Disposizione: disposizione egiziana e disposizione mesopotamica; le città

Sezione: Lessico


A riprova dell’importanza che deve essere riconosciuta ai due tipi di disposizione – quella imperniata sull’abside, o disposizione interna, e quella orientata sulla navata, o disposizione anteriore –, è necessario stabilire un rapporto, per strano che ciò possa apparire, fra le due fonti orientali e le due zone con le città in quanto tali.

In effetti, benché il piano quadrato della città apocalittica abbia impresso in origine un impulso determinante ai raggruppamenti di chiese, che erano allora la regola, la cosa che particolarmente colpisce è come invece le città di nuova fondazione abbiano, in linea generale, sposato il piano circolare, cosiddetto «radiocentrico»… Ciò voleva dire trasferire nell’ordine dello spazio globale, che richiama l’idea del gruppo umano, la struttura dell’«immagine circolare», che di per sé viceversa s’iscrive nell’ordine del tempo. Non si poteva rendere più evidente la supremazia di Dio e della Chiesa su tutti i piani. Essendo la chiesa al centro, virtuale o reale, di tutto l’insieme – parliamo della chiesa madre, ovviamente, della cattedrale –, il Cristo che in essa risiede, sull’altare, irradia se stesso automaticamente su quell’universo microcosmico che è il gruppo urbano. In tale prospettiva, la disposizione egiziana si estende alla città intera.

Fatto comunque non meno singolare, che però non fa che rendere più sensibile l’accordo intimo fra l’edificio sacro e il gruppo profano – a contrario, potremmo dire stavolta, giacché apparentemente la chiesa, esiliata com’è per lo più in periferia a fare da vero e proprio bastione, sia in senso concreto che figurato, perde qui la posizione preminente che le assicurava il punto centrale –, l’ondata mesopotamica che irrompe nella Francia sud occidentale si accompagna al ritorno in auge di un piano quadrato o rettangolare, in relazione con il diffondersi dell’interesse per il testo apocalittico e della imitazione come che sia della Città celeste. Ciò voleva dire tornare al piano della prima Roma mitologica – la Città quadrata sul Palatino –, ovvero a quello di Alessandria e delle altre città fondate in tempi antichi: e tuttavia non si deve pensare che una siffatta disposizione fosse suggerita esclusivamente dalla comodità o da scopi militari (come a volte si tende ad affermare): nel medioevo qualsiasi atto pubblico, e più che mai un atto così importante com’era quello che mirava a definire la cornice del vivere, era per prima cosa un atto rituale.

L’incidenza del piano quadrato appare all’interno stesso delle città, nell’urbanistica. il piano quadrato del castrum romano con le sue due vie ortogonali venne frequentemente adottato per gli antichi santuari, agglomerati di edifici diversi e sempre in relazione con la Città apocalittica. Tali santuari, infatti, formati da edifici fra loro isolati – il battistero era uno di questi – erano protetti da mura e pone poste in asse secondo i punti cardinali. Esempio tipico è la cattedrale di Milano, della quale un antico testo ci dice che era formata da un nucleo centrale, con la chiesa episcopale, un campanile indipendente – formula italiana per eccellenza questa; ancora in epoca romanica la torre, spesso di ragguardevoli dimensioni, era spesso separata dal resto delle costruzioni: basta pensare alla torre di Pisa –, due battisteri e quattro cappelle dedicate ai quattro arcangeli posti a difesa dei quattro punti cardinali: Michele a oriente il più grande di tutti, al posto d’onore, erede di Thor e dello Psicopompo egiziano, con tanto di bilancia in mano; Gabriele a occidente; Raffaele a nord; e Uriele a sud. Quest’ultimo, che veniva considerato l’arcangelo dell’Antico Testamento, doveva essere estromesso (e il suo culto perciò vietato) da un concilio romano del secolo VII: è da qui che deduciamo la data approssimativa del testo in questione: forse il secolo VI. Più tardi, in epoca carolingia, durante la quale le pone di difesa tuttavia furono conservate, per esempio a Centula (= Saint-Riquier), sopravvennero le cappelle con valore profilattico. Venivano in genere sistemate nelle torri, mentre l’atrio, futuro nartece, continuava a chiamarsi paradisus, ricordo della Città celeste così frequentemente imitata: proprio le torri di facciata, infatti, accoglieranno spesso degli altari, al piano superiore, dedicati a san Michele o a san Gabriele. Quanto al coro, esso era protetto, come ci testimonia un testo relativo alla città di Verona, dalle cappelle dedicate ai santi martiri: in questo modo, ci viene assicurato, la città era «protetta contro le potenze malvagie dalla sua corona di corpi santi».

Sembra evidente, tuttavia, che con la progressiva scomparsa della città o dell’agglomerato di edifici così costituito e la sua sempre più diffusa sostituzione con una chiesa organica principale o con un gruppo cattedrale, si sia ben presto adottata, preferendola a quella che ricordava la Roma pagana, la struttura della Gerusalemme tipica, che era circolare. Fu senza dubbio un piano del genere che venne prescelto nel IV secolo da Sulpicio Severo per la sua villa di Primuliacum, presso Auch; da una lettera indirizzatagli dal suo amico Paolino da Nola, formatosi come lui all’Università di Bordeaux, celebre quanto quella di Autun, apprendiamo infatti ch’egli aveva composto due poemi destinati ad abbellire i portici che univano due chiese al battistero: «Queste due chiese simboleggiano l’Antica e la Nuova Legge. L’Antica Legge è la speranza, la Nuova è la fede. Entrambe le Leggi hanno come punto di riferimento il Cristo. E per questo che il battistero è stato posto a egual distanza dalle due basiliche, perché è da esso che s’irradia la gloria del Signore». Ricaviamo questa citazione dall’ultimo libro di E. Mâle, La fin du paganisme en Gaule, libro importante poiché in esso l’autore rivede certe sue affermazioni relative alla scomparsa del simbolismo fino a Suger, e nel quale, anzi, mette in evidenza la posizione incontestabile che «il simbolismo già occupa nel pensiero cristiano». Se quindi il battistero si trova al centro, è a causa dell’importanza del rito battesimale degli adulti nella Chiesa antica, sulla quale ci soffermiamo in altro luogo.

In linea di massima, il piano circolare è tipico dei villaggi, di tende o di capanne, di svariate civiltà primitive. Un esempio che permane ancor oggi: la capanna dei Maquiritares, popolazione indiana dell’Orinoco, in Amazzonia, che riunisce e ripara l’intera tribù attorno al palo di sostegno centrale, e che comunica all’esterno con quattro aperture poste in direzione dei quattro punti cardinali. Era la stessa cosa nel campo di Attila e la stessa tuttora in zone più vicine a noi, in certi villaggi slavi o presso gli Arabi di Bagdad.

D’altronde, come evocare meglio il mondo sottomesso alla Chiesa? Un piano del genere si accorda con quello della città fortificata, appollaiata in cima a un’altura o raggomitolata attorno al castello, al quale il santuario è connesso e dal quale è protetto. Naturalmente non possiamo elencare tutte le città, innumerevoli, che esistono già dall’alto medioevo e che obbediscono a questo piano; citiamo Malines, Milano, Limoges, Saint-Denis, Figeac, Bergerac, Brive-la-Gaillarde. Ma ci sono anche dei villaggi: fra questi, quanto mai caratteristico è il minuscolo borgo di Pommiers (Loire). In ogni caso, si tratta di un piano che viene da lontano, da costruzioni preistoriche ben note come i cromlech bretoni (cfr. Lavedan, Histoire de l’urbanisme).

La cosa certa è che questo piano, il quale continuò ben inteso a svolgere un ruolo di fondamentale importanza, venne bruscamente abbandonato nel Midi della Francia, nel sud ovest, nella Guienna e nella Guascogna, quando queste regioni dovettero organizzarsi a difesa contro gli Inglesi; si crearono allora delle nuove città, le cosiddette bastides, disegnate secondo un piano prettamente «americano» – una scacchiera –, per insediarvi popolazioni sradicate dai loro paesi d’origine. E giusto, naturalmente, invocare le ragioni strategiche o utilitarie che in circostanze del genere fecero di nuovo prevalere l’impianto urbanistico romano. Tuttavia, come tutto ciò che ha a che vedere col medioevo, non bisogna affatto trascurare il punto di vista religioso. Degno di nota è per esempio – e lo rileva anche il Lavedan –, che fra le prime bastides sorte siano da citare nomi del Roussillon, come Sairit-Genis-des-Fontaines, nei quali sono nati i complessi iconografici di spirito apocalittico che hanno dato il la all’arte della Linguadoca e che riflettono nuovamente la diffusa tendenza a imitare la Città celeste, con la porta avente valore di sbarramento, di interdizione, oppure profilattico. La prevalenza del piano di nuovo quadrato si pone infatti in intima relazione con la diffusione del piano quadrato-cubico delle chiese, completo di nartece, chiostri, ecc., che invaderà tutta la Francia sud occidentale. La chiesa ora non si trovava più necessariamente al centro. Nella bastide sono comunemente il pozzo e l’albero a occupare questa posizione, conformemente al testo dell’Apocalisse: come «la Città non ha più bisogno del sole che la illumini», così la chiesa-fortezza non è che un bastione come tutti gli altri, con tanto di porta a cui montare la guardia. Nel Roussillon, a Cuxa e a Serrabone, questa porta ha ereditato l’aspetto delle porte di difesa carolingie, tipo quella di Lorsch, e ospita una cappella dedicata a san Michele: l’immagine dell’arcangelo in vesti sacerdotali, come nell’arte bizantina, si trova al piano superiore. Particolari, questi, che ci fanno venire in mente le immagini di Michele e di Gabriele che difendono l’ingresso della chiesa di Kodja-Kolessi, in Asia Minore, iscritte sui piedritti.

La posizione della chiesa così in disparte si spiega anche col fatto che i fondatori di bastides erano in larga maggioranza signori laici; e il quadrato, infatti, il Quattro, evocava il mondo.

Ma laicità o mondo, nel medioevo, non volevano dire estraneità alle cose della fede o al misticismo. Il diploma di fondazione della bastide di Montauban mostra chiaramente con quale e quanto entusiasmo venissero elevate queste città nuove; emerge perfettamente il simbolismo dei numeri mistici. Vero è infatti che la chiesa non è più il centro sacro, ma al suo posto ecco la piazza quadrata destinata agli scambi e utilizzabile come riparo momentaneo per armenti e mercanti, circondata da portici su cui poggiano le case, coperti da volte ogivali identiche alle volte delle chiese. Troviamo tutto ciò, per esempio, a Villeréal.

Il testo a cui abbiamo appena fatto cenno a proposito di Montauban ha tutta l’aria d’una chanson de geste e ricorda perfino l’Apocalisse: «Ecco il palazzo con i muri aperti da quattro porte… Sulla rupe maestra che scende a picco hanno eretto la dimora più alta ed hanno richiesto al popolo, alla brava gente, di venire ad abitare nel castello, purché paghino lealmente canoni e diritti… Ed ecco 500 borghesi che vengono più che volentieri e popolano in comune la rocca fortificata». Vengono quindi citate le professioni: ci sono fittavoli, pescatori, fornai, mercanti «che fanno negozio fin nelle Indie Maggiori». Il numero di cinquecento è evidentemente simbolico: il cinque, numero esoterico, è quello della materia penetrata da Dio, cioè dell’uomo. Nel romanzo di Perceval, di Chrétien de Troyes, il Palazzo delle regine ha cinquecento finestre; le dame stesse, a loro volta, hanno al proprio servizio cinquecento fra scudieri e giovani valletti.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 119-121

Numeri, cifre e figure geometriche: altri numeri

Sezione: Lessico


Fino a prova contraria, gli altri numeri non hanno nel simbolismo romanico la stessa importanza.

Tredici

Citeremo tuttavia, per memoria, il Tredici, che i Tedeschi chiamano Unglückzahl (il numero infelice) e che perciò passa per portatore di male. Tutti sanno che le persone superstiziose ancora oggi evitano di trovarsi in tredici a tavola o di mettersi in viaggio il tredicesimo giorno del mese, soprattutto se esso cade il venerdì, il giorno della morte del Signore.

È perciò significativo che sul timpano di Saint-Ursin a Bourges il calendario dei Lavori mensili non sia iscritto sotto dodici archi, ma sotto tredici. Ciò che consente di raggiungere questo numero è la doppia arcata sotto la quale è inserito l’uomo piegato dal lavoro più duro, quello della mietitura. È dunque alla maledizione del lavoro che ci rinvia questo numero Tredici.

Quattordici

Quattordici (= due volte Sette) è il numero degli Intercessori. Ma ha anche altri significati. Nel chiostro di Aix si può osservare la seguente coincidenza: il vangelo secondo Matteo comincia con la genealogia del Cristo, suddivisa in tre gruppi di quattordici generazioni; allo stesso modo le gallerie istoriate sviluppano qui tre serie di soggetti su quattordici colonne: sono infatti quattordici le generazioni da Abramo a Davide, quattordici quella da Davide alla deportazione babilonese e quattordici infine dalla deportazione babilonese a Gesù (Mt., 1, 1-17). La sottigliezza numerica è tale che s’arriva a scoprire un’indicazione precisa, con espresso riferimento a questo numero, nella scena della Natività: sul lenzuolo che copre il letto della Vergine si distinguono infatti quattordici punti spartiti su due file, uno dei quali è nascosto dal braccio stesso di Maria: è come se si fosse voluta puntualizzare la posizione del Cristo, in questa genealogia, e autenticare così il simbolismo che abbiamo indicato. D’altronde, se la Madonna nasconde uno dei punti, è perché si tratta del punto che nella genealogia corrisponde proprio a Gesù e anche perché essa, sua madre, prevede già la fine dolorosa del Salvatore: infatti la Natività anticipa simbolicamente la Passione a venire; la culla o la mangiatoia non sono altro che una aorta di altare sul quale il Cristo viene immolato.

In aggiunta a questo, si deve osservare che Balaam e Davide, i quali corrispondono al primo gruppo di generazioni, sono gli eroi biblici raffigurati in quella che è la prima parte del programma, nella galleria occidentale; questa parte ha inizio precisamente con l’Uomo dal dito teso verso la galleria in questione: si tratta, come si sa, dell’attributo di Matteo, nel cui vangelo è contenuta la lista. Gli altri personaggi biblici – Giona, la Fidanzata del Cantico dei Cantici Salomone e la regina di Saba –, corrispondono tutti al secondo gruppo di generazioni e fanno perciò parte della seconda sezione del programma, che comincia a sua volta dal Bue, simbolo del sacrificio. Infine, il Cristo è il termine della terza serie di generazioni: e appunto la sua vita è quella narrata nella terza parte del programma (galleria nord), nella doppia serie di scene, della Natività e dell’infanzia – cioè a dire dell’incarnazione –, da un lato, e del Sacrificio – Passione, Discesa dalla croce –, dall’altro. In questo modo, i personaggi biblici della galleria rispettano la cronologia della Scrittura.

Il Ventiquattro (= due volte Dodici) corrisponde ai Vegliardi dell’Apocalisse. Dal canto suo, il de Champeaux mette in risalto altri significati del Ventiquattro: corrisponderebbero ad esso le ore del giorno sommate a quelle della notte, i Lavori dei mesi sommati ai Segni dello zodiaco; in altre parole, l’anno cosmico in relazione col movimento rotatorio delle sfere celesti. Ad Autun e Vézelay, questi simboli sono iscritti entro dei cerchi negli archivolti esterni.

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I racemi ravvolti, cosparsi di fiorellini solari, che compaiono nella cornice del timpano di Saint-Ursin, formano un meandro ininterrotto: si è detto sopra che disegnano dodici S, ma possono esserne calcolate anche ventiquattro, dodici da un lato e dodici dall’altro, sempre che si tenga presente che ciascuna voluta può essere contata due volte, essendo tutte, contemporaneamente, volute superiori di una S e inferiori di un’altra, rovesciata rispetto alla prima; al centro, nella chiave di volta, un piccolo personaggio rappresenta il solstizio d’estate, a partire dal quale i giorni decrescono. Si direbbe che l’artista abbia voluto evocare, ad un tempo, le ore del giorno e della notte su ognuno dei due lati e le due parti dell’anno, attraverso la rigorosa ripartizione dei fiorellini indicanti l’intensità dell’insolazione e la sua durata. Le curve ascendenti dominano a sinistra, lato che corrisponde ai due primi trimestri, ai giorni crescenti. I fiorellini a loro volta, sono più numerosi a sinistra, all’altezza della primavera, e a destra, in corrispondenza dell’estate e dell’autunno, periodi in cui i giorni soleggiati sono più numerosi.

Ventiquattro

Ritroviamo i complessi significati del Ventiquattro, nella stessa regione, sul portale principale di Charlieu, con caratteri ancora puramente decorativi («decorativi» nel senso del simbolismo). Nel terzo archivolto si vedono dei cerchi formati da nastri perlati, i quali contengono dei fiori a quattro petali: questi cerchi hanno una qualche ragion d’essere nell’accostamento che Émile Mâle fa tra il suddetto portale e le absidi copte – solo che in queste essi racchiudono le immagini delle Virtù che si ritroveranno poi, più tardi, nelle cattedrali gotiche. Ebbene, val la pena di contarli; ci si accorgerà allora che sono ventiquattro. Non solo: al di sopra di essi si stagliano due simboli apocalittici: l’Agnello e due Vegliardi con in mano le loro viole: è indubbiamente la totalità dei Vegliardi che con essi si è voluta richiamare. Probabilmente si suo voluti esporre anche gli altri complessi significati del Ventiquattro. I fiori in questione sono pienamente inseriti in un programma tripartito: nel primo archivolto un quadrifoglio ripiegato verso il basso simboleggia la terra, nel secondo una scacchiera simboleggia il cielo, e sul tutto domina la croce diritta del Giudizio.

Quanto al resto, non ci soffermeremo né sui Trentasei decani, né sulle Cinquantadue settimane che il de Champeaux ravvisa soprattutto nell’ovest della Francia. Ricordiamo, comunque che il Trentatré è il numero degli anni del Cristo – e è per questo che Dante divide in trentatré canti la sua trilogia della Divina Commedia.

Quaranta

Quaranta è il numero biblico dei tempi di sofferenza. Il diluvio dura quaranta giorni e quaranta notti, tanti quanti il digiuno di Gesù dopo il battesimo; senza parlare del viaggio di Elia e altri episodi. Gli Ebrei errano per quarant’anni nel deserto prima di penetrare nella Terra promessa.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 232-234

Numeri, cifre e figure geometriche: dodici

Sezione: Lessico


Il Dodici, prodotto del Tre per Quattro, rivaleggia in importanza con il Sette: è il numero non soltanto dei mesi dell’anno, delle ore del giorno e della notte e dei segni dello zodiaco, ma anche e soprattutto delle tribù d’Israele, degli Apostoli e, per conseguenza, della Chiesa universale.

Per quanto concerne in particolare il numero degli Apostoli e occorre notare che in effetti, nei momenti cruciali, questi ultimi raramente sono stati in dodici. Erano in undici al momento dell’Ascensione e più tardi, se si aggiunge san Paolo, sono diventati tredici. Dodici è perciò un numero ideale che va messo m relazione con le tribù di Giuda o con le pietre del pettorale indossato dal sommo sacerdote, pietre, a loro volta, in relazione con le stesse dodici tribù. Le ritroviamo, fra l’altro tutte e dodici – pietre o gemme che siano – nella Città celeste dell’Apocalisse, sia nelle dodici fondamenta delle sue mura che nelle dodici porte.

Il Dodici è dunque un leitmotiv della Bibbia. La ragione sta senza dubbio nella sua connessione con il Tre e con il Quattro, gli stessi numeri che determinano il valore del Sette: questo è il risultato della loro somma, il Dodici è il loro prodotto. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, quando si vogliono riferire esempi preromanici o romanici.

Sotto forma di fiore raggiante il Dodici compare sul fianco dell’arca di un sarcofago merovingio riprodotto da M.Ile Jalabert: lo affiancano i simboli eucaristici; il grano però che vediamo qui è più raro, in questa accezione, di quanto non sia invece la vite, della quale l’iconografia cristiana si è avvalsa spesso per evocare il vino della Cena e della Messa.

È in virtù della relazione fra il numero degli Apostoli e il numero delle fondamenta e delle porte della Città celeste (Apoc., XXI, 12-14) che ci si imbatte sovente negli stessi Apostoli, posti sotto degli archi, associati ad altri santi: così a Poitiers e così ad Angoulême, insieme con la Vergine e coi simboli dei vizi, l’Orgoglio e Lussuria. Sulla facciata della chiesa di Saint-Pierre a Melle, nel Poitou, ci sono esattamente dodici archi, ma gli Apostoli, salvo uno, sono scomparsi. A Poitiers le arcate sono invece quattordici, con due santi aggiunti agli Appostoli. Ad Angoulême, nella zona superiore della facciata, ai due lati del Cristo col Tetramorfo, in contrapposizione ai sei personaggi posti entro dei cerchi, sotto un paramento di eleganti figurazioni vegetali, dalla parte sinistra, sono dodici, anch’essi entro dei cerchi e anch’essi in ginocchio come i primi, quelli dalla parte destra. Si deve ritenere che negli uni siano raffigurati coloro che sono fuori della Chiesa e negli altri invece coloro che stanno già nel suo seno; i membri della Chiesa sono infatti i più numerosi. È così, inoltre, che secondo le Scritture il Cristo farà ritorno, allorché il Vangelo sarà stato annunciato a tutta la Terra. Tutti questi personaggi, quindi, al contrario dei beati, ormai definitivamente accolti in paradiso, i quali emergono solo a mezzo busto dagli altri dieci cerchi ai piedi del Salvatore, si trovano di fronte all’angosciosa prospettiva del Giudizio: levando in alto l’una o l’altra mano, essi disegnano alternativamente delle striature a destra o a sinistra, cosa che invece non fanno i dieci beati.

Altri testi, comunque, concorrono a spiegare la presenza del Dodici. San Benedetto, per esempio, ha espresso l’ipotesi che la scala di Giacobbe potesse essere fatta di dodici piuoli, tanti quanti sono i gradi ascendenti della virtù dell’umiltà.

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Noi stessi abbiamo rilevato altrove a che punto di precisione riescano ad arrivare le notazioni numeriche nel programma degli otto capitelli absidali di Chauvigny, soprattutto in quello dell’«uomo squartato». Su questi capitelli tutte le striature, o ciocche delle criniere degli animali, rispondono al simbolismo dei numeri. E alquanto significativo, per esempio, che le ciocche della criniera del leone, il quale con le sue forme turgide finisce con l’assumere l’aspetto di un cuore, siano in numero di dodici. Il Dodici evoca la Chiesa e l’attività che essa svolge perché possa progredire l’avanzata della Città celeste: l’uomo col leone, le cui vesti sono toccate dall’animale, è colui che accetta, nell’armonia fra la carne e l’anima, le servitù della condizione umana e il travaglio che è imposto all’uomo a causa della sua iniziale caduta. Gli Ebrei, come risulta da innumerevoli passi della Bibbia, davano all’abito un’importanza straordinaria e consideravano la nudità come particolarmente infamante: solo il dannato, il folle e la donna di mala vita potevano essere nudi; la copertura delle vergogne era una cosa dalla quale nessuno poteva prescindere, eccezion fatta, forse, talvolta, durante il lavoro.

Dodici equivale a due volte Sei. Per rappresentare la totalità della Chiesa, sei giudei e sei pagani venivano associati alla famosa festa dell’asino, o «dramma dei Profeti», che si celebrava a Rouen: si trattava di un’estensione del tema iconografico dell’ecclesia ex gentibus e dell’ecclesia ex circumcisione così caro ai mosaici e agli affreschi romani.

Ci si ricorderà, altresì, della singolare iscrizione del chiostro di Vaison-la-Romaine, nella quale il numero Dodici è rappresentato dall’espressione bissenis.

Ai due lati, infine, del simbolo dell’anno, o del solstizio, nella chiave dell’archivolto di Saint-Ursin a Bourges, troviamo dodici S, sei diritte e sei al rovescio, disegnate dai ravvolgimenti dei racemi tutto intorno alla lunetta, evocanti le ore del giorno e della notte e le due parti dell’anno.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 231-232

Numeri, cifre e figure geometriche: undici

Sezione: Lessico


«L’Undici rappresenta il peccato, giacché questo numero infrange la barriera del Dieci, che è la cifra del Decalogo, e il peccato è l’infrazione della legge».

Quanto a noi, questa affermazione, che L. Réau nella sua Iconographie de l’art chrétien desume dai testi dei Padri della Chiesa, dai compilatori medievali e anche dai manoscritti delle Bibbie redatti, come allora si usava, per mettere in evidenza le «corrispondenze» fra passi di libri diversi, abbiamo potuto puntualmente verificarla per l’epoca romanica.

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Il timpano di Lévinhac, sul quale compare una trasposizione del Tetramorfo eseguita con dei dischi dagli eleganti disegni, è un’opera di estremo interesse. La margherita a sei petali entro il disco di destra, in basso, corrisponde al Bue: ricorda perciò la missione degli Apostoli, che è di fatto la conseguenza del sacrificio. L’Otto, per contro, rende la stessa idea del fiorone a forma di rosa dei venti collocato in alto a sinistra: è un modo come un altro per riassumere la condizione umana, nella quale sono concentrate tutte le virtualità, simile al tema del cavaliere nell’album di Villard de Honnecourt; equivale perciò all’Uomo con tutte le sue possibilità. A sinistra, in basso, un festone circolare disegna tutt’intorno una serie di undici anelli: sono sintetizzate così, in qualche maniera, le distruzioni apocalittiche; al suo posto avremmo potuto trovare benissimo il Leone, che è anch’esso un animale distruttore. Queste distruzioni, però, sono richiamate in special modo dall’unica rappresentazione iconica che faccia parte del complesso, nella quale compare, in alto a destra, il dragone che divora l’uomo e che sta al posto dell’Aquila: in ogni caso, quest’ultima, se fosse stata raffigurata in atto di sollevare al cielo lo stesso uomo, come a Chauvigny, non avrebbe avuto un significato diverso. Gli undici anelli del festone sopra citato si inseriscono perciò in un contesto rigoroso. Da notare in particolare che se i dodici Apostoli sono rappresentati dalle sei margherite e dalle sei palmette che nel disco in basso a destra circondano la margherita centrale, là proprio dove è simboleggiata la loro Missione, il passaggio all’Undici, nel disco a sinistra, si riferisce evidentemente al numero degli Apostoli dopo il tradimento di Giuda, punto di partenza della Passione del Cristo.

E per finire, mentre sull’architrave di Moissac, dove il tema esposto è un tenia di gloria, i fioroni completi e senza intromissioni di animali sono Otto, ne troviamo invece undici a Beaulieu, sui cui architravi si riscontra la stessa tematica di Lévinhac, con le distruzioni apocalittiche operate dal leone e dal drago.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, p. 231

Numeri, cifre e figure geometriche: dieci

Sezione: Lessico


Dieci è il numero del decalogo. E, ricorda sant’Agostino, il numero delle corde del salterio di Davide; ed è risaputo che Davide il musico, re e antenato diretto del Cristo, è la personificazione del divino cantore che comanda alle musiche celesti – alla musica delle sfere, per dirla con Platone. Troviamo Davide inserito fra i segni dello zodiaco nel fregio che sovrasta il portale meridionale di León, unito alla più alta delle Virtù, quella che vede Dio, e così pure a Bourg-Argental; a Saint-Gilles, domina invece sugli animali, simboli dei temperamenti umani; nel mosaico di Saint-Remy di Reims è al centro del sistema delle «Quaternità», dei temperamenti, delle stagioni, delle tonalità della musica, dei fiumi del Paradiso, ecc.

Le sfere celesti sono dieci nel sistema dell’universo quale viene concepito correntemente dagli uomini del medioevo; lo afferma, fra gli altri, Michele Scoto: «Al di là delle nove sfere mobili, l’empireo immobile. E cosa più nobile possedere senza movimento la perfezione di cui si è capaci che acquistarla attraverso il movimento: donde il decimo cielo più nobile di tutti gli altri e possessore senza alcun movimento di tutta la sua perfezione». Ma dobbiamo citare anche sant’Alberto Magno che s’accontenta, da parte sua, di vedere solo nove cieli: egli parla infatti di «un cielo supremo senza astri che trasmette a tutto l’universo il movimento diurno; l’ottavo porta le stelle fisse ed è come animato da movimenti quanto mai lenti che spostano i punti cardinali. Fra questi, il nono cielo, il quale non contiene alcuna stella, è quello che trasmette il movimento da Occidente a Oriente al mondo delle stelle fisse e ai sette cieli degli astri erranti. Sotto l’influenza del suddetto nono cielo, questi Otto mondi procedono tutti da ovest verso est, sospinti dalla stessa velocità». Tuttavia – ed è questo l’importante –, se Alberto Magno è contemporaneo dell’arte gotica, Michele Scoto, lui per lo meno, è romanico.

Vero è che la concezione dei nove cieli è più diffusa, anche perché concorda con le gerarchie angeliche dello Pseudo Dionigi l’Aeropagita – e sarà infatti questa anche la concezione di Dante –, ma non per questo si può mettere in dubbio che il numero Dieci in questione si ricolleghi al significato sacro che, secondo Michele Scoto, ad esso è attribuito da tempo immemorabile.

Il pensiero pitagorico vede innanzi tutto nel Dieci la somma dei primi quattro numeri: Uno, Due, Tre, Quattro. Esso è legato tanto al dieci romano quanto al chi greco, il chiasmo di Platone. Sin dall’antichità più remota, come conseguenza dell’usanza universale di contare sulle dita della mano, il Dieci rappresenta un limite sacro che a nessuno è dato di valicare.

Opere

Sulla grande arcata di Angoulême i beati allineati ai piedi del Cristo circondato dai quattro Animali, e rappresentanti senza dubbio coloro che nell’Apocalisse «attendono ai piedi dell’altare», ovverosia le masse infinite degli uomini, sono dieci. Sull’architrave di Saint-Ursin – quello delle nove sfere –, si nota, all’estremità sinistra, finiti i ravvolgimenti dei racemi, un incrocio formato da due rami: è proprio il numero Dieci che esso vuole significare, l’ignoto, la X, l’assoluto, il punto d’arrivo della strada dei cieli, Dio; è importante, infatti, rilevare come esso si trovi a sinistra, nella direzione opposta a quella verso cui vanno gli Animali, simboli dei temperamenti dell’uomo, e in senso contrario anche a quello del calendario. Per potere evocare il mistero della morte, ci sono dieci striature sul corpo del drago che sta per divorare il leone di destra, sul capitello dell’uomo tagliato in due di Chauvigny, e dieci sono pure le ciocche nella criniera dello stesso leone. La maschera della Terra inserita in un cerchio, che si vede nella strombatura di sinistra, nel portale di Pressac, immagine della germinazione e del mistero della vita e della nascita, è fatta di dieci foglie. E in cima a dieci cerchi, o a dieci fra uomini e animali, in mezzo ai quali c’è anche l’animale androfago, a destra, che troviamo ripetuta tre volte, sui tre fregi di Ainay che evocano le tappe dell’esistenza, la figura dell’Agnello. A Saint-Eutrope di Saintes, il libro del Giudizio che si apre dietro la bilancia dell’Arcangelo Michele presenta dieci striature a zig-zag, che con ogni probabilità alludono ai dieci comandamenti della legge divina, al decalogo, in base al quale gli uomini vengono giudicati, come nella Pesatura delle anime dell’antico Egitto.

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Il cervo dipinto di Santa Maria di Tahull posa le zampe su una bordura ornata di gocce a forma di mandorla che corrispondono alla fonte d’acqua viva alla quale esso s’abbevera: la prova è data dal fatto che la bocca dell’animale è come tagliata da questa bordura; ed è vero che esso sembra contemplare un fiore a nove petali, simbolo della vita futura, ma è anche vero che le mandorle simboliche sulle quali poggiano le sue zampe sono dieci, il numero che significa la totalità.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 229-230

Numeri, cifre e figure geometriche: otto

Sezione: Lessico


Il numero Otto simboleggia la rinascita mediante il battesimo, la resurrezione: è per ciò che i battisteri e i fonti battesimali hanno sovente la forma ottagonale; ed è per la stessa ragione che l’arcosolio del chiostro di Soria (Spagna) ha il profondo intradosso intagliato da otto scanalature che disegnano sulla fronte dell’archivolto altrettanti incavi di profilo circolare: il particolare s’accorda perfettamente con la destinazione funeraria (morte-resurrezione) di questo elemento architettonico. L’Otto corrisponde inoltre alle Beatitudini e alle tonalità della musica gregoriana. E infine il numero della vita futura.

Tanto il numero Sette è raro nell’iconografia romanica, altrettanto frequente è il numero Otto. Esso si manifesta sotto gli aspetti più diversi, in armonia col preciso simbolismo che gli si attribuisce. Uno dei motivi più comuni in cui c’imbattiamo è quello del fiore a Otto petali, con il quale ai realizza quella che viene chiamata l’ornamentazione a punta di diamante; però tale motivo, sia esso su un abaco oppure su un fregio, non è mai disposto a caso.

Per esaltare il battistero a Otto nicchie, annesso alla basilica di Santa Tecla a Milano, sant’Ambrogio compose un breve carme destinato a essere trascritto sulle pareti dell’edificio: «Le otto nicchie di questa chiesa sono aperte per i sacri riti. Otto angoli hanno i suoi fonti come si addice ai suoi doni. Era opportuno fondare questo edificio per il santo battesimo su un numero sacro; è la salvezza che il popolo qui riceve. Però la formula del battistero separato dal resto della chiesa è in via di estinzione all’epoca romanica: il rito dell’immersione, alle cui esigenze esso rispondeva, non si pratica ormai più dal VI-VII secolo.

L’Otto, comunque, non appare soltanto nell’architettura dei battisteri di tradizione paleocristiana; lo si trova anche nel tracciato a pianta ottagonale della crociera di numerose chiese, per esempio in Alvernia.

Il motivo della stella a otto punte, formata dall’intersecarsi delle nervature, orna simbolicamente nel Béarn, la cupola a crociera della chiesa della Sainte-Croix a Oloron-Sainte-Marie e quella della piccola parrocchiale di L’Hôpital-Saint-Blaise, a imitazione della cupola mussulmana, tipo quella della moschea di Cordova, e le cupole altresì di Bel-el-Mardu e di Torres del Rio (Navarra). A Sainte-Croix si è costruita, poggiando su dei mensoloni, una cupola a pianta ottagonale, rafforzata da archi di profilo rettangolare che s’incrociano per formare una specie di stella di linee regolati. In contrasto con il piano rettangolare della navata, il numero Otto che vediamo qui concorda con il simbolismo dell’altare visto come sepolcro del Cristo. Altrettanto dicasi per le cappelle che accolgono le reliquie dei santi.

Ad Anzy-le-Duc, la pianta ottagonale della crociera, magnificamente sviluppata, concorda con il simbolismo d’insieme esibito dai capitelli e dalla chiave di volta: fiumi del Paradiso, la Vergine in gloria, figurazione delle tappe. Analogamente, in Alvernia, alla massiccia facciata anteriore, quadrangolare o fiancheggiata da due torri quadrate (Saint-Nectaire), si contrappone normalmente il tiburio (o tour-lanterne, come la chiamano, con maggior precisione, i Francesi), collocato sulla crociera e sovrastante una cupola che intende evocare la vita futura: il tema dei capitelli absidali presenta assai spesso la scena delle Pie Donne al sepolcro, sepolcro che ricorda – isolato vestigio dell’iconografia alessandrina –, il tholos primitivo a coronamento piramidale con cui si soleva raffigurare in Egitto il sepolcro appunto del Cristo.

A Cluny, poi, in armonia con la figura del Cristo Pantocratore che doveva stagliarsi nell’abside come a Paray-le-Monial e a Berzé-la-Ville, gli otto modi del canto gregoriano erano esposti in un programma d’insieme imperniato senza dubbio sulla musica – con chiaro riferimento alla «musica delle sfere» della filosofia platonica – e accompagnato da una serie di quaternità, quali le Stagioni, le Arti liberali, ecc.

I leoni minacciosi, immagine della morte, che fiancheggiano a Serrabone la figura di Gilgamesh, hanno fra le loro zampe una palmetta a otto lobi. A Chauvigny, Lucifero regge dinanzi al petto una lastra d’altare, quadrata, sulla quale sono incisi un incrocio e quattro punti – in totale otto segni –, e questo vuol dire, naturalmente, che non si tratta della vita eterna – tema che avrebbe richiesto una stella a Otto punte –, ma della morte pura e semplice: lo si rileva dalla croce diritta formata dai quattro punti suddetti. I due demoni asimmetrici che fiancheggiano Lucifero e che trascinano verso di lui la Vecchiaia e la Giovinezza, cioè i Vizi dello spirito e i Vizi della carne, hanno sulla testa delle creste a Otto dentelli che imitano le fiamme dell’Inferno: sono pertanto i fedeli gregari di Satana che stanno conducendo alla morte le loro vittime. La rosa dei venti che circonda il cavaliere di Villard de Honnecourt (tavola di destra) dimostra che egli è avviato verso una pericolosa avventura, ma la linea alquanto regolare del disegno, a forma grosso modo di cerchio, vuole indicare che è ben diversa la via per la quale il personaggio s’incammina: è la via della Vergine, che non mancherà di accordargli protezione. A Moissac, sono Otto i felini che su uno dei capitelli del chiostro si avventano contro i dannati, e Otto sono pure i leoni che minacciano Daniele su un capitello poco lontano, mentre dall’altra parte dello stesso chiostro, dedicata non, come la prima, alla Passione e all’Apocalisse, ma all’Infanzia, i leoni che fiancheggiano Daniele sono solo due, secondo la formula più comune.

Otto infine sono le palmette, arrotolate su se stesse, che ornano l’architrave del portale di Saint-Ursin a Bourges, in perfetta armonia con la caccia al cervo che costituisce il centro principale d’interesse dell’intero timpano. Trattando del numero Otto, occorre invece tener da parte i fioroni a forma di croce – o croci del Giudizio –: essi sono infatti il risultato dell’unione della croce greca con la croce inclinata, e solo per questo sono otto i petali (o i bracci) che li compongono.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 228-229

Numeri, cifre e figure geometriche: sette

Sezione: Lessico


Il numero Sette non ha nell’arte romanica una posizione corrispondente al ruolo che esso occupa nella Bibbia, o più generalmente nelle Tradizioni. In ogni caso, ha meno importanza del Tre e del Quattro, dei quali è la somma – così da evocare l’unione della terra e del cielo –, e meno anche dell’Otto, sul quale hanno molto insistito i Padri della Chiesa. E per eccellenza un numero legato all’Apocalisse, il libro che forse ha più profondamente marcato l’iconografia romanica: pensiamo alle sette Chiese d’Asia, alle sette corna della Bestia, alle sette coppe della collera divina. È inoltre, essenzialmente, un simbolo ebraico, che si palesa in particolare nella forma del candelabro a sette bracci, ed è forse qui che bisogna cercare la ragione del suo relativo discredito.

Il numero, comunque, ritroverà una certa importanza all’epoca gotica. L. Rèau, che affronta il problema da un punto di vista più generale del nostro, pone in risalto le sue molteplici implicazioni: i sette doni dello Spirito Santo rappresentati a volte – per esempio, sull’affresco di Le Liget – da sette colombe, i sette sacramenti, i sette gradi del sacerdozio, i sette concili ecumenici prima della separazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, le sette «età dell’uomo» le sette ore della celebrazione canonica, le sette discipline del sapere (trivium più quadrivium), le sette domande del Pater Noster, i sette alberi e le sette sorgenti del domenicano frate Lorenzo, le sette virtù teologali e cardinali, alle quali si contrappongono, per spirito di simmetria, i sette peccati capitali.

Questi ultimi sono probabilmente evocati a Preuilly e a Cunault da figure per metà umane e per metà animali, e a Saulieu da strane teste che pendono da foglie di acanto, così da formare una specie di «albero di teste» – tema di matrice araba, studiato per la fine del medioevo da J. Baltrusaitis, ed avente con ogni evidenza rapporto con l’albero del Paradiso –, ecc.; a Saulieu, fra l’altro, la testa centrale, nella chiave del capitello, invece di avere sembianze umane come le altre, è chiaramente una maschera leonina. Ma se il Sette non ha, come si è già detto, una posizione di grossa rilevanza nella iconografia romanica, benché siano estremamente frequenti in essa temi e motivi ispirati dall’Apocalisse, dove invece la parte recitata dal Sette è senza dubbio di primo piano, è perché le visioni descritte dal testo giovanneo sono troppo astruse per poter essere illustrate alla lettera con sculture o con affreschi – i due campi sui quali si sono essenzialmente concentrate le nostre ricerche.

Tuttavia, sul timpano di La Lande de Fronsac (Gironde), lo scultore si è lasciato attrarre da un tema abbastanza difficile: l’immagine divina con la spada nella bocca, le sette chiese d’Asia sotto l’altare, sette alberi, sette stelle nel cerchio sorretto dalla mano destra del Cristo, e san Giovanni li in mezzo che sta a contemplare l’intera visione.

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La sottigliezza del linguaggio numerico nell’arte romanica si percepisce in particolare ad Autun, nel tema dei Tre Ebrei nella fornace: sta scritto nel libro di Daniele che la fornace era stata scaldata sette volte più dell’usato; ebbene, alla base del capitello, il settimo fiore a quattro petali, contando da destra – ossia nella direzione sfavorevole –, invece di essere inclinato come gli altri, è messo per diritto e disegna perciò una vera e propria croce equilatera con quattro bracci perfettamente rotondi: esso significa perciò il supplizio del Cristo, del quale supplizio i tre fanciulli ebrei sono la prefigurazione. Non solo; a questo settimo fiore corrisponde, al livello superiore, la tredicesima fiamma, e il tredici è un numero portasfortuna: di fatto, senza l’intervento divino, la prova dei tre fanciulli si sarebbe ineluttabilmente risolta con la loro morte.

Nel timpano di Saint-Ursin di Bourges, si può notare che il Sette compare nei raggi della ruota del carretto dal quale la volpe minaccia i polli che la stanno trainando. Il numero compendia in questo caso il senso del messaggio contenuto nelle favole ivi rappresentate: il lupo in cattedra, il lupo e la cicogna e il seppellimento della volpe mostrano che la logica profonda di questo basso mondo è quella della «dissomiglianza», come afferma san Bernardo, nella quale sono i buoni a essere puniti e che solo la morte, impersonata nella fattispecie dalla volpe e dal suo comportamento, potrà riportare alla giusta norma. La ruota in questione è una «ruota della fortuna»: grazie alla morte dalla quale sono chiaramente minacciati i polli che trainano la volpe, i buoni saranno riabilitati e godranno i privilegi negati ai malvagi. È dunque normale che questa ruota abbia sette raggi, giacché essa evoca l’intervento del cielo sulla terra, e l’albero a Y, al centro, esprime l’idea del Giudizio finale.

Sui piedritti della porta degli Orafi a Santiago di Compostella si vede una serie di allegorie, che sono là, dice il Pellegrino di san Giacomo, «come per difendere l’entrata». Fra i simboli vegetali che ornano i personaggi – spirale, foglia, fiore – e le mensole con protomi leonine esiste una gradazione, appositamente studiata, che sta a indicare le tappe della vita umana. Accanto all’ultimo Apostolo allegorico, il leone è in questo caso il leone androfago; la mensola è ornata contemporaneamente da sette trucioli e da sette scaglie; e ciò evoca con sicurezza il passaggio al livello celeste, che poi la quarta allegoria, la cosiddetta «Donna col leoncino», confermerà. Il suo sguardo è infatti rivolto verso la parte alta del portale, dove si trova una Vergine col Bambino, o semplicemente una Maternità, al seguito della «Donna col cranio» con la quale si allude al vero e proprio dominio dei cieli. È noto, oltre torto, che la suddetta allegoria della Donna col leoncino costituiva un secondo termine precedente quest’ultimo; ancora e sempre le tappe.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 226-227

Numeri, cifre e figure geometriche: sei

Sezione: Lessico


In contrapposizione al Cinque che è l’umanità, il Sei sarebbe il sovrumano, la potenza: il numero corrisponde ai giorni della creazione e alle opere di misericordia.

La prima cosa da vedere è però la relazione fra il Sei e il crisma. Quest’ultimo, come si sa, è formato dalle due lettere greche chi (X) e ro (P), le prime della parola Christos, il Cristo: essendo composto da un’asta verticale, quella della ro, e da una croce rovesciata, la chi, il crisma costituisce un motivo a sei bracci, col quale si esprime la potenza del Cristo. La chi, però, già di per sé è simbolo di potenza, in quanto indica la regolazione delle cose create, la signoria dell’universo e l’universo stesso nell’ordine dello spazio e nell’ordine del tempo: i primi cristiani, dal canto loro, non avevano tardato a scoprire che, mettendo insieme la coppia chi-ro e la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto, alfa e omega (che nell’Apocalisse hanno il significato di principio e di fine), si veniva a formare il verbo archô, la forma greca del latino praesum, impero, cioè «io comando». Infatti, come fa osservare l’Alleau, il monogramma in questione non è esclusivo dei cristiani: basta pensare al medaglione con le effigi di Traiano e di Decio, coniato a Maeonia di Lydia, sul quale si vede al verso, in alto, l’immagine di Bacco su un carro trainato da due pantere; le lettere chi (X) e ro (P) sono combinate in maniera tale da raffigurare il segno di cui si è appena parlato e da potervi leggere perciò la parola archô. I cristiani, in più, avevano fatto presto anche a vedere il rapporto esistente fra i dieci comandamenti della legge divina, il dieci romano (X) e la chi greca.

Questo segno compare tre volte, come geroglifico, nella profezia attribuita da Eusebio alla sibilla Eritrea. Il «padre della storiografia ecclesiastica» conosceva bene i trascorsi dell’ellenismo vicino-orientale. La chi e la ro si trovano contemporaneamente nella seconda parola del titolo (christos) e nella quinta parola del primo versetto (chriseôs sêmeion, il segno del giudizio). Nella profezia è detto testualmente che «la terra si coprirà di sudore, quando si presenterà il segno del giudizio». Essa è interamente dedicata al «fuoco che farà eternamente giustizia degli uomini senza principi» e che «brucerà fin’anche le porte della casa dell’inferno».

Lo stesso Eusebio ci dà una descrizione del labaro di Costantino. Segno solare come tutti i simboli cruciformi, simbolo del Cristo, Sole di giustizia e vincitore delle tenebre, il crisma era raffigurato su un tessuto di porpora, arricchito da pietre preziose artisticamente distribuite, che abbagliavano col loro splendore. Il crisma aveva rimpiazzato l’aquila delle legioni romane. Secondo alcuni, Costantino aveva avuto la sua visione mentre si trovava sulle rive del Reno, sicché il simbolo non avrebbe fatto che ereditare la forma, e in cena misura anche i significati, dei dischi rotanti in uso tra i Celti e in genere presso tutte le popolazioni barbariche. I portatori del labaro si chiamavano draconarii (dragonari, traducendo alla lettera), e tali rimasero anche dopo che il monogramma del Cristo ebbe preso il posto del dragone o del serpente che campeggiavano sugli stendardi dei Romani, dei Greci e dei Siriani.

La chi era talmente collegata col cristianesimo e con i suoi seguaci, che Giuliano l’Apostata parla addirittura di «muovere guerra alle khi».

Dal canto suo, sant’Agostino insiste sulle singolari proprietà del Sei, che è la somma dei tre primi numeri (1 + 2 + 3 = 6), così come il Dieci è la somma dei primi quattro: esiste perciò una relazione fra l’opera della creazione compiuta in sei giorni e la Creazione in sé rappresentata dal Dieci. La prima somma evoca l’idea celeste in quanto tale, giacché Tre è il numero del cielo; la seconda comprende il Quattro terrestre, ossia Adamo o la stessa terra. Essendo però, in aggiunta a tutto questo, segno di aspetto esoterico, il Sei è anche il prodotto delle proprie aliquote, cioè delle parti uguali (2 e 3) in cui può essere diviso, oltre che il prodotto dei primi tre numeri: infatti, 1 x 2 x 3 = 2 x 3 = 6. In senso inverso, il numero 6 ripetuto tre volte, in modo da indicare la potenza assoluta, ma snaturata, dà 666, che è il numero della Bestia secondo l’Apocalisse.

Superfluo dire che, in relazione con la chi, il significato del crisma s’è conservato all’epoca romanica insieme con quello delle sue numerose implicazioni. Il crisma svolge un po’ il ruolo dell’asterisco segno ben noto, che, come dice anche il suo nome, è un simbolo celeste. Di esso scrittori e amanuensi si servono per far risaltare l’importanza di un certo brano in un testo o per segnalarlo come degno di ammirazione e di stima: le due lettere combinate insieme fungono da abbreviazioni delle parole chrêsimon («buono») o chrêston («utile»). A proposito di chrêsimon, Isidoro di Siviglia scrive che «questo marchio viene adoperato ad esclusivo piacimento di un chicchessia al fine di annotare qualche cosa» (Etimol., XXI, 22). Si mette perciò questa indicazione anche in testa a un privilegio, quasi si volesse santificare o autenticare l’atto con la croce del Signore. Stando al Dictionnaire de diplomatique, il crisma è presente nelle bolle dei papi, nelle decretali dei concili, nelle missive dei re.

Il segno dell’incrocio è infine classico dell’araldica: corrisponde al legaccio attaccato con un nodo incrociato alla sella del cavaliere, il cosiddetto sautoir, che permetteva di montare a cavallo; era il pezzo nobile della bardatura, corrispondente alla «croce di sant’Andrea» adottata dai Borgognoni. Il suo speciale significato di emblema di vittoria – che era già quello del labarum di Costantino – si ritrova nella penisola iberica, in rapporto con il trionfo sugli infedeli: è la «croce di catene» dei Navarresi: Alfonso Enriquez di Portogallo, nipote di Ugo Capeto, vincitore di cinque re mori alla battaglia di Ourique (Orik) nel 1137, prese per stemma l’arme «d’argento a cinque scudi d’azzurro in croce, caricato ognuno di cinque bisanti d’argento a croce di sant’Andrea».

Opere varie

Regione legata nel medioevo da molteplici rapporti al mondo arabo, il Béarn, con le strade di pellegrinaggio verso Compostella che lo percorrono, con l’intensità dei traffici che attraversano i suoi valichi pirenaici, con i suoi ospedali e i suoi punti tappa per i pellegrini, è interessato direttamente alla vittoria sui musulmani. Come tutte le province arcaicizzanti, esso ha una sua iconografia a parte. Abbiamo già notato, parlando del Due in Uno, i suoi originalissimi timpani divisi in due timpani minori. In essi abbiamo un’ulteriore prova della ricchissima tradizione simbolica, legata al crisma nei modi più diversi; nessun’altra regione, infatti, ne conta tanti così entro cornici quadrate o circolari, sia nei timpani che sugli architravi: il tema presenta infinite variazioni, che attestano chiaramente quanto grande fosse l’interesse ad esso riservato. I crismi più significativi per la nostra trattazione sono i crismi quadrati del Montanérès che, a giudicare dall’architettura delle chiese nelle quali essi appaiono, generalmente sui portali, sembrano appartenere agli inizi dell’arte gotica. A Montaner e a Peyraube, le parole LUX e LEX sono incise sotto l’alfa e l’omega, mentre REX sta al centro: è evidente il riferimento, da una pane alla Luce che ha creato il mondo nel volgere dei sei giorni, e dall’altra al Cristo Re che mediante una nuova separazione alla fine dei tempi metterà da un lato gli eletti illuminati dalla luce divina e dall’altro invece coloro che saranno rimasti immersi nelle tenebre. Alla base, il sigma capovolto, abitualmente allusione al Cristo Salvatore, è ripetuto due volte per simboleggiare lo Spirito Santo. Inoltre, alla parola REX è aggiunta la ro, mentre la E è posta nella R, inquadrata dalle altre due lettere: le tre X terminali di LUX, LEX e REX ribadiscono i significati attribuiti alla chi (X) greca, insieme con l’idea della croce del Giudizio. La parola REX, infatti, ricorda, nella sua forma latina, il greco archos e l’allusione al giudizio contenuta nella parola LEX dimostra l’immutato valore del segno.

Ci s’imbatte talvolta anche nel dragone vinto e schiacciato: Io vediamo per esempio nella porta della sacrestia di Lème, dove un personaggio respinge l’attacco del serpente sotto la protezione del crisma, la gloriosa insegna ch’egli inalbera trionfalmente come un trofeo, come un labarum. Dal Sei all’Otto, dal trofeo a sei bracci comprendente un incrocio all’unione della croce diritta con la croce rovesciata non c’è che un passo, passo che è compiuto ancora a Lème, dove è stata aggiunta la parola PAX e dove è aggiunta una colomba col ramoscello d’ulivo, assieme all’immagine dell’eletto con le palme. Lo stesso passo è compiuto a Jaca, dove un crisma a otto bracci, simbolo della SS. Trinità, è fiancheggiato anch’esso da un uomo con un serpente, oltre che da alcuni animali apocalittici e soprattutto dai due leoni simboli del Cristo Giudice.

L’idea di potenza annessa al numero Sei deve essere messa in relazione, in primo luogo, con i sei giorni della creazione. Come si sa, Thierry di Chartres, nella sua opera Opusculum de opere sex dierum, ha dimostrato, con un audacia poco comune, prendendo le mosse dagli Antichi e in particolare da Platone e Aristotele, l’opera, in questa creazione, della sola ragione. Nè Cartesio nè Laplace supereranno il coraggioso razionalismo di Thierry; essi anzi richiederanno un elemento, perché il mondo possa organizzarsi, che il maestro di Chartres non esigeva affatto, dal momento che egli cumulava insieme materia e movimento, come la fisica moderna, mentre essi stabiliranno fra i due una netta distinzione. Solo Kant ridurrà il ruolo del Creatore al livello in cui l’aveva collocato Thierry. Fondandosi su una siffatta metafisica della luce, la scuola americana, alla quale appartiene il Bober, ha dimostrato or non è molto, nella pagina isolata delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe che reca il titolo In principio erat Verbum (Vangelo di san Giovanni) e nella quale appaiono la I e la N intrecciate, la presenza dei sei giorni della creazione interpretati secondo la suddetta dottrina nei sei medaglioni disposti intorno al Dio centrale e fra due allegorie del Giorno e della Notte (o del Cielo e della Terra?).

Il Sei sui capitelli

Illustriamo qui di seguito alcune significative manifestazioni del numero Sei riscontrate su capitelli e particolarmente su degli abachi. Nella tribuna di Serrabone, in contrapposizione al cervo che, posto di fronte alla freccia del centauro, è in certo qual modo l’immagine stessa della debolezza, l’emblema della condizione umana, oltre che allusione al battesimo, e che è sovrastato da un abaco ornato da cinque fiori, troviamo a far riscontro il tema di Gilgamesh, l’eroe mesopotamico che impersona la forza, fiancheggiato da due leoni come sui cilindri caldei, e sovrastato da un Abaco con sei fiori.

Alla stessa maniera va osservato il fanciullino di Bages che si ripara sotto il leone-gorgone, simbolo di iniziazione, e che tiene strette fra le mani due cinghie a tre bandelle (sei in tutto) per trasformarle in una cinghia unica a cinque bandelle. Le due cinghie a tre bandelle sono inoltre idealmente prolungate dalle code leonine del mostro terminanti entrambe con due ciuffi a nove ciocche, simili a delle mezze palmette. Siamo di fronte all’immagine dell’iniziazione, mediante la quale il fanciullo deve staccarsi dalla tentazione di conquistare la potenza, tipica dei sogni dell’infanzia, per tornare alla terra, alla realtà, e quindi passare dal Sei al Cinque.

Sei palmette decorano l’abaco del capitello dei pavoni, o delle fenici, nel chiostro di Elne. In contrasto con le altre scene del programma iconografico che evocano l’ordine terrestre e l’incarnazione – Peccato di Adamo ed Eva, san Pietro, ecc. –, il tema suddetto vuol richiamare agli occhi dello spettatore il ritorno al Cielo, il Paradiso restaurato.

La Fuga in Egitto, infine, è come si sa un tema teofanico caro all’iconografia romanica: a Saint-Benoit-sur-Loire la stella che accompagna la scena, e della quale non parla il testo biblico, è una stella a sei punte, mentre quella che sovrasta le Adorazioni dei Magi ne ha abitualmente cinque. Per ciò questa stella va considerata alla stregua di un crisma: durante la Fuga in Egitto il Cristo è come investito dei suoi poteri, del suo nome.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 224-226

Numeri, cifre e figure geometriche: cinque

Sezione: Lessico


Testi

Nella Bibbia il numero Cinque sembra avere un significato iniziatico; ne consegue un certo nesso con la dottrina pitagorica che, ponendolo in relazione col pentacolo o pentagramma, ne fa un simbolo esoterico per eccellenza, la figura perfetta che riassume l’uomo microcosmo. Ma esso è al tempo stesso un’allusione alla stella pentagrammatica della Cabala; un simbolo, quest’ultimo, che può diventare malefico, se due punte della stella sono rivolte verso l’alto: allora vi s’inserisce il caprone demoniaco (Charbonneau-Lassay).

Il Cinque corrisponde ai cinque libri di Mosè che contengono in particolare le rivelazioni ricevute da Dio sul monte Sinai, e alle cinque pietre che Davide raccattò nel letto del torrente per potere abbattere Golia. E sant’Agostino a spiegarci il perché dell’utilizzazione di questo numero in due episodi così differenti, ai quali egli ricollega anche l’Uno e il Dieci, numeri non meno sacri per Pitagora: «Fratelli», dice, «voi vedete qui alle prese da un lato il demonio, impersonato da Golia, e dall’altro Gesù Cristo, impersonato da Davide. Davide prese cinque pietre nel letto del torrente, le mise nel recipiente che gli serviva per raccogliere il latte delle pecore e così armato marciò contro il suo nemico. Le cinque pietre di Davide rappresentano i cinque libri della Legge di Mosè. La Legge, a sua volta, contiene i dieci precetti salutari, dai quali derivano tutti gli altri. La Legge è perciò rappresentata contemporaneamente dal numero Cinque e dal numero Dieci. Ecco perché Davide combatte con cinque pietre e canta, com’egli dice, con uno strumento a dieci corde. E notate bene ch’egli scaglia non già tutt’e cinque le pietre, ma una sola: quest’unica pietra è l’Unità che porta a compimento la Legge, ovverosia la Carità. E notate ancora che egli prende le cinque pietre nel letto di un corso d’acqua. Che cosa rappresenta il corso d’acqua se non il popolo leggero incostante che la violenza delle passioni trascina nel mare del secolo? Tale era infatti il popolo ebraico. Aveva ricevuto la Legge, ma ci passava sopra, come il corso d’acqua passa al di sopra delle pietre. Il Signore prese quindi la Legge per elevarlo fino alla Grazia, come Davide prese le pietre nel letto del corso d’acqua e le mise nel recipiente del latte. E quale immagine della Grazia può essere più giusta dell’abbondante dolcezza del latte?». Se citiamo in tutta la sua lunghezza un brano come questo, è perché esso fa toccare con mano quanto debbano gli aspetti estremi del simbolismo romanico dei numeri alla sottigliezza della patristica.

Da notare che un accordo discreto fra il Cinque e il Dieci è realizzato anche sull’altare, dove le cinque croci di consacrazione, allusione alle piaghe del Cristo, sono disposte in modo da formare un incrocio e dunque secondo un X romano.

Ricordiamo, ad ogni buon conto, che sebbene sant’Agostino, fedele in ciò al pitagorismo, annetta un valore eminente al Cinque, il numero dispari per eccellenza, non sarà tuttavia prima dell’epoca gotica (sec. XIII-XIV) che si ammetterà correntemente l’esistenza fra gli elementi di una quinta essenza, giacché essa deriva da una concezione pagana contraria per troppi aspetti alla Bibbia. Vedremo tuttavia più avanti, già nei monumenti romanici, una sovrabbondanza di accenni al Cinque esoterico; è una prova fra mille altre che il simbolo romanico si afferma da sé, indipendentemente dai testi, ai quali non di rado va perfino oltre.

Per tornare al rapporto fra il Cinque e l’uomo, faremo riferimento a Idegarda di Bingen. Iscritto nel quadrato, l’uomo si divide, nel senso dell’altezza, dalla sommità della testa fino ai piedi, in cinque parti uguali; nel senso della larghezza, ottenuta con le braccia distese, dall’estremità di una mano all’altra, in cinque parti, uguali anch’esse: si possono perciò tracciare cinque quadrati nel senso dell’altezza e cinque quadrati nel senso della larghezza – cosa, questa, che ci riporta a Dio. Se l’uomo è retto dal numero Cinque, è perché egli possiede cinque sensi e cinque estremità: la testa, le braccia e le gambe. Nel senso positivo, l’uomo-microcosmo per eccellenza, il Cristo, è trafitto da cinque piaghe, proprio per potere metter in mostra la sua umanità: sull’altare, immagine del corpo stesso del Signore, si incidono, come si è visto, cinque croci di consacrazione. Nel senso negativo, invece, i cinque sensi diventano i fratelli del Ricco epulone nella parabola di Lazzaro. Plutarco, da parte sua, si serve di questo numero per designare la propagazione della specie. La cifra in questione esprime quindi il mondo sensibile, e infatti è detto nella Genesi che i volatili e i pesci furono creati il quinto giorno. Inoltre, il numero cinque è il risultato dell’addizione del primo numero dispari e del primo numero pari. Sempre secondo Ildegarda di Bingen, «il numero pari significa la matrice, e perciò è femminile; il numero dispari viceversa è maschile; l’associazione dell’uno e dell’altro è androgina, così come è androgina la Divinità. Il pentagramma è pertanto l’emblema del microcosmo».

Opere

Le due sfingi di Chauvigny, con due corpi leonini e un’unica testa, evocanti l’idea stessa di Dio, della Divinità, del Sole della resurrezione portata a compimento nel mondo a venire (in contrapposizione alle sfingi lunari, simboli delle ripetizioni) illustrano con le forme delle loro bocche il passaggio dal Quattro al Cinque esoterico – il che s’accorda col significato proprio della sfinge esoterica consultata da Edipo, simbolo iniziatico, ed è in accordo altresì con la rappresentazione dell’Uomo squartato del capitello vicino, che significa la morte. L’una, infatti, ha la barba doppia, a forma di corno dell’abbondanza, e questo è un richiamo alle fecondità terrestri, ma anche la bocca a losanga, che con le sue quattro punte si rapporta al simbolismo del Quattro.

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L’altra ha la barba a una sola punta e la bocca aperta in modo da formare col labbro superiore e con la linea a doppio spiovente dei baffi la figura del pentagramma.

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Due sfingi analoghe stanno divorando eletti o dannati due capitelli più in là.

Alla base del portale di Moissac il passaggio dal Quattro terrestre al Cinque celeste ed esoterico è riconoscibile nel fatto che sui piedritti gli incavi lobati sono quattro, mentre il trumeau propriamente detto, con le leonesse incrociate che formano il seggio di Dio e disegnano tre incroci (Tre = Cielo), di incavi lobati ne contiene cinque; ma, particolare quanto mai sintomatico, per vedere bene questi incavi – e qui compare il simbolo delle squame – bisogna guardare il trumeau dalla parte opposta, dall’interno.

A Saint-Gilles-du-Gard due fiori a cinque petali, piegati in direzione opposta agli steli, ornano i doppi racemi a S rovesciata che sovrastano le figure di san Giacomo e di san Paolo e il piedritto su cui è raffigurata la Caccia al cervo: il fiore di sinistra, visto di fronte, si presenta girato a destra, dal lato di san Paolo. Quest’ultimo reca sul suo filatterio l’espressione, attribuita da Émile Mâle all’abate Suger, relativa all’Apostolo che «macina il grano dei Profeti», e i due fiori volti in direzione opposta hanno palesemente un significato esoterico che s’intona con tale concetto. Il tutto si riconnette alle parole di sant’Agostino sui numeri Cinque e Dieci. Lo stesso motivo del fiore a cinque petali ripiegati lo ritroviamo sul portale nord di Bourges, nei frammenti di Souvigny, su un capitello di Mozat, ecc.

Anche a Serrabone compaiono dei fiori, cinque, e ognuno con quattro petali, nell’abaco sovrastante il capitello della Caccia al cervo. In quest’ultimo caso, come nel precedente, la presenza dei numeri Quattro e Cinque vicino alla Caccia al cervo si spiega facilmente: l’uomo infatti si afferma come uomo allorché accetta la morte iniziatica.

Nelle famose tavole di triangolazione dell’album di Villard de Flonnecoon, mentre le maschere della coppia sono incorniciate da un quadrato per la donna e da un cerchio per l’uomo, è invece in un pentacolo diritto che s’iscrive il volto dell’Eterno Padre.

Il più celebre e il più notevole dei fiori ripiegati a cinque petali è quello collocato dietro la scena della Natività ad Autun. Denise Jalabert ha dato di questa insolita rappresentazione la spiegazione più precisa e più convincente; essa si trova in un brano di san Bernardo, già rilevato da Émile Màle, riguardante la nascita di Gesù: «Il fiore (Gesù) ha voluto essere concepito da un fiore (la Vergine), in un fiore (Nazareth in ebraico significa fiore), al tempo dei fiori (la festa dell’Annunciazione si celebra a primavera)». Questo brano spiega anche il numero dei fiori sull’abaco: sei, uno di fila all’altro. Ma si deve altresì pensare al fiore che germoglierà da Jesse, secondo Ezechiele. A parere di Raoul Ardent, se esso è ripiegato, vuoi dire che fiorirà soltanto nella sua patria.

Il quinto Vegliardo della fila inferiore, sul timpano di Moissac, ha le gambe nude ed eccessivamente deformate, al punto da disegnare con esse un incrocio; si tratta di un ulteriore riferimento ai rapporti iniziatici fra il Cinque e il Dieci che abbiamo già visto in sant’Agostino.

Nella chiave di volta del portale meridionale di Aulnay – quello della Missione degli Apostoli –, dove si vedono degli atlanti simili ai deva e agli asura indiani, l’archivolto esterno presenta uno Specchio del mondo. Cinque incroci corrispondono qui alle dieci sovrapposizioni di animali dei fregi verticali di Saint Martin d’Ainay a Lione, con gli stessi animali eucaristici: è il tema delle ripetizioni all’infinito, della regolazione dell’universo. Stando a Rodolfo il Glabro, dobbiamo vedervi i cinque sensi, e diversi atteggiamenti o forme dell’amore.

Ad Ainay, la maschera della Terra ha cinque foglie sulla testa. E per finire, è la portata esoterica del numero Cinque che si è voluta mettere in evidenza nella mano destra dell’orante di Rozier-Côtes d’Aurec, dandole da stringere la sfera dell’Uno della conoscenza: perciò il disegno delle cinque dita non ha nessuna verosimiglianza: esso vuoi essere un segno e nient’altro. In questa scultura compaiono, come si è già visto, i primi dieci numeri pitagorici.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 218-221

Numeri, cifre e figure geometriche: due in uno

Sezione: Lessico


Il fatto che, trattando dei numeri, non ci si occupi dell’unità, potrà anche stupire qualcuno. Ma è una prerogativa esclusiva di Dio quella di essere uno: «Non avrai altro Dio fuori di me» è il primo dei suoi comandamenti. In più, sta anche scritto che Egli non può essere rappresentato: ed è proprio a questo interdetto mosaico che l’iconografia romanica si è sottomessa. Viceversa, un tema che ritorna insistente come un leitmotiv è quello della dualità o della molteplicità che si fonde nell’unità; ne è all’origine ancor sempre il pensiero pitagorico, trasmesso da Boezio e da noi già menzionato, che contrappone «la dualità che genera la molteplicità all’unità che è stabilità». La coerenza e la pregnanza di significati dei primi dieci numeri è tale che il concetto di unità e quello di molteplicità si esprimono alla stessa maniera, attraverso la cifra assoluta investita dai Greci dei sensi più diversi: la X, il dieci romano, segno dell’incrocio, ma al tempo stesso – ed è questa, nella fattispecie, la manifestazione importante – segno della moltiplicazione. Dobbiamo osservare in effetti che ciò che rende meglio di tutto l’idea della Divinità, data l’impossibilità in cui siamo di esprimere l’infinitamente grande, è il punto, l’infinitamente piccolo. Ora, per rappresentare il punto non è la croce diritta quella che più si adatta – essa infatti rende maggiormente sensibile la dualità data dai due assi, verticale e orizzontale –, bensì la croce inclinata.

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La figura che cumula questi significati diversi (croce inclinata, Dio assoluto) è quella disegnata dagli animali del Tetramorfo intorno al Cristo – e ciò in entrambe le zone. Il Tetramorfo esprime molto di più la X, l’incognita, l’inconoscibile, che non la moltiplicazione, giacché in questo secondo caso il segno viene tracciato con linee discendenti, mentre i quattro animali formano un segno di croce virtuale, dapprima discendendo verso destra – dall’Uomo al Bue – poi risalendo – dal Leone all’Aquila –, sempre verso destra.

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I manoscritti che si rivolgono a dei monaci contemplativi non sempre rispettano quest’ordine imprescrittibile. D’altro canto, l’ordine dei Vangeli non è sempre lo stesso nelle bibbie antiche. Sono i timpani dei portali, specialmente nella zona egiziana, quelli che ne tengono maggiormente conto, e ciò perché il tema, ponendosi come segno d’interdizione all’accesso, come segno iniziatico riservato ai fedeli, concretizza nel modo più corretto le tappe che il cristiano deve superare, alla stessa maniera con cui supera la soglia della chiesa. Attraverso i quattro personaggi che rappresentano un numero quasi infinito di realtà – temperamenti dell’uomo, direzioni dello spazio, elementi dell’universo, ecc. –, i bracci della croce inclinata esprimono la molteplicità, mentre il punto di unità è impersonato dal Cristo centrale. Lo stesso dicasi per la croce inclinata che viene tracciata sull’altare per evocare le cinque piaghe di Gesù sulla croce: l’uomo microcosmo si inserirà nell’universo secondo i due piani così definiti nel rito della consacrazione. Per due volte, infatti, il prete traccia le cinque croci. La prima volta con l’acqua benedetta, l’acqua di vita, che è la stessa del Diluvio, grazie alla quale l’umanità ritorna alla propria sorgente: per cui, simbolicamente, spinto da una volontà di purificazione, egli pone l’accento sul centro, sul punto; la seconda volta con l’olio dei catecumeni, e di conseguenza con intento evangelizzatore: la consacrazione viene a prendere possesso del cosmo purificato e l’accento è posto sui bracci della croce. Analogamente per quell’altra croce che il pontefice disegna – nella navata, in diagonale, scrivendo le lettere dell’alfabeto, nel corso della consacrazione della chiesa nel suo complesso.

L’importanza eccezionale di questo tema della dualità che si fonde nell’unità, del «due in uno», è strettamente legata per entrambe le zone all’essenza stessa delle due fonti. La fonte egiziana corrisponde al complesso del cerchio. L’immagine circolare materializzata sia nel disco alato del sole, con i due serpenti che lo inquadrano, sia nei simulacri realistici degli dèi relegati nella cella (fondo del santuario). Il cerchio ocellato solare, insomma, perdura in modi diversi nella iconografia della zona egiziana. Per contro gli dèi mesopotamici sono volentieri definiti coi loro simboli, e il santuario finisce con l’essere un tempio-montagna, alto, sottratto alla vista degli uomini: a proteggerlo ci sono delle porte possenti e dinanzi ad esse dei leoni che vi montano la guardia. È da questa visione mesopotamica della divinità e dei rapporti con essa che trae origine il divieto ebraico della Legge, ricevuta, si badi bene, da Mosè proprio su una montagna, il Sinai.

Così se si considera che si hanno in generale tre termini per esprimere la Divinità, un dio e due geni, o angeli, che lo accompagnano, la tendenza egiziana è quella di porre l’accento sull’Uno, il dio, mentre quella mesopotamica lo pone sul Due, gli accoliti della divinità. La stessa differenziazione si riscontra nell’arte romanica fra le disposizioni dell’una e dell’altra zona.

Nella zona egiziana i due angeli sorreggono la mandorla del Cristo dell’Ascensione e compongono con lui un’immagine paragonabile al disco alato. Nella zona mesopotamica, invece, i due angeli «annunciatori» spezzano la maestà della composizione e suscitano l’idea del divieto, facendo allusione alla visione che deve venire. In senso inverso, il Tetramorfo del sud est è veramente centrato sulla figura del Cristo; secondo l’osservazione di J. Baltrusaitis, i quattro Animali di quello di Moissac sono come storcignati, e ciò determina la rottura dell’immagine circolare; quella che essi compongono si direbbe piuttosto una palmetta. Nei portali del sud est c’è un incrocio essenziale, ed è quello disegnato dagli Animali. Al contrario, nella zona mesopotamica gli incroci sono molteplici: basta pensare alle gambe degli Apostoli di Beaulieu e dei Vegliardi di Moissac. Ma prendiamo il tema delle tappe: nella zona egiziana si insiste dappertutto sul terzo termine, il più importante; a Compostella e a León questo termine sembra invece relegato nelle parti più alte, come vedremo fra poco, e sono le due allegorie inferiori del leone e delle gambe incrociate a essere le più importanti. Nei portali egiziani la molteplicità è rigorosamente ricondotta all’unità; anzitutto i due temi che costituiscono timpano e architrave. Nei portali eucaristici i due protagonisti del doppio tema copto – quello dell’architrave che evoca la Chiesa militante e quello del timpano che simboleggia in contrapposizione la Chiesa trionfante, ossia la Vergine e il Cristo – richiamano alla mente l’unione dei contrari, dei due principi. Tutto ciò va rapportato, in ogni caso, alle speculazioni più correnti della mistica, che vede in Dio due aspetti opposti – il terribile e il dolce –, ma anche alla unione di due divinità, maschile e femminile, nella ierogamia cosmica: di Keb, per esempio, il dio della terra, e di Nut, la dea del cielo (ovvero di Osiride e Iside), in Egitto, simili peraltro alle coppie di tutte le mitologie, come quella di Isanami e Iganami in Giappone, coppie che sono generalmente all’origine della creazione, ma che la Bibbia non ha ripreso.

Il tipo di portale che È. Mâle ha chiamato eucaristico – per il suo riferimento all’Ultima Cena e al tema eucaristico del pane e del vino: per esempio, quello delle Nozze di Cana a Charlieu, quello della lavanda dei piedi a Condrieu, quello della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Valence, quello della Cena a Champagne (Ardèche), ecc. – insiste sull’unità del Cristo, Verbo incarnato, costantemente presente nel sacramento della Messa attraverso la commemorazione del suo sacrificio che egli ci ha incaricati di rinnovare fino al suo ritorno; e ciò contro l’eresia che si propagava minacciosa nella valle del Rodano, così come nel sud ovest, e che negava appunto il valore dei sacramenti. Facciamo osservare, incidentalmente, che quello di Charlieu è un portale doppio, ma l’esaltazione di questi temi eucaristici sul portale più piccolo – più piccolo, ed è questo che lo distingue, da portali doppi del sud ovest, che per tutto il resto sono uguali –, è messa lì proprio per insistere una seconda volta sull’idea della Chiesa intesa a preparare il Ritorno Finale, la Parusia; secondo il pensiero di Pietro il Venerabile, le Nozze di Cana rappresentano l’opposto dei sacrifici pagani, l’opposto dell’eresia. Gli Apostoli sul portale maggiore, tutti seduti, hanno già la maestà del ruolo di giudici che il Cristo ha promesso loro. La molteplicità è strettamente riportata all’unità della visione tetramorfica, e la stessa cosa è riscontrabile in tutto il sud est.

La composizione è esattamente opposta nelle Ascensioni e negli altri temi dei portali del sud ovest. Il timpano comprende sempre e soltanto un tema, non due, o magari tre: così nella porta del Perdono a León, così sul fianco destro della porta degli Orafi a Compostella: la dualità trova riservata ai due lati o alle estremità dell’architrave, a Saint-Genis-des-Fontaines, a Sorède, o alla porta Miégeville, dove gli Apostoli appaiono diversamente interessati dall’avvertimento dell’angelo; essa è rappresentata altresì dai personaggi dei pennacchi ai lati dell’arco o, a Moissac e a Beaulieu, dei piedritti e delle strombature. Da notare ancora, soprattutto nel Béarn, il timpano suddiviso in due timpani minori. In questo modo, non si può parlare di Due in Uno, ma piuttosto di Uno in Due. Sono i dettagli e il moltiplicarsi dei temi secondari a rendere manifesta la fusione di due realtà in una sola, con una prodigalità e una fecondità pressoché infinite: animali in posizione di «contrasto», personaggi allegorici con le gambe incrociate, temi apocalittici. Ma soprattutto, particolare che risponde meglio alla divisione dell’Uno in Due, è la maschera della Terra, con i suoi occhi fuori delle orbite, con la mancanza di unità prodotta dal mento – aspetto specifico, questo, del T’ao t’ie –, quella che, come sostituto della divinità da cui tutto scaturisce e a cui tutto ritorna, riesce ad esprimere meglio il tema della «illusione cosmica»: questa negazione del mondo reale è tipica, essenzialmente, dei catari e delle religioni dell’Estremo Oriente; ma evidentemente si tratta di una visione che è agli antipodi della dottrina cristiana. Equivalente dell’Uno primordiale, è da questa maschera che, su certi capitelli spagnoli, sbucano fuori gli uccelli e poi gli uomini col leone, secondo i meccanismi dell’Uno in Due, della dualità insita al fondo dei nostri rapporti col mondo – lo stesso «mondo della dissomiglianza» di cui parla san Bernardo e la cui espressione ultima e più caratteristica è l’uomo tagliato in due di Chauvigny.

Oppure è il tema del leone con due corpi e una sola testa – leone che può presentarsi, come nel caso di Bages, proprio con una maschera della Terra, o magari, come a Chauvigny, con quella della Medusa o della Gorgone greca –, a mostrare contemporaneamente la divisione dell’Uno in Due e il ritorno del Due all’Uno: si tratta di una variante dell’uomo col leone, e il passaggio dall’Uno al Due, poi dal Due all’Uno, costituisce il senso stesso della maschera della Terra, dalla quale lo stesso uomo col leone ha origine e alla quale egli fa ritorno.

Il tema dell’unità che si degrada in dualità è presente anche sui portali, e in tutt’e due le zone (quindi anche in quella egiziana), quando il soggetto che vi è sviluppato è quello dei rapporti fra il cielo e la terra; lo troviamo, per esempio – ed è ovvio-nei Giudizi universali, tipo quello di Autun, ma altresì nel caso di Favole, come quelle del terzo livello di Saint-Ursin, e ancora negli archivolti della Charente in cui si fa pure riferimento al Giudizio – parabola delle Vergini sagge e delle Vergini folli, Psicomachia, Agnus Dei –, non meno che in quelli in cui invece è rappresentata la Pentecoste, come a Vézelay e ad Aulnay (portale meridionale). Qui è la presenza del personaggio solstiziale a essere fondamentale, giacché, essendo posto nella chiave di volta, esso viene a segmentare l’anno in due parti: ad Aulnay cinque temi della regolazione cosmica, a Saint-Ursin il mezzobusto del personaggio cornuto, altrove l’uomo accovacciato o i segni zodiacali, tutti vogliono illustrare la dualità che governa il mondo. Ad Aulnay, particolare significativo, il fregio di elementi simbolici ha inizio proprio a partire da questo asse centrale.

Ma nella zona egiziana, al pari di quella mesopotamica, sarà piuttosto l’asse cosmico, sarà l’albero a Y, quello che farà sbocciare meglio l’idea del Due in Uno, favorito dalla sua stessa natura, con i due rami che si dipartono da un unico tronco; e sarà così verso l’alto, non verso il basso, che si vedrà dominare alternativamente il Due o l’Uno: l’Uno mediante il tema isolato della rosetta, del grappolo o del cuore, come in Alvernia, oppure mediante quello del leone, del fiore di carlina o della mano divina, come a Saint-Vincent di Chalon; il Due invece, grazie ai due angoli dei capitelli, mediante i due grappoli strappati dai centauri, ancora in Alvernia, oppure mediante le coppie, le sirene, le figure di Adamo ed Eva, i geni di foglie, le maschere attorno al tirso e così via, ancora sui capitelli di Saint-Vincent a Chalon, ferma restando ovviamente l’insistenza sui due rami dell’albero a Y. Nelle chiese spagnole, lo stesso: saranno delle palmette – doppie nel sud, semplici nel nord – che evocheranno questi due aspetti nelle due parti della chiesa.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 214-217