I simboli del dio o del Re del mondo

Sezione: Studi


L’approfondimento di una simbologia non consiste nell’accumulare attorno ad un nucleo originale il maggior numero di particolari complementari o chiarificatori, ma nell’arricchire di armonie nuove il simbolismo fondamentale senza togliergli la purezza e la semplicità primitive.

I simboli del dio e del re del mondo hanno in comune un’intuizione di base sulla quale non è più necessario dilungarci. Il dio del mondo, l’imperatore che lo rappresenta visibilmente sulla terra, il mediatore tra Dio e gli uomini, il gran sacerdote, si collocano di necessità dove maggiormente si esprimono le relazioni tra cielo e terra: nel centro del mondo, sul passaggio dell’asse cosmico; è lì che possono riunire in sé la totalità del reale e risplendere sull’universo intero.

Prendiamo un esempio concreto, molto pregnante, al fine di comprendere bene il processo di incastro che questa straordinaria sintesi dell’immaginazione attorno ad un personaggio assiale ci consente. In Cina, la simbologia cosmica organizzata attorno ai quattro punti cardinali e al loro centro dimostra una coerenza eccezionale. Essa si fonda interamente su quei cinque elementi cui corrispondono colori, sapori, suoni, simboli. Ma tali classificazioni non si limitano a governare lo spazio, s’impongono anche al tempo.

L’ordinamento dello spazio avverrà periodicamente, il dramma celebrato nel rito si ripeterà ogni anno. L’est corrisponde alla primavera, alla nascita della creatura, alla levata del sole (elemento legno); il sud all’estate, al mezzogiorno, alla pienezza (elemento fuoco; in questo punto s’incrocia il centro, l’elemento terra cui corrisponde un tempo fittizio di pienezza); l’ovest all’autunno, alla morte, al tramonto del sole (elemento metallo) e il nord all’inverno, al riposo (elemento acqua).

Ma il microcosmo corrisponde esattamente, o meglio, è la stessa cosa del macrocosmo in cui, se così si può dire, il mondo teoricamente siripete all’infinito e ritualmente in un certo numero di elementi in zone concentriche inserite l’una nell’altra, a partire dal corpo umano e dall’abitazione fino ai confini della terra, passando per il luogo santo, il palazzo, la capitale. Sempre si ritroveranno il cielo e i quattro orientamenti, il tutto raddoppiato da una successione verticale di 3 o 4 piani (cielo e terra, o cielo, terra e sottoterra) dall’umile pantano centrale e dall’apertura del camino della casa primitiva fino al palazzo nel centro della capitale e alla capitale nel centro del regno con le quattro porte ai quattro punti cardinali. L’organizzazione del mondo in zone concentriche e in piani sovrapposti non è statica.

Il loro buon funzionamento dipende dal centro regolatore, sede del potere politico e magico-religioso (il Re, il Santo). Nel Ming-t’ang, sorta di casa del calendario, il sovrano si sposta seguendo le stagioni da un punto cardinale all’altro, in perfetta armonia con la corrispondenza degli elementi che regolano i colori dei suoi abiti, il cibo che mangia, ecc… Se si verifica una simile organizzazione periodica sul piano orizzontale, la coesione del mondo è ugualmente assicurata sul piano verticale. In effetti, fra i due piani del cielo e della terra c’è un legame di comunicazione, un asse piazzato nel centro del mondo; quando la terra è immaginata come il cassone quadrato di un carro, l’asse è rappresentato dal pilastro centrale che sostiene il baldacchino, rotondo come il cielo

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Questo legame con il cielo è ancora l’albero o la pietra su un monticello: il dio del suolo. È anche l’obelisco eretto nel centro della capitale o la torre con tanti piani quanti il cielo (nove) o la Montagna sacra, pilastro del Cielo o essa stessa cielo a piani. A tutte queste forme dell’asse centrale corrisponde il Re o il Santo, ma, come nell’organizzazione del piano orizzontale, il legame tra gli ordini del mondo non è semplicemente statico, bensì dinamico. Il Re e il Santo ascendono e discendono dalla torre, dalla montagna dall’apoteosi luminosa.

Più vicino a noi, Svetonio ci insegna (Nerone, 31) che la stanza principale delle cenationes ruotava come il mondo ininterrottamente attorno al suo asse. Questa straordinaria costruzione resta isolata in Occidente ma trova delle corrispondenze nel palazzo dei Sassanidi. Le torri girevoli cinesi esprimono la stessa concezione (torre di Butthap a Tonchino, torre del tempio lamaico di Young-ho-Kong a Pechino): alcuni uomini sotto la torre, in un sotterraneo, la fanno ruotare con l’aiuto di pali di legno, mentre in cima all’edificio l’imperatore fa il gesto d’azionare egli stesso la costruzione cosmica di cui costituisce il centro.

Dopo aver ricordato qualcuno degli elementi maggiori del simbolismo del re del mondo, riprendiamoli uno per uno al fine di approfondirli ulteriormente, il che ci fornirà l’occasione di constatare che alcuni, non importa quali, sono capaci in un modo o nell’altro, di sinterizzare o di esprimere tutti gli altri: da qui l’incredibile ricchezza d’espressione di simboli apparentemente poco interessanti.

Partiamo da un’opera concreta, la statua romanica di Carlomagno nella chiesa di Müstair (Svizzera). L’imperatore è in piedi e tiene nella mano sinistra uno scettro, nella destra il globo del mondo segnato dei suoi grandi cerchi, con la croce piantata nel polo; egli porta una caratteristica corona. Esaminiamo innanzitutto ciascuno di questi emblemi.

Müstair, Chiesa – Statua: Carlomagno

Lo scettro è una riduzione del grande bastone del comando: verticale pura che gli consente di simboleggiare prima di tutto l’uomo in quanto tale, quindi la superiorità di quest’uomo eletto alla guida, infine il potere ricevuto dall’alto. Lo scettro dei nostri sovrani occidentali non è che il modello ridotto della colonna del mondo con cui le altre civiltà rappresentano la persona del re e del sacerdote. Citiamo, a questo riguardo, gli esemplari così espressivi pur nella loro semplicità, che ci offrono i popoli dell’Asia centrale e settentrionale e che a noi sono molto noti grazie ai lavori di Uno Harva. Egli riporta che l’asta di legno che per essi simboleggia l’asse cosmico è talvolta sormontata da un piccolo ripiano quadrangolare a forma di tetto; l’asta o il ripiano, recano spesso un uccello mitico, normalmente un’aquila considerata un uccello celeste; l’aquila è un simbolo universale dell’ascesa al cielo, della sovranità, del potere ricevuto o esercitato dall’alto o almeno da uno stadio superiore.

Asia centrale e settentrionale: Le colonne del mondo

In cima all’asse del mondo, allo scettro dei sovrani o alle aste delle bandiere, questo emblema diventa il simbolo del re del mondo o della divinità che troneggia nel polo celeste. Conviene sottolineare il carattere sacro di questo simbolismo. «Un’asta simile è oggetto di culto nel santuario a tenda dei Soioti delle steppe. Là, il bastone collocato in modo che la sua estremità superiore emerga dalla cima della tenda conica è abitualmente ornato… di pezzetti di stoffa che sono più spesso bleu, gialli, bianchi, i colori dei punti cardinali. Il bastone stesso è considerato sacro, quasi come un dio. Ai suoi piedi si eleva un altare rudimentale in pietre sovrapposte». In tal modo si avvia l’assimilazione del capo del re, al prete che fa tutt’uno con l’altare e il santuario e infine il mediatore in cui si rende presente la divinità.

La Corona è sempre stara espressione di un simbolismo cosmico. Quella di Carlomagno è tradizionale e caratteristica: di forma circolare, marcata ai quattro punti cardinali da quattro piccoli archi come l’imago mundi, le carte mitiche, le rappresentazioni più stringate delle città sante, lo schema cosmico della nuova Gerusalemme. Corona e scettro sono due simboli complementari che collocano il re in rapporto a tutto ciò che lo circonda; il riferimento cosmico appare chiaramente in un legno inciso del sec. XVI, che riassume perfettamente il simbolismo assiale del re mediatore: in piedi al centro del cerchio cosmico (con le quattro grosse gemme della corona che segnano i punti cardinali). Corona e scettro sono gli emblemi del sovrano in se stesso, mentre il globo rimanda al regno governare da questo sovrano.

Incisione su legno del XVI secolo: Scettro e corona

Il Globo è un simbolo di totalità: esso implica un’affermazione di sovranità universale da parte di colui che lo tiene in mano; ciò non significa sovranità sul mondo intero ma sovranità sul regno; di contro, non bisogna dimenticare che l’idea di regno ha sempre conservato qualcosa della nozione primitiva che lo eguagliava alla totalità del reale umanizzato. Il regno, l’impero, tanto in Occidente, quanto in Oriente – la Cina ha magistralmente sviluppato questo simbolismo geografico – sono costituiti da quattro parti al centro delle quali si colloca il monarca che ne assicura la totale coesione. Egli lo tiene in mano, tuttavia lo riceve anche dai suoi sudditi che collaborano alla stabilità permanente e che gliene fanno omaggio come al rappresentante di Dio sulla terra. Questo doppio movimento ha dato origine in Cina ad un grandioso cerimoniale; più discretamente la concezione occidentale si trova riassunta in una miniatura ottoniana che mostra le quattro parti dell’Europa che vengono ad offrire in omaggio il loro globo ad Ottone II (1002), il figlio di Ottone il Grande; attraverso la sua persona l’omaggio raggiunge il papa che incorona gli imperatori, e al quale questi si sentono uniti nel governo del mondo: Ottone in risiede frequentemente a Roma; l’imperatore coronato regge il globo con la croce e il bastone del comando.

Chantilly, Museo Condé –
Registrum Gregorii: L’imperatore Ottone II riceve in omaggio le quattro parti dell’Impero

Il Costume è talvolta anch’esso fortemente evocativo, soprattutto presso i popoli che sottolineano con vigore l’idea del sovrano assiale. Questa nozione di asse è correlativa a quella degli altri due o tre fori che mettono in comunicazione i diversi piani del mondo. I popoli dell’Altai parlano di un foro per il fumo della terra; da ciò deriva l’immagine del mondo delle antiche popolazioni civilizzate dell’Asia e dell’Asia Minore, per le quali gli inferi sono accessibili da un’apertura che sbocca nell’ombelico della terra: essa è in corrispondenza diretta con l’apertura situata in mezzo al cielo. L’apertura è dunque essenziale a questa simbologia quanto l’asse che ad essa conduce, ed è perché appartiene alla simbologia del re del mondo, del sacerdote o del pellegrino dell’aldilà. Lo sciamano iakuta porta nella schiena una placca di ferro rotonda forata nel centro.

In Cina, l’imperatore indossava una veste rotonda in alto come la pi e quadrata alla base come il ts’ong: la sua persona costituiva la scala della vita che ricongiungeva le due aperture. Non meno interessante la grande casula circolare in un solo pezzo aperta nel centro per far passare la testa: il prete che la indossa si trova ritualmente collocato al centro dell’universo, identificato nell’asse del mondo, essendo la cappa la tenda celeste e trovandosi la testa nell’aldilà, dove si trova Dio, di cui il sacerdote è il rappresentante in terra.

Casula circolare

La cappa detta di Carlomagno a Metz, è ornata d’aquile che convergono verso l’apertura centrale, il che ben sottolinea il loro simbolismo ascensionale e celeste.

Metz – Cappa di Carlomagno

Tale schema viene necessariamente replicato nell’architettura (processo di incastro); pensiamo, per esempio, alla cupola absidale della chiesa di Notre-Dame du Thor, in Provenza, ornata d’aquile in volo che circondano alla chiave di volta l’Agnello di Dio in posizione.

Le Thor, Notre-Dame-du-Lac – Catino absidale

Il Trono non si presenta più come emblema, ma come mobile che «contiene» il sovrano e che costituisce un secondo livello simbolico.

In India l’incastro successivo dei microcosmi che costituiscono il sovrano, il trono su cui siede e il tempio al centro del quale questo trono è collocato, risulta particolarmente illuminante. Colui che siede sul trono è anch’egli una riduzione dell’universo, l’Embrione d’Oro collocato nella Matrice del Mondo. A questo proposito, sono significativi numerosi tipi di trono: il celebre Trono-di-Diamante (Vajrasana) sul quale, a Bodh-Gayā, il Budda Sakyamuni ricevette l’Illuminazione; quelli messi in relazione con la colonna-perno del mondo (illustrati in particolare a Amaravati, II-IV secolo circa); quelli di Pegou e di Mandalay (Birmania) ancora più espliciti, che rappresentano, attraverso una particolare iconografia, il mondo degli dei sostenuto dal monte Meru. Seduto nel centro del cosmo, il re che lo occupa ne è il maestro e il rappresentante; il possesso è assicurato dal profitto di coloro sui quali governa quaggiù. Ciò spiega la grandissima importanza accordata alla fabbricazione del trono reale e alla sua decorazione simbolica che riassume le componenti del cosmo; ciò, inoltre, motiva le severe proibizioni di sedersi sul trono reale senza averne diritto (cioè senza essersi predestinati), o rende ragione della onnipotenza universale di chi vi si siede. Infatti, simbolo minore del Mondo, il Trono nella tradizione indiana fa il re. Le tre colossali sedie di pietra scolpita di Siva, Brama e Visnù di Besaki (Bali), rappresentano dei troni-altari posti sulla cima di torri simboleggianti l’asse cosmico e il Meru: ciascuna torre s’innalza su un’enorme Tartaruga del Mondo.

Le civiltà più disparate testimoniano diffusamente le stesse fondamentali concezioni. Il valore rappresentativo del trono è così forte che costituisce di per sé un simbolo della presenza di colui che ha il diritto di sedervisi. Vuoto, esprime il carattere trascendente – o sperato – di questa presenza. Il tema iconografico del trono vuoto di Cristo, o etimasia, era un modo di assicurargli una presidenza invisibile, (per esempio in occasione dei Concili) e anche d’anticipare l’ora in cui ritornerà per il giudizio, alla fine dei tempi.

Il trono vuoto e l’albero della conoscenza, simboli di Buddha

Il trono è sopraelevato: è una realtà eminente come la montagna cosmica o l’asse del mondo.

Papiro di Hunefer: Osiride in trono

La figura rappresenta Osiride (Dio della vita nell’aldilà) seduto su un trono; quest’ultimo è collocato sulle acque della ricreazione (rappresentate da piccole linee spezzate) da cui emerge, davanti ad esso, un fiore di loto sbocciato; dal fiore escono i quattro figli di Horo che sono gli dèi dei quattro punti cardinali del nuovo cosmo d’oltretomba. Nella stessa prospettiva tradizionale, gli autori cristiani dei primi secoli hanno visto senza difficoltà nella croce piantata sul Calvario il trono cosmico, dall’alto del quale il Salvatore crea il mondo nuovo accogliendolo nel suo mistero: «Quando sarò elevato da terra (cioè sulla croce considerata come la prima tappa o lo strumento della sua esaltazione celeste), io attirerò tutti a me» ha detto Gesù.

Non occorre soffermarsi sui troni che si riconducono essenzialmente al sedile cubico (terra) sormontato da un arco di cerchio che si sviluppa in aureola (cielo). Un secondo tipo, invece, merita di essere considerato a lungo; innanzi tutto, perché meno conosciuto, nonostante sia piuttosto diffuso, e poi perché ci consente di cogliere come un simbolo fondamentale possa essere incredibilmente ricco di significati senza tuttavia alterarsi sensibilmente. Questo secondo tipo di trono è innanzi tutto un simbolo del dio dell’universo o del re del mondo. La sua struttura è quella dell’asse cosmico circondato dai quattro punti cardinali, cioè quella della più tradizionale imago mundi, che abbiamo già rintracciato, per esempio, nelle civiltà dell’Asia orientale (in particolare nei templi assiali indù) e ritrovato tanto alle latitudini tropicali quanto a quelle equatoriali. Leo Frobenius cita un certo numero di esempi che ha personalmente rilevato nell’Africa nera e che sono considerati già molto più che simboli dell’universo. Tale, nel paese di Joruba, quell’area consacrata al dio Edschou, dove si trovavano cinque coni di argilla con al centro il più grande sormontato da una coppa e attorno i quattro più piccoli, il tutto circondato da un canaletto. Vi sono migliaia di santuari dedicati ad Edschou; la maggior parte consiste semplicemente in una massa di argilla, ma eccezionalmente si trovano anche degli esemplari perfetti, come quello di Gbaga, che comprende non solo il cono di Edschou, ma anche delle quattro divinità locali dei quattro punti cardinali e dei giorni della settimana. Edschou è il dio dell’ordine, dell’immagine del mondo. Il cono di Edschou è il monte del mondo.

Nigeria, Gbaba – Area consacrata al dio Edschou degli Joruba

Osserviamo la coppa in cima al monte-asse; essa è il simbolo delle benefiche relazioni cielo-terra, rappresenta il ricettacolo delle elargizioni divine e la disponibilità all’accoglienza dei fedeli (cfr. il calice eucaristico ai piedi della croce, il Graal…), ed è anche ciò che rappresenta simbolicamente la divinità, o la sua sede: al sommo dell’asse cosmico, essa coincide con il polo dell’asse celeste dove egli troneggia. Questo concetto è spesso sviluppato fino a concepire l’immagine cosmica intera come il trono gigantesco della divinità.

Il Baldacchino reale e il parasole da cerimonia o divino meritano una menzione a parte. Ne abbiamo già parlato spesso. Essi compaiono in numerosi protocolli. In Cina, l’universo ha per simbolo tanto la casa del capo quanto il carro cosmico. Questo carro è costituito da un cassone cubico in cui prende posto l’Uomo-Unico, il Figlio del Cielo; un palo centrale, replica dell’Albero della vita e dell’Albero centrale, Kien Mou (legno elevato) per mezzo dei quale i sovrani salgono e scendono, sorregge un grande baldacchino circolare che rappresenta il cielo; esso risponde ad una geometria simbolica precisa che ne determina con rigore i tre elementi: la parte centrale, piatta, i due bordi curvi, il contorno. Il parasole da cerimonia ne costituisce la replica portatile. È un emblema, tanto che, come il trono, esso talvolta sostituisce il sovrano o la divinità quando si voglia evitare di rappresentarli di persona.

Bassorilievo: La partenza del principe Siddharta, che diverrà il Buddha

Un affresco dell’oratorio di S. Silvestro a Roma (sec. XIII) mostra Costantino che offre una tiara conica al Papa Silvestro mentre un personaggio del suo seguito agita il parasole da cerimonia e un altro stringe al petto la corona quadripartita che l’imperatore ha deposto per l’occasione: questi tre simboli appartengono allo stessoordine simbolico. (Rinunciando alla tiara, Paolo vi ha inteso eliminare ogni equivoco di dominio temporale che essa conservava fin dalle sue origini). Dietro il Papa, l’alta croce costituisce la replica dello scettroche teneva Carlo Magno e il simbolo dell’autorità religiosa.

Roma, San Silvestro – Oratorio, Affresco: Costantino offre la tiara al papa Silvestro

La miniatura carolingia che rappresenta Carlo il Calvo sul suo trono (IX secolo) costituisce una piccola sintesi di quanto abbiamo appena detto.

Parigi, Biblioteca Nazionale – Bibbia di Viviano: Carlo il calvo sul trono

Si noti l’incastro: uomo, corona e scettro, trono con predella e schienale; la scena appare in un’arcata formata da un arco di cerchio su due pilastri; il velo che pende simboleggia il firmamento; al di sopra, si stende dunque il cielo. In alto alcuni personaggi si protendono verso il monarca reggendo delle corone per dimostrare che il potere è dato da Dio; la mano divina esce da una nuvola, in verticale e designa il luogotenente di Dio sulla terra, il suo rappresentante, come spesso si rileva nei battesimi di Cristo o nelle Crocifissioni; due lampade da santuario pendono da entrambe le parti per sottolineare la presenza divina. Il fiore di lis sopra l’arcata corrisponde a quello sopra l’arcata del trono: entrambi determinano la verticale che è l’asse della rappresentazione e colloca il monarca al centro del mondo con i suoi dignitari in cerchio attorno a lui come rappresentanti di tutto il popolo.

Cerimoniali e riti esprimono a loro modo lo stesso principio. Nel mondo gallo-germanico, l’antico uso di proclamare un capo elevandolo sul trono costituiva un rito evidente del simbolismo teocratico. Come nella Croce di Saint-Omer, la forma bombata dello scudo – trasformazione occidentale della tartaruga orientale e dei tamburi sciamani – rappresentava il cielo. Innalzare nel suo centro il capo, il bren,significava collocarlo nella posizione di rappresentanza di Dio che troneggia nel cielo. L’idea rimase nei tempi successivi, per esempio fu ripresa dallo scultore Lemoyne in un progetto di monumento dedicato a Luigi XV, in cui il sovrano compare in piedi su un trono elevato da numerosi uomini. Una tradizione che ha dei paralleli nell’antico Egitto, in Cina e in molti altri paesi o civiltà si è perpetuata nel rituale dei re di Ungheria: l’ultima cerimonia consisteva nella salita a cavallo del monarca su un poggio emisferico formato dalla terra portata da tutte le province del regno. Quando il monarca aveva raggiunto la cima di questo luogo simbolico, dava un colpo di spada – in Egitto tirava quattro frecce – verso i quattro orizzonti, per indicare il suo comando sui quattro punti cardinali.

Nell’iconografia cristiana, la funzione di rappresentanza del sovrano rispetto a Dio era vigorosamente sottolineata affinché nessuno l’ignorasse. Ci si compiaceva d’illustrarla chiaramente, come in una miniatura del Salterio d’Egberto (sec. X). Gesù è sul trono: egli stesso incorona Costantino e sua moglie prima di cedere loro il posto; la scena si svolge in un quadro celeste: cherubini e serafini sostengono il trono sopra il quale stanno i quattro Viventi dell’Apocalisse. Così si assicura la continuità del potere terreno con quello celeste e tale continuità è di ordine teologico: essa sarà perfetta quando Cristo in persona si presenterà come sovrano dell’universo, troneggiando su di esso.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo    
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine381-402 

Alexander Neckam, De naturis rerum – Presentazione

Sezione: Studi


Alexander Neckam o Alexander de Sancto Albano, erudito e scienziato inglese vissuto tra il 1157 ed il 1217, può considerarsi uno degli autori più fecondi del Medioevo: scrisse di liturgia e di scolastica, di grammatica e di storia biblica, compose fabulae e trattò di virtù morali come della nomenclatura di strumenti di ogni genere. Tuttavia la sua opera capitale, che lo rese celebre presso i contemporanei e i posteri, fu senz’altro il De naturis rerum, un grande compendio scientifico in prosa.

Innanzi tutto merita attenzione il singolare richiamo che un testo di questo genere porta con sé, ossia l’invito a guardare e pensare l’universo come un meraviglioso tappeto tramato di innumerevoli nomi e figure simbolici, secondo un ordine che coniuga mistero e bellezza, vanità mortale e arcani misticismi, creature ordinarie con monstra e mirabilia. Le cose tutte, dalle stelle ai colori, dalle pietre ai sogni, agli stessi avvenimenti storici o mitici, divengono qui cifre di qualcos’altro, una sorta di poliedrico lessico rischiarato da una mirabile unità: omnia in unum tendunt scrive Agostino nel De ordine. È un mare di creature che, nel rispetto e nei limiti della gerarchia delle cose, pensata neoplatonicamente, costituisce il concento del Creatore e il veicolo attraverso cui l’uomo, aurea medietà tra Dio e i regni naturali, può conoscere se stesso e il senso di ogni cosa nella mirabile cornice redentiva del messaggio cristiano: per visibilia ad invisibilia.

L’uomo medievale si sente il colpevole epigono di Adamo nel perduto Paradiso: come questo dava allora i nomi alle creature, quello, ormai allontanato dal Giardino, prova ora a ritrovarli, perché ne ha dimenticati i suoni e la pronuncia, ignora il senso delle parole e delle immagini edeniche, e le cerca in un pellegrinaggio altrove che coinvolge l’anima e il corpo.

Una volta Adamo conosceva il linguaggio divino, dove il nome e la cosa nominata coincidono sostanzialmente, adesso la sua errante progenie tenta di imitarlo, in ben minor grado e con ben più fatica. Qui, come vuole il dettato paolino, il senso delle cose (dei verba e delle imagines), della creazione e del divino, si può cogliere soltanto “per speculum in aenigmate”, e non più direttamente, “faccia a faccia”.

Ne consegue che, per l’uomo decaduto, l’unica possibile via per accedere alla Sapienza sia quella di una lettura simbolica del fenomeno mondano: tale da trasmutare gli “oscuri riflessi”, che ci appaiono dinanzi, in signa dell’invisibile. L’imperfezione diviene pertanto un umile gradino sulla strada della perfezione, ed il signum o symbolum può coniugare il caduco all’eterno. Così quest’uomo crede di imitare – analogicamente s’intende – la sapiente parola del primo Adamo, il suo colloquio con la natura divina delle cose, come può immaginare di volare di nuovo su quel mare di creature fino ai più alti cieli. In quest’ottica sta la genesi dell’enciclopedismo medievale. Ma non solo. Infatti l’uomo medievale si sente anche l’erede ed il continuatore della cultura antica, dell’idea di una classificazione dello scibile umano secondo dati cosmologici, cronologici ed etimologici, ovvero di una catalogazione della totalità di conoscenze relative ad un determinato campo. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo enciclopedia, termine ignoto al Medioevo e che inizierà a circolare in Europa soltanto agli inizi del XVI secolo. Le Antiquitates di Varrone (116-27 a.C.), oggi perdute ma note ad Agostino, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79), il De lingua latina ancora di Varrone, sono i modelli classici di una simile concezione. È Agostino (354-430) a sottolineare, nel De doctrina Christiana, quanto sarebbe opportuno riunire tutte le conoscenze per interpretare le Scritture: e qui sta il nodo della questione, cioè nella interpretazione e ripresa che il cristianesimo dette del concetto di “enciclopedia” proprio del mondo antico. Difatti mentre nelle opere degli autori classici l’intento è prevalentemente scientifico e documentale, si guarda cioè alla storia del mondo e dei suoi fenomeni rispettandone sia la complessità che le contraddizioni e la molteplicità delle opinioni (naturalistiche, filosofiche, etimologiche o altro che siano), con l’avvento del Cristianesimo tutto ciò si restringe, l’angolo di visuale viene ridotto ad un monocolo: la verità è la dottrina cristiana e ad essa tutto va rapportato e commisurato. Si afferma così, in tempi e modi diversi, con toni più o meno accentuati, quel fenomeno della moralizzazione cristiana del sapere che impregnerà l’intera produzione “enciclopedica” medievale.

Si tratta di un oscillante connubio tra fede e scienza, tra curiositas e accettazione passiva di nozioni bibliche e patristiche, che trova, a seconda di questo o quell’autore, soluzioni discontinue. Tuttavia costante e prevalente rimane per tutti l’intento pedagogico ed evangelico: lo scopo dell’“enciclopedista” o compilatore medievale è soprattutto quello di edificare spiritualmente il lettore, relegando in secondo piano, e talvolta ignorandolo, quell’intento storico-critico ed ermeneutico, alieno da pregiudizi, comune a un Varrone o ad un Plinio il Vecchio. Il fine infatti è di accostare il fedele ad una giusta condotta morale secondo gli insegnamenti cristiani, di favorirne la conoscenza del mondo così come l’ha creato Dio e l’hanno spiegato le Sacre Scritture. Allora nelle pagine degli “enciclopedisti” è comune trovare, accanto a dati scientifici, talvolta di grande interesse, ‘autorevoli’ affermazioni che ‘moralizzano’ cristianamente tali dati, secondo un meccanismo analogico che ne garantisce la veridicità in maniera apodittica. Alcuni esempi: l’astro lunare allude alla Chiesa, perché esso è illuminato dal sole proprio come la Chiesa lo è dal Cristo; la balena “è il pesce che ricevette Giona nel ventre suo”; le candide perle significano la dottrina evangelica o la speranza del regno dei cieli; lo stagno è allegoria del discorso sofistico e della simulazione degli eretici, mentre il ferro della tribolazione e della sofferenza; lo smeraldo reprime la lussuria e protegge dalle illusioni diaboliche.

Dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) al De rerum natura di Beda (673-753), dal De universo di Rabano Mauro (784-856) all’opera di Neckam o al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, composto verso il 1250, fino all’immensa compilazione, lo Speculum mundi, di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), o a Li Livres dou Tresor di Brunetto Latini (1240-1294), il significato delle parole e delle immagini, del tempo e dello spazio verranno trasmessi, mutatis mutandis, sotto l’egida dei dottori cristiani e delle Scritture, in un orizzonte sempre e comunque cristocentrico.

Esemplare testimonianza sono alcune parole del dottissimo Isidoro di Siviglia, il capostipite di questa tradizione, a proposito del suo De natura rerum. Si legge nella dedica: “Quae omnia secundum id quod a veteribus viris ac maxime sicut in litteris catholicorum virorum scripta sunt, proferentes brevi tabella notamus. Neque enim earum rerum naturam noscere superstitiosae scientiae est, si tantum sana sobriaque doctrina considerentur” (“Esponendo tutte queste cose secondo quanto è stato scritto dagli antichi e massimamente come ne hanno trattato gli autori cattolici, ci siamo comportati con grande concisione. Infatti la conoscenza di questi fenomeni naturali non è propria di una scienza superstiziosa, se soltanto vengano esaminati con dottrina incorrotta e giudiziosa”). La non velata distinzione tra autori pagani e quelli cattolici, come il parallelismo tra superstizione e dottrina incorrotta riflette in breve il tema della moralizzazione di cui sopra. Non a caso il De natura rerum è una compilazione musiva di notizie cosmografiche e meteorologiche, inerenti gli anni, la notte e il giorno, le stagioni, la corsa dei pianeti, le stelle, lo zodiaco, i venti, i mari, i fiumi, il fulmine, e così via. Ebbene nel testo, seppure non manchino prelievi, non sempre diretti, da autori come Quintiliano, Marziano Capella, Servio, Igino, Lucano, Lucrezio, Solino o Virgilio, le auctoritates vere e proprie che garantiscono le sue parole, di scienziato e di credente, sono soprattutto Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e Cassiodoro, oltre ovviamente ai Vangeli e all’ Antico Testamento.

Non molto diversamente, circa due secoli dopo, Rabano, altro magister di questa vision du monde, comporrà con il suo De universo una vasta glossa allegorica o mistica alle Etymologiae dello stesso Isidoro. Analogamente, circa cinque secoli dopo, Neckam coniugherà scienza e allegorismo morale, fantasiose etimologie e simbolismi edificanti, avvertendo che la sua opera vuole soprattutto innalzare lo spirito del lettore a Dio attraverso Cristo, citando ancora come indiscutibili autorità i Padri della Chiesa e la verità biblica, senza per altro dimenticare Virgilio, considerato un negromante, Ovidio, Claudiano e altri “antichi”.

Di notevole interesse, per l’intelligenza del pensiero “enciclopedico” medievale, è lo studio dell’organizzazione interna di questi trattati, che non è alfabetica né cronologica tout court, bensì segue di solito una divisione gerarchica o tematica delle cose naturali o artificiali, della storia sacra o di quella profana, delle virtù e dei vizi. In particolare nell’età d’oro dell’“enciclopedismo”, cioè tra il XII ed il XIII secolo, questo tipo di struttura interna risente dello schematismo gerarchico dionisiano. Infatti, la fortunata opera di Dionigi Areopagita, approdata in Europa nel IX secolo con la traduzione dello Scoto Eriugena, propone un modello gerarchico, di conio neoplatonico, per cui l’universo intero è realmente una scala, una catena di creature tra loro interconnesse e disposte gerarchicamente. A partire dall’alto il risultato della causalità divina ha prodotto angeli, uomini, animali, piante ed esseri inanimati. Al di sopra di tutti stanno i nomi divini, che giustificano ontologicamente quella stessa trama gerarchica e costituiscono il vero oggetto di conoscenza per l’uomo. L’artificio dionisiano viene esplicitamente preso come guida tematica da Bartolomeo Anglico per il suo De proprietatibus rerum e Tommaso di Cantimpré, nel Liber de natura rerum composto verso il 1240, suddivide l’opera parlando prima dell’uomo poi degli animali (seguendo naturalmente una processualità che va dai quadrupedi fino ai vermi), successivamente delle piante e infine al mondo minerale.

Un simile tessuto di nozioni se da un lato trova il fondamento della storia e della natura nei fatti biblici e nella parola di Dio, dall’altro individua, come si diceva sopra, nel linguaggio allegorico o simbolico lo strumento più adatto per decifrare e descrivere quella storia e quella natura. La ragione di ciò ha il suo crogiuolo concettuale nella convinzione dei maggiori Padri della Chiesa, da Girolamo a Gregorio, da Origene ad Agostino (ma fondante è Paolo nella Lettera ai Galati, IV,24: “Queste cose sono dette in senso allegorico”), che la Scrittura, “creata” da Dio come il mondo, in quanto rivelazione dell’unico Altissimo e Verbum Redemptionis, costituisca una “infinita sensuum silva”, contenga allegoricamente un oceano di significati e di misteri, la cui profondità benché indecifrabile va scandagliata e meditata dal credente. Infatti interpretare le allegorie ed i simboli delle Scritture permette di decrittare appunto la “scrittura” di Dio e dunque la sua volontà. Similmente spiegarne il senso morale permette di esaltare quei parametri virtuosi che edificano la fede, così come accogliendone il messaggio profetico ed escatologico si risolve il senso della storia e della salvezza.

Il libro della “natura delle cose” si dispiega e scorre dinanzi agli occhi di Neckam e degli altri compilatori enciclopedici allo stesso modo in cui si leggono le pagine della Bibbia: l’analogica e l’allegorica li coniugano, il simbolismo misterico li salda. Ne nasce quello straordinario e mirabolante vocabolario di nuove combinazioni iconologiche, di sincretismi figurativi e verbali, di azzardate e talvolta sconclusionate etimologie, che forse costituisce ancora oggi uno dei contributi più affascinanti del Medioevo. Epoca in cui il simbolo e il traslato non si sovrappongono alla realtà, ma l’accompagnano fino a fondersi con essa, fino all’invenzione di una vera e propria realtà fantastica, ma non fantasiosa.

Il trionfo di tanto “enciclopedico” linguaggio verrà poi concretato nell’arte dei chiostri, dei capitelli, sulle pareti o sui portali delle chiese, nelle miniature e sulle stoffe: ovunque i bestiari e i florari, la Biblia pauperum o il cielo e gli elementi verranno materiati da scalpellini, muratori, pittori e tessitori. Le sillabe e le parole scritte nel libro di Neckam, come quelle che corrono nelle altre opere consimili, si trasferiscono così nell’arte e una chiesa istoriata diviene un libro, le cui pagine sono le pareti e le superfici dei più svariati membri architettonici. Un simile insegnamento per figure permette al fedele di guardare e contemplare la scala della “natura delle cose”, e di incamminarsi, viandante, sul monte sofianico dell’universo: ne può ammirare l’ordine, la misura, la musicale gerarchia. In questo il Medio Evo appare il degno e nobile erede delle fabulae e dell’harmonia di una più antica e arcana sapienza, che spetterà poi al Rinascimento, come ai secoli successivi, riconoscere, studiare e ricollocare degnamente nella storia e nel mito precristiani, quando Thoth e Orfeo, Prometeo e Atena, Aglaofamo e Pitagora educavano gli uomini sulla secreta “natura delle cose”.

AutoreMino Gabriele
PubblicazioneAlexander Neckam: De naturis rerum libri duo
CuratoreThomas Wright 
EditoreLa Finestra (Archivio medievale)
LuogoLavis (TN)
Anno2003 
PagineIII-XII

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (2)

Remigio di Auxerre († 908 ca.), discepolo e successore di Eirico, è il più fecondo autore di commenti di epoca tardo-carolingia. La sua attività si è svolta sui più diversi fronti: dai testi scritturali a quelli liturgici, dagli auctores classici alle opere di scuola sulle arti liberali (in particolare sulle discipline del trivio). Anch’egli contribuisce in modo tangibile alla divulgazione dell’eriugenismo – capillarmente diluito e diffuso, per il tramite inoffensivo di queste raccolte di glosse, nel mondo monastico fino al secolo dodicesimo – come si può constatare soprattutto dai commenti a lui attribuiti con forti margini di probabilità: quello a Marziano Capella, innanzi tutto, direttamente dipendente dalle Annotationes di Giovanni Scoto; quindi quelli al Genesi, a Prudenzio, a Sedulio, al De dialectica agostiniano; e infine, tra i più rilevanti, i due a Boezio: agli Opuscula e alla Consolatio: particolarmente interessante è soprattutto la sua lettura del nono carme del terzo libro di quest’ultima opera, il famoso O qui perpetua, in cui è proposta una densa esposizione riassuntiva della teologia e della cosmologia del Timeo platonico. In queste raccolte, la cui vasta diffusione fece di lui uno degli autori più letti nei due secoli seguenti, sono probabilmente confluiti i materiali su cui si basavano le lezioni che Remigio impartì, commentando verbalmente questi stessi testi, prima ad Auxerre, poi a Reims, dove fu chiamato dall’arcivescovo Folco (successore di Incmaro) per riorganizzare la scuola cattedrale, e infine a Parigi, dove ebbe tra i suoi ascoltatori anche il giovane Oddone di Cluny.

La vorace curiositas, che spinge Remigio ad ampliare al massimo le sue pedanti compilazioni, includendo idee, dati, pareri provenienti dagli scrittori che di volta in volta egli giudica autorevoli e specialisti nei diversi settori di studio, fa di lui un erede diretto del programma sapienziale carolingio fondato sulla sintesi di tutte le competenze e conoscenze utili per consolidare una descrizione classificatoria della verità in chiave cristiana. L’ideale della sapienza è ridotto in questi anni a un progetto di erudizione e pedagogia, fondato soprattutto sulla semplificazione e sull’apprendimento mnemonico. Importanza fondamentale hanno in questa prospettiva lo schematismo, la divisione del sapere e la classificazione delle discipline, il curriculum ordinato delle arti, che consentono una gestione ordinata e complessiva delle nozioni. La scuola non è più una fucina di idee, ma un archivio, dedicato a conservare e soprattutto a garantire l’unità del patrimonio culturale ereditato dal recente passato.

La rilettura che Remigio fa dell’esamerone nelle prime pagine del Genesi è una elementare sintesi delle informazioni fisico-cosmologiche circolanti in età carolingia. In questa forma Remigio dà il suo fondamentale contributo all’edificazione di una solida piattaforma elementare per la preparazione teologica degli uomini dell’Europa monastica, più accostabile e fruibile di quanto non siano le grandi elaborazioni concettuali di sapienza sistematica.

Prende così corpo soprattutto grazie al suo contributo, e si impone nelle scuole altomedievali senza troppe difficoltà e contestazioni, una concezione armonica, ma aliena da approfondimenti speculativi, dei rapporti tra il mondo creato e Dio creatore, nella quale il neoplatonismo eriugeniano si fonde con l’agostinismo e con le dottrine fisico-cosmologiche dei platonici tardo-antichi. Al centro di questa immagine dell’universo è sempre dominante il ruolo mediatore svolto dal Verbo, variamente presentato come Lógos, o Ratio divina, come divino exemplar a cui somiglianza il mondo è stato creato, come vita reale di tutto ciò che è (secondo il vocabolario del Prologo giovanneo) e come ars che il Padre, quale divino artifex, porta ad effetto nella creazione. Nel Verbo sono presenti le forme universali della realtà, idee o rationes, mentre lo Spirito Santo è l’efficacia operativa che le porta a compiere la loro produttività di essere negli effetti molteplici. Il creato è la dispositio universale, che riflette l’ordo perfetto pensato da Dio, comprensivo di entità spirituali e materiali, nella cui duplicità Remigio risolve il binomio eriugeniano quae sunt e quae non sunt, più volte riproposto come formula riassuntiva della creazione.

Remigio è insomma il testimone più rappresentativo della metamorfosi dell’ideale scolastico carolingio. Ma non è l’unico: fra i numerosi maestri che ne condividono metodo e impostazione, e che per la maggior parte rimangono anonimi, ci sono pervenuti alcuni nomi che meritano di essere ricordati. Per esempio Bovo (o Bovone), abate di Corvey (l’abbazia gemella di Corbie, in Sassonia), morto nel 916, che in un commento al solo metro boeziano O qui perpetua sottolinea energicamente le divergenze tra la fede cristiana e la dottrina schiettamente filosofica del carme: sapendo che Boezio è stato anche autore di opere sulla religione cristiana, egli risolve tale contraddizione suggerendo che è opportuno riconoscere che in questi versi egli «non ha affatto inteso discutere la dottrina insegnata dalla Chiesa cristiana, ma ha soltanto voluto esporre e far conoscere ai suoi lettori gli insegnamenti dei filosofi e soprattutto dei platonici».

Tale suggerimento è significativo, in quanto rivelatore di un mutamento di mentalità nel nuovo corso curioso ed erudito della cultura tardo-carolingia: Bovo è in fondo uno dei primi testimoni di una distinzione classificatoria tra sapere filosofico e sapere teologico, che consente di accostarsi ai filosofi antichi accettando che parlino da filosofi, senza timore di vedere per questo compromesse le certezze della religione cristiana.

L’influenza del nuovo metodo di lavoro scolastico è infine constatabile anche nelle famose traduzioni in anglo-sassone di testi latini opera del re del Wessex Alfredo il Grande († 899). Patrocinatore della cultura, amò circondarsi di uomini dotti provenienti dal continente. Le traduzioni di Alfredo – che assicurarono la diffusione in area linguistica anglosassone di importanti classici cristiani latini come la Consolatio di Boezio – sono in effetti accompagnate da importanti prefazioni illustrative simili agli accessus ad auctores; e più che versioni alla lettera, sono libere trasposizioni, con parafrasi, omissioni e non di rado precisazioni, che le fanno assomigliare da vicino alle raccolte di glosse diffuse sul Continente. Per esempio, nella traduzione della Consolatio, i concetti teologici più complessi di sapore neoplatonico sono ricondotti ad una più elementare dimensione cristiana, come quando sistematicamente il traduttore accosta al «Sommo Bene» boeziano la parola «Dio», alla «ragione divina» il nome di «Cristo», e così via: aggiunte che anche nella forma sono molto simili alle glosse interlineari di Remigio o dei commentatori suoi contemporanei. Si tratta di una conferma in più, insomma, di come la lettura analitica dei testi sia finalizzata ad una più facile divulgazione e all’introduzione guidata dei loro contenuti all’interno di un patrimonio culturale e spirituale comune.

Autore: Giulio d’Onofrio
Pubblicazione:
Storia della Teologia nel Medioevo. I: I princìpi
Editore
: Piemme
Luogo: Casale Monferrato
Anno: 1996
Pagine: 345-349
Vedi anche:
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (1)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (1)

Il letargo intellettuale che caratterizza l’ultimo trentennio del secolo IX non è determinato, come nell’età romano-barbarica, da un arresto dell’attività scrittoria: i cataloghi delle principali biblioteche d’Europa testimoniano come in questo periodo l’opera di copiatura e diffusione dei manoscritti fosse anche più intensa che negli anni del massimo splendore della rinascita.

Divenuta povera e rarefatta la produzione di testi letterari e filosofico-teologici originali, negli scriptoria tardo-carolingi si lavora ormai, oltre che per copiare, soltanto per leggere e spiegare i testi classici che la sensibilità letteraria degli anni precedenti ha rintracciato e proposto come esempi da imitare. I maestri della decadenza lavorano quindi soprattutto, se non esclusivamente, come glossatori: annotano sui margini dei manoscritti chiarificazioni di termini e concetti, indicazioni di figure retoriche, esplicazioni di allusioni storiche o mitologiche, ma anche idee che vengono loro in mente per associazione durante la lettura o per introdurre brevi allargamenti dottrinali, spesso neanche richiesti dal testo interpretato. In un gioco ad incastro le cui regole non sono sempre ben formulate, le raccolte di glosse, interposte fra le righe o sui margini del testo o anche adunate separatamente in forma di commento continuo, diventano così uno strumento ritenuto particolarmente adatto a difendere dal nuovo incalzare dell’ignoranza la sapienza dei padri. Il commento di scuola non è un’invenzione di questi anni: il modello risale all’età tardo-antica ed anche i decenni della fiorente stagione carolingia ne hanno visto un’utilizzazione frequente, quale apprezzato strumento didattico e informativo, e non solo nell’ambito dell’esegesi scritturale, già ampiamente collaudato dai secoli della letteratura patristica.

Alla fine del secolo IX e per tutto il secolo seguente la diffusione della glossatura di tutti i testi sottoposti a lettura scolastica assume però proporzioni impressionanti. La sua applicazione si estende dagli studi liberali a quelli teologici (e non solo alle pagine della Scrittura ma anche alle opere dei Padri), dalle enciclopedie ai più importanti testi poetici o letterari dell’antichità o della tarda-antichità: quelli cioè che, come Virgilio, Orazio, e lo stesso Boezio, vengono accolti come auctores (autorità, nel loro ambito), e alle cui opere vengono premesse delle piccole prefazioni (gli accessus ad auctores) che trasmettono da un manoscritto all’altro interessanti raccolte di informazioni sulla vita, l’opera e la figura culturale di ciascuno scrittore classico.

Ogni copista, mentre manifesta grande rispetto per la conservazione integra dell’opera commentata, si ritiene autorizzato ad operare tagli o a fare aggiunte sul commento, ad intervenire direttamente sull’intreccio delle annotazioni e sul loro testo. È questa una prova in più del fatto che tali commenti sono considerati anche da chi li redige, più che vere e proprie opere d’autore, semplici registrazioni di dati informativi, senza pretese di originalità e destinate all’uso didattico.

Un certo interesse riveste il discorso sulle fonti che vengono consultate per redigere le glosse. Tra le più antiche svolgono ovviamente un ruolo determinante i testi patristici ed enciclopedici cristiani, ma anche le opere filosofiche della tarda-antichità costituiscono un interessante deposito di informazioni scientifiche cui volentieri attingono i maestri tardo-carolingi: in questo senso è significativo segnalare la frequente utilizzazione dei testi platonici latini tardo-antichi, soprattutto Calcidio e Macrobio, che, sottoposti alla spigolatura dei monaci eruditi, garantiscono la diffusione sotterranea (che si spinge, senza troppo clamore, fino alla «rinascita» del secolo dodicesimo) di nozioni filosofiche di origine platonica, soprattutto di natura fisico-cosmologica, ampiamente utilizzate per illustrare i rapporti tra Dio e il mondo e l’opera della creazione. Tra le fonti più recenti non è casuale che un ruolo di grande importanza venga svolto dai più autorevoli scrittori carolingi, quali Alcuino, Rabano Mauro e Giovanni Scoto Eriugena.

E proprio dall’opera e dal pensiero eriugeniano derivano nel vario e incerto pelago delle glosse tardo-carolingie soprattutto preziose nozioni e dottrine di carattere filosofico-teologico. Ad un attento vaglio critico, nella maggior parte dei casi è stato possibile dimostrare che l’eriugenismo emergente da questi commenti, per lo più abbastanza superficiale, dipende dal fatto che i loro autori hanno operato negli ambienti stessi in cui maggiore è stata l’incidenza che l’insegnamento di Giovanni Scoto ha esercitato nel mondo culturale europeo in questi anni di incipiente disfacimento del sistema politico imperiale, tra i quali si segnalano in particolare le scuole di Laon e di Auxerre.

Nella seconda metà del secolo nono vi sono attivi personaggi collegabili con la personalità del pensatore irlandese: come i suoi conterranei Martino, discreto conoscitore del greco, e Elia, poi vescovo di Angoulême; e Ucbaldo di Saint-Amand, autore di un florilegio dai testi eriugeniani.

Maestro diretto di Ucbaldo è stato Eirico di Auxerre, il primo che abbia utilizzato direttamente come fonti per le proprie idee teologiche gli scritti di Giovanni Scoto, forse messi a sua disposizione da Wulfado di Reims, abate di Soissons, che è il dedicatario del Periphyseon. La presenza di eriugenismo è intensa ed efficace soprattutto in alcune pagine esplicitamente teologiche di Eirico, in particolare nella sua raccolta di Omelie. In qualità di commentatore, ad Eirico è stata attribuita una raccolta di annotazioni al Categoriae decem, l’opuscolo pseudo-agostiniano che in età carolingia ha praticamente sostituito le Categoriae di Aristotele, di cui si propone come una parafrasi di accentuata impostazione neoplatonica. L’influenza del contributo eriugeniano alla precisazione del ruolo dialettico e teologico delle categorie in particolare e dei principali concetti logici in generale emerge da alcune di queste glosse in modo evidente. Ma Eirico introduce anche personali precisazioni che tendono a chiarire, e spesso a semplificare le più complesse nozioni del Periphyseon: come quando illustra il concetto natura come «nome generale che comprende tutte le cose che sono e che non sono», ma aggiunge che non lo si può considerare come un nome predicabile in modo univoco di Dio, che è ‘natura’ in quanto crea, e delle creature, che sono dette ‘natura’ perche generano e sono generate. Riprendendo la distinzione gerarchica di intuizione noetica e razionalità discorsiva, Eirico attribuisce alla prima il compito di cogliere l’unitarietà fondamentale dell’essere; e riconosce che essa sfugge alle possibilità definitorie della seconda, perché il luogo in cui realmente ogni sostanza sussiste in unità è la trascendenza del Verbo divino, che è il tutto (in greco tò pán), cui tutto ritornerà, con la realizzazione di una deificatio universale, nella conclusione escatologica della storia. La struttura del cosmo appare così articolata in una gerarchia che tiene conto delle peculiarità logiche dei concetti corrispondenti ai vari gradi dell’essere: dalla sostanza individuale (hierarchivum, ossia principio basale della piramide) alla sostanza seconda, che risulta da una deduzione per via di omonimia delle proprietà degli individui, e poi ancora più in su, alla specie generale e al genere, fino all’ousia generalissima, dove l’omonimia si trasforma in comprensione di tutto ciò che è ontologicamente disceso nel processo da Dio alle creature.

La sintesi che Eirico propone tra la tradizione dialettica aristotelica, classificatrice e definitoria, e la nuova dialettica eriugeniana, fondata sulla divisione e sulla riunificazione del particolare nell’universale, è finalizzata a facilitare la diffusione e la comprensione delle arditezze speculative del Periphyseon. Si spiega in questo senso la continua inclusione di tematiche teologiche nel commento di un testo logico. La dialettica insegna all’uomo come indagare e formulare il vero; e poiché Dio è la verità, la dialettica insegna in quale modo si parla correttamente di Dio. Per questo è opportuno verificare, caso per caso, in quale modo possono essere utili al linguaggio teologico le diverse forme di predicazione, come l’omonimia, la sinonimia, la polionimia, ecc.

Autore: Giulio d’Onofrio
Pubblicazione:
Storia della Teologia nel Medioevo. I: I princìpi
Editore
: Piemme
Luogo: Casale Monferrato
Anno: 1996
Pagine: 339-345

Rabano Mauro – La formazione dei chierici (III, 17)

III, 17    Quali istituzioni di matrice divina hanno scoperto

Non sono da ritenersi istituzioni umane quelle che gli uomini hanno trasmesso, dovunque s’imparino, non stabilendole loro, ma investigando quanto è passato attraverso le varie epoche o è stabilito dalla divinità. Alcune riguardano i sensi del corpo, altre invece la razionalità dell’animo. Ma gli argomenti che toccano il senso corporeo, o li crediamo in base a una narrazione, o li pensiamo in seguito a una descrizione, o li arguiamo partendo dall’esperienza.

Tutte le indicazioni sulla serie dei tempi passati, che ci provengono da quella che si chiama la storia, ci aiutano molto nella comprensione dei Libri santi, anche se apprese indipendentemente dalla Chiesa durante l’istruzione giovanile. Spesso infatti andiamo in cerca di molte notizie attraverso le olimpiadi o i nomi dei consoli. Non sapendo sotto quale consolato nacque il Signore e sotto quale patì, alcuni furono tratti in errore, così da credere che il Signore subì la Passione a quarantasei anni, perché i Giudei dicevano che in un tale numero di anni era stato edificato il Tempio, simbolo del corpo del Signore. Noi riteniamo, sull’autorità del Vangelo, che [Gesù] sia stato battezzato intorno ai trent’anni. Ma, sebbene si possa conoscere dal contesto dei suoi atti quanti anni abbia passato in questa vita, tuttavia, perché non sorga ombra di dubbio da altre parti, lo si ricava con più limpida certezza confrontando la storia delle genti con il Vangelo. Allora si vedrà che non invano fu detto che il Tempio venne edificato in quarantasei anni, quando, pur non potendosi riferire questo numero all’età del Signore, lo si rapporti ad una più segreta struttura del corpo umano, che l’unico Figlio di Dio, attraverso il quale tutto è stato creato, non disdegnò di rivestire per noi.

Altro è narrare i fatti, altro insegnare ciò che si deve fare. La storia narra gli eventi con fedeltà e utilmente. I libri degli aruspici, invece, e tutti gli scritti simili, intendono insegnare ciò che si deve fare o osservare, con la temerità dell’imbonitore e non per l’affidabilità della testimonianza.

Vi è pure una narrazione simile alla descrizione e con la quale si indicano a chi le ignora realtà non passate, ma presenti. In questo genere rientrano gli scritti sulla posizione dei luoghi e sulla natura degli animali, degli alberi, delle erbe, delle pietre o di altri corpi. Ne abbiamo già trattato, insegnando che la cognizione di tali argomenti è valida per risolvere i problemi delle Scritture, e non perché vengano adottati in funzione di segni, come rimedi o artifici di qualche superstizione.

La conoscenza degli astri non è narrazione, ma descrizione, e di essi la Scrittura fa assai poca menzione. A parte la spiegazione di fatti presenti, [l’astronomia] ha pure qualche analogia con la narrazione del passato, poiché dalla posizione attuale e dal movimento degli astri si possono ricostruire regolarmente i loro percorsi passati. Si danno anche regolari previsioni del futuro, non per supposizione o presagio, ma calcolate e certe: non per tentare di ricavarne qualche nozione circa le nostre sorti o gli eventi [futuri], come farneticano i genetliaci, ma per quanto riguarda gli astri stessi. Infatti, come chi fa calcoli sulla Luna, una volta osservata la sua situazione di oggi, è in grado di dire a che punto è stata qualsiasi numero di anni fa e come sarà di qui a qualunque numero di anni, così sono soliti rispondere su ciascun corpo celeste gli esperti di calcoli astronomici.

Anche nelle rimanenti arti che servono a produrre qualcosa, sia ciò che risulta dall’attività dell’artefice, come una casa o un sedile, sia una qualche collaborazione offerta all’opera di Dio, come la medicina, l’agricoltura e il governo: la pratica di tutte queste arti fa in modo che dalle passate si arguiscano anche le esperienze future. Infatti nessuno dei loro artefici, quando lavora, muove le membra senza connettere la memoria del passato con l’attesa del futuro.

Ma abbiamo toccato questi argomenti soltanto per non ignorare completamente che cosa vuol suggerire la Scrittura quando introduce qualche espressione figurata tolta da queste arti.

Rimangono le attività che non riguardano i sensi corporei, ma la razionalità dell’animo, nelle quali regna la disciplina della discussione e del numero. La disciplina della disputa è molto valida per approfondire e risolvere ogni tipo di problema [che si presenta] nelle sante Scritture. Bisogna soltanto evitare la smania di accapigliarsi e una certa puerile vanteria nel confondere l’avversario. Ma di ciò parleremo più compiutamente quando discorreremo di dialettica e di retorica.

È chiaro anche ai più ottusi che la scienza del numero non è stata stabilita, bensì indagata e scoperta dagli uomini. Non può infatti avvenire che, come Virgilio volle lunga la prima sillaba della parola Italia, che gli antichi pronunciavano breve, e lunga diventò, così chiunque possa fare in modo, se lo vuole, che il tre moltiplicato per tre non faccia nove, o non possa determinare una figura quadrata, o che, rispetto al numero tre, il nove non sia il triplo, rispetto al sei una volta e mezzo, ma rispetto a nessun [numero] sia il doppio, dato che i numeri dispari non sono divisibili per due. Dunque, sia considerati in se stessi, sia assunti come leggi delle figure, dei suoni o di altri movimenti, i numeri sono retti da regole immutabili, in nessun modo stabilite dagli uomini, bensì scoperte dalla sagacia di persone d’ingegno.

Tuttavia potrebbe apparire dotto, ma in nessun modo sarebbe sapiente, chiunque amasse tutti questi argomenti per volersene vantare tra gli sprovveduti, e non piuttosto per ricercare quale sia la fonte della verità di quelle nozioni che ha percepito come semplicemente vere, e donde deriva che alcune di esse, di cui ha compreso l’immutabilità, non siano solamente vere, ma anche immutabili: e in tal modo, pervenendo dalle immagini dei corpi alla mente umana e trovandola mutevole, perché a momenti dotta e a momenti ignorante, e tuttavia situata tra l’immutabile verità che la sovrasta e le rimanenti realtà a lei inferiori, giungere a trasformare tutto in lode e amore dell’unico Dio, da cui sa che tutto proviene .

Finora ho parlato in generale e in modo promiscuo delle discipline dei gentili. D’ora in poi le tratterò ciascuna in modo distinto.

Autore: Rabano Mauro
Traduttore: Luigi Samarati
Pubblicazione:
La formazione dei chierici (De institutione clericorum)
Editore: Città Nuova (Fonti Medievali, 25)
Luogo: Roma
Anno: 2002
Pagine: 191-193

Early Christian Sources of Platonic Geometry: Augustine (2)

The Platonist scheme which was revealed through the study of the liberal arts included, as already noted, the elements and Augustine’s treatment of them echoes the description he made slightly earlier and shows how each element relates to the others in a rational way.

The system by which Plato connects and disposes the four elements in a symmetrical order interposes the two intermediary elements of air and water between the two extremes, fire, the most mobile element, and the motionless
earth, in such a way that water is as far above earth as air is above water and fire above air.

De civitate Dei VIII. 15

Elements and numbers are an indissoluble part and expression of the universal order. Augustine also transmits the first 4 numbers of the Pythagorean tetract as signifying the basic geometric concepts of point, line, plane and solid, as well as alluding to the ‘corrationality’ to be found within the numbers themselves.

Can these [trees and animals] be made of the elements and these elements not have been made of nothing? For which among them is more ordinary and lowly than earth. Yet first it has the general form of body where a unity and numbers and order are clearly shown to be.

De musica VI. 17.57

This he demonstrates by referring to the 4 elements of geometry in which 1, a point, is extended to 2, a line, which in turn grows to 3, a plane, and 4, a solid.

From where, then, is the measure of this progression of one to four? And from where, too, the equality of the parts found in length, breadth, and height? Where, I ask, do these things come from, if not from the highest and eternal rule of numbers, likeness, equality, and order? And if you abstract these things from earth, it will be nothing. And therefore God Almighty has made earth, and earth is made from nothing.

De musica VI. 17.57

At about the time he was writing this, he was similarly proving the soul to be immaterial in his De quantitate animae by referring again to the basic constituents of geometry. Drawing much on Plotinus as well as the Christian revelation,
he reverses the development of point, line and figure back to the point as the perfection of unity concluding as follows:

Augustine: Now, then, have you ever seen with the eyes of
the body such a point, or such a line, or such width?

Evodius:
No, never. These things are not bodily.

Augustine: But if bodily things are seen with bodily eyes,
it must be that the soul by means of which we see
these incorporeal things is not a body,
nor like a body…

De quantitate animae 13

When dealing with the millennial theory, Augustine gives another demonstration of relating the theme of solid geometry to number.

[John] may have intended the thousand years to stand for the whole period of this world’s history, signifying the entirety of time by a perfect number. For, of course, the number 1,000 is the cube of 10, since 10 multiplied by 10 is 100, a square but plane figure; but to give height to the figure and make it solid 100 is again multiplied by 10, and we get 1,000. Moreover, it seems that 100 is sometimes used to stand for totality… If this is so, how much more does 1,000 represent totality, being the square of 10 converted into a solid figure!

De civitate Dei
XX.7

At the time he wrote De ordine, Augustine already understood that numbers possessed both meaning and reason. For those in the ‘search after things divine’,

…whoever has grasped the meaning of simple and intelligible numbers will readily understand these matters.

there is in reason nothing more excellent or dominant than numbers reason is nothing else than number…

De ordine II.16.44,18.48

In his passage concerning the millennium, Augustine acknowledges 10 to be ‘a perfect number’ but it will be seen that it is no longer the only one. He also recognizes that it is to be identified with the law and that it is the sum of the first 4 numbers. This is the conclusion of an exhaustive examination of their ‘corrationality’. In an extension of Macrobius’s explanation of 3 and 4 as the first odd and even numbers, Augustine concludes that, because something, to be whole, must consist of a beginning, a middle and an end, 3 is the first whole number, in that it has an indivisible middle.

3 = 1 + 1 + 1
(see De musica I.12.20)

Yet, whilst to Macrobius and Martianus 4 is the first even number because it is the first possessing two extremes, as,

4 = 2 + 2

to Augustine it is even because it has a divisible middle,

4 = 1 + 2 + 1

(see De musica I.12.21,23)

Accordingly, ‘this great harmony is in the first 3 numbers’ because,

1 + 1 = 2, and 1 + 2 = 3, which is the next in the series, whereas,

2 + 3 = 5, which is not the next in the series.

4 is admitted because,

1 + 2 + 1 = 4

Therefore, ‘one, two, three, four is the most closely connected progression of numbers’ because,

3 follows 1 and 2, and is the sum of 1 and 2;

4 follows 1, 2 and 3 and consists of 1 and 3, and twice 2; in other words,

1 + 3 = 2 x 2 = 4

Modest though this example is, such an agreement of extremes in a series with the mean, and of the mean with the extremes is called by the Greeks analogia, or proportion. This analysis was continued a decade or more later in De Trinitate when Augustine deals with 6 as a perfect number because,

1 + 2 + 3 = 6

Yet it constitutes a different kind of arithmetical perfection from the perfection of 10 as the sum of the tetrad.

At the same time, the Pythagorean powers attributed to numbers were also recognized by Augustine, albeit in Christian form. Thus In lohannis evangelicum,
3 represents the Trinity and 4 the corners of the earth. In De Trinitate,
Augustine goes on to confirm the Pythagorean significance of 6 as Creation, being the product of 2 (female) and 3 (male). Thus, the Creation was accomplished in 6 days and man was created on the sixth day. Furthermore, ‘six serves as a sort of symbol of time.’

In extending the range of perfect numbers, Augustine points out, the ‘number seven is also perfect’, being the day of God’s rest after the Creation.

There is a great deal that could be said about the perfection of the number seven three is the first odd whole number, and four the first whole even number, and seven is made up of these two For this reason the Holy Spirit is often referred to by this same number…

De civitate Dei XI.31

He thereby converts Macrobius’s Platonic attribution of 7 to the World-soul
into its Christian counterpart.

8 is repeatedly identified with a new beginning and the journey to heaven, as in De sermone Domini in monte.

‘Blessed are they who suffer persecution for justice’ (sic) sake, for their’s is the kingdom of heaven’. Perhaps this eighth maxim – which returns to the beginning, and designates the perfect man – is signified both by the circumcision on the eighth day in the Old Testament and by the Lord’s Resurrection after the Sabbath [which is indeed both the eighth day and the first] ….

De sermone Domini I.IV.12; see also Epistolae 55

Returning to 3 and 4 as root numbers,

The mystical number remained, the number twelve, because through the entire world, that is, through the four cardinal points of the world, they were going to announce the Trinity. Thus three times four…

In Iohannis evangelicum 27.10.

Again, 12,

…is significant as being the number of the patriarchs and that of the apostles because it is the product of the two parts of seven – that is, three multiplied by four…

De civitate Dei XV.20; see also XX.5

It is surely an indication of Augustine’s distinction in setting Platonic thought within a theological framework acceptable to the medieval Church that his De civitate Dei was being written at about the time Martianus was relaying in his De nuptiis the Platonic thought of late antiquity. In his turn, it will be shown that Boethius was to revert more to the encyclopedic tradition since his treatises on the liberal arts seem free from religious reference.

Autore: Nigel Hiscock
Pubblicazione:
The Wise Master Builder. Platonic Geometry in Plans of Medieval Abbeys and Cathedrals
Editore
: Ashgate
Luogo: Aldershot
Anno: 2000
Pagine: 69-73
Vedi anche:
Early Christian Sources of Platonic Geometry: Augustine (1)

Il primato dell’aritmetica in Nicomaco da Gerasa

Nicomaco nel proemio della Introductio arithmeticae attribuisce un ruolo privilegiato all’aritmetica rispetto alle altre scienze esatte: essa viene rivestita di una tale importanza che sembra difficile pensare che vi possa essere scienza di qualche cosa di ulteriore dopo quella dei numeri. Subito dopo le citazioni, raffiguranti in modo non univoco, come si è visto, la relazione tra matematiche e filosofia, Nicomaco instaura una gerarchia tra le quattro discipline e assegna all’aritmetica una posizione di primato rispetto alle altre scienze, per due importanti ragioni.

  1. Innanzitutto egli sovraordina l’aritmetica alle altre scienze in quanto essa preesiste alle altre discipline nel pensiero del demiurgo, come modello archetipo in base al quale egli ordina tutte le cose;
  2. in secondo luogo per l’anteriorità intrinseca dell’aritmetica, anteriorità in virtù della quale essa sopprime con sé le altre scienze, senza essere a sua volta coinvolta nella loro soppressione.

Nicomaco sostiene che, come il genere viene prima della specie, così l’aritmetica precede la geometria, poiché il numero viene prima delle figure geometriche, che da esso derivano (il triangolo, per esempio, non può essere concepito senza il numero 3, il quadrato non può essere concepito senza il numero 4, e così via). Nicomaco si basa sul concetto che ciò che è anteriore per natura é il fondamento di ciò che è posteriore, per cui, se si elimina il primo, necessariamente viene meno anche il secondo, mentre non si verifica il contrario, ovvero ciò che è successivo non può determinare l’eliminazione di ciò che lo precede. Si considerino ad esempio i due concetti di essere animato e di uomo. L’essere animato viene prima dell’uomo, in quanto è un concetto più ampio e generale che comprende il secondo, per cui, se si elimina l’essere animato, si elimina anche l’uomo, mentre se si toglie l’uomo, l’essere animato non viene affatto meno.

Il ragionamento è analogo nel caso della geometria e dell’aritmetica: le figure geometriche, come il quadrato, il triangolo, prendono i loro nomi dai numeri e ne presuppongono l’esistenza, per cui, se essi vengono eliminati, viene meno anche la geometria, mentre se si tolgono le figure geometriche, i numeri restano. Analogamente l’aritmetica precede la musica, non solo perché ciò che è assoluto è anteriore a ciò che è relativo, ma anche perché l’armonia musicale si fonda su rapporti numerici. A questo punto Nicomaco anticipa il discorso sulle consonanze musicali, che sarà poi sviluppato nella parte finale dell’opera in rapporto alla teoria delle proporzioni, accennando ai principali tipi di accordo e al tono. L’astronomia o sferica, essendo preceduta dalla geometria e dalla musica, a maggior ragione sarà preceduta dall’aritmetica. La quarta disciplina matematica, infatti, si serve delle figure e dei concetti della geometria, (cerchi,sfere, assi e paralleli sono tutti elementi che appartengono a quest’ultima) ed inoltre studia le grandezze mobili, mentre la geometria si occupa di quelle immobili ed è noto che la quiete precede il movimento. Il fatto poi che il moto degli astri sia accompagnato da armonie musicali, dimostra che anche la musica è anteriore all’astronomia. La sferica infine, considerata in se stessa, si fonda sulla natura dei numeri, per mezzo dei quali possiamo calcolare le albe e i tramonti, i moti degli astri, le eclissi e le fasi lunari.

L’ordinamento delle scienze esatte proposto da Nicomaco è il seguente: I) aritmetica; II) musica; III) geometria; IV) astronomia o sferica. È interessante osservare che il criterio che stabilisce l’ordinamento gerarchico delle discipline del quadrivio è quello che considera il rapporto tra due termini in base ai concetti di anteriorità per natura e di posteriorità per natura. L’aritmetica allora diventa condizione necessaria perché tutte le altre scienze possano esistere, in quanto, dati i suoi oggetti (i numeri), possono darsi anche gli oggetti delle altre discipline, mentre se quelli (i numeri) vengono soppressi, non sono più pensabili nemmeno questi (gli oggetti delle altre scienze). Tale relazione è però unilaterale, nel senso che l’aritmetica è la causa dell’esistenza delle altre scienze esatte, ma non è vero il contrario (soppressi i quadrati, il numero quattro non viene soppresso anch’esso, ma rimane). Si viene, dunque, a creare un parallelismo tra ambito logico ed ambito ontologico. Il rapporto tra genere e specie (ambito logico) assume un valore ontologico, poiché, quando si afferma che il genere (per esempio l’essere vivente) è ciò senza di cui la specie (per esempio l’uomo) non è pensabile né concepibile, si condiziona l’essere stesso della specie, tanto che se viene meno il genere, viene meno anche la specie (mentre non si verifica il contrario). Il rapporto genere-specie, che esprime una dipendenza ontologica, diviene rapporto gerarchico, rapporto d’ordine. Pertanto il criterio logico che ha validità nell’ambito dei concetti (senza i numeri le figure non sono nemmeno pensabili) assume la funzione di principio di ordinamento gerarchico in ambito ontologico (i numeri precedono nell’essere le figure): l’ordine che c’è tra i concetti è lo stesso che c’è tra gli enti.

L’altra ragione che conferisce il primato all’aritmetica rispetto alle altre discipline matematiche risiede nel fatto che essa preesiste nel pensiero del demiurgo a tali scienze. I numeri, dunque, descritti come modelli archetipi, cioè come idee, sono posti nel pensiero del demiurgo. In sintesi: l’anteriorità dell’aritmetica si fonda dunque su due ragioni: essa è radice, principio e madre delle altre scienze esatte, da un lato (1), perché preesiste alle suddette scienze nella mente di Dio come modello del cosmo, dall’altro (II), per l’anteriorità naturale, per cui essa elimina con sé le altre scienze, senza essere a sua volta coinvolta nella loro eliminazione.

Autore: Silvia Pieri
Pubblicazione: Tetraktys. Numero e filosofia tra I e II secolo d.C.
Editore
Ermes (Philosophia Perennis, 2)
Luogo: Firenze
Anno: 2005
Pagine: 38-41

Le idee estetiche di Carlo Magno e della sua corte

Alla polemica sulle immagini non rimase estraneo Carlo Magno, il quale prese esplicita posizione contro l’iconoclastia e l’idolatria insieme, preoccupandosi, nella «Praefatio» ai Libri Carolini, di stabilire una netta distinzione tra l’immagine e l’idolo: che fra loro differiscono quanto la rappresentazione di altro, e l’abbellimento di un luogo, differiscono da oggetti che non rappresentano né adornano, ma nella loro bruta materialità si impongono all’adorazione delle genti: «Alterius et longe alterius definitionis est idolum alterius imago: cum videlicet istae ad ornamentum vel ad res gestas monstrandas fiant, illud autem nunquam nisi ad miserorum animas sacrilego ritu et vana superstitione inliciendas : et imago ad aliquid, idolum ad se ipsum dicatur …».
Sulla base di queste premesse, l’orientamento critico che emerge dai Libri Carolini riprende ed accentua l’ostilità, già latente in Isidoro di Siviglia, verso le immagini arbitrarie, gli sbrigliamenti della fantasia, che dovevano caratterizzare l’arte irlandese-merovingica. Il capitolo XXIII della parte seconda batte sulla verosimiglianza, e quindi sulla imitazione; l’arte gradita all’ambiente carolingio è icastica, non fantastica: «… Picturæ interea ars cum ob hoc inoleverit, ut rerum in veritate gestarum memoriam aspicientibus deferret, et ex mendacio ad veritatem recolendam mentes promoveret, versa vice interdum pro veritate ad mendacia cogitanda sensus promovet, et non solum illa quæ aut sunt aut fuerunt aut fieri possunt, sed etiam ea quæ nec sunt, nec fuerunt, nec fieri possunt visibus defert. Mendacium enim aut de his est qua: non sunt, sed fieri possunt, aut de his quæ nec sunt nec fieri possunt… Nam dum dicat non contraire pictores Scripturis, et multa a pictoribus pingantur quae Scripturæ divinæ tacent, et ab hominibus non solum a doctis, sed etiam ab indoctis falsissima esse comprobentur, quis non ejus dictum ridiculosissimus vel potius falsissimus esse fateatur? Nonne Divinis Scripturis contraire noscuntur, cum abyssum figuram hominis fingunt habere …? Nonne Divinis Scripturis eos contraire haud dubium est, cum tellurem in figura humana modo aridam sterilemve, modo fructibus affluentem depingunt? Nonne divinis Scripturis eos contraire manifestum est, cum flumineos amnes in figuris hominum aut situlis aquas fundere, aut alios in alios confluere depingunt? Nonne cum solem et lunam et cœtera cœli ornamenta figuras hominum, et capita radiis succincta habere fingunt? … Nonne cum duodecim ventis singulis singulas formas pro qualitate virium attribuunt, aut mensibus singulis pro qualitate temporum quid unusquisque deferat, quibusdam nudas, quibusdam seminudas, quibusdam etiam indutas diversis vestibus dant…?…Pictores igitur rerum gestarum historias ad memoriam reducere quodammodo valent …». Se la giustificazione religiosa delle immagini risiede nel ricordare i fatti accaduti, esse non possono raffigurare se non le cose quæ sunt, e in tanto vengono tenute in onore in quanto abbandonano ogni tendenza affabulatrice, fantasiosa: l’immagine è rappresentazione d’altro (ad res gestas mostrandas) ed a questo altro deve mantenersi fedele. Il gusto carolingio è realistico e classicistico, e la sua insistenza sulla immagine come rappresentazione (veridica) di altro, se da un lato lo associa alla difesa che Gregorio II e Adriano I avevano fatta delle immagini contro gli iconoclasti, appellandosi, appunto, alla illustratività delle immagini stesse, da un altro lato sembra collocarlo al polo opposto di quella tendenza a dimostrare le cose invisibili per mezzo delle visibili che negli stessi anni induceva Adriano I a parlare di rapimento spirituale al cospetto dei dipinti. Per i compilatori dei Libri Carolini, e dunque per la cultura gravitante attorno alla corte di Carlo, non si poteva pensare a un rapimento spirituale prossimo all’adorazione: le immagini ricordano e abbelliscono, e in relazione a questi scopi vuole essere giudicata la loro qualità; tutto ciò che spinge la fantasia oltre i limiti del reale è mendacio e dunque non abbellisce nemmeno, secondo questi fautori dell’equazione bellezza-veridicità. «Nam dum nos nihil in imaginibus spernamus præter adorationem, … in basilicis sanctorum imagines non ad adorandum, sed ad memoriam rerum gestarum et venustatem parietum habere permittimus …». Fra l’imperatore, e il suo ambiente, e papa Adriano I, non doveva sussistere piena consonanza di gusti: fra la memoria rerum gestarum e la venustas parietum, di origine isidoriana, del cap. XVI (parte II) dei Libri Carolini, e l’ut mens nostra rapiatur spirituali affectu della lettera a Costantino e Irene corre una distanza che indizia propensione, nel pontefice, verso quella pittura fantastica cui l’ambiente imperiale si mostrava ostile, tacciandola di mendacio, di incitamento all’idolatria.
Da questa preoccupazione di escludere ogni possibile idolatria, che implicitamente condanna anche il rapimento della mente a cui Adriano I indulgeva, e pone un freno alla fantasia, deriva, nell’estetica carolingia, un interesse per la qualità individuale delle immagini come ulteriore distinzione dell’immagine dall’idolo, il quale rimane al di qua di ogni giudizio estetico : «Nam cum imagines plerumque secundum ingenium artificum fiant, ut modo sint formosæ, modo deformes, nonnunquam pulchræ, aliquando etiam foedæ, quædam illis quorum sunt simillimæ, quædam vero dissimiles, quædam novitate fulgentes, quædam etiam vetustate fatescentes, quærendum est quæ earum sint honorabiliores, utrum eæ quæ pretiosiores, an eæ quæ viliores esse noscuntur, quoniam si pretiosiores plus habent honoris, operis in eis causa vel materiarum qualitas habet venerationem, non fervor devotionis …». Proprio perché l’unica giustificazione delle immagini risiede nella memoria rerum gestarum e nella venustas parietum, l’unico onore che ad esse si deve è quello meritato dalla loro qualità: l’apprezzamento estetico prende il posto dell’adorazione idolatrica, e la stessa limitazione del gusto carolingio in un senso mimetico-realistico (che peraltro non escludeva i soggetti allegorici, come risulta dalle descrizioni di Turpino, in De gestis Caroli Magni, e da qualche carme di Teodulfo d’Orléans) contribuisce alla eliminazione definitiva del feticismo che intorbidava il giudizio e spesso metteva in ombra la schietta valutazione estetica. A questa esplicita consapevolezza di un valore proprio dell’arte, a cui Carlo Magno e la sua cerchia pervennero al contatto del conflitto fra iconolatria e iconoclastia, e che di tale conflitto si può considerare un risultato importante, seppure indiretto, si deve anche la ricezione dell’antico (sia pure, come osserva il De Bruyne, fatta «avec une sensibilité nouvelle, toute fraîche et nordique») nell’ambiente carolingio.

Il trasporto da Ravenna ad Aquisgrana della statua di Teodorico, ricordato in un passo della cronaca di Agnello (e si può aggiungere il trasporto da Roma ad Aquisgrana, di una scultura bronzea gallo-romana, avvenuto anch’esso per ordine di Carlo Magno) è pure un gesto emblematico, per chi di Carlo Magno e della sua corte voglia ricostruire la critica in azione. A questi gesti va ricollegato l’impiego di materiali tratti dalle fabbriche antiche ormai in rovina (da Verdun, Treviri, Colonia, Aquisgrana stessa; e da Roma, da Ravenna) che Carlo Magno seguita a praticare, non solo per motivi economici, ma per effetto di una scelta estetica e ideologica: comportamento critico. Come già in età costantiniana, nella costruzione della Chiesa del Laterano, si era voluto, adoperando colonne e capitelli di costruzioni pagane, «far rifluire nelle nuove costruzioni la forza e la gloria delle antiche», del culto pagano facendo come terreno per il nuovo culto e battezzandone, per così dire, le forme artistiche; così in Carlo Magno l’impiego del materiale antico era riconoscimento della sua qualità artistica, e rinnovamento di questa come corrispondente estetico della politico-religiosa rinascita Imperii Romani. Da qui la dichiarata volontà di rifarsi a Vitruvio, dei cui testi Eginardo si costituisce esegeta: «Misi igitur tibi verba et nomina obscura ex libris Vitruvii, quæ ad præsens occurrere poterant, ut eorum notitiam ibidem perquireres». Come ha di recente osservato Ernest Gall, «la sontuosa costruzione della Cappella Palatina di Aquisgrana, con le sue ben rispondenti proporzioni, mostra come Carlo Magno … intendesse assicurare il suo proprio posto nella vita culturale del suo tempo, quale rappresentante della antica tradizione architettonica …».
Da questo consapevole ritorno alle concezioni del mondo antico deriva anche l’attenuarsi, nelle descrizioni di età carolingia, della ammirazione per le materie belle e luminose, per i colori vivaci ; e un accresciuto interesse alla bellezza prodotta dagli artisti, interesse che nei tituli di Venanzio Fortunato era stato solo sporadico. «Est mihi vas aliquod signis insigne vetustis … quo cœlata patent scelerum vestigia Caci …». E la novità dell’orientamento critico si fa palese a chi raffronti i tituli dell’epoca merovingia con questi versi di Sedulio Scotto: «Haec domus est Domini vitreis oculata fenestris, | Quam Phebus lustrat radiis et crine sereno. | Nam quintu decimis Maii sacrata kalendis | Abbicat in specie, picto micat ipsa decore».
Sedulio Scotto e Teodulfo d’Orléans appartengono alla generazione di Rabano Mauro, il quale rinnova l’impegno enciclopedico di Isidoro di Siviglia, appropriandosi, non di rado, secondo un diffuso costume medioevale, dei concetti e delle definizioni contenute nelle Etimologie di quest’ultimo. Ma più che nei libri De Universo, o nel commento in Ecclesiasticum – dove peraltro si trova un giudizio sull’artista «qui studiose nocte dieque, in opere suo laborat, ut signacula sculpet et hominis imaginem arte gemmaria formet», che viene eletto a simbolo dei predicatori informanti a virtù l’anima dell’uomo – l’atteggiamento di Rabano verso le opere di arte si può cogliere del carme XXX, ad Bonosum, dove viene enunciata la supremazia della letteratura sulla pittura: «… Plus quia gramma valet quam vana in imagine forma, | Plusque animæ decoris præstat quam falsa colorum | Pictura ostentans rerum non rite figuras | … Illa oculis tantum pauca solamina præstat, | Hæc facie verum monstrat… | Illa recens pascit visum, gravat atque vetusta, | Deficiet propere veri et non fide sequestra est …». Echeggia in questi versi l’insegnamento di Alcuino, che nel dialogo sulla Grammatica aveva ammonito: «Quanto melius est interius ornare, quam exterius, animam perpetuam splendore polire»; ma in essi si riflette anche la malinconia del carme XXIV, indirizzato allo stesso Bonoso, dove Rabano Mauro lamenta la precarietà delle bellezze terrene, in modi che richiamano ancora Alcuino («Quid pulchrius luce? et haec tenebris succedentibus obfuscatur. Quid floribus venustius æstatis? qui tamen hiemalibus frigoribus pereunt …»), ma anche i poeti dell’età merovingia, e quel Formæ vero nitor ut rapidus est del Boezio onnipresente nella cultura medioevale.
«Aestas clara micat, autumnus conferet umbras. | Ver floret gemmis, has fera tollit hiemis …». Così Rabano Mauro: perisce la bellezza dei fiori («Canescunt violæ, lilia fusca cadunt …») ; anche la pittura sbiadisce col tempo: quando è fresca, essa diletta gli occhi, una volta invecchiata li affligge. Meglio la letteratura che parla direttamente all’anima, non ai sensi, e per questo mostra senz’altro la verità. Ricompare qui il lamento per la caducità del mondo sensibile, ed echeggia da lontano, attraverso Boezio, la platonica superiorità dell’intelligibile; ma quello che interessa dal punto di vista della critica d’arte, è il riferimento all’alterazione dei dipinti a causa dell’azione distruttrice del tempo.

Autore: Rosario Assunto
Pubblicazione:
La critica d’arte nel pensiero medievale
Editore
: Il Saggiatore
Luogo: Milano
Anno: 1961
Pagine: 61-66

L’Introductio arithmeticae di Nicomaco di Gerasa: un’opera teoretica tra matematica e filosofia (2)

Dopo aver definito la filosofia ἐπιστήμη τῆς ἐν τοῖς οὖσιν ἀληθέιας, Nicomaco precisa che l’ἐπιστήμη è apprensione stabile e sicura del sostrato, e che gli enti sono le cose che permangono sempre identiche a se stesse e che non si allontanano mai nemmeno per un attimo dall’essere. Quindi, Nicomaco definisce le cose immutabili ed immateriali enti in senso proprio (κυρίος ὄντα), e le cose corporee, soggette ad ogni tipo di mutamento e destinate alla corruzione, enti per omonimia (ὁμωνύμως ὄντα). I primi (enti veri) esistono in senso vero e proprio, mentre i secondi (enti per omonimia) esistono solo per omonimia, appunto, rispetto ai primi, in quanto partecipano di essi:

Questi enti sono per natura immateriali, eterni, senza fine, del tutto simili e immutabili, sussistono identici nella loro sostanza e ciascuno di essi è definito essere in senso proprio, mentre quelli che sono immersi nella nascita e nella corruzione, nella crescita e nella diminuzione, in ogni genere di mutamento e nella partecipazione appaiono continuamente in mutamento e sono definiti enti per omonimia con i primi, poiché di essi partecipano, ma per la loro propria natura non sono propriamente degli esseri: essi infatti, non dimorano nell’identico nemmeno per un attimo, ma mutano sempre essendo alterati in tutti i modi.

Questa distinzione permette di precisare più accuratamente l’oggetto della σοφία. La sapienza è conoscenza principalmente (ἐξαιρέτως) degli enti veri, ovvero delle cose immateriali, e per accidens (συμβεβητότως) anche degli enti per omonimia, ovvero delle cose corporee, in quanto partecipano delle precedenti. Il contesto platonico in cui ci introduce la distinzione tra enti veri e enti per omonimia viene fatto ulteriormente emergere dalla citazione del Timeo inserita da Nicomaco per spiegare che l’essere si può cogliere con il pensiero razionale, cioè è conoscibile, in quanto è immutabile, mentre ciò che diviene può essere solo oggetto di opinioni e percezioni irrazionali, in quanto nasce e perisce e non ‘è’ mai veramente. Allora giustamente solo gli enti in senso proprio sono oggetto di scienza, mentre gli enti per omonimia lo sono indirettamente, poiché partecipano dei primi. Non solo la distinzione tra i due gradi dell’essere, ma anche la loro qualifica come essere in senso proprio e essere per omonimia mostra l’influenza della filosofia platonica. Nel Timeo, infatti, Platone parla di una specie immutabile ed eterna che è conoscibile solo con l’intelletto e di una specie sensibile e mutevole che ha con la prima solo un rapporto di omonimia, cioè di somiglianza:

Bisogna ammettere che esiste una sola specie immutabile, ingenerata ed immortale, che in sé non riceve null’altro da altre parti né si muta mai in altro, invisibile ed anche impercettibile, che solo l’intelletto ha la ventura di contemplare;ma c’è un’altra specie omonima, simile a quella, sensibile, generata, sempre in movimento, che nasce in un luogo e poi da lì sparisce, ed è percettibile con l’opinione fondata sulla sensazione.

La distinzione tra enti in senso proprio ed enti per omonimia coincide con quella tra intelligibili e sensibili, tra νοητά e αἰσθητά, come Nicomaco stesso afferma: «degli enti in senso proprio e di quelli per omonimia, vale a dire degli intelligibili e dei sensibili». Il discorso sulla filosofia non è ancora concluso. Nicomaco introduce un’altra distinzione che si sovrappone a quella tra enti in senso proprio e enti per omonimia.

Degli enti in senso proprio e di quelli per omonimia, vale a dire degli intelligibili e dei sensibili, alcuni sono uniti e allo stato di coesione, come l’essere vivente, il mondo, l’albero e tutte le cose simili a queste, che sono chiamate propriamente e particolarmente grandezze, altri sono divisi e allo stato di aggregazione e come prodotti di un accumulo, e sono chiamati molteplicità, come il gregge, il popolo, il mucchio, il coro e le cose simili a queste. Si deve ritenere che la sapienza sia scienza di queste due forme.

Le forme più generali dell’essere sono due: l’essere continuo, ovvero la grandezza (μέγεθος),
la quale è unita nelle sue parti, come un albero, una pietra e i corpi, e l’essere discontinuo, ovvero la molteplicità (πλῆθος), che è costituita da un insieme di parti, come un gregge, un coro ecc. Sia gli intelligibili che i sensibili possono essere continui o discontinui, cioè grandezze o aggregati. Tale distinzione perciò è più generale di quella precedentemente operata tra enti in senso proprio ed enti per omonimia e pertanto la riassorbe in sé come mostra lo schema seguente:


Ciò comporta che sia intelligibili che sensibili siano misurabili e siano suscettibili di essere descritti secondo criteri matematici, come la relazione di maggiore/minore/ uguale, il procedimento di scomponibilità delle parti e di aumento e diminuzione. Il concetto di misura inoltre, implicato dalla distinzione continuo/discontinuo, comporta anche l’intervento di coordinate spazio-temporali. I criteri ora descritti sono certamente applicabili agli enti sensibili, mentre non dovrebbero valere per gli enti intelligibili almeno nell’ambito della filosofia ortodossamente platonica cui Nicomaco sembra volersi ricollegare. Platone infatti afferma, come è noto, che le idee non sono scomponibili in parti, che non occupano alcuno spazio e che sono eterne. In Platone pertanto sembra che la distinzione continuo/discontinuo non possa essere valida per quanto riguarda gli intelligibili. Nicomaco allora si pone sì in una prospettiva platonica, ma non in modo perfettamente coerente e fedele alla filosofia di Platone, bensì con quelle rielaborazioni cui essa era andata incontro per opera dei suoi interpreti.

Se la distinzione continuo/discontinuo vale non solo per i sensibili, ma anche per gli intelligibili, gli intelligibili vengono ad essere simili ai sensibili, dal momento che, come si è visto, essi sono descrivibili secondo il concetto di misura (sono cioè confrontabili e perciò definibili secondo i criteri di maggiore/minore/uguale, sono scomponibili in parti, sono soggetti a procedimenti di crescita e di diminuzione) per cui tra mondo intelligibile e mondo sensibile non sembra esserci la netta separazione teorizzata da Nicomaco all’inizio, ma un rapporto di continuità: le due sfere sembrano avvicinarsi, poiché possono essere valutate in base alle stesse leggi.

I concetti di πλῆθος e μέγεθος richiedono, tuttavia, un’ulteriore precisazione, poiché sono ancora troppo generali. Quantità e grandezza, infatti, sono suscettibili, per loro stessa natura, rispettivamente di crescere e di essere divisa all’infinito. La quantità, spiega Nicomaco, a partire da una radice definita non cessa di crescere, mentre la grandezza a partire da una determinata grandezza non può arrestare la divisione, ma continua all’infinito. Dal momento che non c’è scienza di ciò che è infinito, ma solo di ciò che è finito, i concetti di πλῆθος e μέγεθος, in se stessi indeterminati, in quanto ammettono la crescita e la divisione all’infinito, risultano inconoscibili. È necessario pertanto sostituirli con quelli di quantità determinata (τὸ ποσόν) e di grandezza determinata (τὸ πηλίκον).

Al discorso sulla filosofia e alla definizione della sapienza come scienza delle due forme fondamentali dell’essere, quantità e grandezza, Nicomaco collega il discorso sulle discipline matematiche, presentando un ordinamento delle stesse in relazione al loro oggetto. In pratica tutta la discussione che Nicomaco ha sviluppato intorno agli enti veri e agli enti per omonimia e riguardo alla distinzione tra corpi ed aggregati, ovvero tra grandezza e quantità, serve al filosofo per introdurre il discorso sulle quattro scienze matematiche ed è funzionale proprio alla classificazione di queste discipline, in quanto gli ha permesso ad individuare gli oggetti di studio di tali scienze.

Egli specifica che la quantità può essere assoluta (καθ’ ἑαθτό) come pari, dispari ecc., o relativa (πρὸς ἄλλο),
come il doppio, il minore, il maggiore, la metà ecc. Della prima si occupa l’aritmetica, della seconda la musica. La grandezza a sua volta può essere in quiete o in movimento. La geometria studia la grandezza statica, l’astronomia quella dinamica. L’ordinamento delle scienze può essere rappresentato nel modo seguente:

Poiché le scienze matematiche studiano le due forme fondamentali dell’essere, quantità e grandezza, e la sapienza è scienza dell’essere, e quindi di queste stesse forme, sembra che tali discipline siano parte della filosofia e ne costituiscano, anzi, l’aspetto più alto, giacché il loro oggetto viene a coincidere.

Data l’identità dell’oggetto, sembra che le discipline matematiche salgano ai vertici della conoscenza di cui rappresentano il culmine. Come si è già accennato, tuttavia, il rapporto tra matematica e filosofia non è descritto con chiarezza e coerenza da Nicomaco.

Altre osservazioni di Nicomaco, infatti, sono di diverso significato e ci portano in un’altra direzione. Egli, infatti, afferma che senza le scienze matematiche non è possibile studiare le forme dell’essere, né conoscere la verità che è negli enti, né filosofare correttamente. Queste parole sembrano lasciare intendere che l’oggetto delle scienze matematiche e della filosofia non sia lo stesso, ma che ciò di cui si occupa la filosofia sia un qualche cosa che sta oltre e più in alto delle matematiche, per cui esse verrebbero a costituire un momento necessario e imprescindibile, ma anteriore rispetto al φιλοσοφεῖν. Nicomaco introduce poi una serie di citazioni, non tutte coerenti tra loro: alcune sembrano assegnare alle scienze matematiche una funzione solo preparatoria alla conoscenza più alta, altre, invece, non lasciano cogliere fratture tra le suddette discipline e la filosofia.

La prima citazione, che è attribuita al pitagorico Androcide, assimila la funzione delle discipline matematiche rispetto alla σοφία a quella del progetto disegnato rispetto alla teoria che porta alla realizzazione di un’opera tecnica. La seconda citazione è di Archita di Taranto, il quale sostiene che le scienze matematiche sembrano sorelle, poiché studiano le due forme primarie dell’essere, che sono sorelle. Nicomaco cita poi Platone: prima l’Epinomide in cui si afferma che il vero filosofo è colui che si dedica allo studio di tutte e quattro le scienze matematiche, che sono come scale (κλίμακες) o ponti (γέφυραι) che elevano il pensiero dalle realtà sensibili al mondo degli intelligibili; poi la Repubblica in cui Socrate spiega che l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia rivestono una grande importanza non per la loro utilità pratica, ma perché esse illuminano e risvegliano l’occhio dell’anima, ora distratto da altre preoccupazioni, che è l’unico in grado di scorgere la verità.

Si può notare che le citazioni inserite da Nicomaco non possono essere considerate tutte sullo stesso piano. L’assimilazione del rapporto tra scienze esatte e conoscenza piena a quello che intercorre tra progetto disegnato e teoria, espressa dalle parole di Androcide, e il passo della Repubblica sembrano accentuare il ruolo strumentale delle discipline matematiche. Il passo dell’Epinomide,
invece, che considera le scienze matematiche scalini o ponti che collegano il sensibile all’intelligibile, pur mettendo in risalto il ruolo di tramite svolto dalle suddette discipline, non comporta necessariamente una separazione tra matematica e filosofia. Nicomaco, infatti, aveva precedentemente affermato che la filosofia è conoscenza propriamente degli intelligibili, ma anche, per accidens, dei sensibili, per cui, se le scienze matematiche sono il ponte che collega i due piani, esse non sembrano comunque uscire dalla sfera della filosofia stessa. Anche le parole di Archita non fanno emergere separazioni tra il campo delle scienze esatte e quello della filosofia. La posizione delle scienze matematiche non è dunque delineata con chiarezza da Nicomaco, ma oscilla tra una concezione che le assimila alla conoscenza piena e la visione platonica che invece le subordina alla filosofia, con cui intrattengono un rapporto di propedeuticità.

Autore: Silvia Pieri
Pubblicazione: Tetraktys. Numero e filosofia tra I e II secolo d.C.
Editore
: Ermes (Philosophia Perennis, 2)
Luogo: Firenze
Anno: 2005
Pagine: 32-38
Vedi anche:

Early Christian Sources of Platonic Geometry: Clement of Alexandria (2) and other Greek Fathers

Therefore just as the equation of the law with perfection appears safe so, it seems, can references to law and perfection be equated with 10.

It may also be seen that the meaning of number was as integral to Clement’s universal view as it had been to those of Pythagoras and Plato, the sole distinction between them being that he acknowledged his authority to be biblical as well as Platonic.

They say, then, that the character representing 300 is, as to shape, the type of the Lord’s sign.. Now the number 300 is 3 by 100. Ten is allowed to be the perfect number…

‘The days of men shall be,’ it is said, ‘120 years’ (Genesis 6.3). And the sum is made up of the numbers from 1 to 15 added together.

Stromateis VI. 11

Numbers were not endowed with specific significance arbitrarily. For example, because the Greek letter T served as the numeral for 300 and resembled a cross, 300 became regarded as the Lord’s sign. Yet numbers were also held to be expressions of the divine order because of the order to be found within them. If the tetrad was given importance partly because the sum of the first 4 numbers is 10, then 120 was important partly because it is the sum of the first 15 numbers. Moreover, Clement continues:

On another principle, 120 is a triangular number, and consists of the equality of the number 64, [which consists of eight of the odd numbers beginning with unity], the addition of which in succession generates squares; and of the inequality of the number 56, consisting of seven of the even numbers beginning with 2, which produce the numbers that are not squares.

Stromateis VI. 11

In other words,

64 + 56 = (8 x 8) + (7 x 8) = 120

64 is composed thus:

1 + 3 = 4, + 5 = 9, + 7 = 16, + 9 = 25, + 11 = 36, + 13 = 49, + 15 = 64

where each sum is a square number which, when added to the next odd number in the series, produces the next square number in the series. As for the series of the first 7 even numbers adding up to 56, each sum, whilst being even, is not square.

2 + 4 + 6 + 8 +10+ 12+ 14 = 56

2 + 4 = 6; 4 + 6 = 10; 6 + 8 = 14; 8 + 10 = 18; 10 + 12 = 22

Following this, Clement continues:

Again, according to another way of indicating, the number 120 consists of four numbers – of one triangular, 15; of another, a square, 25; of a third, a pentagon, 35; and of a fourth, a hexagon, 45. The 5 is taken according to the same ratio in each mode. For in triangular numbers, from the unity 5 comes 15; and in squares, 25; and of those in succession proportionally.

Stromateis VI. 11

It can be seen that in this apparently numerical analysis, geometry is clearly implicit. In addition to the importance given to numbers when they relate rationally to each other, the relationship is perceived and expressed in geometric terms, with the concept of figurate numbers standing for square, triangular and polygonal arrangements of numbers, originally in the form of pebble figures. This, together with the inherent order to be found in numbers themselves was to be treated by the Latin encyclopedists and Augustine.

Clement’s successor at the Didascaleon was his former pupil Origen (c.185-c.254) who went on to study philosophy under Ammonius Saccas. He in turn had abandoned an earlier conversion to Christianity and was a Neoplatonist.
One result of Origen’s varied education was a certain flexibility in calling upon the authority of Plato, not invariably, but when it supported his own theological speculations. In a huge output of literature, these were largely a development of Clement’s and organized into his famous treatise, De principiis, which enjoyed particular influence in both the West and the East. Before they caught the attention of Ambrose and others in Italy, Origen’s ideas had spread to Cappadocia reaching the generation of Basil the Great and his brother Gregory of Nyssa and, although some of his ideas were soon to be condemned, his main thesis remained intact.
Ammonius Saccas also taught Platonic philosophy in Alexandria to the Greek Egyptian Plotinus (c.205-70) whose principal contribution lies in incorporating Plato’s thought with Aristotle’s methods and in bringing to this his own theories concerning progressive planes of spiritual existence. As the doctrine of emanation, this was to have a profound effect on mystical thinkers, setting him among the greatest of the Neoplatonists. Care, it should be said, needs to be taken in the understanding of Neoplatonism as a term, since it is comprehensive rather than specific, referring to various individual developments of Platonic thought, some of which are more Christian than Platonic, or more theological than philosophical, or more mystical than intellectual, or vice versa. Despite such distinctions, however, Neoplatonists at the time called themselves Platonists. As for Plotinus, his importance for this study is that in 244 he moved to Rome, where he taught and eventually died, and it was in Italy that Augustine may well have read his essay On Beauty from his Enneads (I, VI).

Autore: Nigel Hiscock
Pubblicazione:
The Wise Master Builder. Platonic Geometry in Plans of Medieval Abbeys and Cathedralsl
Editore
: Ashgate
Luogo: Aldershot
Anno: 2000
Pagine: 54-56