I simboli del dio o del Re del mondo

Sezione: Studi


L’approfondimento di una simbologia non consiste nell’accumulare attorno ad un nucleo originale il maggior numero di particolari complementari o chiarificatori, ma nell’arricchire di armonie nuove il simbolismo fondamentale senza togliergli la purezza e la semplicità primitive.

I simboli del dio e del re del mondo hanno in comune un’intuizione di base sulla quale non è più necessario dilungarci. Il dio del mondo, l’imperatore che lo rappresenta visibilmente sulla terra, il mediatore tra Dio e gli uomini, il gran sacerdote, si collocano di necessità dove maggiormente si esprimono le relazioni tra cielo e terra: nel centro del mondo, sul passaggio dell’asse cosmico; è lì che possono riunire in sé la totalità del reale e risplendere sull’universo intero.

Prendiamo un esempio concreto, molto pregnante, al fine di comprendere bene il processo di incastro che questa straordinaria sintesi dell’immaginazione attorno ad un personaggio assiale ci consente. In Cina, la simbologia cosmica organizzata attorno ai quattro punti cardinali e al loro centro dimostra una coerenza eccezionale. Essa si fonda interamente su quei cinque elementi cui corrispondono colori, sapori, suoni, simboli. Ma tali classificazioni non si limitano a governare lo spazio, s’impongono anche al tempo.

L’ordinamento dello spazio avverrà periodicamente, il dramma celebrato nel rito si ripeterà ogni anno. L’est corrisponde alla primavera, alla nascita della creatura, alla levata del sole (elemento legno); il sud all’estate, al mezzogiorno, alla pienezza (elemento fuoco; in questo punto s’incrocia il centro, l’elemento terra cui corrisponde un tempo fittizio di pienezza); l’ovest all’autunno, alla morte, al tramonto del sole (elemento metallo) e il nord all’inverno, al riposo (elemento acqua).

Ma il microcosmo corrisponde esattamente, o meglio, è la stessa cosa del macrocosmo in cui, se così si può dire, il mondo teoricamente siripete all’infinito e ritualmente in un certo numero di elementi in zone concentriche inserite l’una nell’altra, a partire dal corpo umano e dall’abitazione fino ai confini della terra, passando per il luogo santo, il palazzo, la capitale. Sempre si ritroveranno il cielo e i quattro orientamenti, il tutto raddoppiato da una successione verticale di 3 o 4 piani (cielo e terra, o cielo, terra e sottoterra) dall’umile pantano centrale e dall’apertura del camino della casa primitiva fino al palazzo nel centro della capitale e alla capitale nel centro del regno con le quattro porte ai quattro punti cardinali. L’organizzazione del mondo in zone concentriche e in piani sovrapposti non è statica.

Il loro buon funzionamento dipende dal centro regolatore, sede del potere politico e magico-religioso (il Re, il Santo). Nel Ming-t’ang, sorta di casa del calendario, il sovrano si sposta seguendo le stagioni da un punto cardinale all’altro, in perfetta armonia con la corrispondenza degli elementi che regolano i colori dei suoi abiti, il cibo che mangia, ecc… Se si verifica una simile organizzazione periodica sul piano orizzontale, la coesione del mondo è ugualmente assicurata sul piano verticale. In effetti, fra i due piani del cielo e della terra c’è un legame di comunicazione, un asse piazzato nel centro del mondo; quando la terra è immaginata come il cassone quadrato di un carro, l’asse è rappresentato dal pilastro centrale che sostiene il baldacchino, rotondo come il cielo

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Questo legame con il cielo è ancora l’albero o la pietra su un monticello: il dio del suolo. È anche l’obelisco eretto nel centro della capitale o la torre con tanti piani quanti il cielo (nove) o la Montagna sacra, pilastro del Cielo o essa stessa cielo a piani. A tutte queste forme dell’asse centrale corrisponde il Re o il Santo, ma, come nell’organizzazione del piano orizzontale, il legame tra gli ordini del mondo non è semplicemente statico, bensì dinamico. Il Re e il Santo ascendono e discendono dalla torre, dalla montagna dall’apoteosi luminosa.

Più vicino a noi, Svetonio ci insegna (Nerone, 31) che la stanza principale delle cenationes ruotava come il mondo ininterrottamente attorno al suo asse. Questa straordinaria costruzione resta isolata in Occidente ma trova delle corrispondenze nel palazzo dei Sassanidi. Le torri girevoli cinesi esprimono la stessa concezione (torre di Butthap a Tonchino, torre del tempio lamaico di Young-ho-Kong a Pechino): alcuni uomini sotto la torre, in un sotterraneo, la fanno ruotare con l’aiuto di pali di legno, mentre in cima all’edificio l’imperatore fa il gesto d’azionare egli stesso la costruzione cosmica di cui costituisce il centro.

Dopo aver ricordato qualcuno degli elementi maggiori del simbolismo del re del mondo, riprendiamoli uno per uno al fine di approfondirli ulteriormente, il che ci fornirà l’occasione di constatare che alcuni, non importa quali, sono capaci in un modo o nell’altro, di sinterizzare o di esprimere tutti gli altri: da qui l’incredibile ricchezza d’espressione di simboli apparentemente poco interessanti.

Partiamo da un’opera concreta, la statua romanica di Carlomagno nella chiesa di Müstair (Svizzera). L’imperatore è in piedi e tiene nella mano sinistra uno scettro, nella destra il globo del mondo segnato dei suoi grandi cerchi, con la croce piantata nel polo; egli porta una caratteristica corona. Esaminiamo innanzitutto ciascuno di questi emblemi.

Müstair, Chiesa – Statua: Carlomagno

Lo scettro è una riduzione del grande bastone del comando: verticale pura che gli consente di simboleggiare prima di tutto l’uomo in quanto tale, quindi la superiorità di quest’uomo eletto alla guida, infine il potere ricevuto dall’alto. Lo scettro dei nostri sovrani occidentali non è che il modello ridotto della colonna del mondo con cui le altre civiltà rappresentano la persona del re e del sacerdote. Citiamo, a questo riguardo, gli esemplari così espressivi pur nella loro semplicità, che ci offrono i popoli dell’Asia centrale e settentrionale e che a noi sono molto noti grazie ai lavori di Uno Harva. Egli riporta che l’asta di legno che per essi simboleggia l’asse cosmico è talvolta sormontata da un piccolo ripiano quadrangolare a forma di tetto; l’asta o il ripiano, recano spesso un uccello mitico, normalmente un’aquila considerata un uccello celeste; l’aquila è un simbolo universale dell’ascesa al cielo, della sovranità, del potere ricevuto o esercitato dall’alto o almeno da uno stadio superiore.

Asia centrale e settentrionale: Le colonne del mondo

In cima all’asse del mondo, allo scettro dei sovrani o alle aste delle bandiere, questo emblema diventa il simbolo del re del mondo o della divinità che troneggia nel polo celeste. Conviene sottolineare il carattere sacro di questo simbolismo. «Un’asta simile è oggetto di culto nel santuario a tenda dei Soioti delle steppe. Là, il bastone collocato in modo che la sua estremità superiore emerga dalla cima della tenda conica è abitualmente ornato… di pezzetti di stoffa che sono più spesso bleu, gialli, bianchi, i colori dei punti cardinali. Il bastone stesso è considerato sacro, quasi come un dio. Ai suoi piedi si eleva un altare rudimentale in pietre sovrapposte». In tal modo si avvia l’assimilazione del capo del re, al prete che fa tutt’uno con l’altare e il santuario e infine il mediatore in cui si rende presente la divinità.

La Corona è sempre stara espressione di un simbolismo cosmico. Quella di Carlomagno è tradizionale e caratteristica: di forma circolare, marcata ai quattro punti cardinali da quattro piccoli archi come l’imago mundi, le carte mitiche, le rappresentazioni più stringate delle città sante, lo schema cosmico della nuova Gerusalemme. Corona e scettro sono due simboli complementari che collocano il re in rapporto a tutto ciò che lo circonda; il riferimento cosmico appare chiaramente in un legno inciso del sec. XVI, che riassume perfettamente il simbolismo assiale del re mediatore: in piedi al centro del cerchio cosmico (con le quattro grosse gemme della corona che segnano i punti cardinali). Corona e scettro sono gli emblemi del sovrano in se stesso, mentre il globo rimanda al regno governare da questo sovrano.

Incisione su legno del XVI secolo: Scettro e corona

Il Globo è un simbolo di totalità: esso implica un’affermazione di sovranità universale da parte di colui che lo tiene in mano; ciò non significa sovranità sul mondo intero ma sovranità sul regno; di contro, non bisogna dimenticare che l’idea di regno ha sempre conservato qualcosa della nozione primitiva che lo eguagliava alla totalità del reale umanizzato. Il regno, l’impero, tanto in Occidente, quanto in Oriente – la Cina ha magistralmente sviluppato questo simbolismo geografico – sono costituiti da quattro parti al centro delle quali si colloca il monarca che ne assicura la totale coesione. Egli lo tiene in mano, tuttavia lo riceve anche dai suoi sudditi che collaborano alla stabilità permanente e che gliene fanno omaggio come al rappresentante di Dio sulla terra. Questo doppio movimento ha dato origine in Cina ad un grandioso cerimoniale; più discretamente la concezione occidentale si trova riassunta in una miniatura ottoniana che mostra le quattro parti dell’Europa che vengono ad offrire in omaggio il loro globo ad Ottone II (1002), il figlio di Ottone il Grande; attraverso la sua persona l’omaggio raggiunge il papa che incorona gli imperatori, e al quale questi si sentono uniti nel governo del mondo: Ottone in risiede frequentemente a Roma; l’imperatore coronato regge il globo con la croce e il bastone del comando.

Chantilly, Museo Condé –
Registrum Gregorii: L’imperatore Ottone II riceve in omaggio le quattro parti dell’Impero

Il Costume è talvolta anch’esso fortemente evocativo, soprattutto presso i popoli che sottolineano con vigore l’idea del sovrano assiale. Questa nozione di asse è correlativa a quella degli altri due o tre fori che mettono in comunicazione i diversi piani del mondo. I popoli dell’Altai parlano di un foro per il fumo della terra; da ciò deriva l’immagine del mondo delle antiche popolazioni civilizzate dell’Asia e dell’Asia Minore, per le quali gli inferi sono accessibili da un’apertura che sbocca nell’ombelico della terra: essa è in corrispondenza diretta con l’apertura situata in mezzo al cielo. L’apertura è dunque essenziale a questa simbologia quanto l’asse che ad essa conduce, ed è perché appartiene alla simbologia del re del mondo, del sacerdote o del pellegrino dell’aldilà. Lo sciamano iakuta porta nella schiena una placca di ferro rotonda forata nel centro.

In Cina, l’imperatore indossava una veste rotonda in alto come la pi e quadrata alla base come il ts’ong: la sua persona costituiva la scala della vita che ricongiungeva le due aperture. Non meno interessante la grande casula circolare in un solo pezzo aperta nel centro per far passare la testa: il prete che la indossa si trova ritualmente collocato al centro dell’universo, identificato nell’asse del mondo, essendo la cappa la tenda celeste e trovandosi la testa nell’aldilà, dove si trova Dio, di cui il sacerdote è il rappresentante in terra.

Casula circolare

La cappa detta di Carlomagno a Metz, è ornata d’aquile che convergono verso l’apertura centrale, il che ben sottolinea il loro simbolismo ascensionale e celeste.

Metz – Cappa di Carlomagno

Tale schema viene necessariamente replicato nell’architettura (processo di incastro); pensiamo, per esempio, alla cupola absidale della chiesa di Notre-Dame du Thor, in Provenza, ornata d’aquile in volo che circondano alla chiave di volta l’Agnello di Dio in posizione.

Le Thor, Notre-Dame-du-Lac – Catino absidale

Il Trono non si presenta più come emblema, ma come mobile che «contiene» il sovrano e che costituisce un secondo livello simbolico.

In India l’incastro successivo dei microcosmi che costituiscono il sovrano, il trono su cui siede e il tempio al centro del quale questo trono è collocato, risulta particolarmente illuminante. Colui che siede sul trono è anch’egli una riduzione dell’universo, l’Embrione d’Oro collocato nella Matrice del Mondo. A questo proposito, sono significativi numerosi tipi di trono: il celebre Trono-di-Diamante (Vajrasana) sul quale, a Bodh-Gayā, il Budda Sakyamuni ricevette l’Illuminazione; quelli messi in relazione con la colonna-perno del mondo (illustrati in particolare a Amaravati, II-IV secolo circa); quelli di Pegou e di Mandalay (Birmania) ancora più espliciti, che rappresentano, attraverso una particolare iconografia, il mondo degli dei sostenuto dal monte Meru. Seduto nel centro del cosmo, il re che lo occupa ne è il maestro e il rappresentante; il possesso è assicurato dal profitto di coloro sui quali governa quaggiù. Ciò spiega la grandissima importanza accordata alla fabbricazione del trono reale e alla sua decorazione simbolica che riassume le componenti del cosmo; ciò, inoltre, motiva le severe proibizioni di sedersi sul trono reale senza averne diritto (cioè senza essersi predestinati), o rende ragione della onnipotenza universale di chi vi si siede. Infatti, simbolo minore del Mondo, il Trono nella tradizione indiana fa il re. Le tre colossali sedie di pietra scolpita di Siva, Brama e Visnù di Besaki (Bali), rappresentano dei troni-altari posti sulla cima di torri simboleggianti l’asse cosmico e il Meru: ciascuna torre s’innalza su un’enorme Tartaruga del Mondo.

Le civiltà più disparate testimoniano diffusamente le stesse fondamentali concezioni. Il valore rappresentativo del trono è così forte che costituisce di per sé un simbolo della presenza di colui che ha il diritto di sedervisi. Vuoto, esprime il carattere trascendente – o sperato – di questa presenza. Il tema iconografico del trono vuoto di Cristo, o etimasia, era un modo di assicurargli una presidenza invisibile, (per esempio in occasione dei Concili) e anche d’anticipare l’ora in cui ritornerà per il giudizio, alla fine dei tempi.

Il trono vuoto e l’albero della conoscenza, simboli di Buddha

Il trono è sopraelevato: è una realtà eminente come la montagna cosmica o l’asse del mondo.

Papiro di Hunefer: Osiride in trono

La figura rappresenta Osiride (Dio della vita nell’aldilà) seduto su un trono; quest’ultimo è collocato sulle acque della ricreazione (rappresentate da piccole linee spezzate) da cui emerge, davanti ad esso, un fiore di loto sbocciato; dal fiore escono i quattro figli di Horo che sono gli dèi dei quattro punti cardinali del nuovo cosmo d’oltretomba. Nella stessa prospettiva tradizionale, gli autori cristiani dei primi secoli hanno visto senza difficoltà nella croce piantata sul Calvario il trono cosmico, dall’alto del quale il Salvatore crea il mondo nuovo accogliendolo nel suo mistero: «Quando sarò elevato da terra (cioè sulla croce considerata come la prima tappa o lo strumento della sua esaltazione celeste), io attirerò tutti a me» ha detto Gesù.

Non occorre soffermarsi sui troni che si riconducono essenzialmente al sedile cubico (terra) sormontato da un arco di cerchio che si sviluppa in aureola (cielo). Un secondo tipo, invece, merita di essere considerato a lungo; innanzi tutto, perché meno conosciuto, nonostante sia piuttosto diffuso, e poi perché ci consente di cogliere come un simbolo fondamentale possa essere incredibilmente ricco di significati senza tuttavia alterarsi sensibilmente. Questo secondo tipo di trono è innanzi tutto un simbolo del dio dell’universo o del re del mondo. La sua struttura è quella dell’asse cosmico circondato dai quattro punti cardinali, cioè quella della più tradizionale imago mundi, che abbiamo già rintracciato, per esempio, nelle civiltà dell’Asia orientale (in particolare nei templi assiali indù) e ritrovato tanto alle latitudini tropicali quanto a quelle equatoriali. Leo Frobenius cita un certo numero di esempi che ha personalmente rilevato nell’Africa nera e che sono considerati già molto più che simboli dell’universo. Tale, nel paese di Joruba, quell’area consacrata al dio Edschou, dove si trovavano cinque coni di argilla con al centro il più grande sormontato da una coppa e attorno i quattro più piccoli, il tutto circondato da un canaletto. Vi sono migliaia di santuari dedicati ad Edschou; la maggior parte consiste semplicemente in una massa di argilla, ma eccezionalmente si trovano anche degli esemplari perfetti, come quello di Gbaga, che comprende non solo il cono di Edschou, ma anche delle quattro divinità locali dei quattro punti cardinali e dei giorni della settimana. Edschou è il dio dell’ordine, dell’immagine del mondo. Il cono di Edschou è il monte del mondo.

Nigeria, Gbaba – Area consacrata al dio Edschou degli Joruba

Osserviamo la coppa in cima al monte-asse; essa è il simbolo delle benefiche relazioni cielo-terra, rappresenta il ricettacolo delle elargizioni divine e la disponibilità all’accoglienza dei fedeli (cfr. il calice eucaristico ai piedi della croce, il Graal…), ed è anche ciò che rappresenta simbolicamente la divinità, o la sua sede: al sommo dell’asse cosmico, essa coincide con il polo dell’asse celeste dove egli troneggia. Questo concetto è spesso sviluppato fino a concepire l’immagine cosmica intera come il trono gigantesco della divinità.

Il Baldacchino reale e il parasole da cerimonia o divino meritano una menzione a parte. Ne abbiamo già parlato spesso. Essi compaiono in numerosi protocolli. In Cina, l’universo ha per simbolo tanto la casa del capo quanto il carro cosmico. Questo carro è costituito da un cassone cubico in cui prende posto l’Uomo-Unico, il Figlio del Cielo; un palo centrale, replica dell’Albero della vita e dell’Albero centrale, Kien Mou (legno elevato) per mezzo dei quale i sovrani salgono e scendono, sorregge un grande baldacchino circolare che rappresenta il cielo; esso risponde ad una geometria simbolica precisa che ne determina con rigore i tre elementi: la parte centrale, piatta, i due bordi curvi, il contorno. Il parasole da cerimonia ne costituisce la replica portatile. È un emblema, tanto che, come il trono, esso talvolta sostituisce il sovrano o la divinità quando si voglia evitare di rappresentarli di persona.

Bassorilievo: La partenza del principe Siddharta, che diverrà il Buddha

Un affresco dell’oratorio di S. Silvestro a Roma (sec. XIII) mostra Costantino che offre una tiara conica al Papa Silvestro mentre un personaggio del suo seguito agita il parasole da cerimonia e un altro stringe al petto la corona quadripartita che l’imperatore ha deposto per l’occasione: questi tre simboli appartengono allo stessoordine simbolico. (Rinunciando alla tiara, Paolo vi ha inteso eliminare ogni equivoco di dominio temporale che essa conservava fin dalle sue origini). Dietro il Papa, l’alta croce costituisce la replica dello scettroche teneva Carlo Magno e il simbolo dell’autorità religiosa.

Roma, San Silvestro – Oratorio, Affresco: Costantino offre la tiara al papa Silvestro

La miniatura carolingia che rappresenta Carlo il Calvo sul suo trono (IX secolo) costituisce una piccola sintesi di quanto abbiamo appena detto.

Parigi, Biblioteca Nazionale – Bibbia di Viviano: Carlo il calvo sul trono

Si noti l’incastro: uomo, corona e scettro, trono con predella e schienale; la scena appare in un’arcata formata da un arco di cerchio su due pilastri; il velo che pende simboleggia il firmamento; al di sopra, si stende dunque il cielo. In alto alcuni personaggi si protendono verso il monarca reggendo delle corone per dimostrare che il potere è dato da Dio; la mano divina esce da una nuvola, in verticale e designa il luogotenente di Dio sulla terra, il suo rappresentante, come spesso si rileva nei battesimi di Cristo o nelle Crocifissioni; due lampade da santuario pendono da entrambe le parti per sottolineare la presenza divina. Il fiore di lis sopra l’arcata corrisponde a quello sopra l’arcata del trono: entrambi determinano la verticale che è l’asse della rappresentazione e colloca il monarca al centro del mondo con i suoi dignitari in cerchio attorno a lui come rappresentanti di tutto il popolo.

Cerimoniali e riti esprimono a loro modo lo stesso principio. Nel mondo gallo-germanico, l’antico uso di proclamare un capo elevandolo sul trono costituiva un rito evidente del simbolismo teocratico. Come nella Croce di Saint-Omer, la forma bombata dello scudo – trasformazione occidentale della tartaruga orientale e dei tamburi sciamani – rappresentava il cielo. Innalzare nel suo centro il capo, il bren,significava collocarlo nella posizione di rappresentanza di Dio che troneggia nel cielo. L’idea rimase nei tempi successivi, per esempio fu ripresa dallo scultore Lemoyne in un progetto di monumento dedicato a Luigi XV, in cui il sovrano compare in piedi su un trono elevato da numerosi uomini. Una tradizione che ha dei paralleli nell’antico Egitto, in Cina e in molti altri paesi o civiltà si è perpetuata nel rituale dei re di Ungheria: l’ultima cerimonia consisteva nella salita a cavallo del monarca su un poggio emisferico formato dalla terra portata da tutte le province del regno. Quando il monarca aveva raggiunto la cima di questo luogo simbolico, dava un colpo di spada – in Egitto tirava quattro frecce – verso i quattro orizzonti, per indicare il suo comando sui quattro punti cardinali.

Nell’iconografia cristiana, la funzione di rappresentanza del sovrano rispetto a Dio era vigorosamente sottolineata affinché nessuno l’ignorasse. Ci si compiaceva d’illustrarla chiaramente, come in una miniatura del Salterio d’Egberto (sec. X). Gesù è sul trono: egli stesso incorona Costantino e sua moglie prima di cedere loro il posto; la scena si svolge in un quadro celeste: cherubini e serafini sostengono il trono sopra il quale stanno i quattro Viventi dell’Apocalisse. Così si assicura la continuità del potere terreno con quello celeste e tale continuità è di ordine teologico: essa sarà perfetta quando Cristo in persona si presenterà come sovrano dell’universo, troneggiando su di esso.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo    
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine381-402 

Alexander Neckam, De naturis rerum – Presentazione

Sezione: Studi


Alexander Neckam o Alexander de Sancto Albano, erudito e scienziato inglese vissuto tra il 1157 ed il 1217, può considerarsi uno degli autori più fecondi del Medioevo: scrisse di liturgia e di scolastica, di grammatica e di storia biblica, compose fabulae e trattò di virtù morali come della nomenclatura di strumenti di ogni genere. Tuttavia la sua opera capitale, che lo rese celebre presso i contemporanei e i posteri, fu senz’altro il De naturis rerum, un grande compendio scientifico in prosa.

Innanzi tutto merita attenzione il singolare richiamo che un testo di questo genere porta con sé, ossia l’invito a guardare e pensare l’universo come un meraviglioso tappeto tramato di innumerevoli nomi e figure simbolici, secondo un ordine che coniuga mistero e bellezza, vanità mortale e arcani misticismi, creature ordinarie con monstra e mirabilia. Le cose tutte, dalle stelle ai colori, dalle pietre ai sogni, agli stessi avvenimenti storici o mitici, divengono qui cifre di qualcos’altro, una sorta di poliedrico lessico rischiarato da una mirabile unità: omnia in unum tendunt scrive Agostino nel De ordine. È un mare di creature che, nel rispetto e nei limiti della gerarchia delle cose, pensata neoplatonicamente, costituisce il concento del Creatore e il veicolo attraverso cui l’uomo, aurea medietà tra Dio e i regni naturali, può conoscere se stesso e il senso di ogni cosa nella mirabile cornice redentiva del messaggio cristiano: per visibilia ad invisibilia.

L’uomo medievale si sente il colpevole epigono di Adamo nel perduto Paradiso: come questo dava allora i nomi alle creature, quello, ormai allontanato dal Giardino, prova ora a ritrovarli, perché ne ha dimenticati i suoni e la pronuncia, ignora il senso delle parole e delle immagini edeniche, e le cerca in un pellegrinaggio altrove che coinvolge l’anima e il corpo.

Una volta Adamo conosceva il linguaggio divino, dove il nome e la cosa nominata coincidono sostanzialmente, adesso la sua errante progenie tenta di imitarlo, in ben minor grado e con ben più fatica. Qui, come vuole il dettato paolino, il senso delle cose (dei verba e delle imagines), della creazione e del divino, si può cogliere soltanto “per speculum in aenigmate”, e non più direttamente, “faccia a faccia”.

Ne consegue che, per l’uomo decaduto, l’unica possibile via per accedere alla Sapienza sia quella di una lettura simbolica del fenomeno mondano: tale da trasmutare gli “oscuri riflessi”, che ci appaiono dinanzi, in signa dell’invisibile. L’imperfezione diviene pertanto un umile gradino sulla strada della perfezione, ed il signum o symbolum può coniugare il caduco all’eterno. Così quest’uomo crede di imitare – analogicamente s’intende – la sapiente parola del primo Adamo, il suo colloquio con la natura divina delle cose, come può immaginare di volare di nuovo su quel mare di creature fino ai più alti cieli. In quest’ottica sta la genesi dell’enciclopedismo medievale. Ma non solo. Infatti l’uomo medievale si sente anche l’erede ed il continuatore della cultura antica, dell’idea di una classificazione dello scibile umano secondo dati cosmologici, cronologici ed etimologici, ovvero di una catalogazione della totalità di conoscenze relative ad un determinato campo. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo enciclopedia, termine ignoto al Medioevo e che inizierà a circolare in Europa soltanto agli inizi del XVI secolo. Le Antiquitates di Varrone (116-27 a.C.), oggi perdute ma note ad Agostino, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79), il De lingua latina ancora di Varrone, sono i modelli classici di una simile concezione. È Agostino (354-430) a sottolineare, nel De doctrina Christiana, quanto sarebbe opportuno riunire tutte le conoscenze per interpretare le Scritture: e qui sta il nodo della questione, cioè nella interpretazione e ripresa che il cristianesimo dette del concetto di “enciclopedia” proprio del mondo antico. Difatti mentre nelle opere degli autori classici l’intento è prevalentemente scientifico e documentale, si guarda cioè alla storia del mondo e dei suoi fenomeni rispettandone sia la complessità che le contraddizioni e la molteplicità delle opinioni (naturalistiche, filosofiche, etimologiche o altro che siano), con l’avvento del Cristianesimo tutto ciò si restringe, l’angolo di visuale viene ridotto ad un monocolo: la verità è la dottrina cristiana e ad essa tutto va rapportato e commisurato. Si afferma così, in tempi e modi diversi, con toni più o meno accentuati, quel fenomeno della moralizzazione cristiana del sapere che impregnerà l’intera produzione “enciclopedica” medievale.

Si tratta di un oscillante connubio tra fede e scienza, tra curiositas e accettazione passiva di nozioni bibliche e patristiche, che trova, a seconda di questo o quell’autore, soluzioni discontinue. Tuttavia costante e prevalente rimane per tutti l’intento pedagogico ed evangelico: lo scopo dell’“enciclopedista” o compilatore medievale è soprattutto quello di edificare spiritualmente il lettore, relegando in secondo piano, e talvolta ignorandolo, quell’intento storico-critico ed ermeneutico, alieno da pregiudizi, comune a un Varrone o ad un Plinio il Vecchio. Il fine infatti è di accostare il fedele ad una giusta condotta morale secondo gli insegnamenti cristiani, di favorirne la conoscenza del mondo così come l’ha creato Dio e l’hanno spiegato le Sacre Scritture. Allora nelle pagine degli “enciclopedisti” è comune trovare, accanto a dati scientifici, talvolta di grande interesse, ‘autorevoli’ affermazioni che ‘moralizzano’ cristianamente tali dati, secondo un meccanismo analogico che ne garantisce la veridicità in maniera apodittica. Alcuni esempi: l’astro lunare allude alla Chiesa, perché esso è illuminato dal sole proprio come la Chiesa lo è dal Cristo; la balena “è il pesce che ricevette Giona nel ventre suo”; le candide perle significano la dottrina evangelica o la speranza del regno dei cieli; lo stagno è allegoria del discorso sofistico e della simulazione degli eretici, mentre il ferro della tribolazione e della sofferenza; lo smeraldo reprime la lussuria e protegge dalle illusioni diaboliche.

Dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) al De rerum natura di Beda (673-753), dal De universo di Rabano Mauro (784-856) all’opera di Neckam o al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, composto verso il 1250, fino all’immensa compilazione, lo Speculum mundi, di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), o a Li Livres dou Tresor di Brunetto Latini (1240-1294), il significato delle parole e delle immagini, del tempo e dello spazio verranno trasmessi, mutatis mutandis, sotto l’egida dei dottori cristiani e delle Scritture, in un orizzonte sempre e comunque cristocentrico.

Esemplare testimonianza sono alcune parole del dottissimo Isidoro di Siviglia, il capostipite di questa tradizione, a proposito del suo De natura rerum. Si legge nella dedica: “Quae omnia secundum id quod a veteribus viris ac maxime sicut in litteris catholicorum virorum scripta sunt, proferentes brevi tabella notamus. Neque enim earum rerum naturam noscere superstitiosae scientiae est, si tantum sana sobriaque doctrina considerentur” (“Esponendo tutte queste cose secondo quanto è stato scritto dagli antichi e massimamente come ne hanno trattato gli autori cattolici, ci siamo comportati con grande concisione. Infatti la conoscenza di questi fenomeni naturali non è propria di una scienza superstiziosa, se soltanto vengano esaminati con dottrina incorrotta e giudiziosa”). La non velata distinzione tra autori pagani e quelli cattolici, come il parallelismo tra superstizione e dottrina incorrotta riflette in breve il tema della moralizzazione di cui sopra. Non a caso il De natura rerum è una compilazione musiva di notizie cosmografiche e meteorologiche, inerenti gli anni, la notte e il giorno, le stagioni, la corsa dei pianeti, le stelle, lo zodiaco, i venti, i mari, i fiumi, il fulmine, e così via. Ebbene nel testo, seppure non manchino prelievi, non sempre diretti, da autori come Quintiliano, Marziano Capella, Servio, Igino, Lucano, Lucrezio, Solino o Virgilio, le auctoritates vere e proprie che garantiscono le sue parole, di scienziato e di credente, sono soprattutto Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e Cassiodoro, oltre ovviamente ai Vangeli e all’ Antico Testamento.

Non molto diversamente, circa due secoli dopo, Rabano, altro magister di questa vision du monde, comporrà con il suo De universo una vasta glossa allegorica o mistica alle Etymologiae dello stesso Isidoro. Analogamente, circa cinque secoli dopo, Neckam coniugherà scienza e allegorismo morale, fantasiose etimologie e simbolismi edificanti, avvertendo che la sua opera vuole soprattutto innalzare lo spirito del lettore a Dio attraverso Cristo, citando ancora come indiscutibili autorità i Padri della Chiesa e la verità biblica, senza per altro dimenticare Virgilio, considerato un negromante, Ovidio, Claudiano e altri “antichi”.

Di notevole interesse, per l’intelligenza del pensiero “enciclopedico” medievale, è lo studio dell’organizzazione interna di questi trattati, che non è alfabetica né cronologica tout court, bensì segue di solito una divisione gerarchica o tematica delle cose naturali o artificiali, della storia sacra o di quella profana, delle virtù e dei vizi. In particolare nell’età d’oro dell’“enciclopedismo”, cioè tra il XII ed il XIII secolo, questo tipo di struttura interna risente dello schematismo gerarchico dionisiano. Infatti, la fortunata opera di Dionigi Areopagita, approdata in Europa nel IX secolo con la traduzione dello Scoto Eriugena, propone un modello gerarchico, di conio neoplatonico, per cui l’universo intero è realmente una scala, una catena di creature tra loro interconnesse e disposte gerarchicamente. A partire dall’alto il risultato della causalità divina ha prodotto angeli, uomini, animali, piante ed esseri inanimati. Al di sopra di tutti stanno i nomi divini, che giustificano ontologicamente quella stessa trama gerarchica e costituiscono il vero oggetto di conoscenza per l’uomo. L’artificio dionisiano viene esplicitamente preso come guida tematica da Bartolomeo Anglico per il suo De proprietatibus rerum e Tommaso di Cantimpré, nel Liber de natura rerum composto verso il 1240, suddivide l’opera parlando prima dell’uomo poi degli animali (seguendo naturalmente una processualità che va dai quadrupedi fino ai vermi), successivamente delle piante e infine al mondo minerale.

Un simile tessuto di nozioni se da un lato trova il fondamento della storia e della natura nei fatti biblici e nella parola di Dio, dall’altro individua, come si diceva sopra, nel linguaggio allegorico o simbolico lo strumento più adatto per decifrare e descrivere quella storia e quella natura. La ragione di ciò ha il suo crogiuolo concettuale nella convinzione dei maggiori Padri della Chiesa, da Girolamo a Gregorio, da Origene ad Agostino (ma fondante è Paolo nella Lettera ai Galati, IV,24: “Queste cose sono dette in senso allegorico”), che la Scrittura, “creata” da Dio come il mondo, in quanto rivelazione dell’unico Altissimo e Verbum Redemptionis, costituisca una “infinita sensuum silva”, contenga allegoricamente un oceano di significati e di misteri, la cui profondità benché indecifrabile va scandagliata e meditata dal credente. Infatti interpretare le allegorie ed i simboli delle Scritture permette di decrittare appunto la “scrittura” di Dio e dunque la sua volontà. Similmente spiegarne il senso morale permette di esaltare quei parametri virtuosi che edificano la fede, così come accogliendone il messaggio profetico ed escatologico si risolve il senso della storia e della salvezza.

Il libro della “natura delle cose” si dispiega e scorre dinanzi agli occhi di Neckam e degli altri compilatori enciclopedici allo stesso modo in cui si leggono le pagine della Bibbia: l’analogica e l’allegorica li coniugano, il simbolismo misterico li salda. Ne nasce quello straordinario e mirabolante vocabolario di nuove combinazioni iconologiche, di sincretismi figurativi e verbali, di azzardate e talvolta sconclusionate etimologie, che forse costituisce ancora oggi uno dei contributi più affascinanti del Medioevo. Epoca in cui il simbolo e il traslato non si sovrappongono alla realtà, ma l’accompagnano fino a fondersi con essa, fino all’invenzione di una vera e propria realtà fantastica, ma non fantasiosa.

Il trionfo di tanto “enciclopedico” linguaggio verrà poi concretato nell’arte dei chiostri, dei capitelli, sulle pareti o sui portali delle chiese, nelle miniature e sulle stoffe: ovunque i bestiari e i florari, la Biblia pauperum o il cielo e gli elementi verranno materiati da scalpellini, muratori, pittori e tessitori. Le sillabe e le parole scritte nel libro di Neckam, come quelle che corrono nelle altre opere consimili, si trasferiscono così nell’arte e una chiesa istoriata diviene un libro, le cui pagine sono le pareti e le superfici dei più svariati membri architettonici. Un simile insegnamento per figure permette al fedele di guardare e contemplare la scala della “natura delle cose”, e di incamminarsi, viandante, sul monte sofianico dell’universo: ne può ammirare l’ordine, la misura, la musicale gerarchia. In questo il Medio Evo appare il degno e nobile erede delle fabulae e dell’harmonia di una più antica e arcana sapienza, che spetterà poi al Rinascimento, come ai secoli successivi, riconoscere, studiare e ricollocare degnamente nella storia e nel mito precristiani, quando Thoth e Orfeo, Prometeo e Atena, Aglaofamo e Pitagora educavano gli uomini sulla secreta “natura delle cose”.

AutoreMino Gabriele
PubblicazioneAlexander Neckam: De naturis rerum libri duo
CuratoreThomas Wright 
EditoreLa Finestra (Archivio medievale)
LuogoLavis (TN)
Anno2003 
PagineIII-XII

L’albero della croce

Sezione: Studi


La croce rende esplicito il mistero del centro. Essa è diffusione, emanazione, ma anche riunione, sintesi. È il più completo di tutti i simboli; nessun’altro quanto questo sa condensare nel più essenziale dei segni la più vasta delle sintesi. Forse è il simbolo più universale, infatti tutte le civiltà lo hanno compreso nel proprio patrimonio simbologico. La croce costituisce l’elemento fondamentale dello schema alla base delie immagini del mondo o del luogo sacro. È un simbolo spaziale e temporale e questa proprietà privilegiata lo rende adatto ad esprimere il mistero del cosmo animato.

Per questo essa si sovrappone sempre – in un modo o nell’altro, e con una sovrapposizione non tanto geometrica quanto immaginaria – al tempio cosmico che è la chiesa. La chiesa costituisce la sintesi liturgica dell’universo animato da Dio, dell’universo reso presente dalla epifania permanente delle strutture e dei cicli naturali. La chiesa è al centro del mondo, e l’uomo liturgico è al centro della chiesa. In essa e per essa, egli si orienta e con il suo orientarsi determina la direzione e il senso del mondo. Egli lo ricapitola e così lo dilata nell’espansione cruciforme. La croce del microcosmo-chiesa non è tanto quella costituita dal suo perimetro (la navata che si incrocia con i bracci del transetto, dal momento che questa forma può fare difetto) quanto quello della sua intima espansione nelle quattro direzioni dello spazio. È questa relazione psicologica, così imperativa nell’uomo, che gli conferisce misteriosamente la coestensione dei quattro orizzonti, dei quattro venti dello spazio. È ancora essa che inscrive nello spazio il cerchio delle stagioni, scandito dall’alternanza rituale dei solstizi e degli equinozi che sono i quattro punti cardinali del ciclo liturgico (Natale, Pasqua, San Giovanni, San Michele). È ancora essa che salda la croce cardinale terrestre sulla celeste e fonda il simbolismo dei loro rapporti. Questo rapporto è animazione, e la sua espressione più vivamente percepita dalla psiche umana è quella della rotazione della sfera del mondo attorno al suo asse polare; tale asse è perpendicolare al grande cerchio dell’orizzonte, del luogo sacro, e forma con una qualsiasi delle parallele al suolo una croce, questa volta drizzata verticalmente.

Queste due croci, croce orizzontale, d’orientamento cardinale, e croce verticale assiale, in realtà non sono che una sola croce: quella a tre dimensioni e a sei bracci che orna i campanili delle chiese orientali. In Occidente, essa assume la forma della girandola in cima ai campanili divisa alla base da una croce orizzontale orientata. Tale è la croce del mondo vivente, la croce che fa della chiesa il centro e la ripetizione del cosmo liturgico. Poiché essa è perfettamente coestensibile ai simboli del cosmo naturale non meno perfettamente misura il microcosmo che è la chiesa. In essa e per essa la vita e il movimento emanati dal polo celeste, simbolo di divinità, si trasmettono al centro sacro terrestre: all’altare, al santuario, alla chiesa, e raggiando da questo centro, a tutto l’universo.

La croce tridimensionale è la più perfetta immagine sacra del mondo. È il segno visibile della trinità nell’unità. Il sei caratterizza la creazione-emanazione; si ricordino l’opera di sei giorni e tutti i motivi sestuplici incontrati nel contesto della creazione, per esempio sui portali romanici ove si potrà incontrare sei volte la maschera della terra che vomita viticci tra cui giocano alcuni animali. Il settenario indica la conclusione e la pienezza (il settimo giorno) ottenuti quando si aggiunge al computo dei sei bracci il punto centrale da cui essi emanano o dove vengono riassorbiti nell’unità indifferenziata. Dio sta in questo centro: «Volgendo il suo sguardo verso queste sei estensioni come, verso un numero sempre uguale, egli conclude compiutamente il mondo; egli è l’inizio e la fine; in lui si compiono le sei fasi del tempo e da lui esse ricevono la loro indefinita estensione; là è il segreto del numero sette» (Clemente d’Alessandria).

La croce tridimensionale può essere rappresentata in modi assai differenti. Sulla superficie piana, la sua forma più semplice è la stella a sei bracci, più o meno regolari sia per la loro dimensione che per la disposizione; la verticale zenith-nadir appare spesso distinta dalla croce orizzontale e orientata da una freccia, una fiamma, un cerchio, un motivo qualsiasi. Si riconosce la forma nota del crisma , simbolo polivalente vecchio come il mondo, che la simbologia cristiana si è compiaciuta di utilizzare, dopo un semplice battesimo mentale che risultava sia dalla lettura della X e della P, le prime due lettere del nome di Cristo in greco, sia dall’incrocio di questa X con la I di Jesus. Il monogramma di Cristo diventava la formula simbolica della salvezza universale operata dalla croce di Gesù Cristo.

Crisma

Quest’ultima non appariva sul labaro di Costantino, mentre compariva il crisma; la conversione dell’imperatore consentì la sostituzione con mezzo secolo di ritardo: l’impero divenuto cristiano, abolendo il supplizio della croce, soppresse l’odiosa sensazione connessa allo strumento di tortura finché restò in uso; verso la fine del IV secolo il segno, spogliato di quel senso, diviene degno di rivestire la livrea di gloria sopra il segno delle ferite. La croce latina compare in seno al crisma stesso ma conserva in alto l’anello che ricorda la P e costringe a rilevare nell’incrocio l’antica X raddrizzata. All’inizio del V secolo l’anello sparisce, e nasce la nostra tradizionale croce cristiana. Il crisma viene usato ancora, anzi in quest’epoca raggiunge le sue espressioni più perfette e trae dalla croce latina l’alfa e l’omega che spesso e volentieri gli vengono associate per assicurargli una cristianizzazione aliena da ogni equivoco segnico: questo riferimento al Cristo dell’Apocalisse, Pantocratore e Maestro del tempo, conferisce al vecchio simbolo le dimensioni della Rivelazione. Il mosaico del battistero di Albenga (V-VI secolo) rappresenta a questo proposito un vero capolavoro. Tutta la simbologia dell’emanazione-espansione, dell’’exitus-reditus, che abbiamo osservato sul piano dei fenomeni naturali e che abbiamo visto sottesa alla presentazione, da parte di san Paolo e dei Padri della Chiesa, del mistero dell’amore di Cristo, è qui presente.

Albenga, Battistero: Mosaico: Crisma

Si noteranno il centro origine, i cerchi disposti in triplice risalto (allusione trinitaria), la croce tridimensionale dei crismi, gli alfa e omega, le dodici colombe che rendevano presente la Chiesa universale diffusa in tutto il mondo, occupando il quadrato terrestre segnato ai quattro angoli dalle quattro stelle.

Si giunge così alla simbologia del tracciato di consacrazione delle chiese che si riassume in un segno, e precisamente nel crisma inquadrato dall’alfa e dall’omega. Il crisma è il simbolo del tempio cristiano considerato nel suo dinamismo liturgico che mira a fare del mondo umanizzato il corpo consacrato del Pantocratore: «Il corpo di Cristo è la Chiesa» (san Paolo).

Simbolo dell’universo, simbolo della chiesa di pietra, la croce tridimensionale è ugualmente il simbolo dell’ultimo microcosmo della catena, l’uomo. La sagoma dell’uomo con le braccia aperte evoca spontaneamente quella della croce eretta; questo tracciato però è semplicemente uno schema incompleto; se infatti esso esprime a meraviglia l’orientazione verticale ed ascensionale dell’uomo come pure la sua lateralità destra e sinistra, non fa apparire la seconda dimensione della sua intima croce orizzontale: il davanti-dietro che privilegia l’incrocio laterale (ciò è ancor più chiaro nell’animale a quattro zampe che ha solo due dimensioni fondamentali: il davanti-dietro e la lateralità). La croce tridimensionale è la croce completa dell’uomo: essa struttura la sua spina dorsale che costituisce l’asse verticale dell’organismo. La simbologia dei microcosmi-macrocosmi si rivela perfettamente omogenea a tutti i livelli.

La croce completa del Cristo salvatore non è né panteista né semplicemente d’ordine naturale. La sua coestensione al mondo è opera dell’amore universale e ricreatore di Gesù. I simboli sensibili aprono alle realtà spirituali. «Radicati in questo amore voi riceverete la capacità di comprendere con tutti i santi ciò che è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, voi conoscerete l’amore di Cristo che va oltre ogni conoscenza ed entrerete per la vostra pienezza nella pienezza di Dio» (Lettera agli Efesini, cap. III). Vi si riconosce la simbologia storica diffusa al tempo dell’apostolo per designare la totalità dell’universo. Di comune accordo, i Padri della chiesa hanno interpretato questo testo leggendovi la croce cosmica di Cristo che invade l’universo per ricrearlo, quella croce che i Greci chiamavano «sèmeion ekpétaséôs», il segno dell’estensione. Il testo più classico dell’antichità cristiana a questo proposito è quello di sant’Ireneo: «Per obbedienza cui è stato fedele fino alla morte sul legno della croce, il Verbo ha espiato l’antica disobbedienza (quella dei nostri progenitori). E dal momento che Egli è il Verbo onnipotente la cui invisibile presenza è estesa in noi e riempie il mondo intero, la sua azione sul mondo continua ad esercitarsi in tutta la sua lunghezza, larghezza, altezza e profondità. Grazie al Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’opera redentrice e il Figlio di Dio, con la sua benedizione, ha posto il segno della croce su tutte le cose. Perché era giusto e necessario che colui che si è reso visibile conducesse tutte le cose visibili a partecipare alla croce, ed è così che sotto una forma sensibile la sua influenza si è fatta sentire nelle cose visibili stesse. Infatti è lui che illumina le altezze cioè i cieli, lui che penetra le profondità di quaggiù, lui che percorre la lunga distesa dall’Oriente all’Occidente, lui che congiunge lo spazio immenso da nord a sud richiamando gli uomini dispersi in tutti i luoghi alla conoscenza del Padre».

Il Cristo morendo inchiodato ad una traversa fissata ad un palo ne ha fatto il segno storico del compiersi del disegno divino.

Per il credente, la croce primaria è l’ultima nella storia: quella che fu piantata nella sera dei tempi sul Golgota, una croce silenziosa che con le sue braccia aperte esprime un amore grande come il mondo non aveva mai conosciuto. Un amore che ha trovato nello strumento del sacrificio il simbolo della sua grandezza. La passione di Cristo ha trasfigurato il segno della croce; ormai, al di là dell’antica immagine, è l’universale e misteriosa bontà del suo Signore che l’uomo redento percepisce e venera. Attraverso la comunione con il segno sacro, egli penetra nelle vertiginose profondità del disegno di Dio sul mondo, così come diceva san Paolo agli Efesini.

«Dalla croce su cui morì il Verbo creatore del mondo, il cristiano sposta lo sguardo verso il cielo stellato in cui si muove il cerchio di Elios e di Selene. Quindi, se egli si addentra nelle più profonde strutture del cosmo o penetra le leggi della costituzione del corpo umano, dappertutto – e fino nella forma dei più piccoli oggetti familiari – egli vede impresso il misterioso sigillo: la croce del suo Signore ha mutato radicalmente il mondo». Se egli considera la croce tridimensionale di san Paolo, essa è per lui «la legge della costruzione, lo schema fondamentale che Dio imprime ad ogni sua opera, quel Dio che segretamente, fin dalle origini, teneva gli occhi fissi sulla croce di suo Figlio» (H. Rahner). Certo, è proprio nel suo mistero «che sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, create da lui e per lui» (Lettera ai Colossesi, cap. I). Se egli scopre negli scritti di Platone che la grande X costituita dall’intersezione del cerchio dell’equatore con quello dell’eclittica disegna sulle nostre teste una croce piana che è il simbolo dell’anima del mondo, egli vede in ciò il grandioso annuncio della croce-in-cielo di Cristo.

San Cirillo di Gerusalemme spiega ai suoi catecumeni: «Dio ha steso le mani sulla croce per abbracciare le estremità dell’universo. Anche il monte Golgota è diventato il perno del mondo». Con Firmico Materno, il perno diventa l’asse dinamico che unisce cielo e terra: «Il legno della croce sostiene la volta celeste, e consolida le fondamenta della terra». E così pure mette in comunicazione i piani del mondo, costituitivi del luogo sacro. Andrea di Creta, riprendendo san Paolo, fa una litania della croce: «Riconciliazione del mondo, determinazione delle frontiere terrestri, altezza del cielo, profondità della terra, legame che unisce la creazione, lunghezza di tutte le cose visibili e larghezza dell’universo!».

«Il segno della croce apparirà nel cielo il giorno del Giudizio finale», canta l’inno della festa dell’Esaltazione della santa Croce nella liturgia latina.

La croce salda il ciclo del tempo del mondo, il grande cerchio creazionale: essa pone su tutte le cose il sigillo ultimo che le giudicherà secondo l’amore incarnato: «O croce piantata nella terra che rechi frutti in cielo! O nome della croce che racchiudi in te l’universo! Salute a te, o croce che tieni legato il cerchio del mondo! Salute, o croce che hai saputo dare alla tua sembianza informe una forma piena di senso profondo!» (Atti apocrifi di Andrea). Essa è il polo e il motore immobile di un mondo in movimento; stat crux dum volvitur orbis, la croce sta fissa mentre il mondo ruota: è il motto dei monaci.

L’uomo stesso trova nella croce l’espressione sintetica della sua intrinseca identità strutturale con il cosmo, con il vivente e con il cielo che lo chiama. Egli vi legge anche il segno della sua irriducibile originalità. «Fisicamente l’uomo non differisce in nulla dagli altri animali, fuorché per il fatto che egli è diritto (verticalizzazione-umanizzazione) e può stendere le mani» (Giustino). Inoltre, egli, anch’egli croce viva e attiva, croce eretta, può conservare e concludere il cerchio del mondo iscrivendosi all’interno del suo disegno, può ricreare in sé il mondo tracciando le fondamenta dei suoi santuari.

Solsona, Museo Diocesano – Affresco (proveniente da Pedret): L’uomo, centro del mondo

«La volta celeste non è forse anch’essa a forma di croce? E l’uomo che cammina, che alza le braccia, anch’egli descrive una croce… Per questo noi dobbiamo pregare con le braccia stese, al fine di esprimere fino nell’atteggiamento le sofferenze del Signore» (Massimo di Torino). Perché dopo tutto è sempre di Lui che si tratta. «Così tutto si riempie del mistero amato. Questo punto di vista è decisivo per la comprensione dell’arte cristiana. C’è un mistero nella piattezza e nella semplicità apparenti dei simboli della croce che si vedono dipinti o incisi rozzamente nelle catacombe, così come nella semplicità primitiva della posizione del cristiano in preghiera. L’uomo antico possiede ancora un senso assai vivo dell’opposizione, per così dire dialettica, tra l’insignificante gesto da nulla, o simbolo e il contenuto grandissimo che vi si nasconde». (Rahner). L’arte romanica risulta impregnata di questa sensazione che costituisce il fondamento dell’arte sacra. Essa ha conservato vivamente questa intuizione fondamentale che la forza dei simboli risiede in un contrasto paradossale tra l’inesprimibile realtà significata e l’irrilevanza del simbolo che ad essa conduce.

La croce è il grande segno cosmico; il segno dell’universo, il segno dell’uomo; il segno di Dio presente e agente in entrambi. È allo stesso modo un segno biblico, un segno storico, un segno personale: e di nuovo si verifica il contrasto incredibile tra questo insignificante simbolo con l’incommensurabile e adorabile ricchezza del mistero della Croce di Gesù Figlio di Dio che lo fa essere fra tutti i simboli il più evocativo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo 
Editore Jaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine369-374 

Figure semplici: la croce e il quadrato

Sezione: Studi


Due simboli fondamentali sono la croce e il quadrato. La loro correlazione è così stretta che diventa necessario studiarli insieme. Il pericolo maggiore, in questo frangente, è quello della logica. Il simbolismo non è logico; è piuttosto pulsione vitale, conoscenza istintiva; è un’esperienza della totalità del soggetto che nasce al dramma di se stesso per il gioco complesso e inafferrabile degli innumerevoli legami che tessono il suo divenire contemporaneamente a quello dell’universo cui appartiene e al quale attinge la materia di tutte le sue conoscenze.

Poiché, infine, si tratta sempre di nascere con, ponendo l’accento su questo con, piccola parola misteriosa alla quale converge tutto il mistero del simbolo. Cerchiamo di discernere il legame che intercorre tra il centro (o il cerchio) e la croce che conduce al quadrato. Il simbolo quadrangolare è determinato dai contatto della perfezione trascendente con la creazione contingente che ne deriva. Ciò s’impone con una determinazione esistenziale tutta particolare nell’ordine cosmico, al quale siamo continuamente ricondotti.

Poiché il beduino si lascia assorbire dalla sola stella Polare che tutto attrae, gli è impossibile privilegiare o distinguere un punto qualunque dei cerchi astrali disegnati sopra ai suoi occhi. Al contrario, da che li abbassa verso l’orizzonte per fissare lì la sua attenzione, da che abbandona la contemplazione di Lassù, del Trascendente, dell’Ultratemporale per volgersi al Basso, le costellazioni che interferiscono con questo orizzonte entrano nella storia: una storia che fa parte integrante con la sua stessa esistenza. Il celeste sopratemporale si unisce con il terreno per costituire il paesaggio nel quale si svolge la vita degli uomini: paesaggio mitico e sacro prima che cosmologico. Allora inizia il tempo numerato, scandito da quelle sveglie astrali, vere e proprie sincronie che fanno ingranare la vita terrena sul movimento celeste.

Grant Kalendier – Pastore che calcola il procedere della notte dal passaggio delle stelle sulla verticale della Polare

Questa rigorosa interdipendenza tra i due mondi celeste e terrestre costituisce uno dei fenomeni naturali più sbalorditivi. Ogni giorno il sorgere e il tramontare del sole, con l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del caldo e del freddo, condiziona profondamente la vita vegetale ed animale. Ma c’è di più. Il sole che ogni mattina compare in ‘quella direzione e che sparisce al contrario nella direzione opposta, che nel corso della giornata culmina a mezzogiorno, poi discende dalla parte opposta, descrive nello spazio abitato dall’uomo quattro direzioni primordiali che sono le quattro grandi strade attraverso le quali l’uomo stesso prende coscienza del suo dominio terreno. La prima consapevolezza del quaggiù-generato-dal-cielo si manifesta così sotto lo schema generale immaginario di questa quaternìtà; ricordiamo bene questo concetto. La ragione è che l’uomo è un animale essenzialmente orientato per struttura psichica, organica e scheletrica. C’è una faccia ventrale ed una dorsale, una lateralità destra e una sinistra. Esso non può compiere nulla senza riferire, almeno inconsciamente, la propria orientazione a quella del paesaggio cosmico in cui bisogna necessariamente inserirsi per essere se stessi ed agire. Di qui egli attingerà la pienezza dell’animalità sulla quale si fonderà la sua attività propriamente umana, cioè informata dallo spirito. La rivelazione del sole delle quattro direzioni rivela così l’uomo a se stesso e, insieme, alla distesa spaziale che con lui ed in lui entra nella realtà.

Si concepisce, allora, l’importanza del sole nella vita dell’umanità e si comprende come varie religioni abbiano potuto prenderlo per un vero dio. Tuttavia, occorre evitare accuratamente di esagerare l’importanza che riveste. Coloro che vivono costantemente in contatto con la natura sanno bene che a lato di questo prestigioso signore altri attori più discreti entrano in scena. Meno appariscenti, sono più ammantati di mistero. Gli spiriti più profondi vi discernono dei simboli rivelatori di misteri ancora più nascosti. Ricordiamo, fra gli altri esempi, l’importanza che riveste presso tante civiltà la luna, le cui fasi coincidono in maniera così strana con i cicli dei vegetali e con i ritmi della fecondità della donna.

Nondimeno, i pianeti appaiono svantaggiati dal carattere anacronistico della loro corsa paragonata al movimento fondamentale della volta celeste; e così si rifiuta loro l’attitudine a simboleggiare la trascendenza che l’uomo appassionatamente reclama. Dopo tutto è nel firmamento immutabile che egli deve cercare le coordinate ideali ed esemplari del suo orientamento terreno. Il sole si vede allora ridotto al ruolo ancora decisivo, ma non più definitivo, di cursore celeste: gigantesco faro luminoso che segna sulla carta della volta stellata gli spostamenti quotidiani e stagionali del divenire storico della nostra terra. La contemplazione concreta del firmamento ce l’ha mostrato: è lui, il sole, che per la circostanza delle sue levate e dei suoi tramonti davanti all’una o all’altra costellazione permette di distinguere sul cerchio della banda zodiacale le quattro costellazioni stagionali, dell’Acquario, del Toro, del Leone, dello Scorpione: è grazie al suo intermediario che il cerchio percepito nel cielo entra in rapporto con la croce d’orientamento terrestre. L’orientazione totale dell’uomo esige soprattutto un triplice accordo: l’orientazione del soggetto animale in rapporto a se stesso; l’orientazione spaziale in rapporto ai punti cardinali terrestri, l’orientazione temporale, infine, in rapporto ai punti cardinali celesti. L’orientazione spaziale si articola sull’asse est-ovest scandito dalla levata e dal tramonto del sole. L’orientazione temporale si articola sull’asse di rotazione del mondo, insieme sud-nord e basso-alto. L’incontro di questi due assi maggiori realizza la croce d’orientazione totale. La concordanza nell’uomo dei due orientamenti, animale e spaziale, fa sì che egli sia in rapporto con il mondo terrestre immanente; ecco il triplice accordo, animale, spaziale e temporale con il mondo soprannaturale trascendente per e attraverso il contingente.

Il ciclo quaternario conferisce al nostro mondo terreno il suo ritmo vitale fondamentale che è quello delle stagioni e per questo lo caratterizza. Il quaternario è apparso sulla banda di una figura circolare (cerchio zodiacale o orizzonte) da cui si è distinto per una sorta d’emanazione a partire dai quattro punti maggiori.

Schema del ciclo quaternario

Tale emanazione continuerà per ulteriori sotto-distinzioni, suddividendosi il quaternario in 8, 12, 16, ecc. realizzando così la rosa dei venti. Questo processo annuncia e realizza il passaggio dell’aldilà trascendente al quaggiù immanente.

Attraverso un passaggio simbolico che già riflette qualche cosa del mistero della creazione, si giunge, dunque, alla presa di coscienza simultanea di due direzioni vitali rettangolari e di quattro punti diametralmente opposti; ciò che si può evocare anche se piuttosto astrattamente, sulla carta, attraverso i simboli della croce o del quadrato che ne deriva.

Angkor – Tempio di Bakong

Questi due simboli correlativi della croce e del quadrato sono universalmente riconosciuti come simboli perfetti della terra.

Giada rituale cinese – Ts’ong (simbolo della terra)

Per terra intendiamo tutto ciò che si oppone al trascendente celeste; è opportuno che questo concetto venga sempre tenuto presente. La figura quadrata, e più precisamente la squadra che ne costituisce l’elemento fondamentale, materializza simbolicamente due direzioni spaziali: è il noto sistema delle coordinate cartesiane. Allo stesso modo simboleggia lo spazio che, del resto, è una dimensione propriamente terrena; il cielo gli è immediatamente rapportato come incommensurabile, aspaziale.

Quanto al cerchio, simboleggia il cielo nei suoi rapporti con la terra anche quando è considerato sotto il suo aspetto trascendente (significa allora il totalmente diverso dalla terra, ciò che implica ancora un riferimento negativo alla terra).

L’idea astratta della trascendenza metafisica non ha spazio nel simbolismo; l’intuizione concreta che se ne può avere ha senso solo all’interno del simbolismo negativo; ciò che è infinitamente differente dal terreno perché lo oltrepassa infinitamente. In pari contesto, il cerchio simboleggia l’attività del cielo, il suo inserimento dinamico nel cosmo, la causalità, l’esemplarità, il ruolo provvidente. Di qui, raggiunge i simboli della divinità protesa sulla creazione, di cui regola, produce e ordina la vita.

È interessante rilevare qui l’accordo dei simboli con il pensiero concettuale più alto: si conosce la forma sotto la quale Dante, al termine della sua ascensione, scopre le tre Persone divine: «nella profonda e chiara sussistenza dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza» (Paradiso, XXXIII). Dionigi l’Aeropagita (Nomi divini IV, 4; Gerarchia Celeste I, 1) vi aveva riconosciuto il simbolo dell’Amore divino. Su questo punto l’accordo delle più antiche tradizioni, dei grandi pensatori e della filosofia cristiana è significativo. Un secolo prima di Copernico, due secoli prima di Galileo (1564-1642) che doveva fare le spese della questione, quel tedesco di genio che fu Nicola Cusano (1401-1464), cardinale, teologo, filosofo e uomo di scienza, spostò la terra dal centro dell’universo. Cinque secoli prima del suo compatriota Albert Einstein (1879-1955), egli pose i principi della famosa teoria della relatività destinata a rivoluzionare la meccanica classica diventata insufficiente a dare ragione dei fenomeni atomici o astronomici. «Il mondo, spiegava Nicola, è come una ruota in una ruota, una sfera in una sfera». Di colpo si viene ad affondare tutta la costruzione tolemaica. Ora ecco la sua conclusione – come Platone o Aristotele egli non s’inganna sulle parole, testimone piuttosto di un’età che sta per finire, età in cui gli uomini sapevano tradurre le più alte scoperte scientifiche in un linguaggio simbolico che conferiva loro continuità su un diverso piano del sapere umano -: «Dunque, egli continua, i poli delle sfere coincidono con il centro che è Dio… Dio è circonferenza e centro, Lui che è dappertutto e in nessun luogo». Il tribunale che condannò Galileo per aver osato sostenere che la terra girava attorno al sole, idea non solo incompatibile con le affermazioni della Bibbia ma che per di più disprezzava i principi fondamentali della rappresentazione simbolica dell’epoca, non seppe o non volle accettare questo cambio di prospettiva. Sarebbe puerile scandalizzarsi dell’oscurantismo di allora e della mancanza di apertura ai risultati delle osservazioni scientifiche. Noi non possiamo immaginare la portata del rivoluzionamento di prospettiva che era richiesta agli uomini di quel periodo. Occorre, dunque, giudicare con cautela, considerando anche la difficoltà che noi stessi sperimentiamo nel cambiare opinione su questioni molto meno gravi. Comunque, siamo al punto in cui il male di cui oggi soffriamo comincia a manifestarsi prepotentemente: il tragico dilemma che sembra opporre la conoscenza scientifica alla conoscenza simbolica… Qui si rompe la grande tradizione che risale alle radici comuni dell’umanità, all’interno della quale ci accontenteremo di rilevare l’accordo di un cristiano e di un pagano, entrambi rappresentativi: sant’Ireneo e Platone.

Sant’Ireneo (secondo vescovo di Lione, morto nel 202), instancabile oppositore degli gnostici eretici, appare colpito dal fatto di poterli combattere con l’autorità di Platone: «Paragonato a questi uomini (gli eretici e Marcione), Platone risulta molto più religioso, egli che riconosce un Dio che è lo stesso, giusto e buono, che ha potere su tutte le cose; ed eccone le parole: “Dio, seguendo una antica tradizione, è l’inizio, la fine e il mezzo di tutte le cose che sono. Egli agisce in linea retta mentre per natura è circonferenza” (Leggi, 4) e dimostra che l’Autore e l’Artefice di questo universo è buono» (Adv. Haer., 136). Il cerchio, dunque, può simboleggiare la divinità considerata non solamente nella sua immutabilità ma anche nella bontà elargitrice quale origine, essenza e divenire ultimo di tutte le cose; la tradizione cristiana dirà come alfa e come omega. Il rapporto che esso ha con il mondo creato è invece espresso da simboli di linea retta: il lampo, la freccia, il raggio, la pioggia, la colonna, il campanile.

Il mondo generato riflette così nella sua struttura l’azione che l’ha prodotto. Rimane caratterizzato innanzitutto da figure formate da rette la cui prima associazione è la squadra, elemento di base del quadrato terrestre.

Così, il cerchio e il quadrato si uniscono spesso per costituire un complesso indistruttibile al di fuori del quale essi perdono il loro significato.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Questo è fondamentale. Insieme simboleggiano il cosmo, cioè il cielo e la terra, quell’universo di cui sant’Agostino ama sottolineare che trae il nome dal fatto che è uno, che forma un tutto inscindibile. Ma cerchio e quadrato rappresentano ugualmente il tempo e lo spazio nella loro inevitabile correlazione: il famoso continuum spazio-temporale, fondamento dell’antropologia di san Tommaso d’Aquino e di cui tanto si parla ai nostri giorni; una delle principali chiavi d’interpretazione degli edifici romanici in generale e dei loro timpani in particolare. A condizione tuttavia di mantenere chiara una gerarchia tra questi due elementi: lo spazio è subordinato al tempo davanti al quale deve costantemente cancellarsi dopo avervi condotto lo spirito. Non si vuol dire che bisognerebbe equiparare da una parte il cielo e il tempo e dall’altra la terra e lo spazio; una tale logica, estranea per natura alla simbologia, porterebbe a conclusioni per lo meno assurde.

Boher, Reliquiario – Borchia semisferica

Ciò che bisogna dire è che il rapporto della terra e del cielo è simbolicamente dello stesso tipo del rapporto spazio-temporale e quindi anche dell’immanente con il trascendente. Si ha, così, a che fare con due coppie che non bisogna scindere ma considerare sempre nella loro dualità complementare.

In tal modo, guardandoci da semplicistiche astrazioni, non bisognerà mai dimenticare che sul piano delle gerarchie immaginarie il quadrato appare in dipendenza del cerchio, nella sua aureola in espansione; esso segue non per una successione cronologica, ma nell’ordine delle ripercussioni simboliche. Il peggiore dei quadrati non è altro che un cerchio a quattro angoli, o a quattro facce, un cerchio ammaccato che si ricorda dell’antica perfezione. Si tratta dunque di tempo cristallizzato nell’attimo, di un riflesso dell’aldilà. La Gerusalemme celeste dell’Apocalisse sarà quadrata. In geometria la quadratura del cerchio è un non-senso; in simbologia diventa un’operazione fondamentale. La simbologia aggira il problema ricostruendo attorno al quadrato il suo originale cerchio circoscritto, trasfigurando così lo spazio fisso nella rotondità mobile del tempo. Le chiese sono quadrilateri all’interno dei quali i raggi luminosi ruotano per il corso della giornata, mentre esternamente, l’ombra segnata dal campanile traccia il cerchio del tempo celeste. I simboli consentono l’accesso ad ambiti preclusi al pensiero discorsivo. Non è sempre possibile esprimere la correlazione di natura che lega il cerchio al quadrato. Non si può mai eluderla, ancor meno combatterla. Cosa che risulterà ancor più chiara considerando in che modo l’immagine circolare sia connessa dinamicamente a quella quadrata. Il cerchio, questo punto ingrandito, possiede una superficie limitata, circoscritta, chiusa. Ha una frontiera; è un hortus conclusus, un giardino chiuso.

Libro delle ore del Duca di Berry – Paradiso

E ciò è esattamente quanto il quadrato ha in comune con esso. Dal momento che c’è un limite, è possibile che un osservatore vi si trovi all’interno. Questo riconduce al principio fondamentale secondo cui non esiste simbologia se non in rapporto ed a partire da un uomo all’interno chiamato centro. La simbologia non è affatto la geometria nonostante abbia alcuni punti in comune con essa. A questo osservatore, il quadrato si manifesta non già come la secca figura geometrica che comunemente si designa con quel nome, ma come un’estensione espansa in quattro direzioni a due a due opposte – estensione che null’altro è se non quella della propria struttura animale percettiva – o, ancora, come una divisione dello spazio in quattro settori.

Così, il quadrato evidenzia l’orientamento fisso o durevole mentre il cerchio non denuncia alcuna propria orientazione. Il quadrato è figura antidinamica fissata su quattro angoli; simboleggia la stasi o l’attimo prestabilito; implica un’idea di ristagno, di solidità, simbolo di stabilità nella perfezione: sarà il caso della Gerusalemme celeste. Il movimento agevole, invece, è circolare, rotondo. L’arresto, la stabilità s’associano con figure angolose e linee opposte e movimentate. Ciò che stimola nell’immaginazione il quarto simbolo fondamentale: la croce.

Quadrato e croce sono entrambi caratterizzati dalla quaterna che è un simbolo d’universalità spaziale e d’universalità creata: la loro cifra è il quattro. Sul piano della simbolica dei numeri, essendo la triade il simbolo della divinità e dei principi trascendenti dell’universo, l’aggiunta di un’unità rompe la perfezione e costituisce un numero simbolo del mondo materiale, il 4.

Dopo le epoche vicine alla preistoria, il 4 venne utilizzato per significare il solido, il tangibile, il sensibile. Ma il suo rapporto con la croce ne faceva, per altro, un simbolo incomparabile di pienezza, di universalità, un simbolo totalizzante. Da qui si comprende come natti i popoli abbiano considerato la terra come divisa in quattro settori. Il sanscrito, l’antico babilonése, il cinese, i testi dell’America precolombiana designano i capi e i re con il titolo di «Signore dei quattro mari», «Maestro delle quattro parti del mondo», «Maestro dei quattro soli». Gli stati sono stati spesso divisi in quattro province o in multipli di quattro. Le grandi religioni hanno ciascuna quattro libri sacri. «Nelle Indie, Brahma, l’Anima del mondo, il Padre, il più antico degli Dei, il regolatore degli elementi ha quattro teste e quattro facce corrispondenti ai quattro Veda, libri sacri dell’India che sono le quattro Rivelazioni corrispondenti alle quattro Bocche. È noto che Brahma inviò suo figlio nel mondo per diffondervi l’insegnamento dei quattro libri». (Loeffler-Delachaux). Vedremo la conseguenza che ne ha tratto a sua volta la simbolica biblica.

La cifra della croce, noi affermiamo, è il 4. Ma è ancor più il 5… La simbologia cinese ci ha aiutato a ritrovare questa paradossale verità. Ci ha esortato a non considerare mai i quattro angoli del quadrato o i quattro bracci della croce al di fuori del necessario rapporto con il centro della croce o col punto d’intersezione dei suoi bracci. Senza giocare sulle parole, si potrebbe dire senza fallo che questo quinto punto è il più importante della quaterna.

Ahenny – Croce celtica in pietra

Come il cerchio, il quadrato è una figura centrale. Ed ecco che il centro del quadrato coincide con il centro del cerchio; questo punto comune è il grande incontro del piano dell’immaginario. È il luogo favorevole di tutte le rotture di livello, di tutti i passaggi da un mondo all’altro: l’omphalos dei Greci, l’ombelico del mondo degli antichi, la scalinata rimale di tante religioni, la scala degli dei. Di lì si passa dal cielo alla terra e viceversa, per di lì spazio, tempo, eternità, entrano in comunicazione.

La croce è ancora quella figura che congiunge a due a due i punti diametralmente opposti comuni al cerchio ed al quadrato inscritto. Per tutte queste funzioni – quella del centro che si diffonde nelle quattro direzioni o quella della riduzione all’unità dei punti estremi delle due ortogonali -, la croce ha carattere di sintesi e di misura: in essa si riuniscono il cielo e la terra nella maniera più intima possibile.

Zurigo, Museo Nazionale – Smalto ad alveoli

In essa si confondono il tempo e lo spazio. Essa è il cordone ombelicale mai tagliato del cosmo legato al centro d’origine. Tra tutti ì simboli essa è il più universale, il più completo. È il simbolo dell’intermediario, del mediatore, di colui che è per natura eterna unità dell’universo e comunicazione tra terra e cielo e cielo e terra.

Quest’ultima proprietà appare ancora più netta nell’ordine dei volumi. I volumi non aggiungono nulla in fatto di nuovi valori simbolici alle figure piane che li generano: il simbolismo della sfera è lo stesso del cerchio; quello del cubo è lo stesso del quadrato. I volumi però, appaiono talvolta più espressivi; rendono meglio alcune proprietà meno evidenti e ne conferiscono un’esperienza più sviluppata. La percezione tridimensionale è strettamente inerente all’agire umano; l’immaginario si annette il suo potere di valorizzazione. Per questa ragione la totalità celeste-terrestre si esprime meravigliosamente nella coppia cubo-sfera. In architettura la ritroviamo sotto forma di quadrilatero sormontato dalla sfera. Quest’ultima è riconducibile ordinariamente alla mezza sfera come nei casi di cupole o al quarto di sfera come nei casi dei catini delle absidi. Tuttavia, in questo caso, come sempre, il simbolo è e resta quello della forma pura, della linea e non dell’oggetto materiale. L’immaginazione s’avvale del supporto che le si offre, per quanto imperfetto sia, a condizione che sia evocatore, per ricrearlo in sé perfetto. Essa è generatrice di forme ideali.

I simboli danno all’uomo il potere, unico, di rendere presente e tangibile, fin nei suoi segreti più riposti, il mondo che ci circonda. Per non contraddire questa verità dovremo avere la lealtà di non separare mai i simboli dal loro accoppiamento esistenziale; di non scinderli mai dall’atmosfera luminosa in seno della quale essi ci sono stati rivelati, per esempio, il grande, sacrale silenzio delle notti di fronte all’immensità del firmamento, maestoso, totale; di ritrovare sempre sotto le parole usate la linfa vivificante, al di là del simbolo, il simbolismo che ne deriva. In secondo luogo, bisognerà non inventare ma informarci. Cercare le costanti più certe per essere sicuri di cogliere le espressioni simboliche universali relative all’uomo in quanto tale.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano
Anno 1981
Pagine29-52

Figure semplici: il centro e il cerchio

Sezione: Studi


Il centro

Come una pietra gettata nel centro di uno stagno determina delle onde concentriche che trasmettono il movimento originale fino all’orizzonte del creato, così il centro è prima di tutto il Principio. La stella Polare fornisce l’espressione naturale più stupefacente di questo simbolismo.

Cerchio luminoso attorno alla Stella Polare

È noto che per gli antichi il cielo è un mare costituito da quelle che essi chiamano le acque superiori e che le cosmogenesi iniziano dall’elemento acqueo. La stella Polare manifesta il punto primordiale dell’oceano celeste di cui il mondo terrestre non è che una frangia estrema e l’ultima creata. Essa costituisce il centro principale a partire dal quale tutto prende origine, il punto indiviso, senza forma né dimensione, immagine perfetta della unità primigenia e finale nella quale ogni cosa trova inizio e conclusione; perché tutte le cose ritornano a colui che le ha create e non può affidare loro altro fine che la propria perfezione assoluta.

Albenga, Battistero – Mosaico: Crisma

Per irradiazione, questo punto principale determina tutti gli esseri come la cifra unitaria produce tutti i numeri. In questi casi c’è parallelismo tra il simbolismo geometrico e il simbolismo aritmetico; entrambi sono ugualmente adatti a tradurre i simbolismi cosmici della espansione creatrice; questa rivela uno degli aspetti essenziali del mistero divino. La stessa realtà può essere simboleggiata su piani differenti e spesso complementari al punto di vista dell’osservatore. Il punto centrale è l’Essere puro, l’Assoluto e il Trascendente. Esso è diffuso nello spazio-tempo che non è null’altro che l’irraggiarsi di questo Assoluto; senza tale riferimento naturale lo spazio-tempo non satebbe che privazione, vuoto del caos mitico.

Il cerchio

Il cerchio è il secondo simbolo fondamentale. Gli astri circumpolari ne disegnano continuamente la sacra figura nel cielo e più ancora nella psiche di quelli che l’osservano. Attorno alla stella fissa, il cerchio fisso di ogni stella appare come la prima manifestazione del Punto primordiale. Il cerchio, innanzi tutto, è un punto esteso, quindi partecipa della sua perfezione

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (particolare)

Così punto e cerchio hanno proprietà simboliche comuni: perfezione, omogeneità, assenza di distinzione o di divisione.

Se su questo non occorre insistere, non si ripeterà mai abbastanza che un tale simbolismo non ha alcun valore, fintanto che non ha costituito l’oggetto di un’autentica esperienza umana, ciò che non ha nulla a che vedere con un elenco di nozioni astratte.

Allora e solo allora ci si meraviglia dell’intensità del sacro che emana da tutte le forme circolari. Il cerchio può per di più simboleggiare non solo le perfezioni nascoste del Punto primordiale, ma i suoi effetti creati; detto in altro modo il mondo in quanto si distingue dal suo Principio. I cerchi concentrici rappresentano i gradi degli esseri, le gerarchie create che costituiscono la manifestazione universale dell’Essere Unico e Non-Manifesto. In tutto ciò il cerchio è considerato nella sua indivisa totalità.

Al contrario, se noi distinguiamo sulla circonferenza uno o più punti, siamo condotti verso il movimento circolare, quello così ben rivelato dagli astri che non sono altro che punti luminosi che ruotano in tondo.

Cardona – Cupola del transetto

Cardona – Cupola del transetto

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (vista dal basso)

Diversamente dagli altri movimenti (rettilineo, sinusoidale, disordinato) questo movimento è perfetto, immutabile, senza inizio né fine né variazioni; ciò che l’abilita a simboleggiare il tempo. Il tempo si definisce come una successione continua e invariabile di momenti tutti identici gli uni agli altri.

Nell’ordine delle strutture cosmiche, il cerchio simbolizzerà facilmente il cielo, di cui abbiamo rilevato che il movimento circolare e inalterabile è la caratteristica più espressiva.

Giada rituale cinese – Pi (simbolo del cielo)

Appare significativo che la parola latina caelum indichi insieme il cielo, il firmamento e la forma circolare. Cerchio, tempo e cielo comunicano attraverso il loro aspetto di perfezione che li ha fatti considerare rispettivamente come punto, eternità e trascendente, cioè tutt’altro dal mondo corruttibile terreno.

Secondo un altro punto di vista, il cerchio può rivestire delle valenze d’imperfezione; esso diventa la ruota; si pensi alla linea ondulata della sinusoide che instancabilmente sale e scende sempre avanzando. La rotazione della ruota genera i cicli, le riprese, il rinnovarsi. Ruota e linea ondulata si prestano ai simbolismi della creazione in atto. Ci troviamo, così, nell’ordine del divenire, del mutevole, del caduco, del creato, del dipendente. Gli archi intrecciati caratterizzano i cicli del tempo terreno.

Payerne – Capitello

Non è più l’eternità radiosa ma il tempo che trascorre inesorabilmente e che occorrerà considerare nella giusta prospettiva o addirittura esorcizzare per liberarsi dei condizionamenti terreni… Quanto al cielo, esso si presenta allora nel suo innegabile rapporto con la terra che da esso emana; diventa, insomma, il modello che in certo modo riporta allo stato preesistente il divenire del mondo terreno.

Non possiamo non prendere in considerazione la spirale: essa suggerisce o, meglio, è emanazione, estensione, sviluppo, continuità ciclica ma progressiva, rotazione creativa.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Essa manifesta l’apparizione del movimento circolare dal suo punto originale; movimento che essa trattiene e prolunga all’infinito: è il genere di linea continua che lega incessantemente le due estremità del divenire. Il disco di bronzo di Somerset (età del ferro) confonde per la sua incredibile perfezione.

Dublino, Museo Nazionale – Disco di Somersst

Nell’ordine delle figure cruciformi, la spirale ha come equivalente la svastica, simbolo tra i più complessi che moltissime civiltà hanno adottato come emblema principale. La svastica simboleggia l’asse verticale di un tiro a quattro braccia il cui movimento di rotazione è espresso dal ritorno di ciascun braccio come tanti nastri mossi dal vento o come altrettanti piedi che imprimano il movimento.

Londra, British Museum – Ciotola di Sutton Hoo

Visby, Gotland Fornsal – Pietra sferica di Myrvalder in Tingstäde

Le immagini mostrano la continuazione immaginaria della svastica e della spirale ed evidenziano come la percezione simbolica si faccia gioco delle interpretazioni. Inoltre si notano le risorse decorative che tali simboli puri offrono all’arte sacra.

I Cristi romanici sono spesso concepiti attorno ad una spirale o ad una svastica: queste figure ritmano la posizione, ambientano i gesti, le pieghe del vestito. Con queste figure si trova per di più reintrodotto il vecchio simbolo del turbine creativo attorno al quale si collocano le gerarchie create che ne emanano.

 

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano 
Anno 1988
Pagine27-29

Fioroni: i crismi e i fioroni dei timpani

Sezione: Lessico


Abbiamo già parlato del ruolo importante che ha il crisma nella zona mesopotamica. Esso si presenta qui come un tema circolare analogo al Tetramorfo, sempre da solo, e implica i significati più diversi. Esempio tipico è il crisma che campeggia sul timpano di Jaca. Immagine della Trinità, come afferma l’iscrizione che lo accompagna, è anche l’immagine del Sole di Giustizia, perché iscritto in un cerchio perfetto, con Otto fiori che si alternano ai suoi otto bracci. A quest’ultimo proposito, una precisazione è bene fare subito: il crisma romanico ha poco a che vedere col crisma orientale autentico, che presentava non Otto, ma sei bracci, formati dalla sovrapposizione delle due lettere greche khi (X) e ro (P): la ro come tale è infatti scomparsa nel crisma romanico, sostituita da una semplice asta verticale, però in compenso si è inserita una barra orizzontale, che viene così a formare l’immagine della croce eretta, con la quale, aggiunta alla khi si completa l’alleanza simbolica della croce suddetta con la croce rovesciata e si determina implicitamente la figura del sole, della croce dei venti – ovverossia l’otto, simbolo della vita futura. Ricordiamo inoltre che a Jaca il crisma, Sole di Giustizia, è fiancheggiato da due leoni, che implicano, con la loro asimmetria, un significato di giudizio: la coerenza è evidente.

Su certi timpani del Rouergue, al crisma sono congiunti dei fioroni eminentemente simbolici. L’insieme evoca, con l’ausilio di questi schemi astratti, l’avvento della Città futura. Per questo, infatti, a Coupiac (Aveyron), si è inserito il famoso crisma a Otto bracci entro una corona e poi dentro un quadrato inclinato di 90° .

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Negli angoli del suddetto quadrato inclinato si trovano quattro fiori che alludono chiaramente ai quattro Animali: un quadrato, il loro, che intende evocare il livello celeste. Quello di sinistra ha quattordici petali, per dare l’idea dell’incarnazione, dell’Uomo. Quello inferiore è una margherita con quattro petali a forma di croce, ed è simbolo del Bue. Quello in alto di petali ne ha Otto, e corrisponde al Leone – ma i suoi petali non tracciano nessuna linea chiaramente verticale: i due superiori disegnano se mai una V. Al contrario, questo, della margherita di destra, che ha anch’essa Otto petali e che corrisponde a sua volta al livello supremo, quello dell’Aquila. L’insieme inoltre è circondato da quattro efflorescenze, disposte in quadrato, che alludono invece al livello terrestre: le due che stanno alla base disegnano un pentacolo, evidente ulteriore riferimento alla figura dell’Uomo, mentre le due di sopra disegnano la croce eretta, simbolo dell’uomo vivente in questo mondo e che per ciò stesso ha ancora bisogno della croce redentrice. Che l’inclinazione conferita al quadrato sia un fatto voluto è confermato dall’altra croce eretta che appare iscritta in un piccolo cerchio al centro del crisma: è una croce che ha subito una leggera deviazione verso destra, ma si tratta di un’inclinazione che non ha nulla a che spartire con l’inclinazione del quadrato (il quadrato della Gerusalemme celeste) e neppure con quella dell’asta della khi alla cui estremità sventola un’omega. Tutto ciò vuole indicare che se è vero che non siamo lontani dalla fine, altrettanto vero è che i tempi non sono ancora maturi e che «noi non sappiamo né il giorno né l’ora». Vengono a essere distinti, in questo modo, tre diversi gradi di rotazione, segnati dalla cornice e dai quattro fiori, e infine, a delimitare il tutto, le ali dei due angeli posti dall’uno e dall’altro lato. Tutto ciò fa rassomigliare questo complesso, in maniera davvero sbalorditiva, all’immagine dei tempi futuri fornita da quello che è stato impropriamente chiamato il «calendario azteco», nel quale le successive fini del mondo sono indicate da quattro animali con al centro una croce rovesciata: somiglianza invero sconcertante col Tetramorfo romanico e prova, visto che le opere dei due continenti sono contemporanee, della comunione che potevano raggiungere a quell’epoca i simboli, su scala mondiale.

Bisogna analizzare anche i fioroni del timpano di Lévinhac che circondano egualmente un crisma, figurazione dell’eterno Sole; vi si può scorgere una rotazione paragonabile a quella dei fiori precedenti, però il pensiero guida non è lo stesso. Emerge piuttosto la plasticità di un elemento simbolico che può adattarsi ai pensieri più vari: mentre infatti a Beaulieu e a Moissac i fiori di cardo, minacciati da mostri diversi, rimangono apparentemente intatti, qui invece si vede come possano questi fiori, espressione di un certo sistema del mondo, degradarsi progressivamente: le tappe di questa degradazione progressiva si leggono attorno al crisma centra le a Otto bracci, inquadrato dagli angeli e, alle estremità, dal sole e dalla luna, secondo l’ordine tetramorfico: al posto abituale dell’Uomo, in alto a sinistra, sembra che si sia voluto evocare il sistema propriamente celeste, la rotazione delle sfere, facendo ricorso a un cerchio e a delle ellissi che disegnano, con le linee di una croce diritta e di una croce rovesciata, una rosa dei venti; in basso a destra, al posto del Bue, appare il mondo terrestre, sotto l’aspetto di un’altra figura circolare, che presenta al centro un fiorone a sei petali, ad immagine del crisma letterale (il Cristo), attorno al quale gravitano dodici fiori a sei o sette petali (gli Apostoli). Si tratta dunque della Chiesa; i fiori esterni che toccano il bordo del cerchio e che sono da esso tagliati in due indicano che gli Apostoli si spingono fino alle estremità del mondo. In effetti, il Cristo ha ripetutamente affermato che quando tutti i popoli saranno stati evangelizzati e il suo insegnamento sarà conosciuto da tutta la terra, allora egli farà ritorno. In basso a sinistra, al Leone simbolo di morte e di resurrezione corrisponde il fiorone a intrecci che ripete la figurazione dell’incrocio e che tende all’annullamento del cerchio magico con l’ausilio di undici avvolgimenti che segmentano la linea circolare. Infine, ultimo termine a destra in alto, il tema dell’Aquila, sostituito da un mostro androfago, la bocca dell’Inferno, che sta appunto ingoiando un uomo. L’immagine del gufo, al di sopra dell’archivolto, sta a indicare che il regno delle tenebre trionfa; i motivi delle modanature rendono più evidente questo significato: quello della modanatura esterna, assai simile a una greca, disegna delle specie di S dai contorni squadrati e piegate a sinistra, mentre sulla modanatura interna la fascia di quadrettature a scacchiera, termine di significato terrestre, sembra volere esprimere l’alternanza dei giorni e delle notti. C’è infine un terzo motivo, a fogliami, che nella prospettiva generale di portali mesopotamici, con i loro angeli annunciatori, è indizio di una insistenza sul mondo presente più che sul mondo ripristinato.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 135-136

Disposizione: disposizione egiziana e disposizione mesopotamica; le città

Sezione: Lessico


A riprova dell’importanza che deve essere riconosciuta ai due tipi di disposizione – quella imperniata sull’abside, o disposizione interna, e quella orientata sulla navata, o disposizione anteriore –, è necessario stabilire un rapporto, per strano che ciò possa apparire, fra le due fonti orientali e le due zone con le città in quanto tali.

In effetti, benché il piano quadrato della città apocalittica abbia impresso in origine un impulso determinante ai raggruppamenti di chiese, che erano allora la regola, la cosa che particolarmente colpisce è come invece le città di nuova fondazione abbiano, in linea generale, sposato il piano circolare, cosiddetto «radiocentrico»… Ciò voleva dire trasferire nell’ordine dello spazio globale, che richiama l’idea del gruppo umano, la struttura dell’«immagine circolare», che di per sé viceversa s’iscrive nell’ordine del tempo. Non si poteva rendere più evidente la supremazia di Dio e della Chiesa su tutti i piani. Essendo la chiesa al centro, virtuale o reale, di tutto l’insieme – parliamo della chiesa madre, ovviamente, della cattedrale –, il Cristo che in essa risiede, sull’altare, irradia se stesso automaticamente su quell’universo microcosmico che è il gruppo urbano. In tale prospettiva, la disposizione egiziana si estende alla città intera.

Fatto comunque non meno singolare, che però non fa che rendere più sensibile l’accordo intimo fra l’edificio sacro e il gruppo profano – a contrario, potremmo dire stavolta, giacché apparentemente la chiesa, esiliata com’è per lo più in periferia a fare da vero e proprio bastione, sia in senso concreto che figurato, perde qui la posizione preminente che le assicurava il punto centrale –, l’ondata mesopotamica che irrompe nella Francia sud occidentale si accompagna al ritorno in auge di un piano quadrato o rettangolare, in relazione con il diffondersi dell’interesse per il testo apocalittico e della imitazione come che sia della Città celeste. Ciò voleva dire tornare al piano della prima Roma mitologica – la Città quadrata sul Palatino –, ovvero a quello di Alessandria e delle altre città fondate in tempi antichi: e tuttavia non si deve pensare che una siffatta disposizione fosse suggerita esclusivamente dalla comodità o da scopi militari (come a volte si tende ad affermare): nel medioevo qualsiasi atto pubblico, e più che mai un atto così importante com’era quello che mirava a definire la cornice del vivere, era per prima cosa un atto rituale.

L’incidenza del piano quadrato appare all’interno stesso delle città, nell’urbanistica. il piano quadrato del castrum romano con le sue due vie ortogonali venne frequentemente adottato per gli antichi santuari, agglomerati di edifici diversi e sempre in relazione con la Città apocalittica. Tali santuari, infatti, formati da edifici fra loro isolati – il battistero era uno di questi – erano protetti da mura e pone poste in asse secondo i punti cardinali. Esempio tipico è la cattedrale di Milano, della quale un antico testo ci dice che era formata da un nucleo centrale, con la chiesa episcopale, un campanile indipendente – formula italiana per eccellenza questa; ancora in epoca romanica la torre, spesso di ragguardevoli dimensioni, era spesso separata dal resto delle costruzioni: basta pensare alla torre di Pisa –, due battisteri e quattro cappelle dedicate ai quattro arcangeli posti a difesa dei quattro punti cardinali: Michele a oriente il più grande di tutti, al posto d’onore, erede di Thor e dello Psicopompo egiziano, con tanto di bilancia in mano; Gabriele a occidente; Raffaele a nord; e Uriele a sud. Quest’ultimo, che veniva considerato l’arcangelo dell’Antico Testamento, doveva essere estromesso (e il suo culto perciò vietato) da un concilio romano del secolo VII: è da qui che deduciamo la data approssimativa del testo in questione: forse il secolo VI. Più tardi, in epoca carolingia, durante la quale le pone di difesa tuttavia furono conservate, per esempio a Centula (= Saint-Riquier), sopravvennero le cappelle con valore profilattico. Venivano in genere sistemate nelle torri, mentre l’atrio, futuro nartece, continuava a chiamarsi paradisus, ricordo della Città celeste così frequentemente imitata: proprio le torri di facciata, infatti, accoglieranno spesso degli altari, al piano superiore, dedicati a san Michele o a san Gabriele. Quanto al coro, esso era protetto, come ci testimonia un testo relativo alla città di Verona, dalle cappelle dedicate ai santi martiri: in questo modo, ci viene assicurato, la città era «protetta contro le potenze malvagie dalla sua corona di corpi santi».

Sembra evidente, tuttavia, che con la progressiva scomparsa della città o dell’agglomerato di edifici così costituito e la sua sempre più diffusa sostituzione con una chiesa organica principale o con un gruppo cattedrale, si sia ben presto adottata, preferendola a quella che ricordava la Roma pagana, la struttura della Gerusalemme tipica, che era circolare. Fu senza dubbio un piano del genere che venne prescelto nel IV secolo da Sulpicio Severo per la sua villa di Primuliacum, presso Auch; da una lettera indirizzatagli dal suo amico Paolino da Nola, formatosi come lui all’Università di Bordeaux, celebre quanto quella di Autun, apprendiamo infatti ch’egli aveva composto due poemi destinati ad abbellire i portici che univano due chiese al battistero: «Queste due chiese simboleggiano l’Antica e la Nuova Legge. L’Antica Legge è la speranza, la Nuova è la fede. Entrambe le Leggi hanno come punto di riferimento il Cristo. E per questo che il battistero è stato posto a egual distanza dalle due basiliche, perché è da esso che s’irradia la gloria del Signore». Ricaviamo questa citazione dall’ultimo libro di E. Mâle, La fin du paganisme en Gaule, libro importante poiché in esso l’autore rivede certe sue affermazioni relative alla scomparsa del simbolismo fino a Suger, e nel quale, anzi, mette in evidenza la posizione incontestabile che «il simbolismo già occupa nel pensiero cristiano». Se quindi il battistero si trova al centro, è a causa dell’importanza del rito battesimale degli adulti nella Chiesa antica, sulla quale ci soffermiamo in altro luogo.

In linea di massima, il piano circolare è tipico dei villaggi, di tende o di capanne, di svariate civiltà primitive. Un esempio che permane ancor oggi: la capanna dei Maquiritares, popolazione indiana dell’Orinoco, in Amazzonia, che riunisce e ripara l’intera tribù attorno al palo di sostegno centrale, e che comunica all’esterno con quattro aperture poste in direzione dei quattro punti cardinali. Era la stessa cosa nel campo di Attila e la stessa tuttora in zone più vicine a noi, in certi villaggi slavi o presso gli Arabi di Bagdad.

D’altronde, come evocare meglio il mondo sottomesso alla Chiesa? Un piano del genere si accorda con quello della città fortificata, appollaiata in cima a un’altura o raggomitolata attorno al castello, al quale il santuario è connesso e dal quale è protetto. Naturalmente non possiamo elencare tutte le città, innumerevoli, che esistono già dall’alto medioevo e che obbediscono a questo piano; citiamo Malines, Milano, Limoges, Saint-Denis, Figeac, Bergerac, Brive-la-Gaillarde. Ma ci sono anche dei villaggi: fra questi, quanto mai caratteristico è il minuscolo borgo di Pommiers (Loire). In ogni caso, si tratta di un piano che viene da lontano, da costruzioni preistoriche ben note come i cromlech bretoni (cfr. Lavedan, Histoire de l’urbanisme).

La cosa certa è che questo piano, il quale continuò ben inteso a svolgere un ruolo di fondamentale importanza, venne bruscamente abbandonato nel Midi della Francia, nel sud ovest, nella Guienna e nella Guascogna, quando queste regioni dovettero organizzarsi a difesa contro gli Inglesi; si crearono allora delle nuove città, le cosiddette bastides, disegnate secondo un piano prettamente «americano» – una scacchiera –, per insediarvi popolazioni sradicate dai loro paesi d’origine. E giusto, naturalmente, invocare le ragioni strategiche o utilitarie che in circostanze del genere fecero di nuovo prevalere l’impianto urbanistico romano. Tuttavia, come tutto ciò che ha a che vedere col medioevo, non bisogna affatto trascurare il punto di vista religioso. Degno di nota è per esempio – e lo rileva anche il Lavedan –, che fra le prime bastides sorte siano da citare nomi del Roussillon, come Sairit-Genis-des-Fontaines, nei quali sono nati i complessi iconografici di spirito apocalittico che hanno dato il la all’arte della Linguadoca e che riflettono nuovamente la diffusa tendenza a imitare la Città celeste, con la porta avente valore di sbarramento, di interdizione, oppure profilattico. La prevalenza del piano di nuovo quadrato si pone infatti in intima relazione con la diffusione del piano quadrato-cubico delle chiese, completo di nartece, chiostri, ecc., che invaderà tutta la Francia sud occidentale. La chiesa ora non si trovava più necessariamente al centro. Nella bastide sono comunemente il pozzo e l’albero a occupare questa posizione, conformemente al testo dell’Apocalisse: come «la Città non ha più bisogno del sole che la illumini», così la chiesa-fortezza non è che un bastione come tutti gli altri, con tanto di porta a cui montare la guardia. Nel Roussillon, a Cuxa e a Serrabone, questa porta ha ereditato l’aspetto delle porte di difesa carolingie, tipo quella di Lorsch, e ospita una cappella dedicata a san Michele: l’immagine dell’arcangelo in vesti sacerdotali, come nell’arte bizantina, si trova al piano superiore. Particolari, questi, che ci fanno venire in mente le immagini di Michele e di Gabriele che difendono l’ingresso della chiesa di Kodja-Kolessi, in Asia Minore, iscritte sui piedritti.

La posizione della chiesa così in disparte si spiega anche col fatto che i fondatori di bastides erano in larga maggioranza signori laici; e il quadrato, infatti, il Quattro, evocava il mondo.

Ma laicità o mondo, nel medioevo, non volevano dire estraneità alle cose della fede o al misticismo. Il diploma di fondazione della bastide di Montauban mostra chiaramente con quale e quanto entusiasmo venissero elevate queste città nuove; emerge perfettamente il simbolismo dei numeri mistici. Vero è infatti che la chiesa non è più il centro sacro, ma al suo posto ecco la piazza quadrata destinata agli scambi e utilizzabile come riparo momentaneo per armenti e mercanti, circondata da portici su cui poggiano le case, coperti da volte ogivali identiche alle volte delle chiese. Troviamo tutto ciò, per esempio, a Villeréal.

Il testo a cui abbiamo appena fatto cenno a proposito di Montauban ha tutta l’aria d’una chanson de geste e ricorda perfino l’Apocalisse: «Ecco il palazzo con i muri aperti da quattro porte… Sulla rupe maestra che scende a picco hanno eretto la dimora più alta ed hanno richiesto al popolo, alla brava gente, di venire ad abitare nel castello, purché paghino lealmente canoni e diritti… Ed ecco 500 borghesi che vengono più che volentieri e popolano in comune la rocca fortificata». Vengono quindi citate le professioni: ci sono fittavoli, pescatori, fornai, mercanti «che fanno negozio fin nelle Indie Maggiori». Il numero di cinquecento è evidentemente simbolico: il cinque, numero esoterico, è quello della materia penetrata da Dio, cioè dell’uomo. Nel romanzo di Perceval, di Chrétien de Troyes, il Palazzo delle regine ha cinquecento finestre; le dame stesse, a loro volta, hanno al proprio servizio cinquecento fra scudieri e giovani valletti.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 119-121

Lancia

Sezione: Lessico


È nella Caccia raffigurata a Saint-Ursin di Bourges che traspare il valore solare delle lance, strumenti della giustizia divina. Poste in parallelo, esse evocano i raggi dell’Astro che scendono dall’alto, nei quali abbiamo ravvisato l’idea del tempo solare. Ma anche i fanti e i cavalieri che trafiggono gli animali, simboli dei temperamenti umani da domare, operano come si sa in nome del «Sole di Giustizia». Per contro il personaggio accovacciato tiene la lancia in verticale, dando così un’immagine dell’inverno e del temperamento superiore, energico e meditativo, che ad esso si accompagna. I cavalieri impegnati a trafiggere gli animali e il fantaccino sono del pari simbolo del temperamento energico; la caccia è un’opera pia, poiché trasforma in sacrificio la distruzione, l’eccessiva pienezza della natura, sopprimendo a suo modo le «ripetizioni» e perciò stesso mostrandosi in armonia con l’ordine divino.

Dal canto nostro, non ci attarderemo qui ad analizzare in dettaglio le diverse figure delle allegorie femminili mascherate da soldati che immergono le loro lance nei Vizi. Ad Aulnay-de-Saintonge, per esempio, le sei Virtù e i sei Vizi (dei quali è indicato il nome) sono, partendo da sinistra: IRA PATIENTIA – LUXURIA – CASTITAS – SUPERBIA HUMILITAS – LARGITAS – AVARITIA – FIDES – IDOLATRIA – CONCORDIA – DISCORDIA. Le Virtù non indossano armature. Posseggono alternativamente delle lance e delle spade, ma in ogni caso il loro atteggiamento è calmo. Si è comunque dato il posto di vedettes a Largitas e Humilitas (con lo scudo a tracolla, poiché l’umiltà è la virtù passiva per eccellenza), ponendole l’una di fronte all’altra, ai due lati della corona centrale e allo stesso livello, sugli archivolti, dell’Agnello divino, del Cristo presso la porta inchiavardata, del granchio o Cancro, che però ha ceduto il posto al leone durante certi affrettati restauri del secolo scorso. Entrambe reggono alta la corona: nulla potrebbe meglio dimostrare che sono esse la vera via. È bene ad ogni modo tener presente l’ordine secondo cui vanno letti questi archivolti: il primo è quello dei Lavori dei mesi e dei Segni dello zodiaco, l’ordine del mondo e della fede; seguono le Vergini sagge che vegliano con le loro lampade accese alla destra del Cristo – a sinistra, per noi –, poi le Virtù e quindi l’Agnello fra gli angeli. L’intradosso dell’arco delle Virtù è ornato di stelle a sei punte, quello delle Vergini sagge di foglie di lauro con una perla al centro che disegnano un fregio a zig-zag.

Altre Virtù, armate di lancia, si trovano più in là, ad inquadrare la finestra sovrastante il portale meridionale. Esse sono l’immagine di un ordine superiore – l’ordine cavalleresco, di diritto divino –, che tenta di instaurare una giustizia su questo mondo, nel nome di Dio, mentre le Virtù di prima si accontentavano di allontanare il demonio. Con lo stesso significato va contrapposto l’Uomo col leone – Sansone, dalla capigliatura ancora intatta – che sta sull’archivolto meridionale quale POTESTAS DEI, al Costantino che schiaccia l’eresia – il serpente, che si trovava originariamente a ovest –, rappresentante la POTESTAS DOMINI. I portali occidentali nella Saintonge, hanno anche un significato esoterico di difesa contro tutto e tutti; quelli del lato sud, quando ci sono, hanno invece un valore esoterico del tipo del mandala.

Bisogna infine tener presente che i cavalieri che si affrontano con la lancia, variante del giudizio di Dio ed espressione del torneo, rappresentano anche una specie di Psicomachia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, p. 64

Cervo; caccia al cervo

Sezione: Lessico


Il reale valore del tema del cervo nell’arte romanica non è stato generalmente riconosciuto, perché non si è accordata che una dimensione aneddotica alla sua caccia da pane del centauro sagittario o da parte dei cavalieri armati di lance che vediamo nella chiesa di Saint-Ursin a Bourges. La scena infatti dell’inseguimento o della caccia al cervo appare inserita entro programmi iconografici particolarmente densi, collocata nella parte centrale degli edifici (disposizione anteriore), a Saint-Gilles, ad Aulnay, nella Charente (sui modiglioni), ad Angoulême (sull’arcata inferiore), a Serrabone (nella tribuna), a Cahors, ecc. Collocata invece all’interno (disposizione interna o absidale) la troviamo a Saint-Aignan-sur-Cher (nell’abside), a Saint-Pons-de-Thomières, a Cruas (nella cripta), a Saint-Parize-le-Châtel (ancora nella cripta), a Saint-Pierre-de-Chabrillan (nell’abside). Essa appare abbastanza frequente e ricca di interessanti dettagli, oppure si integra a programmi più generali – la qual cosa ci vieta di pensare che si tratti di un semplice elemento decorativo, preso in prestito dai tessuti o per esempio da una scena di caccia di ispirazione sassanide.

Il cervo è talvolta sostituito da una gazzella, come nel caso del fregio di Saint-Restitut. La stessa gazzella è inseguita da un leone sulla balaustra di Pommiers, tema di ispirazione copta, imitato con molta esattezza dal graffito di una cappella di Bawit, dove una iscrizione indica esplicitamente che si tratta dell’anima inseguita dal demonio; in effetti è la illustrazione del testo liturgico: «Liberaci, o Signore, dalla gola del leone!».

Altre volte il cervo si disseta «alla corrente delle acque», come dice il salmo 41, che gli paragona l’anima ansiosa di avvicinarsi a Dio, oppure lo vediamo bramire presso la fonte, come nel caso di un capitello del nartece di Moissac, al piano terreno: sorreggendo con la fronte altrettante spirali che formano come degli uncini, i busti dei cervi emergono su ciascun angolo del capitello da una triplice fascia di forme arrotondate, turgide, con le punte anch’esse a uncino, che fanno venire in mente le acque vorticose di un fiume. Nella iconografia cristiana primitiva è a causa di questo rapporto con l’onda che il cervo è stato assimilato all’anima del battezzato, il quale veniva immerso per tre volte nell’acqua della piscina battesimale, a immagine del Cristo che aveva trascorso tre giorni nel sepolcro: il rito rappresentava la morte, secondo l’insegnamento di san Paolo (Rom. VI). Alla base dei pilastri absidali di Ainay, la presenza del cervo accanto al battesimo per immersione insieme col pesce emergente dalle acque che rappresenta il Cristo – il suo nome greco ICHTUS è formato dalle iniziali delle parole Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore – e col dragone infernale, vinto e spodestato dallo stesso Gesù, testimonia del perdurare della forma antica del rito.

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Questa ha in generale cessato di essere praticata nel secolo VIII, ma i battisteri indipendenti che esistono a Lione, Vienne, Le Puy, Saint-Rambert, Vic-le-Comte (Puy-le-Dôme), talvolta ampliati in epoca romanica, attestano che essa rimase praticata in queste regioni.

Il tema delle tre tappe (Saint-André-le-Bas a Vienne e Rozier-Côtes-d’Aurec) sembra essere in relazione con l’idea della morte iniziatica del battesimo, immagine della resurrezione dell’anima alla luce divina nel mondo di là – idea espressa ad Ainay per mezzo di allegorie e di fregi animali; a Roziet, dove sono rappresentate le tre tappe, la caccia al cervo compare sul fregio più recente della facciata (rifatta). Ad Ainay, chiesa che sorge in prossimità di corsi d’acqua (fra Rodano e Saona) e dove abbiamo già visto il cervo nell’abside, troviamo una Caccia al cervo raffigurata all’esterno, sulla facciata occidentale, dove si dispiega a mo’ di fregio sulla torre, ai due lati di una grande croce gemmata. Da ultimo, ancor sempre in una accezione simile, c’imbattiamo nei due cervi affrontati che stanno brucando il grappolo eucaristico: è il caso di una chiave di archivolto sul portale della facciata ovest di Saint-Jouin-de-Marnes; l’idea qui espressa è quella dell’anima che ha accesso al cielo, poiché gli animali sono raffigurati solo dal petto in su, e l’onda a cui essi si abbeverano evoca il Paradiso, poiché l’Apocalisse parla di innaffiare un albero, i cui rami vediamo piegarsi sotto il peso dei pesanti grappoli; l’idea del Cielo si trova altresì nel ramo a tre foglie (Tre = Cielo), da cui spunta bizzarramente un grappolo. I cervi che brucano il grappolo eucaristico sono presenti anche sul timpano di Rheinau (Svizzera), nella seconda fascia di un programma tripartito evocante le tappe; nella fascia più bassa la maschera umana simboleggia lo spirito che sopravvive al disfacimento della carne: è affiancato dalle fiere che lo minacciano con le fauci spalancate, minacciate a loro volta da altre fiere che le seguono da presso e che danno la schiena ad altre fiere ancora, alle quali stanno allacciate con le spire delle loro code da draghi (tali code disegnano a sinistra, il lato della carne peritura, un asso di cuori). I cervi posti faccia a faccia che stanno mangiando il grappolo, immagine dell’accesso al cielo sono minacciati anch’essi da delle fiere. In cima a tutto l’Agnello, entro un’aureola, distoglie lo sguardo dalla carne, simboleggiata dalla lepre o dal prolifico coniglio, e si volge, vittima consenziente, inginocchiata e in posizione di contrasto, verso il frutto unico a forma di grappolo, avvolgendosi col corpo attorno alla croce astata. Alla destra dell’agnello, due uccelli, anch’essi faccia a faccia, attorno allo stesso frutto, simboleggiano il Paradiso finale.

I significati cristiani del cervo discendono da antichissime credenze e tradizioni pagane. Gli Egiziani vedevano in esso il vanitoso che si lascia gabbare, con le corna impigliate nei rami degli alberi al pari dei capelli di Assalonne. Tutti, poi, conoscono il mito di Atteone innamorato di Diana. Cernunnos, dio dell’abbondanza, aveva corna di cervo; sul vaso di Gundestrup, così come sul sarcofago di Déols, imitato a Saint-Ursin, foglie e frutti spuntano dalle corna del cervo. Parimenti, gli adepti degli antichi misteri ellenici portavano alla statua di Demetra o di Kore delle pelli di cervo, allo scopo di poter entrare più sicuramente in comunicazione con l’aldilà. Né molto diversamente agivano i Barbari che portavano spesso indosso delle fibbie con lamine o dischetti, su cui era incisa la figura del cervo; motivo: il premunirsi contro le ferite in combattimento.

Nel cristianesimo primitivo, oltre al suo significato battesimale, si riconobbe al cervo un simbolismo di attività, di apostolato, a proposito in particolare di san Paolo, l’apostolo dei gentili. Nell’inseguimento a opera del centauro, sul piedritto di Saint-Gilles-du-Gard, il cervo si trova giusto ai piedi dell’Apostolo. Tertulliano, polemizzando con i catafrigi, eretici africani che consideravano un obbligo l’accettazione del martino senza resistenza, portava loro ad esempio il cervo in fuga dinanzi ai cacciatori. Quanto all’idea di apostolato, numerosi vasi merovingi ci mostrano la caccia al cervo accompagnata da croci e da palme. Tutte queste immagini possono essere ricollegate a diversi testi biblici: «I miei nemici mi hanno circondato come un branco di cani» (Salmo 59); «Jahvè è la mia forza; egli dà ai miei piedi l’agilità dei cervi e delle gazzelle» (Abacuc, III, 19); «Fuggi, diletto mio, quale gazzella, sii simile ai cerbiatti sui monti profumati» (Cantico dei Cantici, VIII, 14).

Prova della ricchezza dell’iconografia romanica, i monumenti ci mostrano nel cervo l’immagine del giovane che, una volta pervenuto alla dignità del cristiano, diventa automaticamente un uomo in tutta l’accezione del termine: pur disciplinandosi contro le tentazioni, egli mette in pratica la massima di san Paolo: «Se non sanno osservare la continenza, che si sposino, perché è molto meglio sposarsi che bruciare». È noto il significato che ha il centauro nel mito di Achille, personaggio lubrico e al tempo stesso pedagogo di un eroe: l’arciere è controfigura del lussurioso e simbolo erotico chiarissimo, diffuso nella zona mesopotamica. Frequentemente il centauro porta in testa il berretto frigio, simbolo di libertà, come le Donne di Tolosa; se non che, nella zona mesopotamica, la sirena si sostituisce normalmente al cervo: ed è questo il caso della Daurade, di Saint-Sernin, della porta degli Orafi a Compostella. In quest’ultimo complesso, di una grande densità di pensiero, sui pennacchi a mezza altezza il centauro col busto rivolto all’indietro, che ha appena scagliato la sua freccia, si trova alla sinistra della porta di sinistra, nei pressi di un cespuglio che disegna un motivo a incrocio; a destra della porta di destra, invece, la sirena-pesce ostenta tre attributi: il pesce, simbolo del Cristo, la tromba, alla quale essa dà fiato in segno di avvertimento, e la freccia che le ha trafitto il cuore. Questo tema della caccia si lega, qui come nella zona egiziana, al tema delle tappe, particolarmente sviluppato nel programma in questione. La sirena-pesce che suona la tromba si ritrova sul piedritto di Saint-Gilles, nel pennacchio inferiore formato dai due cerchi intrecciati col centauro e il cervo, rivolta nella stessa direzione del cervo sovrastante; nel pennacchio superiore invece si vede l’aquila che volge la testa in direzione opposta e che viene a stabilire, messa in quel punto, un legame con la immagine della zona superiore, dove si trovano gli Apostoli Giacomo il Minore e Paolo. La contrapposizione dell’aquila e della sirena intende illustrare numerosi passi in cui quest’ultimo esalta la carità, separando lo spirito dalla carne: «Camminate secondo lo spirito e non soddisferete i desideri della carne. Poiché la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito, e lo spirito ne ha di contrari a quelli della carne». O ancora: «Fratelli, voi siete stati chiamati alla libertà; solamente, non fate di questa libertà un pretesto per vivere secondo la carne, ma rendetevi attraverso la carità servitori gli uni degli altri». «Se siete guidati dallo spirito, voi non siete sottoposti alla legge». Questa separazione troppo marcata fra la carne e lo spirito che sembra di trovare nell’opera di san Paolo, se non si ha dimestichezza col suo vocabolario, è comunque estranea all’iconografia romanica; la sola cosa che essa condanna è la lussuria.

Il cervo è dunque associato alla sirena, che significa la tentazione della carne, ma più spesso ancora lo è al caprone, simbolo della caduta nella lussuria. Tale associazione si riscontra a Saint-Algoan-sur-Cher, dove la contrapposizione carne-spirito è espressa con un grande sfoggio di dettagli: il centauro, simbolo dell’iniziatore, del male, unisce la carne (il corpo da cavallo) allo spirito; il mezzo busto umano si trova per di più fra il caprone che lo osserva ritto sulle zampe e la colomba che volge indietro lo sguardo, immagine anch’essa dello spirito, in contrapposizione all’animale lussurioso per eccellenza. La difformità di comportamento degli animali dimostra che, trafiggendo il cervo con la sua freccia, egli fa si che lo spirito ceda il passo alla carne: nell’angolo, la testa sorridente sotto la pigna simbolo di eternità esprime la beatitudine paradisiaca dell’eletto che come il cervo si abbevera alla sorgente. Sulla destra il cervo, colto in piena corsa, crolla, colpito dalla freccia. Con la lingua a penzoloni fuori dalla bocca, il suo corpo è ormai in preda agli spasimi finali della morte. Lo dimostrano anche l’uccello che volge indietro il capo, simbolo dell’anima, e la fiera, ritratta nella stessa posa, la cui coda fallica termina a punta di lancia e disegna un nodo, simbolo ben noto del maleficio. Un sottile giuoco di linee accompagna il tema: scanalature verso destra dal lato dell’eletto e linee incrociate nei paraggi del frutto e del collo dell’uccello; un gallone, inoltre, a forma di triangolo diritto, simile a un reggiseno, spicca sul petto del centauro, equivalente del berretto frigio che esso ha in testa altrove; viceversa, una serie di bande a spina di pesce rivestono dalla testa alla coda il pelame del cervo che invece di solito è liscio; analogamente, a spina di pesce sono pure le corna dell’animale: ne risulta il segno di una Y, tutt’al contrario di quello che è il simbolo dell’iniziatore: la virilità, infatti, ci schiude la capacità di prendere decisioni, quando si è di fronte alla Y, alla bivias.

Anche sull’archivolto del portale meridionale di Aulnay il caprone è vicino al cervo. L’asino che segue, nella serie dei temperamenti umani è il corrispettivo dell’aquila di Saint-Gilles o degli uccelli con la testa all’indietro precedenti; in effetti, portando la lira, esso è in diretto contatto con le armonie divine. I tre animali che si susseguono, in piedi come il caprone di prima, ma rivolti verso sinistra, sono pur essi fortemente sessuati e precedono la coppia formata dall’essere femminile a forma di S e dall’uomo col leone. il caprone non è soltanto espressione di sessualità, ma anche di violenza: della violenza legata al libero corso che viene lasciato all’istinto. Se l’asino, simbolo della passività, viene dopo, ciò vuol dire che questa non basta per raggiungere l’amore vero: occorre anche una disponibilità e il rispetto dell’altro. E quello appunto che indicano gli animali che si susseguono: stranamente, la femmina è associata all’uomo col leone.

La caccia al cervo e i temperamenti umani

È il caso a questo punto di considerare il raffronto fra il timpano di Saint-Ursin e il sarcofago di Déols: il primo è concepito a imitazione del secondo, profondamente simbolico, sul quale è illustrato un tema corrente della medicina e della filosofia antiche – quello dei temperamenti umani –, che è al tempo stesso il tema delle stagioni e delle età della vita. Si tratta dunque di una di quelle «quaternità» che Rodolfo il Glabro enumera m una famosa sequenza nel prologo delle sue Storie: i quattro animali del Tetramorfo, i quattro fiumi del Paradiso, le quattro virtù cardinali e i quattro diversi temperamenti dell’uomo; con una serie di sottili spiegazioni egli giustifica questo sistema di corrispondenze fra realtà apparentemente eterogenee.

Una quantità straordinaria di rappresentazioni figurate paleocristiane ci presenta delle cacce allegoriche, nelle quali si vede l’albero coprirsi di foglie e l’uomo denudarsi, alle prese con due distinte categorie di animali: quelli a cui si dà la caccia per lo più in inverno, come per esempio l’orso, e quelli che invece si cacciano in estate, tipo la gazzella, il cui aspetto è ovviamente differente. A Déols i quattro animali sono bizzarramente rappresentati riuniti con una simmetria troppo perfetta perché possa trattarsi di una semplice caccia, mentre è messa bene in evidenza la contrapposizione fra l’uomo e l’animale; compaiono due cavalieri che simboleggiano l’inverno e l’estate: il primo, all’estrema destra, indossa un cappuccio foderato di pelliccia e lo stesso corto mantello del personaggio accovacciato di Saint-Ursin; ha due fasce che gli arrivano fino alle ginocchia, le mollettiere, l’uso delle quali, a detta di C. Enlart, s’è conservato nelle campagne francesi fino al secolo XII, e volge la testa all’indietro; l’altro, invece, quello che simboleggia l’estate, ha le gambe nude, la clamide ondeggiante, come quelle che si vedono sugli altri sarcofagi della Francia sud occidentale o sui sarcofagi copti, e la testa scoperta. Quanto a quello che rappresenta la primavera, non si può dire che sia molto vestito, però conserva il mantello invernale; quello dell’autunno, infine, porta un mantello non foderato, dei gambali e una tunica corta.

L’idea dei temperamenti dell’uomo è stata espressa in modi diversi dai medici e dai poeti dell’Antichità. Lucrezio non ne cita che tre solamente: il collerico, l’indolente e il pauroso – ripresi dai moderni e ribattezzati: sanguigno, linfatico e bilioso; per simboleggiarli, ricorre al leone, al bue e al cervo, vale a dire suppergiù agli stessi animali che ritroviamo a Saint-Ursin. Dal canto loro, i medici Ippocrate e Galeno ne distinguono invece quattro: il primo, che corrisponderebbe qui al cinghiale, sarebbe il sanguigno, collerico, respiratorio, mobile o nomade; il secondo – l’orso di Déols o la biscia di Saint-Ursin –, sarebbe il linfatico, digestivo, sedentario; il terzo – cervo a Saint-Ursin, leone a Déols –, sarebbe il nervoso, cerebrale, pensatore; il quarto, infine, rappresentato a Déols dal cervo, impersonificherebbe il temperamento bilioso, attivo. Tali distinzioni corrispondono al comportamento degli animali.

Tutte queste indicazioni bastano a dimostrare quale ricchezza di significati potesse attingere questo programma dei temperamenti umani unito alla contrapposizione uomini-vegetali. Si ha la sensazione che a Saint-Ursin e a Déols si sia voluto assimilare l’albero che perde le foglie per acquistarne di nuove all’uomo che per realizzarsi deve spogliarsi dell’uomo vecchio ch’è in lui e acquisire nuove virtù. Egli deve quindi staccarsi, al tempo stesso, dagli aspetti animali che risiedono nel suo animo: lo attestano gli animali ai quali si dà la caccia, paragonati in egual modo all’antico fogliame del quale è necessario liberarsi.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 90-94

Atlante

Sezione: Lessico


Gli atlanti sono rappresentati di frequente nell’arte romanica: però, ovviamente, non hanno uno scopo esclusivamente ornamentale. Questo per lo meno è ciò che appare attraverso l’esame di tutta una serie di casi.

Zona mesopotamica

Il profeta Geremia raffigurato in aspetto di atlante sul fianco del trumeau di Moissac, associato sulla parte frontale alle leonesse incrociate, profezia del giudizio, corrisponde proprio al significato di queste ultime: Geremia ha annunciato la sventura degli Ebrei, san Paolo la salvezza promessa ai Gentili – ed emerge in questo modo la correlazione col Giudizio. La stessa cosa si presenta coi profeti che schiacciano dei serpenti a più code sul trumeaux di Beaulieu: è perché annunciano la venuta del Cristo Giudice che sono rappresentati come atlanti. Uno di essi ha addirittura la testa in orizzontale, tanto è schiantato dal peso. In quanto prefigura tipologica del Cristo, anche Daniele è talvolta raffigurato come atlante, in mezzo ai suoi leoni. Sull’intradosso del secondo archivolto del portale sud di Aulnay, sotto le figure dei vegliardi, 31 atlanti stereotipati, tanti quanti i vegliardi stessi, sorreggono il loro carico con una mano levata; inginocchiati, poggiano l’altra mano sul ginocchio.

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L’aspetto significativo è dato dai loro lineamenti e dalle loro vesti, entrambi di tipo orientale, e dalla loro posizione nettamente di profilo, data loro evidentemente a bella posta per contrapporli ai vegliardi soprastanti, rigorosamente di faccia: la posizione di profilo è infatti considerata inferiore all’altra. Altri atlanti, in numero di 24 stavolta, si presentano allo stesso modo sull’intradosso del primo archivolto, dove vediamo trattata con molta originalità la Vocazione degli Apostoli. G. de Champeaux ci ha fornito la chiave di lettura di questi numeri. Sul primo archivolto, i grifoni e i draghi sono in numero di 6, entro delle mandorle, e come tali in rapporto con la conservazione del creato. Gli Apostoli intenti a conversare con altri personaggi e gli atlanti che li sostengono sono in numero di 24 (12 x 2), tanti quante le ore del giorno e della notte (da parte nostra, abbiamo ritrovato questo numero fra i meandri dell’archivolto di Saint-Ursin, su entrambi i lati del simbolo dell’anno o del solstizio, simbolo a sua volta della reiterazione). Dopo l’ordine delle reiterazioni naturali viene perciò quello dell’intervento di Dio, del Verbo divino che informa di sé questo mondo, della Chiesa docente che diffonde la Scrittura fino agli estremi confini della terra e in questo modo prepara il ritorno definitivo; giacché, «quando questo Verbo sarà dappertutto e conosciuto da tutti, il Signore non tarderà a far ritorno». Al pari di una cera vergine, sulla quale bisogna scrivere questi insegnamenti preziosi, le colonne del piedritto che corrispondono a questa parte del programma sono lasciate nude. Se gli atlanti sembrano avere una funzione di sostegno, così come sono, con le braccia levate, e in più sono visti di faccia, è perché il loro scopo è quello di mostrare l’universalità delle razze, tutte pronte ad accogliere il Verbo. Conosciuta che è questa Rivelazione, ecco apparire, sull’archivolto seguente, l’idea del Giudizio: al di sopra dei Vegliardi che evocano il Ritorno, gli atlanti, infatti, si dividono in due gruppi e si presentano, quelli di destra con la mano destra levata in alto, gli altri con la sinistra. Essi si contrappongono agli atlanti precedenti, così come in India gli Asura, geni celesti, si contrappongono ai Deva, geni terrestri. Questo programma evoca il tempo finale, l’ordine che verrà ristabilito alla fine dei secoli. Gli corrisponde, sempre nel senso dell’alternativa del Giudizio, un fregio a zig-zag verticale sulle colonne, il che è logico. Sono 31 atlanti, come si è detto. Lo stesso numero dei giorni del mese. E mentre i Vegliardi sono visti di faccia, in quanto ammessi a contemplare l’Agnello, gli atlanti sono invece di profilo, perché non conosciamo né il giorno né l’ora»: sono cioè nell’attesa, pensiero costante, nella iconografia della Francia sud occidentale (zona mesopotamica). Questa bipartizione, questa idea di attesa, è confermata nell’archivolto esterno, dove il lato sinistro, quello della Vita, si chiude col tema apocalittico del Leone-Drago, mentre il lato destro, quello della Morte, della Malattia, del Peccato, si chiude con delle rappresentazioni infernali e delle figure di mostri androfagi. Con logicità estrema, sulle colonne che corrispondono a questo archivolto, le scanalature tortili a destra sono collegate al programma di sinistra, e viceversa le striature tortili a sinistra al programma di destra.

Ma che cosa vogliono indicare le grandi mani? Diciamo anzitutto che non è un tema riservato solamente a questi atlanti: non è raro incontrare addirittura delle raffigurazioni della Vergine col Bambino, sia con una grande mano – per esempio, quella di Saint-Savin-en-Lavedan –, sia con un lungo pollice. Si tratta, in linea generale, di un modo di indicare i «poteri». Nel caso nostro, essendo il tema preso in prestito dal paganesimo antico – è ben noto il ruolo svolto, nell’Antichità greca, dagli atlanti e da Atlante, sulle cui spalle è posato il cielo –, si deve ritenere che questa deformità voglia evocare i poteri magici di tali personaggi: magici, però, in senso negativo, poiché aizzano la mano destra dal lato del male e la mano sinistra dal lato del bene (ci si ricorderà che alla porta Miégeville di Tolosa, Simon Mago solleva allo stesso modo la mano sinistra velata, segno di poteri magici messi al servizio del male).

Ad Aulnay troviamo infine, per l’ordine intermedio, gli Apostoli evangelizzatori; per l’ordine celeste, i Vegliardi e gli animali mescolati a uomini dell’archivolto esterno: quattro temi al posto di tre – particolare significativo. Fra la massa degli atlanti, i più rappresentativi sono quelli di Serrabone: immagine del mondo della dissomiglianza – anzi del mondo e basta –, si presentano in atteggiamenti quanto mai dissimili, con i volti tormentati dalla violenza dello sforzo, convulsamente aggrappati alle foglie che costituiscono l’ordine inferiore del capitello. I visi e i corpi moltiplicati evocano il brulicame dell’umanità obbligata a riprodursi. Di significato diverso sono invece le striature delle vesti, con cui viene accentuata l’idea di contraddizione. Le ruote rotanti intermedie precisano il rapporto con la fecondità.

Zona egiziana

In quest’area gli atlanti non servono a far da contrasto, come abbiamo visto negli esempi precedenti, ma concorrono alla costruzione dell’edificio o all’avvento della Gerusalemme celeste. Le «sentinelle» che vediamo ai quattro angoli del campanile a piramide di Le Puy sono senza dubbio, a parere di E. Mâle, operai che hanno lavorato alla sua costruzione; e la stessa cosa si può certamente affermare per gli atlanti associati ai buoi nella chiesa del Monastier, dove appaiono rappresentati a mo’ di mensole prima della crociera fra transetto e navata centrale. Nella prima campata di Le Puy, gli Apostoli sono raffigurati come atlanti: è perfettamente logico che gli atlanti siano allora collegati alle cupole; troviamo la stessa disposizione ad Ainay, a Saint-Junien e in numerosi altri casi. Altro particolare da rilevare: gli atlanti della zona mesopotamica stavano all’esterno sui portali; qui ora li troviamo all’interno, eccezion fatta per quelli del campanile di Le Puy.

L’atlante si combina talvolta con l’uomo accovacciato, come succede, ad esempio, per i geni ignudi con le gambe divaricate a V che reggono le pigne a Mozat o la forma schematica di una chiesa alverniate a Champdieu nella Loire.

In linea di massima, il significato degli atlanti non si presta ad ambiguità: basta pensare a quelli di Tavant, dove, nella cripta famosa, li vediamo sorreggere la trave che indica il centro geometrico del programma pittorico, proprio nella chiave di volta. Sempre in affresco e in atto anch’essi di sorreggere delle travi sono poi quelli della cappella superiore nell’avancorpo della collegiale di Brioude – complesso gotico, a dire il vero, ma di tradizione romanica; le travi gravano sulle loro spalle e alle loro figure è associata una magnifica spirale. Essi simboleggiano i morti che aspettano, alla fine dei tempi, il giudizio che paventano; colorati di rosso o di verde, sono rispettivamente l’immagine, il primo, vicino alla DISCORDIA dei peccati della carne, il secondo dei peccati dello spirito… La spirale, invece, rappresenta l’aldilà, poiché fa seguito alle nove spirali e mezza, di color verde, dell’archivolto interno, contrapposte come a Saint-Ursin. Più in alto, delle linee, sempre rosse e verdi, evocano le due parti dell’albero, tronco e fogliame, e s’incrociano a forma di mandorla. Infine, secondo una gradazione vegetale, compaiono, sull’archivolto successivo, dei fiori e poi ancora dei gigli, simbolo di purezza, associati agli angeli.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 73-74