Numeri, cifre e figure geometriche: sei

Sezione: Lessico


In contrapposizione al Cinque che è l’umanità, il Sei sarebbe il sovrumano, la potenza: il numero corrisponde ai giorni della creazione e alle opere di misericordia.

La prima cosa da vedere è però la relazione fra il Sei e il crisma. Quest’ultimo, come si sa, è formato dalle due lettere greche chi (X) e ro (P), le prime della parola Christos, il Cristo: essendo composto da un’asta verticale, quella della ro, e da una croce rovesciata, la chi, il crisma costituisce un motivo a sei bracci, col quale si esprime la potenza del Cristo. La chi, però, già di per sé è simbolo di potenza, in quanto indica la regolazione delle cose create, la signoria dell’universo e l’universo stesso nell’ordine dello spazio e nell’ordine del tempo: i primi cristiani, dal canto loro, non avevano tardato a scoprire che, mettendo insieme la coppia chi-ro e la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto, alfa e omega (che nell’Apocalisse hanno il significato di principio e di fine), si veniva a formare il verbo archô, la forma greca del latino praesum, impero, cioè «io comando». Infatti, come fa osservare l’Alleau, il monogramma in questione non è esclusivo dei cristiani: basta pensare al medaglione con le effigi di Traiano e di Decio, coniato a Maeonia di Lydia, sul quale si vede al verso, in alto, l’immagine di Bacco su un carro trainato da due pantere; le lettere chi (X) e ro (P) sono combinate in maniera tale da raffigurare il segno di cui si è appena parlato e da potervi leggere perciò la parola archô. I cristiani, in più, avevano fatto presto anche a vedere il rapporto esistente fra i dieci comandamenti della legge divina, il dieci romano (X) e la chi greca.

Questo segno compare tre volte, come geroglifico, nella profezia attribuita da Eusebio alla sibilla Eritrea. Il «padre della storiografia ecclesiastica» conosceva bene i trascorsi dell’ellenismo vicino-orientale. La chi e la ro si trovano contemporaneamente nella seconda parola del titolo (christos) e nella quinta parola del primo versetto (chriseôs sêmeion, il segno del giudizio). Nella profezia è detto testualmente che «la terra si coprirà di sudore, quando si presenterà il segno del giudizio». Essa è interamente dedicata al «fuoco che farà eternamente giustizia degli uomini senza principi» e che «brucerà fin’anche le porte della casa dell’inferno».

Lo stesso Eusebio ci dà una descrizione del labaro di Costantino. Segno solare come tutti i simboli cruciformi, simbolo del Cristo, Sole di giustizia e vincitore delle tenebre, il crisma era raffigurato su un tessuto di porpora, arricchito da pietre preziose artisticamente distribuite, che abbagliavano col loro splendore. Il crisma aveva rimpiazzato l’aquila delle legioni romane. Secondo alcuni, Costantino aveva avuto la sua visione mentre si trovava sulle rive del Reno, sicché il simbolo non avrebbe fatto che ereditare la forma, e in cena misura anche i significati, dei dischi rotanti in uso tra i Celti e in genere presso tutte le popolazioni barbariche. I portatori del labaro si chiamavano draconarii (dragonari, traducendo alla lettera), e tali rimasero anche dopo che il monogramma del Cristo ebbe preso il posto del dragone o del serpente che campeggiavano sugli stendardi dei Romani, dei Greci e dei Siriani.

La chi era talmente collegata col cristianesimo e con i suoi seguaci, che Giuliano l’Apostata parla addirittura di «muovere guerra alle khi».

Dal canto suo, sant’Agostino insiste sulle singolari proprietà del Sei, che è la somma dei tre primi numeri (1 + 2 + 3 = 6), così come il Dieci è la somma dei primi quattro: esiste perciò una relazione fra l’opera della creazione compiuta in sei giorni e la Creazione in sé rappresentata dal Dieci. La prima somma evoca l’idea celeste in quanto tale, giacché Tre è il numero del cielo; la seconda comprende il Quattro terrestre, ossia Adamo o la stessa terra. Essendo però, in aggiunta a tutto questo, segno di aspetto esoterico, il Sei è anche il prodotto delle proprie aliquote, cioè delle parti uguali (2 e 3) in cui può essere diviso, oltre che il prodotto dei primi tre numeri: infatti, 1 x 2 x 3 = 2 x 3 = 6. In senso inverso, il numero 6 ripetuto tre volte, in modo da indicare la potenza assoluta, ma snaturata, dà 666, che è il numero della Bestia secondo l’Apocalisse.

Superfluo dire che, in relazione con la chi, il significato del crisma s’è conservato all’epoca romanica insieme con quello delle sue numerose implicazioni. Il crisma svolge un po’ il ruolo dell’asterisco segno ben noto, che, come dice anche il suo nome, è un simbolo celeste. Di esso scrittori e amanuensi si servono per far risaltare l’importanza di un certo brano in un testo o per segnalarlo come degno di ammirazione e di stima: le due lettere combinate insieme fungono da abbreviazioni delle parole chrêsimon («buono») o chrêston («utile»). A proposito di chrêsimon, Isidoro di Siviglia scrive che «questo marchio viene adoperato ad esclusivo piacimento di un chicchessia al fine di annotare qualche cosa» (Etimol., XXI, 22). Si mette perciò questa indicazione anche in testa a un privilegio, quasi si volesse santificare o autenticare l’atto con la croce del Signore. Stando al Dictionnaire de diplomatique, il crisma è presente nelle bolle dei papi, nelle decretali dei concili, nelle missive dei re.

Il segno dell’incrocio è infine classico dell’araldica: corrisponde al legaccio attaccato con un nodo incrociato alla sella del cavaliere, il cosiddetto sautoir, che permetteva di montare a cavallo; era il pezzo nobile della bardatura, corrispondente alla «croce di sant’Andrea» adottata dai Borgognoni. Il suo speciale significato di emblema di vittoria – che era già quello del labarum di Costantino – si ritrova nella penisola iberica, in rapporto con il trionfo sugli infedeli: è la «croce di catene» dei Navarresi: Alfonso Enriquez di Portogallo, nipote di Ugo Capeto, vincitore di cinque re mori alla battaglia di Ourique (Orik) nel 1137, prese per stemma l’arme «d’argento a cinque scudi d’azzurro in croce, caricato ognuno di cinque bisanti d’argento a croce di sant’Andrea».

Opere varie

Regione legata nel medioevo da molteplici rapporti al mondo arabo, il Béarn, con le strade di pellegrinaggio verso Compostella che lo percorrono, con l’intensità dei traffici che attraversano i suoi valichi pirenaici, con i suoi ospedali e i suoi punti tappa per i pellegrini, è interessato direttamente alla vittoria sui musulmani. Come tutte le province arcaicizzanti, esso ha una sua iconografia a parte. Abbiamo già notato, parlando del Due in Uno, i suoi originalissimi timpani divisi in due timpani minori. In essi abbiamo un’ulteriore prova della ricchissima tradizione simbolica, legata al crisma nei modi più diversi; nessun’altra regione, infatti, ne conta tanti così entro cornici quadrate o circolari, sia nei timpani che sugli architravi: il tema presenta infinite variazioni, che attestano chiaramente quanto grande fosse l’interesse ad esso riservato. I crismi più significativi per la nostra trattazione sono i crismi quadrati del Montanérès che, a giudicare dall’architettura delle chiese nelle quali essi appaiono, generalmente sui portali, sembrano appartenere agli inizi dell’arte gotica. A Montaner e a Peyraube, le parole LUX e LEX sono incise sotto l’alfa e l’omega, mentre REX sta al centro: è evidente il riferimento, da una pane alla Luce che ha creato il mondo nel volgere dei sei giorni, e dall’altra al Cristo Re che mediante una nuova separazione alla fine dei tempi metterà da un lato gli eletti illuminati dalla luce divina e dall’altro invece coloro che saranno rimasti immersi nelle tenebre. Alla base, il sigma capovolto, abitualmente allusione al Cristo Salvatore, è ripetuto due volte per simboleggiare lo Spirito Santo. Inoltre, alla parola REX è aggiunta la ro, mentre la E è posta nella R, inquadrata dalle altre due lettere: le tre X terminali di LUX, LEX e REX ribadiscono i significati attribuiti alla chi (X) greca, insieme con l’idea della croce del Giudizio. La parola REX, infatti, ricorda, nella sua forma latina, il greco archos e l’allusione al giudizio contenuta nella parola LEX dimostra l’immutato valore del segno.

Ci s’imbatte talvolta anche nel dragone vinto e schiacciato: Io vediamo per esempio nella porta della sacrestia di Lème, dove un personaggio respinge l’attacco del serpente sotto la protezione del crisma, la gloriosa insegna ch’egli inalbera trionfalmente come un trofeo, come un labarum. Dal Sei all’Otto, dal trofeo a sei bracci comprendente un incrocio all’unione della croce diritta con la croce rovesciata non c’è che un passo, passo che è compiuto ancora a Lème, dove è stata aggiunta la parola PAX e dove è aggiunta una colomba col ramoscello d’ulivo, assieme all’immagine dell’eletto con le palme. Lo stesso passo è compiuto a Jaca, dove un crisma a otto bracci, simbolo della SS. Trinità, è fiancheggiato anch’esso da un uomo con un serpente, oltre che da alcuni animali apocalittici e soprattutto dai due leoni simboli del Cristo Giudice.

L’idea di potenza annessa al numero Sei deve essere messa in relazione, in primo luogo, con i sei giorni della creazione. Come si sa, Thierry di Chartres, nella sua opera Opusculum de opere sex dierum, ha dimostrato, con un audacia poco comune, prendendo le mosse dagli Antichi e in particolare da Platone e Aristotele, l’opera, in questa creazione, della sola ragione. Nè Cartesio nè Laplace supereranno il coraggioso razionalismo di Thierry; essi anzi richiederanno un elemento, perché il mondo possa organizzarsi, che il maestro di Chartres non esigeva affatto, dal momento che egli cumulava insieme materia e movimento, come la fisica moderna, mentre essi stabiliranno fra i due una netta distinzione. Solo Kant ridurrà il ruolo del Creatore al livello in cui l’aveva collocato Thierry. Fondandosi su una siffatta metafisica della luce, la scuola americana, alla quale appartiene il Bober, ha dimostrato or non è molto, nella pagina isolata delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe che reca il titolo In principio erat Verbum (Vangelo di san Giovanni) e nella quale appaiono la I e la N intrecciate, la presenza dei sei giorni della creazione interpretati secondo la suddetta dottrina nei sei medaglioni disposti intorno al Dio centrale e fra due allegorie del Giorno e della Notte (o del Cielo e della Terra?).

Il Sei sui capitelli

Illustriamo qui di seguito alcune significative manifestazioni del numero Sei riscontrate su capitelli e particolarmente su degli abachi. Nella tribuna di Serrabone, in contrapposizione al cervo che, posto di fronte alla freccia del centauro, è in certo qual modo l’immagine stessa della debolezza, l’emblema della condizione umana, oltre che allusione al battesimo, e che è sovrastato da un abaco ornato da cinque fiori, troviamo a far riscontro il tema di Gilgamesh, l’eroe mesopotamico che impersona la forza, fiancheggiato da due leoni come sui cilindri caldei, e sovrastato da un Abaco con sei fiori.

Alla stessa maniera va osservato il fanciullino di Bages che si ripara sotto il leone-gorgone, simbolo di iniziazione, e che tiene strette fra le mani due cinghie a tre bandelle (sei in tutto) per trasformarle in una cinghia unica a cinque bandelle. Le due cinghie a tre bandelle sono inoltre idealmente prolungate dalle code leonine del mostro terminanti entrambe con due ciuffi a nove ciocche, simili a delle mezze palmette. Siamo di fronte all’immagine dell’iniziazione, mediante la quale il fanciullo deve staccarsi dalla tentazione di conquistare la potenza, tipica dei sogni dell’infanzia, per tornare alla terra, alla realtà, e quindi passare dal Sei al Cinque.

Sei palmette decorano l’abaco del capitello dei pavoni, o delle fenici, nel chiostro di Elne. In contrasto con le altre scene del programma iconografico che evocano l’ordine terrestre e l’incarnazione – Peccato di Adamo ed Eva, san Pietro, ecc. –, il tema suddetto vuol richiamare agli occhi dello spettatore il ritorno al Cielo, il Paradiso restaurato.

La Fuga in Egitto, infine, è come si sa un tema teofanico caro all’iconografia romanica: a Saint-Benoit-sur-Loire la stella che accompagna la scena, e della quale non parla il testo biblico, è una stella a sei punte, mentre quella che sovrasta le Adorazioni dei Magi ne ha abitualmente cinque. Per ciò questa stella va considerata alla stregua di un crisma: durante la Fuga in Egitto il Cristo è come investito dei suoi poteri, del suo nome.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 224-226