfo di tanto “enciclopedico” linguaggio verrà poi concretato nell’arte dei chiostri, dei capitelli, sulle pareti o sui portali delle chiese, nelle miniature e sulle stoffe: ovunque i bestiari e i florari, la Biblia pauperum o il cielo e gli elementi verranno materiati da scalpellini, muratori, pittori e tessitori. Le sillabe e le parole scritte nel libro di Neckam, come quelle che corrono nelle altre opere consimili, si trasferiscono così nell’arte e una chiesa istoriata diviene un libro, le cui pagine sono le pareti e le superfici dei più svariati membri architettonici. Un simile insegnamento per figure permette al fedele di guardare e contemplare la scala della “natura delle cose”, e di incamminarsi, viandante, sul monte sofianico dell’universo: ne può ammirare l’ordine, la misura, la musicale gerarchia. In questo il Medio Evo appare il degno e nobile erede delle fabulae e dell’harmonia di una più antica e arcana sapienza, che spetterà poi al Rinascimento, come ai secoli successivi, riconoscere, studiare e ricollocare degnamente nella storia e nel mito precristiani, quando Thoth e Orfeo, Prometeo e Atena, Aglaofamo e Pitagora educavano gli uomini sulla secreta “natura delle cose”.

AutoreMino Gabriele
PubblicazioneAlexander Neckam: De naturis rerum libri duo
CuratoreThomas Wright 
EditoreLa Finestra (Archivio medievale)
LuogoLavis (TN)
Anno2003 
PagineIII-XII

Paolo di Tarso

Sezione: Lessico


Fonti

Paolo di Tarso, principale artefice della dif­fusione del Cristianesimo nel mondo roma­no, non ha mai conosciuto Gesù di Nazaret e non fa parte del collegio dei Dodici. È un giudeo ellenizzato della diaspora, cittadino romano, del quale conosciamo la vita attra­verso gli Atti degli Apostoli e le sue stesse Lettere.

Inizialmente, Paolo si distingue per l’o­dio nei confronti dei discepoli di Cristo; prende parte alla lapidazione di santo Stefa­no, il primo martire, custodendo vesti dei suoi carnefici (At 7). Ma il suo destino si ca­povolge: sulla via che va da Gerusalemme a Damasco, è colpito e interpellato dal Signo­re: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Questo incontro sconvolgente lo spinge a convertirsi a Cristo, diventandone uno dei più ardenti predicatori. Dopo un lungo pe­riodo di ritiro e di studio, predica a Dama­sco, provocando l’ira dei Giudei, tanto che è costretto a fuggire dalla città calandosi dall’alto delle mura dentro una cesta, fissata ad una corda. In seguito, sale a Gerusalemme per essere confermato nella sua missione da­gli Apostoli più importanti, in particolare Pietro e Giacomo. S’imbarca poi per tre viaggi missionari attraverso l’Asia Minore e fino in Grecia. Tornato a Gerusalemme, è arrestato dai Romani su denuncia dei Giu­dei. Condotto a Cesarea davanti al governa­tore romano, si appella all’imperatore ed è quindi portato prigioniero a Roma. La nave sulla quale è imbarcato fa naufragio al largo di Malta; accolto sull’isola, scampa miraco­losamente al morso di una vipera. Infine ar­riva nella capitale dell’Impero dove resta prigioniero, ma con una deroga particolare che gli consente di incontrare la comunità giudaica della Città con la quale discute, un’ultima volta, sulla verità del Vangelo di Gesù, Cristo e Signore.

Secondo la tradizione, fu martirizzato a Roma nell’anno 64, sotto l’impero di Nero­ne. Come cittadino romano, ebbe il privile­gio di essere decapitato, mentre il suo compagno Pietro subì la sorte degli schiavi, la crocifissione.

Iconografia

L’iconografia di Paolo riprende i temi prin­cipali tratti dagli Atti degli Apostoli e dai suoi stessi scritti; tuttavia è meno ricca di quella di Pietro, più popolare di lui presso i Cristiani.

1. Le figure isolate

Gli artisti hanno fissato le caratteristiche del ritratto di Paolo fin dall’alto Medioevo. Il Santo è calvo, barbuto, con la fronte bomba­ta. Per esaltarlo, lo si rappresenta general­mente come un uomo di statura imponente. A volte porta dei sandali che ne ricordano la vocazione apostolica; e spesso ha in mano il libro delle sue Lettere. E ritratto così sul­l’ambone della cattedrale di Cagliari.

Cagliari, Cattedrale di Santa Maria Assunta – Ambone: San Paolo

A partire dal XIII secolo, è rappresen­tato di solito con la spada, strumento della decollazione.

Un bassorilievo della chiesa di Mague­lonne, nella Linguadoca, ce ne dà un’immagine originale: il suo volto è forte­mente caratterizzato, quasi asiatico, con oc­chi leggermente a mandorla, una barba a due punte e lunghi baffi spioventi.

Maguelonne, Cattedrale – Bassorilievo: San Paolo

Ha le gi­nocchia leggermente flesse e i piedi nudi. Sotto il portico della chiesa di Saint-Pierre a Moissac, la sua statua mostra uno sguardo illuminato dalla fede. Paolo appare come un visionario impetuoso e un mistico appassionato.

Moissac, Chiesa di Saint-Pierre – Portico, pilastro mediano: San Paolo

Lo scultore della facciata di Saint-Gilles-du-Gard ha insistito sulla sua vocazione apostolica: come Giacomo Mino­re, rappresentato accanto a lui, Paolo calpe­sta un leone che sbrana un ariete; è l’immagine del discepolo intransigente che com­batte i pagani e gli idolatri.

Nelle miniature dei manoscritti, lo vedia­mo spesso nell’atteggiamento dello scriba seduto al suo tavolo, come nel Lezionario di Echternach (tav. 126), nella cattedrale di Treviri.

Brema, Staats- und Universitätsbibliothek – Ms. b 21 (Evangelistario di Enrico III): San Paolo scrivente

2. Il ciclo della leggenda

Un grandioso ciclo narrativo dedicato a san Paolo si trova sulla facciata della chiesa di Ripoll, in Catalogna, ma alcuni episodi della sua storia sono raffigurati anche singolar­mente in varie opere del periodo romanico.

2.1. La conversione sulla via di Damasco

È la scena più celebre del ciclo. Nel mano­scritto della badessa Herrat di Landsberg, l’Hortus Deliciarum, una miniatura ce la pre­senta in maniera simbolica: Saulo è a terra fra un lupo e un agnello, che rappresentano rispettivamente il suo passato e il suo avve­nire, mentre Cristo gli appare entro un alone di luce e lo minaccia con la spada per spin­gerlo a convertirsi.

2.2. Il battesimo

Saulo è accecato dalla visione di Cristo; i suoi compagni di viaggio lo portano a Da­masco dove è battezzato. A questo punto, dai suoi occhi cadono miracolosamente del­le scaglie ed egli recupera la vista. Questo episodio è rappresentato a Ripoll.

2.3. I miracoli

Un affresco della cattedrale di Canterbury illustra molti miracoli del Santo, alcuni dei quali sono poco conosciuti: Paolo acceca l’empio mago Elima; guarisce un paralitico a Listra; sbarca sull’isola di Malta e scampa al morso di una vipera: mentre si pre­para ad attizzare un fuoco, la serpe gli si attac­ca alla mano e Paolo la scuote sulla fiamma.

Canterbury, Cattedrale – Affresco: San Paolo e la vipera

2.4. Il martirio

La decollazione di Paolo è raffigurata a Ri­poll, mentre su un capitello del chiostro di Moissac compare il Santo mentre viene con­dotto al supplizio, accompagnato da un An­gelo. Sullo stesso capitello, è rappresentata anche la crocifissione di Pietro. La stessa scena si trova in un affresco della chiesa di Petersberg, in Germania.

2.5. Il mulino mistico

L’immagine del mulino mistico non ha rap­porto diretto con la leggenda di san Paolo; si tratta di un tema simbolico, che risale certa­mente al grande abate di Saint-Denis, Sugero. Il mulino che trasforma il grano in farina, o l’uva in vino, è qui un’immagine di Cristo che, col suo Vangelo, porta a compimento l’antica Legge di Mosè. Il tema compare in un celebre capitello della basilica di Sainte- Madeleine a Vézelay. Isaia, che personifica l’Antico Testamento, versa il grano, mentre san Paolo, che rappresenta la Nuova Allean­za, raccoglie la farina. Notiamo che il Profe­ta biblico è calzato, mentre il discepolo di Cristo è a piedi nudi.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 297-299

La Gerusaleme della fine dei tempi

Sezione: Studi


New York, Pierpont Morgan Library – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 222v: La Gerusalemme celeste

L’immagine proviene dall’Apocalisse del Beatus. È sufficiente un colpo d’occhio per accorgersi che la composizione è fondata sul quadrato. Essa illustra una delle più belle pagine del Libro sacro, quella in cui l’apostolo dipinge la Gerusalemme della fine dei tempi. La città simbolica quadrata nella quale si trova raccolta tutta la Nuova Creazione si distingue dal cielo circolare come il mondo terreno si distingue dall’aldilà; o, per meglio dire, essa è considerata nel suo rapporto necessario con il cielo, come del resto abbiamo visto che il quadrato resta necessariamente in rapporto con il cerchio che lo genera. Ecco il testo di san Giovanni al capitolo 21: l’angelo «mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, ov’era presso Dio, splendente della gloria di Dio… Essa è cinta da una alta e grande muraglia, con dodici porte; a queste porte sono dodici angeli, e alcuni nomi scritti, quelli delle dodici tribù dei figli d’Israele. Ci sono tre porte a nord, tre porte a est, tre porte a sud e tre porte a ovest. La muraglia della città ha dodici pietre fondamentali sulle quali sono dodici nomi, quelli dei dodici apostoli dell’Agnello. E colui che mi parlava teneva un’asticciola graduata, in oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è quadrangolare; la sua lunghezza è uguale alla larghezza. Egli misurò la città con il suo strumento: dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali».

Questo testo è essenziale per la comprensione del simbolismo delle chiese e di innumerevoli opere d’arte religiose.

Nella nostra miniatura, questi elementi si rintracciano facilmente. Nel centro, uno spazio quadrato, col fondo a scacchiera di piccoli quadrati. Dal fondo si distaccano a destra san Giovanni con in mano il suo Libro, al centro l’Agnello di Dio, a sinistra l’angelo misuratore con la sua asta d’oro. All’interno si aprono le dodici porte, tre per lato, con un apostolo su ciascuna, identificabile dall’iscrizione posta sopra la testa. Al di sopra dei dodici apostoli, dodici biglie variamente colorate. Le iscrizioni che le accompagnano recano il nome di dodici pietre preziose che ci rimandano al seguito del testo di san Giovanni: «Le pietre delle sue mura sono ornate da pietre di ogni tipo: la prima è di diaspro, la seconda di zaffiro, la terza di calcedonio, la quarta di smeraldo, la quinta di sardonico, la sesta di cormalina, la settima di crisolite, l’ottava di berillo, la nona di topazio, la decima di crisofazio, l’undicesima di giacinto, la dodicesima di ametista».

Il fatto che queste pietre appaiano del tutto inattese nell’arco superiore della porta non deve stupire: ciò che importa è il simbolismo della pietra preziosa unito a quello della terra.

La pietra preziosa evoca una reale trasformazione della materia che, da minerale ed opaca come era, diventa trasparente, o per meglio dire diventa luce; tale metamorfosi dall’elemento più grezzo e più materiale (la terra, le rocce) in luce, cioè nella quintessenza dell’elemento più leggero, più spirituale (il fuoco), simboleggia il passaggio dalla creazione dei primordi a quella nuova, quella appunto della Gerusalemme celeste.

Ciascuna di queste porte non è altro che un quadrato sormontato da un cerchio. In questo riconosciamo l’elemento più caratteristico della chiesa romanica. L’architettura cistercense, estremamente spoglia, tesa ad accentuare la linea simbolica – talvolta fino ad un’astrazione un po’ eccessiva – ci consente di coglierla con particolare intensità. Qualunque sia la ricerca puramente decorativa o la funzione utilitaristica d’illuminamento dei begli oculi che adornano, per esempio, le arcate superiori del lavabo di Fontfroide, del suo chiostro o di quello di Thoronet, si deve riconoscere che essi concorrono in maniera determinante a creare l’ambiente sacro. Nel chiostro di Fontfroide la dimensione stessa degli oculi impone una spiritualità poco comune; e lo stesso bisognerebbe dire di quegli oculi di diverse dimensioni che gli architetti dell’epoca amavano collocare in fondo e sulla sommità delle absidi, nel frontone delle facciate e che contribuivano a dare un senso ai loro edifici: in fondo, non facevano altro che seguire una tendenza diffusa in quasi tutta l’architettura sacra tradizionale. L’epoca romanica ha utilizzato il procedimento con un senso molto sicuro delle proporzioni da rispettare e ci ha lasciato dei discreti capolavori, quali il coro della chiesa di San Quirce, in Spagna. Il gotico con i suoi immensi rosoni segna già una decadenza: il vano svuota il muro, la decorazione sovrasta il sostegno, la luce fisica acquista valore di per sé.

Se ci si attiene all’ordine puramente simbolico, è significativo che il simbolo del cerchio, considerato come una finestra aperta sull’aldilà, sia stato utilizzato tanto nell’architettura che nell’iconografia. La mandorla di gloria è una variante di quel cerchio. Una gustosa miniatura della Bibbia di San Pedro de Roda, conservata a Parigi nella Biblioteca Nazionale, ci servirà come prima sintesi.

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): La creazione del mondo, il peccato originale e le sue conseguenze

Essa rappresenta in alto la creazione, il peccato originale, e le sue prime conseguenze. Da sinistra a destra nei tre registri inferiori si distinguono: Dio che modella Adamo con l’argilla; la creazione di Eva, mentre Iahvè tiene nella mano la costola di Adamo che riposa su un letto, nell’atteggiamento delle Vergini della Natività; il peccato originale: ubi locutus est serpens ad mulierem (il serpente mentre parla con Eva), tenendo il pomo nella gola; sotto, i nostri progenitori cacciati dal Paradiso; essi qui appaiono vestiti; sotto ancora, le offerte di Caino il contadino e di Abele il pastore; l’assassinio di quest’ultimo a colpi di scure; la sua sopravvivenza nell’altro mondo; infine l’episodio di Lamech (Genesi, cap IV). In alto, un vasto cerchio; vi si legge: cae (a sinistra) –lum (a destra), è il cielo.

Attraverso il cerchio e dietro ad esso, la banda orizzontale e montagnosa della terra (ter-ra): «il cielo e la terra», binomio esprimente totalità con il quale il primo versetto del Genesi evoca tutto il mondo creato. Tale immagine è particolarmente importante perché illustra chiaramente il valore simbolico della quaterna. La divisione del cerchio in due, poi in quattro, è la prima divisione che s’impone allo spirito umano. Spontaneamente, e certo senza riflettervi, l’artista ha ricostruito sotto i nostri occhi l’evoluzione della decorazione degli specchi cinesi.

Specchi cinesi

Egli è partito dal punto centrale, è passato al piccolo cerchio che lo circonda, quindi alla croce che genera il quadrato ed infine alle quattro zone in cui si ripartisce l’intera superficie. In queste zone si scorgono delle piccole croci e delle ondulazioni: indubbiamente le stelle e le nubi ma più ancora la quaterna in sé, che costituisce il segno della creazione in contrasto al celeste trascendente. La medesima necessità ha ricondotto ad una quaterna i motivi che inquadrano il cielo. La loro apparizione è il risultato delle prime due operazioni con le quali è iniziata la Genesi: separazione della luce dalle tenebre, e poi della terra dalle acque. In alto a sinistra, la falce di luna (luna) abbinata ad una donna (nox), e a destra, il disco solare (s-ol) abbinato ad un uomo, il giorno (dies). In basso a sinistra, i percorsi delle correnti d’acqua (abissus, l’abisso marino personificato da una maschera) con dei pesci, e a destra gli antri della terra.

Sul retro di questa stessa pagina, troviamo l’inizio del testo della Genesi (lo scritto In principio del primo versetto appare sul retto accanto alla luna, in trasparenza). Vi si vede nel centro il Creatore troneggiante su due cerchi al di sopra dei quali stava scritta la parola caelum in un punto oggi degradato e, in basso, sotto delle foglie che disegnano quattro arcate, gli animali creati sormontati dalla scritta: et terram (e la terra), la fine del versetto: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Queste miniature sono proprie di una mentalità desiderosa di simili corrispondenze, intrisa di tali immagini, quale fu proprio quella degli artisti romanici.

Il più piccolo quadrato e la più modesta quaterna servivano loro intuitivamente a evocare i misteri naturali o teologici. Bisogna abituarsi a guardare le loro opere con i loro occhi.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo   
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine94-97 

Saba, regina di

Fonti

La regina di Saba entra nella storia biblica a causa della sua visita al re Salomone. L’episodio è riportato nel primo libro dei Re: «La regina di Saba, sentita la fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con enigmi. Venne in Gerusalemme con ricchezze molto grandi e con cammelli carichi di aromi, d’oro in grande quantità e di pietre preziose». Salomone riesce a rispondere a tutte le sue domande ed ella gli offre le ricchezze che ha portato con sé. «Il re Salomone diede alla regina quanto essa desiderava e aveva domandato» (1 Re 10,1-13).

Le regina di Saba è ricordata brevemente nel Vangelo quando Gesù ne annuncia l’intervento nel giorno del Giudizio finale (Mt 12,42; Lc 11,31). La tradizione cristiana paragona la sapienza di Salomone a quella di Cristo e, parallelamente, istituisce un accostamento simbolico fra la regina di Saba e la Chiesa.

L’omaggio reso dalla regina al grande re prefigura l’Adorazione dei Magi, cioè, dal punto di vista simbolico, il riconoscimento della regalità di Cristo da parte dei popoli pagani.

Una leggenda popolare molto meno rispettosa fa della regina di Saba una regina coi piedi d’oca. Ricevuta da Salomone in una sala col pavimento di cristallo, la principessa, credendo di camminare sull’acqua, avrebbe sollevato l’orlo della veste lasciando vedere una zampa d’oca.

Iconografia

L’immagine della regina compare spesso sui portali delle grandi chiese e cattedrali: la sovrana è in piedi, con corona e aureola, ed ha in mano un papiro che ne ricorda le origini africane o un vaso, simbolo dei suoi tesori. In epoca romanica, porta le lunghe trecce delle principesse medievali e il costume del XII secolo, come per esempio nel portico di Saint-Loup-de-Naoud o in quello della cattedrale di Angers.

Angers, Cattedrale – Portico: La regina di Saba

Sul portale della cattedrale di Corbeil le sue trecce sono strette da nastri: ella indossa una veste pieghettata in vita, un corpetto con lunghe maniche e un mantello aperto.

Parigi, Museo del Louvre – Statua (proveniente dalla cattedrale di Corbeil): La regina di Saba

Nel Portale reale di Chartres, la sua statua-colonna la raffigura vestita di un abito dal drappeggio delicato con maniche molto ampie; ella dispiega il papiro che ha fra le mani. Le rappresentazioni come regina con le zampe d’oca son andate purtroppo perdute. Si trovavano sui portali oggi distrutti delle chiese di Saint-Bénigne a Digione, Saint-Pierre a Nevers e Saint-Pourçain-sur-Sioule, nel Bourbonnais.

L’incontro di Salomone e della regina di Saba è rappresentato spesso nelle Bibbie manoscritte del Medioevo, per esempio nella Bibbia di Roda conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi.

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): Arrivo della Regina di Saba presso Salomone

A volte è il re che resta in piedi o s’inginocchia per dimostrarle la propria deferenza, mentre ella è maestosamente assisa in trono; ma, in generale, è la regina che s’inchina davanti a Salomone, come per esempio in un bassorilievo del battistero di Pisa.

Nel paliotto smaltato di Klosterneuburg, opera dell’orafo Nicola di Verdun, la sovrana, che rende omaggio a Salomone, ha i tratti di una negra della Nubia e il medaglione dedicato all’incontro è posto, simbolicamente, accanto ad un altro con l’Adorazione dei Magi.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 339-340

Apocalisse

Sezione: Lessico


Fonti

Questo libro, che fa parte del Nuovo Testamento, è tradizionalmente attribuito a san Giovanni Evangelista, malgrado il suo stile sia notevolmente diverso da quello del quarto Vangelo.

Composto nel I secolo della nostra era, esso si iscrive nel solco di una tradizione di rivelazioni (in greco apocalypsis) fiorita a partire dal II secolo a.C. e predice la seconda venuta del Messia alla fine dei tempi, dopo una serie di cataclismi che devasteranno la terra e metteranno alla prova gli uomini prima del giudizio finale. È formato da una serie di visioni profetiche e simboliche che gli artisti hanno amato illustrare dai primi secoli della nostra era alla fine del Medioevo.

L’idea della fine dei tempi assilla gli uomini del Medioevo e questa ossessione spiega la popolarità del tema nell’XI e XII secolo. L’Apocalisse è il testo biblico più illustrato, sulla pergamena dei manoscritti come sulla pietra delle chiese.

Ricordiamo brevemente le scene più rappresentate prima di darne le spiegazioni.

1. Visione di Giovanni nell’isola di Patmos

«Voltatomi, vidi sette candelabri d’oro; e in mezzo ai candelabri uno simile a Figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi cinto al petto con una fascia d’oro. (…) Teneva nella destra sette stelle, e dalla bocca gli usciva una spada acuminata a doppio taglio». Una voce rivela a Giovanni la misteriosa presenza del Risorto: «Io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente».

2. Il trono di Dio, i ventiquattro vegliardi e i quattro esseri viventi

«Ed ecco c’era un trono nel cielo e, sul trono, Uno assiso. (…) E Colui che era assiso era simile nell’aspetto a diaspro e sardonio, e un’iride avvolgeva il trono simile a smeraldo. E attorno al trono c’erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano assisi ventiquattro vegliardi, avvolti in candide vesti, e sul loro capo delle corone d’oro. (…) E in mezzo al trono e intorno al trono, quattro esseri viventi pieni d’occhi davanti e di dietro: il primo vivente simile a un leone, il secondo vivente simile a un toro, il terzo vivente con la faccia come d’un uomo, il quarto vivente simile a un’aquila in volo».

3. Il libro dei sette sigilli consegnato all’Agnello per essere aperto

«E vidi, nella destra di Colui che era assiso sul trono, un libro scritto dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli. (…) E vidi, fra il trono e i quattro viventi e i vegliardi, un Agnello come immolato. (…) Ed avanzò e prese il libro dalla destra di Colui che era assiso sul trono».

4. L’apertura dei sigilli

Primo sigillo: «Ed ecco un cavallo bianco, e chi lo montava aveva un arco, e gli fu data una corona, poi egli uscì vittorioso per vincere ancora».

Valladolid, Biblioteca de la Universidad – Apocalisse del Beato di Liébana: Cavaliere dell’Apocalisse

Secondo sigillo: «E uscì un altro cavallo rosso fuoco, e a chi lo montava fu dato potere di togliere la pace dalla terra affinché si uccidessero a vicenda, e gli fu consegnata una grande spada».

Terzo sigillo: «Ed ecco un cavallo nero, e chi lo montava aveva una bilancia in mano (…) e una voce diceva: Una misura di grano per un denaro e tre misure di orzo per un denaro. E non sciupare l’olio e il vino!».

Quarto sigillo: «Ed ecco un cavallo verdastro, e chi lo montava aveva nome Morte e gli veniva dietro l’Ade; e fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra di menare strage con la spada, con la fame e con la peste e con le fiere della terra».

Quinto sigillo: «Vidi sotto l’altare le anime degli uccisi per la Parola di Dio e per la testimonianza che avevano dato. (…) Fu data a ciascuno una veste bianca».

Sesto sigillo: «Avvenne un grande terremoto, e il sole divenne nero come un cilicio e la luna diventò tutta come sangue; e le stelle del cielo caddero sopra la terra (…). I re della terra e i grandi, i capitani e i ricchi e i potenti, e tutti i servi e i liberi si nascosero nelle spelonche e tra le rupi dei monti».

Settimo sigillo: «E vidi sette Angeli che stavano ritti davanti a Dio, e furono date loro sette trombe». Gli squilli scatenano una serie di cataclismi: grandine e fuoco misti a sangue vengono gettati sulla terra; una grande montagna incandescente è scagliata in mare; «cadde dal cielo una stella grande, ardente come lampada, e colpì la terza parte dei fiumi e le sorgenti delle acque»; il giorno perde un terzo del suo splendore, come pure la notte; sulla terra si spargono locuste: esse hanno volti umani, capigliature di donna, denti di leone; con le loro code, simili a quelle degli scorpioni, e con dei pungiglioni, hanno il potere di tormentare gli uomini.

Quattro Angeli si lanciano per uccidere la terza parte degli uomini. La loro schiera e formata da cavalli dalla testa di leone, la cui bocca vomita fuoco, fumo e zolfo, e le cui code sono simili a serpenti.

5. La Donna e il Drago

Lo squillo della settima tromba fa apparire nel cielo «una Donna vestita di sole e la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. È incinta». Davanti a lei sta un Drago a sette teste e dieci corna, pronto a divorare il bambino appena nato.

Burgo de Osma, Archivo de la Catedral – Apocalisse del Beato di Liébana: La Donna e il Drago

6. L’Arcangelo Michele atterra il Drago

«Michele e i suoi Angeli combattevano contro il Drago (…) E fu precipitato il Drago, il Serpente antico, che ha nome Diavolo e Satana, che seduce la terra intera; fu precipitato sulla terra e anche i suoi Angeli furono precipitati con lui». Il Drago insegue la Donna che gli sfugge grazie alle ali della grande aquila che Dio le dona.

7. Le due Bestie

Il Drago dà la sua potenza ad una Bestia «che sorge dal mare»; come lui, questa Bestia ha sette teste e dieci corna. «Ed essa aprì la sua bocca per bestemmiare contro Dio. (…) Le fu promesso di far guerra contro i santi e di vincerli».

Un’altra Bestia sale dalla terra: «aveva due corna come un agnello, ma parlava come un drago. (…) E sedusse gli abitanti della terra mediante i segni che le fu dato di compiere davanti alla Bestia».

8. La caduta di Babilonia 

Babilonia, simbolo della città del Male, appare in sembianza di «una donna, seduta su una Bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna», che tiene in mano una coppa d’oro piena di ripugnanti immondezze della sua lussuria.

Dio decide di distruggerla: «Un Angelo possente prese una pietra grande come una macina e la gettò nel mare, dicendo: Con quest’impeto sarà precipitata Babilonia, la grande città, e non la si troverà mai più».

La Seu d’Urgell, Museu Diocesá – Apocalisse del Beato di Liébana: La Bestia

9. La nuova Gerusalemme

«Allora vidi la Città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. (…) La città è quadrangolare, la sua lunghezza equivale alla larghezza. (…) Poi (l’Angelo) mi mostrò un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città, e di qua e di là dal fiume stava l’Albero della Vita, che dà dodici raccolti e porta il suo frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni».

Iconografia

In epoca romanica, le rappresentazioni dell’Apocalisse nella maggior parte dei casi si ispirano alle immagini del «Beatus». I venticinque manoscritti di quest’opera giunti fino a noi, realizzati dal IX al XIII secolo, illustrano i commenti redatti nell’VIII secolo da Beatus, abate di Liébana, nelle Asturie.

1. I manoscritti

Caratteristiche di questa produzione sono i colori molto vivaci, gli effetti decorativi di derivazione mozarabica (archi a ferro di cavallo), le iniziali a intreccio e la presenza di personaggi di una ieraticità bizantina; vi si notano anche influssi sassanidi (cavalieri montati su selle a forma di lira nel manoscritto di Burgo de Osma), persiani (costumi con maniche a sbuffo dei personaggi del Beatus di San Millan de la Cogolla), egiziani (manoscritto di Gerona), perfino cinesi (cavalli con groppa molto sviluppata e zampe sottili, aureole dei personaggi importanti del manoscritto di Burgo de Osma).

L’illustrazione dell’Apocalisse è spesso preceduta da quella del ciclo dei Re Magi, il che si spiega col fatto che a questi ultimi veniva attribuita un’origine mesopotamica.

I simboli degli Evangelisti sono spesso su delle ruote; l’Agnello è dipinto entro un’aureola rotonda, e il Cristo entro una mandorla sorretta da due Angeli.

Il manoscritto di Gerona contiene due particolari iconografici originali: la terra è di forma rettangolare, e l’estasi di san Giovanni viene simboleggiata da un cordone sinuoso che esce dalla sua bocca e termina in una colomba.

Di questi venticinque manoscritti, due hanno avuto particolare importanza per la scultura romanica della Francia meridionale:

  • l’Apocalisse di Saint-Sever, realizzata nel l’XI secolo, che, oltre al ciclo classico, illustra un passo raramente considerato: «Queste dieci corna sono dieci re; essi non hanno ancora ricevuto la regalità (…). Faranno guerra all’Agnello, e l’Agnello li sconfiggerà»;
  • la Bibbia di Rosas, opera del monastero catalano di Sant Pere, le cui immagini, a volte goffe, sono sempre suggestive.

2. La scultura monumentale

Naturalmente, nella scultura il numero delle scene apocalittiche è decisamente inferiore a quello dei manoscritti, alcuni dei quali contengono fino a 110 illustrazioni. Ma l’iconografia vi raggiunge una forza non comune.

Il portale principale delle grandi chiese (Moissac, Conques, Saulieu, Chartres…) è la cornice ideale entro cui illustrare la grandiosa visione del Cristo Pantocratore nella mandorla, con in mano il libro dei sette sigilli, circondato dagli animali del tetramorfo e dai ventiquattro vegliardi musicanti. La scelta da parte degli scultori di questa collocazione fortemente simbolica si spiega con un’affermazione di Cristo: «Io sono la porta. Se uno entra attraverso me, sarà salvo».

La chiesa di Saint-Pierre a Moissac ci mostra la più antica lunetta con l’Apocalisse in Francia. L’influsso dei manoscritti sulla scultura è qui evidentissimo: il Cristo barbato, secondo la tradizione orientale, irradia una maestosa serenità; non ha lo scettro ma, con la destra alzata, mostra il libro. La somiglianza col manoscritto usato come modello si nota persino nelle pieghe delle sue vesti e nei volti degli angeli che lo circondano. I ventiquattro Vegliardi si dispongono su tre registri orizzontali: sono rivolti verso il trono divino, ma ciascuno ha un atteggiamento diverso da quello degli altri; hanno nelle mani una coppa e una cetra. Questa mirabile composizione è stata imitata in altre chiese.

Moissac, Saint-Pierre – Lunetta: Apocalisse

Nei capitelli, lo spazio a disposizione degli artisti è più esiguo, ma la stessa esiguità della cornice genera a volte composizioni straordinarie.

Due capitelli del portico dell’abbazia di Saint-Benoît-sur-Loire sono dedicati all’Apocalisse. In essi vediamo:

  • Cristo che, fra le sette stelle e i sette candelabri, appare a san Giovanni prosternato ai suoi piedi. Accanto a questa prima visione, sono rappresentati i quattro cavalieri disposti con grande abilità sulla restante superficie del capitello; il cavaliere con l’arco è avvolto in un mantello identico a quello che indossa nel Beatus di Saint-Sever;
  • il gruppo dei Martiri sotto l’altare, al momento dell’apertura del quinto sigillo.

Nel chiostro di Moissac, diversi capitelli riprendono a loro volta l’iconografia dei manoscritti del Beatus. Essi rappresentano rispettivamente:

  • la Gerusalemme celeste e Babilonia, ciascuna su un capitello, rappresentate come città fortificate; solo le iscrizioni consentono di distinguerle;
  • i cavalieri montati su leoni e preceduti da un Angelo a piedi con una falce. Lo scultore ha operato una sintesi fra due visioni diverse e distanziate nel libro;
  • la Bestia incatenata dall’Angelo: come nei manoscritti, l’Angelo sembra precipitare dal cielo, a testa in giù; la Bestia, legata per il collo, ha la coda annodata;

Moissac, Saint-Pierre – Capitello: Apocalisse

  • gli Evangelisti, in aspetto di mostri con corpo umano e teste di animali: questa raffigurazione, molto rara nell’arte romanica, deriva dal Beatus di Astorga.

3. La pittura murale

La pittura romanica presenta importanti illustrazioni dell’Apocalisse e, rispetto alla scultura, è molto meno legata ai condizionamenti imposti dalla cornice architettonica; di conseguenza, gli artisti hanno maggior possibilità di dare libero sfogo alla propria inventiva.

In Francia, il più completo ciclo dell’Apocalisse è quello degli affreschi della chiesa di Saint-Savin-sur-Gartempe. Essi si dispongono attorno al Cristo in gloria dipinto sul timpano del piano terreno della torre-portico. Da sinistra a destra si vedono:

  • la Gerusalemme celeste circondata da Santi e Angeli;
  • gli Eletti, cioè coloro che hanno «vinto (il Drago) con il sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza» (Ap 12). La città santa è simboleggiata da una donna aureolata che alza la mano destra in segno di benedizione;
  • la Donna e il Drago. Un Angelo scende dall’Arca dell’Alleanza, rappresentata in un medaglione, per impadronirsi del Bambino che la Donna tiene fra le braccia. La luna di cui parla il testo è chiaramente visibile sotto i piedi della Donna, ma la corona di dodici stelle è stata sostituita da un’aureola, che accentua la somiglianza del personaggio con una classica Madonna col Bambino. Il Drago ha una testa sola, ma ben dieci corna, e una coda di serpente. Esso protende le zampe munite di artigli per impadronirsi del neonato e divorarlo;

Saint-Savin-sur-Gartempe, Chiesa abbaziale – Affresco: La Donna e il Drago

  • il flagello delle cavallette. L’angelo che suona la tromba sta dietro il pozzo dal quale escono dei mostri. Col loro corpo di cane, il volto umano e la corona in capo, questi animali ibridi, frutto della fantasia dell’artista, non hanno nulla delle cavallette. Al loro passaggio, essi rovesciano i cadaveri di due uomini;
  • il flagello dei quattro Angeli e dei cavalieri. Davanti all’Angelo che suona la sesta tromba, stanno i quattro Angeli del fiume Eufrate, ancora legati, che tendono le mani. I cavalieri sono in parte cancellati, ma s’intravedono ancora le loro spade brandite;
  • la battaglia degli Angeli col Drago. Gli Angeli che formano l’esercito di Michele sono a cavallo, cosa eccezionale nell’arte del Medioevo. Essi attaccano con la spada la truppa degli Angeli decaduti e il mostro, del quale si vedono ormai solo le ali nella parte inferiore della composizione.

Meno esaurienti, ma di altrettanto mirabile freschezza, sono gli affreschi con l’Apocalisse nella chiesa di San Pietro al Monte presso Civate. In essi troviamo, prima di tutto, l’immagine della Gerusalemme celeste. La rappresentazione è assolutamente fedele al testo: al centro della città, simboleggiata da una cinta quadrata, troneggiano il Signore, con un lungo scettro nella mano, e l’Agnello davanti a lui; fra i suoi piedi scorre il fiume sulle cui rive sono due Alberi della Vita.

Un altro riquadro è dedicato al faccia a faccia fra la Donna e il Drago. Il mostro, oltre a quella principale, ha sei piccole teste secondarie che s’innestano da una parte e dall’altra del collo. Esso viene trafitto dalle lance degli Angeli che stanno attorno alla mandorla dell’Onnipotente.

Civate, Chiesa di San Pietro al Monte – Affresco: Michele, i suoi Angeli e il Drago

Per concludere questa breve rassegna delle pitture romaniche di soggetto apocalittico, ricordiamo gli affreschi della cripta della cattedrale di Auxerre, dove merita di essere segnalato un Cristo di notevole eleganza, su un cavallo bianco, circondato da Angeli anch’essi a cavallo; infine i dipinti della chiesa di Saint-Martin-de-Fellonar, nel Roussillon, nei quali compaiono dei bellissimi Vegliardi con una coppa in mano.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 43-49

L’albero nell’arte romanica

Sezione: Studi


in memoriam Matris dilectissimæ meæ:

arbor virtutum et suavitatis,

arbor vitæ et sapientiæ,

arbor amoris et fidei


Dal momento che l’albero è un simbolo del mistero della vita e dunque del sacro, esso ha presso tutte le civiltà la sua collocazione all’ingresso dei templi: come il guardiano della soglia, esso indica il confine con un altro mondo che, del resto, può anche evocare in quanto albero cosmico o pianta cosmica. Si capisce come l’albero venga rappresentato nei portali delle chiese; talvolta è più propriamente all’albero del Paradiso che allude. Il portale di Puyferrand-du-Chatelet è interamente nudo, salvo al centro dell’architrave un piccolo archivolto ornato dell’albero stilizzato: il motivo, qui, appare in tutta la sua purezza; è più sviluppato, invece, sui timpani di Mariana e Marigny.

Mariana, Chiesa di San Parteo – Architrave

Marigny, Chiesa di Saint-Pourçain – Timpano

Lo ritroviamo largamente impiegato a Murbach: si tratta, qui, dell’albero cosmico, la cui cima raggiunge il cielo, che invade l’universo intero, e le cui radici vigorosamente stilizzate in forma di branchie affondano nell’abisso sotterraneo. Il motivo dell’albero si arricchisce sul portale di Farges (Saône-et-Loire); le colonnette che riquadrano l’ingresso sono sormontate da due capitelli che rappresentano due varianti dello stesso soggetto: quello dei quattro alberi del mondo.

Farges-lès-Chalon, Chiesa di Santa Maria Maddalena – Portale, Capitello

Farges-lès-Chalon, Chiesa di Santa Maria Maddalena – Portale, Capitello

Il motivo appare cristianizzato sul celebre capitello dei quattro fiumi paradisiaci del Museo di Cluny: ogni fiume è associato ad un albero, uno per lato; tali alberi sono i più rappresentativi dell’abbondanza nell’ambito biblico: il fico, l’olivo, la vite, oltre il famoso melo; ciò che fa del Paradiso un microcosmo completo.

Cluny, Musée de Farinier – Capitello proveniente dall’antica Abbazia: I quattro fiumi del Paradiso

L’uomo è associato all’albero sul capitello sinistro del portale di Giornico (Svizzera). L’albero può invadere le volute, come nel portale di Avila (Spagna); vi dispiega, infatti, una vegetazione che evoca la pianta dell’immortalità o l’erba medicinale del Paradiso. Spesso verrà cristianizzata la vite delle parabole evangeliche, simbolo del credente, della chiesa e di Cristo che è la sua vita, come a Saint-Michel d’Aiguilhe.

Le Puy, Chiesa di Saint-Miguel d’Aiguilhe – Facciata

Nel contesto biblico, sul portale si rappresenterà una delle scene svoltesi attorno all’albero del Paradiso terrestre, quello che occupa il centro dell’arco. A Besse, in Dordogna, è il peccato originale commesso da Adamo ed Eva vestiti – cosa piuttosto eccezionale – che occupa l’arco del portale. Due angeli svolazzano attorno al semicerchio che inquadra la scena; mostrano l’albero con il dito e trasmettono un messaggio: forse l’avvertimento divino di non toccare il suo frutto. Eva volge il capo per ascoltare e certamente questo gesto allude anche al Protovangelo; Adamo porta la mano alla gola. Da entrambe le parti dietro ad essi, due piccoli alberi si elevano per indicare, come vedremo, il Paradiso; essi compaiono qui in soprannumero. Proprio sotto questo motivo, sulla curva inferiore, si trova un Agnus Dei con la sua croce, quella che ha riscattato i figli di Adamo. Ai due angeli che circondano la scena del peccato originale corrispondono, proprio al di sopra, due angeli che tengono una mandorla all’interno della quale un piccolo personaggio viene assunto in cielo; è la fine della storia della salvezza: l’uomo salvato dal Cristo nuovo Adamo, è condotto nel nuovo Paradiso, quello dei cieli.

Besse, Chiesa di San Martino – Portale, Arcata: Peccato originale

La facciata della cattedrale di Angoulême è interessante per vari motivi. Al centro, si scorgono due angeli ai piedi dell’albero della vita, lo sguardo fisso alla sua cima; l’albero – interrotto dalla larga fascia orizzontale dei medaglioni dei beati nei cieli – continua al di sopra per allargarsi infine ai piedi di Cristo. Il Cristo occupa il posto dell’uccello tradizionale, in cima all’albero, ma ne rende manifesto il simbolismo, poiché si tratta di un Cristo in ascesa che sta già penetrando fra le nubi vaganti al di sopra del suo capo. Numerosi concetti si sovrappongono: l’Albero della vera Vita è il Cristo, ed è anche la Chiesa di cui la chiesa di pietra è segno (tutta questa facciata è dedicata al tema della Chiesa); il mistero è quello di una crescita spirituale, concepita come un’ascensione retta al pari dell’albero, il più verticale tra i simboli vegetali. Gli angeli tutt’attorno rinforzano quest’idea di volo, di distacco dalla condizione terrena: privilegio di coloro che per la fede partecipano dell’ascensione di Cristo da quaggiù, nell’attesa di raggiungerlo dopo la morte, nella gloria.

Angoulême, Cattedrale di San Pietro – Facciata: Ascensione (Cristo attorniato dal Tetramorfo)

L’indagine deve essere completata dall’esame di un tema più particolare, quello dei due alberi, motivo codesto piuttosto diffuso. Sopra la porta meridionale di Bourgheim (Alsazia), l’albero si divide in due rispetto ad un’asse verticale, ed occupa tutto il timpano. La separazione, che nulla giustifica, è intenzionale: isola due alberi distinti che sono un motivo iconografico paleocristiano simboleggiante il Paradiso e più ancora il Paradiso ritrovato. Sull’architrave di Bergholtz-Zell in Alsazia, della prima metà dell’XI secolo, i due alberi del Paradiso sono carichi di frutti della felicità e popolati di beati sotto forma di uccelli; essi inquadrano la croce salvifica, dispensatrice di luce e di vita (la ruota solare). La decorazione appare più schematizzata sull’architrave di Mutzig: una croce circondata da due alberi e nulla più. Il portale del lato meridionale inferiore di Saint-Jean-les-Saverne (Basso Reno) riprende il tema semplicemente sostituendo alla croce salvifica l’Agnus Dei recante la croce.

Saint-Jean-les-Saverne, Chiesa abbaziale di San Giovanni Battista – Portale, Timpano: Agnus Dei

A Vézelay, Abramo accogliendo fra le braccia, cioè in Paradiso, l’anima di Lazzaro, si stacca da uno sfondo costituito da due alberi.

Vézelay, Basilica di Sainte-Madeleine – Navata, Capitello: Lazzaro nel seno di Abramo

Questi due alberi, uniti a due angeli, formano la decorazione celeste nella quale appare il Cristo in gloria sul timpano meridionale di Thuret (Puy-de-Dome).

Thuret, Chiesa di San Martino – Timpano: Cristo in gloria nella mandorla sorretta da due angeli

I miniaturisti medioevali ameranno rappresentare l’Albero della croce di Cristo fra questi due alberi e talvolta uniranno le due punte degli alberi nel centro della croce per sottolineare l’unità nel mistero dell’Albero centrale e dei due alberi tipologici laterali.

Londra, British Museum – Salterio di New Minster: Crocefisso tra due alberi, al centro del Tetramorfo

La figura mostra in più il crocifisso in mezzo ai quattro Viventi, nella gloria del Signore.

Hildesheim, Diözesanmus. mit Domschatzkammer – Evangeliario di San Bernoardo: Crocifissione

La figura si riconduce ugualmente ad un tetramorfo: il toro di Luca appare ai piedi di Cristo. L’ambiente cosmico circostante è sviluppato: il sole e la luna in alto, in basso l’acqua e la terra, ereditari dall’Antichità pagana, e che compaiono spesso sotto i crocifissi o sotto i Cristi in gloria, soprattutto verso l’epoca carolingia, nelle placche d’avorio degli evangeliari.

Come l’acqua e la terra, i due alberi appartengono all’arte pagana e più precisamente all’iconografia della terra e della sua fecondità. Talvolta si ritrovano nell’arte cristiana tali e quali; ma la fecondità tellurica è diventata abbondanza e felicità della nuova terra rigenerata da Cristo.

Il tema dei due alberi è vasto e complesso, e spesso è degenerato in semplice schema decorativo.

Parigi, Louvre – Coppa etrusca: I due alberi

La splendida coppa etrusca (metà del VI secolo a. C.), attualmente al Louvre, è semplicemente decorativa, ma è interessante distinguere il tema iconografico soggiacente. Nel centro, un uomo afferra con le mani i rami dei due alberi tra cui deve scegliere. Questi alberi sono diametralmente opposti e occupano l’intero disco dell’universo. Il personaggio si volge verso l’albero in cima al quale riposa tranquillamente un uccello; volge le spalle all’altro albero sul quale si scorge un nido verso cui vola un uccello con un insetto nel becco; ma il nido è minacciato da un serpente che si avvicina. Il fogliame dei due alberi non si confonde… È una versione del tema dei due alberi di cui uno dona la vita e l’altro la morte, e il cui tipo perfetto è rappresentato dai due alberi del Paradiso terrestre: non si vuole intendere che quanto di cattivo esiste sia uscito dalle mani del Creatore come un’insidia tesa all’uomo, ma che il comando dato da Dio alla sua creatura libera, per guidare la sua condotta morale e fare così la sua felicità, se trasgredito, comporta la rovina annunciata: «è successo che l’ordine dato per condurmi alla vita, mi ha condotto alla morte» (Romani, VII).

L’esempio precedente si chiarisce ancor di più se lo mettiamo a confronto con una versione romanica più esplicita. Per esempio quella del Liber floridus di Lamberto di Sant’Omero (prima del 1120).

Lamberto di Sant’Omero, Liber floridus – Miniatura: L’albero del Bene e l’albero del Male

In doppia pagina, i due alberi si oppongono dalle radici che si confondono nella piega di mezzo. Qui, è l’universo del mondo spirituale che si vuole esprimere: basta leggere le iscrizioni. L’antitesi contrappone da una parte l’Albero buono, la Chiesa, la fede e dall’altra l’Albero «cattivo», là Sinagoga, il Fico (le cui foglie vogliono rammentare la nudità impudica dei nostri progenitori dopo il peccato. Il fico è reso secco dalla maledizione di Nostro Signore). L’albero del bene è fiorito e splendente di colori; tutte le sue foglie sono diverse l’una dall’altra, ciascuna d’una specie rara e preziosa, simbolo di una virtù che è rappresentata in un medaglione posto come un frutto; alla radice, la carità. Le foglie dell’albero del male sono invece tutte uguali, avvizzite, tristemente monocrome e collegate ai medaglioni dei vizi; alla radice la scure annunciata da Giovanni Battista come segno del Giudizio imminente e il medaglione della madre di tutti i vizi raffigurata con duplice testa: cupiditas sive avaritìa, la ricerca sfrenata solo dei beni e dei piaceri terreni.

Il portale di Andlau, in Alsazia, è senza dubbio la più bella delle porte romaniche in cui compaia il tema dell’albero, a cui è interamente dedicato; il suo esame ci offre l’occasione di fare delle ulteriori osservazioni riguardo questo soggetto.

Andlau, Chiesa abbaziale – Portale occidentale

Il centro del timpano è occupato dalla scena monumentale della Traditio legis: il Cristo affida a san Pietro, che ha già il suo libro, una chiave, simbolo del potere di aprire e chiudere le porte del Regno dei Cieli; a san Paolo porge invece il libro delle Scritture, insieme all’intelligenza spirituale per comprenderle e che farà di lui il Dottore dei popoli.

La scena ha dunque come tema il mistero della Chiesa, di cui san Pietro e san Paolo sono, per usare l’espressione tradizionale, le due colonne. Su di loro sorge l’edificio spirituale, la Chiesa costruita con le pietre viventi che sono i fedeli. C’è l’esortazione che san Pietro rivolge ai fedeli nella sua prima epistola: «Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale». Ed anche i due stipiti della porta sono concepiti come una costruzione architettonica formata da sei archetti sovrapposti. Nei loro vani compaiono le coppie dei benefattori dell’abbazia che, con la loro generosità, hanno permesso la costruzione della chiesa e meritato di divenirne pietre vive. Un testo di Durand de Mende illustra questo concetto: «Come la chiesa corporale è fatta di pietre unite insieme, così quella spirituale è composta da un gran numero di uomini. Tutte le pietre delle pareti, levigate e squadrate, rappresentano i santi, cioè gli uomini puri che sono posti dalle mani del supremo artigiano a dimorare per sempre nella Chiesa. Essi sono uniti proprio come con il cemento dalla carità, fino a quando, divenute pietre vive della Sion celeste, saranno stretti dal vincolo della pace». Alla base di ogni stipite vi è un solo personaggio isolato, che incarna forse il gruppo dei benefattori non sposati che si saran voluti ricordare, nonostante il tema del portale dovesse essere quello della coppia umana. Peraltro, la Chiesa è un mistero di vita e di crescita.

E questo il motivo simboleggiato nei due fregi verticali a motivi vegetali mescolati a leoni e ad uccelli, fregi che affiancano gli stipiti ornati dei benefattori e che simboleggiano la vita spirituale che deve continuare ad animarli. Ai personaggi-atlanti corrispondono qui personaggi interrati o, per essere più precisi, radicati al suolo fino a metà corpo. Con entrambe le mani, essi afferrano i viticci che si intrecciano al di sopra delle loro teste, i cui fusti si riconducono ai motivi vegetali del fregio dell’architrave per metterne in evidenza la continuità tematica; il loro atteggiamento è quello che l’iconografia cristiana attribuisce di preferenza a Jesse. È chiaro, così, che i fedeli della Chiesa formano una pianta, un albero, e che questo albero deve crescere, irrobustirsi, per congiungersi finalmente con gli alberi del Paradiso raffigurati nell’architrave.

La vocazione cristiana è insieme individuale e collettiva. Alla nostra sinistra, il Creatore crea Eva dal costato di Adamo addormentato, mentre in secondo piano si staglia l’albero della vita. Attraverso un grazioso portico a cupola, Iahvè introduce i nostri progenitori nel Paradiso che ha preparato per loro: «Iahvè Dio piantò un giardino nell’Eden, a Oriente, e vi pose l’uomo che aveva modellato. Iahvè fece spuntare dal suolo ogni erba piacevole a vedersi e gradevole a mangiarsi e in mezzo l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male». E proprio quest’ultimo che scorgiamo in mezzo all’architrave. I due alberi, come spesso avviene, sono unificati poiché il testo sacro ora citato li colloca entrambi in mezzo al giardino, (cfr. Genesi, II, 9 e III, 3). Iahvè, tenendo per mano Adamo, che stringe a sua volta quella di Eva, li conduce presso l’albero. Essi sono nudi, ma ancora innocenti, senza vergogna e ignorano del tutto la loro nudità.

Saujon, Monastero di San Martino – Capitello: Pesatura delle anime

«E Iahvè Dio diede all’uomo questo comando: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino ma dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non mangerai perché il giorno in cui lo farai ne morirai certamente”». Quando Dio si fu allontanato, il serpente compare. Esso si rivolge alla donna: «Non è vero! Voi non morirete. Ma Dio sa che il giorno in cui mangerete di quest’albero, i vostri occhi si apriranno ed allora sarete come dei che conoscono il bene e il male… La donna vide che l’albero era buono a mangiarsi e allettante a vedersi e che quell’albero era desiderabile per acquistare il discernimento. Ella ne colse un frutto (con la mano destra) e ne mangiò; ne diede anche (con la mano sinistra) a suo marito: allora i loro occhi si aprirono ed essi videro che erano nudi; unirono delle foglie di fico e ne fecero due perizomi». In tal modo, li vediamo uscire dal Paradiso, tenendo con una mano la foglia e coprendosi il petto con l’altra in un gesto la cui ingenua similarità esprime la tragica profondità della loro comune confusione. L’angelo dalla spada folgorante li insegue alle spalle. All’estrema destra, essi sono seduti, di spalle, coprendosi ancora con le mani; non solo turbati dalla prima manifestazione del disordine generato dal peccato che essi percepiscono come concupiscenza sregolata ma anche sconvolti nell’armonia della loro vita coniugale: «La tua concupiscenza ti spingerà verso tuo marito ed egli dominerà su di te». Doppio egoismo che comunque allontana. Ormai, l’atto di generazione sia carnale che spirituale, sarà segnato dal peccato originale. Il portale di una chiesa evidentemente non si limita a questa visione del peccato. Il seguito della visione cristiana è esposto nel timpano: una piccola teologia della salvezza fondata sull’opposizione fra due alberi. Quello di sinistra privo di rami, spoglio, disseccato come il fico del Vangelo: immagine delle conseguenze determinate dal peccato. Una piccola figura, spogliata di ogni abito per ribadire la sua estrema miseria, tenta faticosamente di arrampicarvisi.

È la condizione dell’uomo decaduto che monta con pena lungo il tronco dell’albero cosmico la cui cima lambisce il cielo e al di sopra del quale san Pietro gli aprirà, grazie alla sua chiave, la porta della città celeste, il nuovo Paradiso. Di fronte, una vigna fertile, meravigliosamente rigogliosa: immagine della città celeste e delle gioie inebrianti concesse anche sulla terra, come pregustazione, al credente che apre il suo cuore alla dottrina dello Spirito d’amore insegnata da san Paolo (l’antichità cristiana ha più volte raffigurato il neofita che riceve il battesimo tra un albero secco e uno fiorito). La colomba che becca i grappoli della vita costituisce il simbolo tradizionale dell’anima ammessa al banchetto eucaristico.

Facciamo ora un passo indietro per chiarire con altre opere il simbolismo dei due uccelli di questo timpano. Effettivamente, lo splendido uccello che si pavoneggia nella vigna contrasta con uno piccolo, magro e affamato appollaiato di fronte, sull’albero secco del mondo rovinato dal peccato. Non è quasi neanche più un uccello, un essere alato, simbolo inalienabile della nostalgia dell’uomo decaduto che non può dimenticare che la sua anima non è destinata alla terra ma al cielo. La piccola figura sale più verso il luogo di soggiorno degli uccelli, simboleggiato dai rami degli alberi, che verso la cima dell’albero cosmico. Vi si riconosce il tema dell’uccello sull’albero la cui fronda è considerata come un altro mondo, di per sé inaccessibile all’uomo e spesso paradisiaco. Il tema esprime l’aspirazione dell’uomo a passare al di là, ad una rottura, ad una spiritualizzazione o alla riscoperta di uno stato di beatitudine una volta posseduto e perso per il peccato.

Sull’esempio dell’arte pagana che l’aveva preceduta, l’iconografia cristiana dei primi secoli ha moltiplicato le figure degli oranti, dei santi o della Vergine mentre pregano davanti ad un albero su cui si scorgono una o più colombe, immagini della purezza dell’anima o della presenza dello Spirito Santo. L’albero con gli uccelli fa ancora parte dell’iconografia della Resurrezione concepita come pienezza di vita superiore e ormai impossibile. Li si rintracciano su alcune tombe antiche.

Un capitello di Payerne rappresenta nel centro un abate, insolitamente distinguibile da una piccola corona piatta, circondato da monaci.

Payerne, Chiesa abbaziale – Capitello del transetto meridionale

L’abate regge il libro delle Scritture, poiché la sua prima funzione è quella di spiegare la dottrina sacra ai fratelli; anche i monaci di sinistra come allievi fedeli sono raffigurati con la Bibbia in mano; quelli di destra, invece, tengono gli uccelli, simboli della vita spirituale che attingono dalle sante Scritture. Il gruppo della colonna sviluppa il tema dell’albero della vita; ai suoi piedi, due leoni indicano con la loro presenza la soglia sacra; il tronco dell’albero è essenzialmente costituito dal gruppo dei monaci e dei loro uccelli e lo considereremo fra poco; sopra le loro teste, una maschera da cui escono i pampini generosi della vite eucaristica che nutre l’anima dei credenti, comunicando loro la vita celeste; il cesto più in alto si ricollega ai capitelli di Farges e di Cluny, che presentano un albero su ciascuno dei quattro lati.

Il manoscritto delle Tre Colombe mostra il Cristo troneggiarne tra le foglie di un cedro verde in forma di gloria e circondato da uccelli che’simboleggiano i credenti.

Troyes, Biblioteca Municipale – Manoscritto delle Tre Colombe: Cristo albero del mondo

Gesù, nella sua persona, realizza la parola già citata messa da Osea sulla bocca di Iahvè: «Io sono come il cipresso verdeggiante; è da me che viene il frutto». Esso è il vero albero del mondo spirituale tra i rami del quale si annidano tutti gli uccelli della nuova creazione.

Ad Andlau tale spiritualizzazione, cioè tale salvezza, è ancora da conquistare: da qui, il tema dell’arciere che tende il suo arco in direzione dell’uccello, di un uccello appollaiato su un albero. La freccia è un efficace ed universale simbolo del superamento della condizione normale; è una liberazione immaginaria dalla distanza e dalla pesantezza; un’anticipazione mentale della conquista di un bene al di là di ogni attesa. Così, per esempio, la freccia diventa l’attributo che il centauro sagittario cristico scocca sul cervo, immagine dell’anima cristiana perseguitata per la sua salvezza. Lanciata verso l’alto, la sua traiettoria disegna una scala immaginaria in pieno cielo. Anche il lancio verticale fa parte di alcuni riti laddove altri usano l’ascensione rituale di un albero, di una scala, di una torre. L’uomo s’identifica al suo proiettile. L’arciere è il simbolo dell’uomo che mira a qualcosa e che già in certo modo se la prefigura.

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Nella figura vediamo l’uomo disceso dal carro mentre si protende verso l’albero cosmico ove stanno gli uccelli; un arciere ne prende di mira uno fra gli altri, a bruciapelo. Sul manoscritto di una Bibbia del XII secolo proveniente da Saint-Aubin, il motivo è diventato puramente decorativo secondo l’abituale processo di degenerazione dei simboli.

Ad Andlau, per evitare la simmetria, di cui l’arte romanica ha orrore, l’artista ha collocato a sinistra un arciere e a destra un fromboliere; il simbolismo resta evidentemente lo stesso. L’arciere ambisce al ritorno allo stato spirituale, aereo, attraverso il quale realizzerà la scalata dei cieli attraverso il cosmo mutilato. Il fromboliere con il dito puntato verso l’oggetto del suo desiderio ambisce alla felicità dell’animo in cui abita lo Spirito già da quaggiù grazie alla Eucarestia e più avanti, in pienezza, nel Paradiso ritrovato.

Questi due aspetti sintetizzano le leggi della salvezza cristiana. Così in ogni coppia di buoni, la disarmonia della coppia originale deve essere superata. Noi vediamo ogni marito indicare col dito alla propria moglie il Cristo del timpano, nuovo Adamo, nuovo albero di vita, piantato nel cuore del loro focolare; gli atteggiamenti delle figure sottolineano questo concetto nel loro linguaggio di pietra: la seconda coppia (a partire dall’alto) dello stipite di sinistra riproduce esattamente la posizione di Iahvè che conduce per mano Adamo ed Eva innocenti verso l’albero che indica loro col dito; se lahvè è scomparso, il marito è là che ripete il suo gesto: rappresentandolo, lo rende presente. L’ordine naturale è ristabilito.

Il fatto che la vita spirituale sia simboleggiata da un albero non ci deve stupire. Spesso, la Bibbia canta con meraviglia il giusto sotto le spoglie di un albero fiorente:

Il giusto fiorirà come la palma
si moltiplicherà come il cedro del Libano

Parigi, Biblioteca Nazionale – Apocalisse del Beato di Liébana: Iustus ut palma florebit

La figura illustra il primo di questi due versi: la palma da dattero è l’albero sacro degli antichi abitanti della Mesopotamia. Abbiamo visto, poco sopra, come il Cristo stesso, il giusto per eccellenza venisse rappresentato al centro di un magnifico cedro verdeggiante. Attenzione, tuttavia! Le apparenze quaggiù possono essere fallaci e i cattivi possono rivestire i panni di alberi rigogliosi, mentre i giusti conoscono la miseria materiale… Ma giungerà l’ora in cui Dio ristabilirà le cose nella verità e nella giustizia. Quel giorno,

tutti gli alberi dei campi sanno che sono io, Iahvè,
che umilia l’albero che si è innalzato e che innalza l’albero umiliato
che fa seccare l’albero verde e rinverdire l’albero secco.
Io, Iahvè, ho detto, io eseguo.
(Ezechiele, XVIII)

Verrà il giorno in cui questa onnipotenza creatrice, amante della vera umiltà e dei sentimenti nascosti in fondo al cuore, creerà l’oggetto di una delle più belle parabole di Gesù «Il regno dei cieli è simile ad un granello di senape che un uomo ha preso e seminato nel suo campo. È il più piccolo di tutti i semi, ma quando è cresciuto diventa il più grande degli ortaggi, diventa persino un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono ad abitare tra i suoi rami» (Matteo, XIII).

La prosperità del giusto gli viene da Dio come ricompensa della sua fiducia e della speranza:

Felice l’uomo che confida in Iahvè
e di cui Iahvè è la speranza.
Egli è simile ad un albero piantato sulle rive dell’acqua
che allunga le sue radici verso la corrente
Esso non teme nulla quando viene il caldo,
le sue foglie restano verdi;
in un anno di siccità esso non prova inquietudine
e non tralascia di dare frutto.
(Geremia, XVII).

Il suo frutto, il più bello di tutti, ed anche il più gratuito perché è puro dono di Dio, è una posterità:

Beati coloro che temono Iahvè
e camminano nelle sue vie…
Il tuo sposo: una vigna fruttuosa
all’interno della tua casa.
I tuoi figli: piante d’olivo
attorno alla tua tavola.
(Salmo CXXVIII)

Da questo sfondo di benedizioni divine accordate ai giusti, si stacca l’allegoria dell’albero di Jesse. Il Miroir de la Redemption (1478), un esemplare del quale si trova alla Biblioteca di Troyes, illustra numerosi tratti iconografici che abbiamo avuto l’occasione di citare.

Troyes, Biblioteca Nazionale – Mirouer de la Redemption: Albero di Jesse

Il re David, figlio di Jesse e capostipite della discendenza messianica, dorme e sogna; un albero esce dal suo petto. Tra le foglie, nel centro, la Vergine Maria che darà alla luce Cristo (confrontare col Cristo nell’albero). Quattro personaggi coronati rappresentano gli antenati coronati del Messia; essi sono volti verso Maria. L’uccello dello Spirito Santo si posa sulla Vergine e realizza l’Incarnazione. Nell’albero simbolico, la terra e il cielo si uniscono; l’uomo, tratto dal frutto della terra del Paradiso (Jesse, radice), collabora con Dio per farne l’Uomo-Dio che abbiamo visto ad Angoulême, in cima all’albero del mondo.

Nel suo simbolismo naturalistico, l’albero si presta ad evocare il mistero della vita in quanto donata da Dio. Tale simbolismo è adatto ad essere valorizzato con allusioni bibliche. Nella volta di Saint-Savin, sullo sfondo della scena in cui Iahvè promette una discendenza indefettibile e numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare ad Abramo, scorgiamo un albero sul quale si arrampica un bambino: il simbolo più tradizionale della discendenza; la coincidenza sarà fortuita? Fu per un miracoloso intervento di Dio che Abramo divenne padre di Isacco quando aveva passato i cento anni ed avendo una moglie sterile: dono meraviglioso e gratuito come la crescita dell’albero benedetto cantato dalla Bibbia.

Digione, Biblioteca Municipale – Leggendario di Citeaux: Albero di Jesse

Sulla stessa linea tipologica, un manoscritto del Leggendario di Citeaux utilizza il simbolismo dell’albero per illustrare la maternità verginale di Maria. In basso, Jesse con i suoi viticci nella posa dei personaggi semi-avviticchiati del portale di Andlau; nel centro, in una specie di trionfo di foglie, la Théotokos, la madre di Dio, mentre allatta il divin Figlio. Sulla cima dell’albero la colomba dello Spirito Santo che l’ha presa sotto le ali realizzando l’Incarnazione e insieme l’Annunciazione. Le due scene che si trovano sotto il nucleo centrale si riconducono al mistero della Maternità verginale prefigurata da alcuni episodi dell’Antico Testamento. In basso, a sinistra, Mosè, per ordine di Dio, si toglie i sandali davanti alla visione del roseto ardente che brucia senza consumarsi, in mezzo al quale compare Iahvè, DNS IN RUBO: «il Signore nel roseto». Il roseto prefigura Maria che ha accolto in sé il Verbo senza consumare la sua verginità e nella quale egli si è reso presente agli uomini attraverso l’Incarnazione (Esodo, III). A destra, Gedeone guarda cadere la rugiada che intride copiosamente il vello, mentre, per la sua preghiera, il suolo tutt’attorno resta perfettamente asciutto (Giudici, VI), a immagine di Maria che fu sola fra tutte le altre donne ad accogliere nel suo seno il Verbo disceso dal cielo; l’iscrizione PLUVIA DESCENDENS IN VELLUS, «discendendo la pioggia sul vello», allude al salmo LXXII (secondo il testo delle versioni, in riferimento all’episodio di Gedeone) che descrive la venuta del re messianico, nella prospettiva ripresa dal noto canto d’Avvento: Rorate coeli desuper, «Cieli, fate cadere la rugiada dall’alto e fate che le nubi facciano piovere il Giusto; che la terra si apra e generi il Salvatore!» (Isaia, XLV). Le due scene del roseto e del vello di Gedeone hanno ispirato due delle antifone che la Chiesa canta l’ottavo giorno di Natale e all’ufficio della Santa Vergine fino al 2 febbraio. I due episodi rappresentati in alto si ricollegano al mistero della salvezza recata da Cristo. A sinistra, si legge DANIEL-LACUS LEONUM: «Daniele-la fossa dei leoni»; a destra, TRES PUERI IN CAMINO: «I tre fanciulli nella fornace». Poiché i leoni e il fuoco sono tradizionalmente simboli di lussuria, forse si è voluto vedere nello sfondo di queste due scene un’allusione simbolica alla verginità che Dio solo può preservare: verginità del corpo e dell’anima, come nella maternità di Maria o nella verginità consacrata, o solamente verginità dell’anima per la difesa dal peccato e dalla morte che la insidia. In basso nella miniatura, si legge a grossi caratteri: «La beatissima madre del Signore, sempre vergine, ecc…»

L’albero di Jesse è un albero mariano. È l’albero della chiesa universale, paradisiaco per natura. «L’albero della vita celato in mezzo al Paradiso è cresciuto in Maria. Uscito da lei, ha esteso la sua ombra sull’universo, ha sparso i suoi frutti sui popoli più lontani, come sui più vicini» (San Cirillo di Alessandria). Maria è veramente la nuova Eva. L’albero di Jesse è dunque di più di un semplice albero genealogico come ne conosciamo tanti, spesso relegati a non essere nulla più che volgari tavole sinottiche, simboli intellettualizzati e congelati. L’albero di Jesse è un albero che rimane carico dei suoi valori di sacralità naturale. Inoltre è latore di promesse storiche divine; nella prospettiva biblica di restaurazione di un universo turbato dal peccato, lo vedremo assimilato alla croce redentrice, come in un affresco della cattedrale di Pamplona, in cui l’albero di Jesse continua, – oltre la Vergine col Bambino collocata fra i rami – nella croce su cui muore Cristo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx   
PubblicazioneI simboli del medioevo  
EditoreJaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine324-356 

Antonio

Sezione: Lessico


Fonti

La vita di sant’Antonio Abate ci è nota attraverso i racconti dei Padri della Chiesa sant’Atanasio e san Gerolamo. Antonio visse in Egitto nel III secolo della nostra era. Giovanissimo, scelse la solitudine del deserto della Tebaide. Nel suo eremo è assalito più volte dalla tentazione: è tormentato da alcuni demoni che gli mandano delle donne che scoprono i seni. Verso la fine dei suoi giorni, Antonio va a trovare san Paolo Eremita, il più vecchio degli anacoreti d’Egitto, che un corvo nutre nel deserto; il giorno della sua visita l’uccello, che ha presentito miracolosamente la sua presenza, porta doppia razione di pane. Sulla via del ritorno, il Santo incontra due Angeli che portano in cielo l’anima di Paolo; ritorna sui propri passi, e trova l’eremita morto, ancora inginocchiato in atteggiamento di preghiera, e lo seppellisce con l’aiuto di due leoni, miracolosamente usciti dal deserto per scavare la tomba.

A partire dal IV secolo, sant’Antonio è stato venerato in uno dei monasteri copti d’Egitto. Secondo la tradizione, il suo corpo sarebbe stato in seguito portato in un’abbazia del Delfinato, Saint-Antoine-en-Viennois. Nell’XI secolo, questa abbazia fondò l’ordine degli Antonini, che si diffuse ben presto in tutta la Cristianità.

Iconografia

Sant’Antonio Abate è rappresentato come un vegliardo barbuto, vestito dell’abito a cappuccio degli Antonini.

Suoi attributi sono la croce potenziata, simbolo egiziano della vita futura, e la campanella, usata dagli eremiti per allontanare i demoni. Tre sono le scene della sua vita solitamente rappresentate.

1. La tentazione

Gli artisti mostrano l’eremita assalito dai demoni. In un capitello della basilica di Sainte Madeleine a Vézelay, due diavoli lo tirano per la barba, lo colpiscono coi pugni e lo minacciano con un martello. La smorfia dei demoni contrasta col volto impassibile del santo.

Vézelay, Basilica di Sainte-Madeleine – Capitello: La tentazione di Sant’Antonio

2. La visita a san Paolo Eremita

In un capitello del nartece di Vézelay, i due uomini stanno uno di fronte all’altro; al centro della scena è un enorme pane rotondo che nessuno dei due vuole aver l’onore di spezzare: Paolo, per umiltà, desidera lasciare tale privilegio ad Antonio, che è suo ospite, ma quest’ultimo vuole riservarlo a Paolo, più vecchio di lui. La modesta mensa è apparecchiata solo con due vasi e due coppe di terra cotta.

La scena è ripresa anche in un capitello della navata e compare anche nel timpano della chiesa di Saint-Paul a Varax.

Vézelay, Basilica di Sainte-Madeleine – Nartece, Capitello: Incontro fra Sant’Antonio e San Paolo Eremita

3. La sepoltura di san Paolo Eremita

Sempre a Vézelay, sant’Antonio prega sul corpo avvolto in bende; la tomba è scavata da due leoni dalla testa mostruosa; malgrado il loro aspetto diabolico, i due animali sono gli artefici di una nobile impresa. La scena illustra la potenza della santità che mette le forze del male al servizio di Dio.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 41-42