I simboli del dio o del Re del mondo

Sezione: Studi


L’approfondimento di una simbologia non consiste nell’accumulare attorno ad un nucleo originale il maggior numero di particolari complementari o chiarificatori, ma nell’arricchire di armonie nuove il simbolismo fondamentale senza togliergli la purezza e la semplicità primitive.

I simboli del dio e del re del mondo hanno in comune un’intuizione di base sulla quale non è più necessario dilungarci. Il dio del mondo, l’imperatore che lo rappresenta visibilmente sulla terra, il mediatore tra Dio e gli uomini, il gran sacerdote, si collocano di necessità dove maggiormente si esprimono le relazioni tra cielo e terra: nel centro del mondo, sul passaggio dell’asse cosmico; è lì che possono riunire in sé la totalità del reale e risplendere sull’universo intero.

Prendiamo un esempio concreto, molto pregnante, al fine di comprendere bene il processo di incastro che questa straordinaria sintesi dell’immaginazione attorno ad un personaggio assiale ci consente. In Cina, la simbologia cosmica organizzata attorno ai quattro punti cardinali e al loro centro dimostra una coerenza eccezionale. Essa si fonda interamente su quei cinque elementi cui corrispondono colori, sapori, suoni, simboli. Ma tali classificazioni non si limitano a governare lo spazio, s’impongono anche al tempo.

L’ordinamento dello spazio avverrà periodicamente, il dramma celebrato nel rito si ripeterà ogni anno. L’est corrisponde alla primavera, alla nascita della creatura, alla levata del sole (elemento legno); il sud all’estate, al mezzogiorno, alla pienezza (elemento fuoco; in questo punto s’incrocia il centro, l’elemento terra cui corrisponde un tempo fittizio di pienezza); l’ovest all’autunno, alla morte, al tramonto del sole (elemento metallo) e il nord all’inverno, al riposo (elemento acqua).

Ma il microcosmo corrisponde esattamente, o meglio, è la stessa cosa del macrocosmo in cui, se così si può dire, il mondo teoricamente siripete all’infinito e ritualmente in un certo numero di elementi in zone concentriche inserite l’una nell’altra, a partire dal corpo umano e dall’abitazione fino ai confini della terra, passando per il luogo santo, il palazzo, la capitale. Sempre si ritroveranno il cielo e i quattro orientamenti, il tutto raddoppiato da una successione verticale di 3 o 4 piani (cielo e terra, o cielo, terra e sottoterra) dall’umile pantano centrale e dall’apertura del camino della casa primitiva fino al palazzo nel centro della capitale e alla capitale nel centro del regno con le quattro porte ai quattro punti cardinali. L’organizzazione del mondo in zone concentriche e in piani sovrapposti non è statica.

Il loro buon funzionamento dipende dal centro regolatore, sede del potere politico e magico-religioso (il Re, il Santo). Nel Ming-t’ang, sorta di casa del calendario, il sovrano si sposta seguendo le stagioni da un punto cardinale all’altro, in perfetta armonia con la corrispondenza degli elementi che regolano i colori dei suoi abiti, il cibo che mangia, ecc… Se si verifica una simile organizzazione periodica sul piano orizzontale, la coesione del mondo è ugualmente assicurata sul piano verticale. In effetti, fra i due piani del cielo e della terra c’è un legame di comunicazione, un asse piazzato nel centro del mondo; quando la terra è immaginata come il cassone quadrato di un carro, l’asse è rappresentato dal pilastro centrale che sostiene il baldacchino, rotondo come il cielo

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Questo legame con il cielo è ancora l’albero o la pietra su un monticello: il dio del suolo. È anche l’obelisco eretto nel centro della capitale o la torre con tanti piani quanti il cielo (nove) o la Montagna sacra, pilastro del Cielo o essa stessa cielo a piani. A tutte queste forme dell’asse centrale corrisponde il Re o il Santo, ma, come nell’organizzazione del piano orizzontale, il legame tra gli ordini del mondo non è semplicemente statico, bensì dinamico. Il Re e il Santo ascendono e discendono dalla torre, dalla montagna dall’apoteosi luminosa.

Più vicino a noi, Svetonio ci insegna (Nerone, 31) che la stanza principale delle cenationes ruotava come il mondo ininterrottamente attorno al suo asse. Questa straordinaria costruzione resta isolata in Occidente ma trova delle corrispondenze nel palazzo dei Sassanidi. Le torri girevoli cinesi esprimono la stessa concezione (torre di Butthap a Tonchino, torre del tempio lamaico di Young-ho-Kong a Pechino): alcuni uomini sotto la torre, in un sotterraneo, la fanno ruotare con l’aiuto di pali di legno, mentre in cima all’edificio l’imperatore fa il gesto d’azionare egli stesso la costruzione cosmica di cui costituisce il centro.

Dopo aver ricordato qualcuno degli elementi maggiori del simbolismo del re del mondo, riprendiamoli uno per uno al fine di approfondirli ulteriormente, il che ci fornirà l’occasione di constatare che alcuni, non importa quali, sono capaci in un modo o nell’altro, di sinterizzare o di esprimere tutti gli altri: da qui l’incredibile ricchezza d’espressione di simboli apparentemente poco interessanti.

Partiamo da un’opera concreta, la statua romanica di Carlomagno nella chiesa di Müstair (Svizzera). L’imperatore è in piedi e tiene nella mano sinistra uno scettro, nella destra il globo del mondo segnato dei suoi grandi cerchi, con la croce piantata nel polo; egli porta una caratteristica corona. Esaminiamo innanzitutto ciascuno di questi emblemi.

Müstair, Chiesa – Statua: Carlomagno

Lo scettro è una riduzione del grande bastone del comando: verticale pura che gli consente di simboleggiare prima di tutto l’uomo in quanto tale, quindi la superiorità di quest’uomo eletto alla guida, infine il potere ricevuto dall’alto. Lo scettro dei nostri sovrani occidentali non è che il modello ridotto della colonna del mondo con cui le altre civiltà rappresentano la persona del re e del sacerdote. Citiamo, a questo riguardo, gli esemplari così espressivi pur nella loro semplicità, che ci offrono i popoli dell’Asia centrale e settentrionale e che a noi sono molto noti grazie ai lavori di Uno Harva. Egli riporta che l’asta di legno che per essi simboleggia l’asse cosmico è talvolta sormontata da un piccolo ripiano quadrangolare a forma di tetto; l’asta o il ripiano, recano spesso un uccello mitico, normalmente un’aquila considerata un uccello celeste; l’aquila è un simbolo universale dell’ascesa al cielo, della sovranità, del potere ricevuto o esercitato dall’alto o almeno da uno stadio superiore.

Asia centrale e settentrionale: Le colonne del mondo

In cima all’asse del mondo, allo scettro dei sovrani o alle aste delle bandiere, questo emblema diventa il simbolo del re del mondo o della divinità che troneggia nel polo celeste. Conviene sottolineare il carattere sacro di questo simbolismo. «Un’asta simile è oggetto di culto nel santuario a tenda dei Soioti delle steppe. Là, il bastone collocato in modo che la sua estremità superiore emerga dalla cima della tenda conica è abitualmente ornato… di pezzetti di stoffa che sono più spesso bleu, gialli, bianchi, i colori dei punti cardinali. Il bastone stesso è considerato sacro, quasi come un dio. Ai suoi piedi si eleva un altare rudimentale in pietre sovrapposte». In tal modo si avvia l’assimilazione del capo del re, al prete che fa tutt’uno con l’altare e il santuario e infine il mediatore in cui si rende presente la divinità.

La Corona è sempre stara espressione di un simbolismo cosmico. Quella di Carlomagno è tradizionale e caratteristica: di forma circolare, marcata ai quattro punti cardinali da quattro piccoli archi come l’imago mundi, le carte mitiche, le rappresentazioni più stringate delle città sante, lo schema cosmico della nuova Gerusalemme. Corona e scettro sono due simboli complementari che collocano il re in rapporto a tutto ciò che lo circonda; il riferimento cosmico appare chiaramente in un legno inciso del sec. XVI, che riassume perfettamente il simbolismo assiale del re mediatore: in piedi al centro del cerchio cosmico (con le quattro grosse gemme della corona che segnano i punti cardinali). Corona e scettro sono gli emblemi del sovrano in se stesso, mentre il globo rimanda al regno governare da questo sovrano.

Incisione su legno del XVI secolo: Scettro e corona

Il Globo è un simbolo di totalità: esso implica un’affermazione di sovranità universale da parte di colui che lo tiene in mano; ciò non significa sovranità sul mondo intero ma sovranità sul regno; di contro, non bisogna dimenticare che l’idea di regno ha sempre conservato qualcosa della nozione primitiva che lo eguagliava alla totalità del reale umanizzato. Il regno, l’impero, tanto in Occidente, quanto in Oriente – la Cina ha magistralmente sviluppato questo simbolismo geografico – sono costituiti da quattro parti al centro delle quali si colloca il monarca che ne assicura la totale coesione. Egli lo tiene in mano, tuttavia lo riceve anche dai suoi sudditi che collaborano alla stabilità permanente e che gliene fanno omaggio come al rappresentante di Dio sulla terra. Questo doppio movimento ha dato origine in Cina ad un grandioso cerimoniale; più discretamente la concezione occidentale si trova riassunta in una miniatura ottoniana che mostra le quattro parti dell’Europa che vengono ad offrire in omaggio il loro globo ad Ottone II (1002), il figlio di Ottone il Grande; attraverso la sua persona l’omaggio raggiunge il papa che incorona gli imperatori, e al quale questi si sentono uniti nel governo del mondo: Ottone in risiede frequentemente a Roma; l’imperatore coronato regge il globo con la croce e il bastone del comando.

Chantilly, Museo Condé –
Registrum Gregorii: L’imperatore Ottone II riceve in omaggio le quattro parti dell’Impero

Il Costume è talvolta anch’esso fortemente evocativo, soprattutto presso i popoli che sottolineano con vigore l’idea del sovrano assiale. Questa nozione di asse è correlativa a quella degli altri due o tre fori che mettono in comunicazione i diversi piani del mondo. I popoli dell’Altai parlano di un foro per il fumo della terra; da ciò deriva l’immagine del mondo delle antiche popolazioni civilizzate dell’Asia e dell’Asia Minore, per le quali gli inferi sono accessibili da un’apertura che sbocca nell’ombelico della terra: essa è in corrispondenza diretta con l’apertura situata in mezzo al cielo. L’apertura è dunque essenziale a questa simbologia quanto l’asse che ad essa conduce, ed è perché appartiene alla simbologia del re del mondo, del sacerdote o del pellegrino dell’aldilà. Lo sciamano iakuta porta nella schiena una placca di ferro rotonda forata nel centro.

In Cina, l’imperatore indossava una veste rotonda in alto come la pi e quadrata alla base come il ts’ong: la sua persona costituiva la scala della vita che ricongiungeva le due aperture. Non meno interessante la grande casula circolare in un solo pezzo aperta nel centro per far passare la testa: il prete che la indossa si trova ritualmente collocato al centro dell’universo, identificato nell’asse del mondo, essendo la cappa la tenda celeste e trovandosi la testa nell’aldilà, dove si trova Dio, di cui il sacerdote è il rappresentante in terra.

Casula circolare

La cappa detta di Carlomagno a Metz, è ornata d’aquile che convergono verso l’apertura centrale, il che ben sottolinea il loro simbolismo ascensionale e celeste.

Metz – Cappa di Carlomagno

Tale schema viene necessariamente replicato nell’architettura (processo di incastro); pensiamo, per esempio, alla cupola absidale della chiesa di Notre-Dame du Thor, in Provenza, ornata d’aquile in volo che circondano alla chiave di volta l’Agnello di Dio in posizione.

Le Thor, Notre-Dame-du-Lac – Catino absidale

Il Trono non si presenta più come emblema, ma come mobile che «contiene» il sovrano e che costituisce un secondo livello simbolico.

In India l’incastro successivo dei microcosmi che costituiscono il sovrano, il trono su cui siede e il tempio al centro del quale questo trono è collocato, risulta particolarmente illuminante. Colui che siede sul trono è anch’egli una riduzione dell’universo, l’Embrione d’Oro collocato nella Matrice del Mondo. A questo proposito, sono significativi numerosi tipi di trono: il celebre Trono-di-Diamante (Vajrasana) sul quale, a Bodh-Gayā, il Budda Sakyamuni ricevette l’Illuminazione; quelli messi in relazione con la colonna-perno del mondo (illustrati in particolare a Amaravati, II-IV secolo circa); quelli di Pegou e di Mandalay (Birmania) ancora più espliciti, che rappresentano, attraverso una particolare iconografia, il mondo degli dei sostenuto dal monte Meru. Seduto nel centro del cosmo, il re che lo occupa ne è il maestro e il rappresentante; il possesso è assicurato dal profitto di coloro sui quali governa quaggiù. Ciò spiega la grandissima importanza accordata alla fabbricazione del trono reale e alla sua decorazione simbolica che riassume le componenti del cosmo; ciò, inoltre, motiva le severe proibizioni di sedersi sul trono reale senza averne diritto (cioè senza essersi predestinati), o rende ragione della onnipotenza universale di chi vi si siede. Infatti, simbolo minore del Mondo, il Trono nella tradizione indiana fa il re. Le tre colossali sedie di pietra scolpita di Siva, Brama e Visnù di Besaki (Bali), rappresentano dei troni-altari posti sulla cima di torri simboleggianti l’asse cosmico e il Meru: ciascuna torre s’innalza su un’enorme Tartaruga del Mondo.

Le civiltà più disparate testimoniano diffusamente le stesse fondamentali concezioni. Il valore rappresentativo del trono è così forte che costituisce di per sé un simbolo della presenza di colui che ha il diritto di sedervisi. Vuoto, esprime il carattere trascendente – o sperato – di questa presenza. Il tema iconografico del trono vuoto di Cristo, o etimasia, era un modo di assicurargli una presidenza invisibile, (per esempio in occasione dei Concili) e anche d’anticipare l’ora in cui ritornerà per il giudizio, alla fine dei tempi.

Il trono vuoto e l’albero della conoscenza, simboli di Buddha

Il trono è sopraelevato: è una realtà eminente come la montagna cosmica o l’asse del mondo.

Papiro di Hunefer: Osiride in trono

La figura rappresenta Osiride (Dio della vita nell’aldilà) seduto su un trono; quest’ultimo è collocato sulle acque della ricreazione (rappresentate da piccole linee spezzate) da cui emerge, davanti ad esso, un fiore di loto sbocciato; dal fiore escono i quattro figli di Horo che sono gli dèi dei quattro punti cardinali del nuovo cosmo d’oltretomba. Nella stessa prospettiva tradizionale, gli autori cristiani dei primi secoli hanno visto senza difficoltà nella croce piantata sul Calvario il trono cosmico, dall’alto del quale il Salvatore crea il mondo nuovo accogliendolo nel suo mistero: «Quando sarò elevato da terra (cioè sulla croce considerata come la prima tappa o lo strumento della sua esaltazione celeste), io attirerò tutti a me» ha detto Gesù.

Non occorre soffermarsi sui troni che si riconducono essenzialmente al sedile cubico (terra) sormontato da un arco di cerchio che si sviluppa in aureola (cielo). Un secondo tipo, invece, merita di essere considerato a lungo; innanzi tutto, perché meno conosciuto, nonostante sia piuttosto diffuso, e poi perché ci consente di cogliere come un simbolo fondamentale possa essere incredibilmente ricco di significati senza tuttavia alterarsi sensibilmente. Questo secondo tipo di trono è innanzi tutto un simbolo del dio dell’universo o del re del mondo. La sua struttura è quella dell’asse cosmico circondato dai quattro punti cardinali, cioè quella della più tradizionale imago mundi, che abbiamo già rintracciato, per esempio, nelle civiltà dell’Asia orientale (in particolare nei templi assiali indù) e ritrovato tanto alle latitudini tropicali quanto a quelle equatoriali. Leo Frobenius cita un certo numero di esempi che ha personalmente rilevato nell’Africa nera e che sono considerati già molto più che simboli dell’universo. Tale, nel paese di Joruba, quell’area consacrata al dio Edschou, dove si trovavano cinque coni di argilla con al centro il più grande sormontato da una coppa e attorno i quattro più piccoli, il tutto circondato da un canaletto. Vi sono migliaia di santuari dedicati ad Edschou; la maggior parte consiste semplicemente in una massa di argilla, ma eccezionalmente si trovano anche degli esemplari perfetti, come quello di Gbaga, che comprende non solo il cono di Edschou, ma anche delle quattro divinità locali dei quattro punti cardinali e dei giorni della settimana. Edschou è il dio dell’ordine, dell’immagine del mondo. Il cono di Edschou è il monte del mondo.

Nigeria, Gbaba – Area consacrata al dio Edschou degli Joruba

Osserviamo la coppa in cima al monte-asse; essa è il simbolo delle benefiche relazioni cielo-terra, rappresenta il ricettacolo delle elargizioni divine e la disponibilità all’accoglienza dei fedeli (cfr. il calice eucaristico ai piedi della croce, il Graal…), ed è anche ciò che rappresenta simbolicamente la divinità, o la sua sede: al sommo dell’asse cosmico, essa coincide con il polo dell’asse celeste dove egli troneggia. Questo concetto è spesso sviluppato fino a concepire l’immagine cosmica intera come il trono gigantesco della divinità.

Il Baldacchino reale e il parasole da cerimonia o divino meritano una menzione a parte. Ne abbiamo già parlato spesso. Essi compaiono in numerosi protocolli. In Cina, l’universo ha per simbolo tanto la casa del capo quanto il carro cosmico. Questo carro è costituito da un cassone cubico in cui prende posto l’Uomo-Unico, il Figlio del Cielo; un palo centrale, replica dell’Albero della vita e dell’Albero centrale, Kien Mou (legno elevato) per mezzo dei quale i sovrani salgono e scendono, sorregge un grande baldacchino circolare che rappresenta il cielo; esso risponde ad una geometria simbolica precisa che ne determina con rigore i tre elementi: la parte centrale, piatta, i due bordi curvi, il contorno. Il parasole da cerimonia ne costituisce la replica portatile. È un emblema, tanto che, come il trono, esso talvolta sostituisce il sovrano o la divinità quando si voglia evitare di rappresentarli di persona.

Bassorilievo: La partenza del principe Siddharta, che diverrà il Buddha

Un affresco dell’oratorio di S. Silvestro a Roma (sec. XIII) mostra Costantino che offre una tiara conica al Papa Silvestro mentre un personaggio del suo seguito agita il parasole da cerimonia e un altro stringe al petto la corona quadripartita che l’imperatore ha deposto per l’occasione: questi tre simboli appartengono allo stessoordine simbolico. (Rinunciando alla tiara, Paolo vi ha inteso eliminare ogni equivoco di dominio temporale che essa conservava fin dalle sue origini). Dietro il Papa, l’alta croce costituisce la replica dello scettroche teneva Carlo Magno e il simbolo dell’autorità religiosa.

Roma, San Silvestro – Oratorio, Affresco: Costantino offre la tiara al papa Silvestro

La miniatura carolingia che rappresenta Carlo il Calvo sul suo trono (IX secolo) costituisce una piccola sintesi di quanto abbiamo appena detto.

Parigi, Biblioteca Nazionale – Bibbia di Viviano: Carlo il calvo sul trono

Si noti l’incastro: uomo, corona e scettro, trono con predella e schienale; la scena appare in un’arcata formata da un arco di cerchio su due pilastri; il velo che pende simboleggia il firmamento; al di sopra, si stende dunque il cielo. In alto alcuni personaggi si protendono verso il monarca reggendo delle corone per dimostrare che il potere è dato da Dio; la mano divina esce da una nuvola, in verticale e designa il luogotenente di Dio sulla terra, il suo rappresentante, come spesso si rileva nei battesimi di Cristo o nelle Crocifissioni; due lampade da santuario pendono da entrambe le parti per sottolineare la presenza divina. Il fiore di lis sopra l’arcata corrisponde a quello sopra l’arcata del trono: entrambi determinano la verticale che è l’asse della rappresentazione e colloca il monarca al centro del mondo con i suoi dignitari in cerchio attorno a lui come rappresentanti di tutto il popolo.

Cerimoniali e riti esprimono a loro modo lo stesso principio. Nel mondo gallo-germanico, l’antico uso di proclamare un capo elevandolo sul trono costituiva un rito evidente del simbolismo teocratico. Come nella Croce di Saint-Omer, la forma bombata dello scudo – trasformazione occidentale della tartaruga orientale e dei tamburi sciamani – rappresentava il cielo. Innalzare nel suo centro il capo, il bren,significava collocarlo nella posizione di rappresentanza di Dio che troneggia nel cielo. L’idea rimase nei tempi successivi, per esempio fu ripresa dallo scultore Lemoyne in un progetto di monumento dedicato a Luigi XV, in cui il sovrano compare in piedi su un trono elevato da numerosi uomini. Una tradizione che ha dei paralleli nell’antico Egitto, in Cina e in molti altri paesi o civiltà si è perpetuata nel rituale dei re di Ungheria: l’ultima cerimonia consisteva nella salita a cavallo del monarca su un poggio emisferico formato dalla terra portata da tutte le province del regno. Quando il monarca aveva raggiunto la cima di questo luogo simbolico, dava un colpo di spada – in Egitto tirava quattro frecce – verso i quattro orizzonti, per indicare il suo comando sui quattro punti cardinali.

Nell’iconografia cristiana, la funzione di rappresentanza del sovrano rispetto a Dio era vigorosamente sottolineata affinché nessuno l’ignorasse. Ci si compiaceva d’illustrarla chiaramente, come in una miniatura del Salterio d’Egberto (sec. X). Gesù è sul trono: egli stesso incorona Costantino e sua moglie prima di cedere loro il posto; la scena si svolge in un quadro celeste: cherubini e serafini sostengono il trono sopra il quale stanno i quattro Viventi dell’Apocalisse. Così si assicura la continuità del potere terreno con quello celeste e tale continuità è di ordine teologico: essa sarà perfetta quando Cristo in persona si presenterà come sovrano dell’universo, troneggiando su di esso.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo    
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine381-402 

Il simbolismo dell’albero

Sezione: Studi


In un certo senso, la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe è la storia della conquista della Terra santa. Essi l’hanno sacralizzata con la ripetizione quasi monotona di atti compiuti attorno ai tre elementi di culto più arcaici: steli (come quella di Giacobbe), altari eretti un po’ dappertutto nel paese, alberi rimasti celebri per sempre come la quercia di Mambre così spesso al centro di questioni… Questi tre elementi riuniti rappresentano l’essenza della forma più antica di luogo sacro. In effetti, «il tempio primitivo e naturale, prima che l’uomo conoscesse l’arte di costruire, fu il mondo, semplicemente; il mondo come dimora della Divinità, poiché è scritto: “Il cielo e la terra sono pieni della Tua Gloria” (Isaia, VI, 3). Ma dal momento che il mondo è troppo vasto per essere scelto come luogo di un atto rituale, l’uomo riduce l’universo a un paesaggio familiare e significativo. Lo schema generale e naturale del tempio è il paesaggio elementare costituito dalla collina (o dal tumulo) con la sua grotta, le pietre, l’albero e la sorgente, il tutto circondato e protetto da un recinto che indica il carattere sacro del luogo. Tali furono, in origine, i boschi sacri, il lucus dei Romani, l’alsos dei Greci. Quando più tardi nacque l’architettura, il tempio diventò una casa e le sue componenti minerali e vegetali si trasposero per costituire gli elementi stessi dell’edificio. Mentre il recinto naturale o rudimentale diventava la muratura, la grotta diventava la nicchia dell’abside e il soffitto veniva assimilato al cielo. Così il tempio appare come un paesaggio pietrificato» (Jean Hani, Le symbolisme du temple chrétien, 1962, p. 81).

Abbiamo visto come la stele unita all’altare costituisca il punto focale del tempio, centro di santificazione e di ricreazione. Ciò che il nostro discorso aveva ancora, per la forza delle parole e delle cose, di troppo geometrico nell’espressione, di troppo naturalistico nelle immagini cosmiche, deve a questo punto essere sfumato, umanizzato, interiorizzato e cristianizzato. Lo faremo considerando il simbolismo naturale dell’albero: perfetto simbolo di Vita, piantata nel Paradiso, in elevazione verso i cieli, vivificatore di tutto l’universo prima di pervenire alla sua dimensione totale nel mistero della croce cosmica di Cristo. Secondo il metodo già utilizzato, è indispensabile partire dallo studio delle immagini evocate spontaneamente dall’albero in ogni uomo. Sono queste sensazioni profonde che recano la dinamica del messaggio di cui successivamente le si può caricare.

L’albero è insieme il mistero della verticalizzazione, della crescita prodigiosa verso il cielo, della perpetua rigenerazione; rappresenta non solo l’espansione della vita ma anche la costante vittoria sulla morte; è l’espressione perfetta del mistero della vita che costituisce la realtà sacrale del cosmo.

Non esiste concezione più estesa di quella del cosmo vivente simboleggiato da un albero. L’arte più antica, le leggende, i miti dei popoli più disparati lo dimostrano con sufficiente profusione.

Il simbolo di Quetzalcóatl rappresenta il mondo come un cubo aperto, dalle superfici distese sulle quali figurano degli alberi cosmici, di cui uno (in alto), diventa l’asse del mondo. Una volta ricostituito il cubo, i quattro alberi si sovrappongono e si fondono accumulando i loro rispettivi simbolismi, in un albero centrale che è l’asse verticale del cubo cosmico. Alla sommità di questi alberi, le aquile dì cui abbiamo già citato la frequenza sopra agli assi del mondo per simboleggiare uno stato spiritualizzato o trascendente o la sovranità.

Liverpool, Museo del mondo – Codice Féjerváry-Mayer, prima pagina: Quetzalcoatl signore dell’aurora, al centro dell’universo

Nella rappresentazione cinese di un albero, tratta da un rilievo della Camera delle Offerte di Wou Yong (168 d. C), un personaggio sceso dal suo cocchio, al termine di un viaggio mitico, Jo tocca con la mano; fra le foglie e svolazzanti tutt’attorno si vedono uccelli e diversi animali. E un microcosmo completo.

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

L’albero è un asse verticale attorno al quale si avvolgono e da cui si dipartono radici e rami: è l’immagine del mondo in espansione in unità e in ascensione. Si celebrano le sue tre zone cosmiche: sotterranea (radici che si allungano verso il basso), terrena e umana (tronco, pura verticalità), superiore e celeste (ramificazione, espansione). Tale albero spesso viene caricato di uccelli e di vari animali.

Nelle tradizioni orientali, così capaci di esprimere il mistero delle cose, molto spesso l’albero sacro appare rovesciato: ha la radice nel cielo e cresce in direzione della terra, al fine di invaderla e di sacralizzarla per assimilazione: mistero della creazione e delle ricreazioni della grazia venute dall’alto. «I rami si allungano verso il basso, in alto, invece, si trova la radice; che i rami discendano su di noi», dice il Rig-Veda. Gli Upanishad precisano la sua costituzione cosmica che è quella degli elementi: «I suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra»; la stessa tradizione appartiene alla dottrina esoterica ebraica: «L’albero della vita si stende dall’alto verso il basso e il sole l’illumina interamente». La tradizione islamica afferma lo stesso a proposito dell’albero della felicità. Nel Paradiso di Dante le sfere celesti formano la ramificazione di un albero che si erge secondo natura, ma del «quinto ramo», quello del pianeta Giove, si dice che «l’albero che vive dalla cima» è un albero rovesciato. Lungi dal voler attuare giochi letterari, numerosi popoli ne fanno la materia di una liturgia che rivela il valore immaginario di questo simbolismo. Gli uni pongono accanto all’altare un albero con le radici all’aria; altri lo piantano secondo un rito e sempre rovesciato. In certe iniziazioni esso è utilizzato nel cerimoniale che simula il passaggio dalla morte alla vita.

La Bibbia cita gli alberi sacri che all’epoca erano conosciuti presso i popoli circostanti, e che occupavano nelle loro religioni un posto fondamentale: il cedro del Libano, gigantesco e prestigioso, che implica un universo intero che vive per millenni; l’olivo per le stesse ragioni e per il prodotto che dona, l’olio. Nell’ordine dei simboli ascensionali, si celebrano ugualmente due alberi che sembrano due netti colpi di pennello verticali: il pioppo e il cipresso, quest’ultimo avvantaggiato per di più da un fogliame sempreverde che ne fa il simbolo della Vita eterna.

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 70v: San Giovanni e l’angelo

Con l’immagine di un albero che invade l’universo, Dio predica al suo popolo il ritorno a tempi di prosperità e l’era in cui si realizzerà la sua vocazione di essere una fonte di benedizione divina per tutta la terra.

Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici,
Israele fiorirà e germoglierà,
e riempirà dei suoi frutti il mondo intero
(Isaia, xxvii, 6)

La conquista del mondo, le rivendicazioni di egemonia utilizzano volentieri questo simbolismo. È il caso del famoso sogno di Nabucodònosor, re di Babilonia riferito al capitolo IV dal profeta Daniele (vv. 7-9): «Tali erano le visioni del mio spirito, nel mio letto; io vedevo in mezzo alla terra un albero altissimo. Esso cresceva; era vigoroso. La cima toccava il cielo; lo si scorgeva fin dall’estremo della terra. Le sue foglie erano belle e i suoi frutti abbondanti fornivano a tutti di che mangiare».

Daniele rivela al monarca la chiave del sogno: «L’albero che hai visto crescere ed abbellirsi, la cui cima toccava il cielo e che si scorgeva dall’estremo della terra, quell’albero dalle belle foglie, dai frutti abbondanti che consentivano a tutti di mangiare, sotto il quale pascolavano tutte le bestie terrestri e fra i rami del quale albergavano gli uccelli del cielo, quell’albero sei tu, sire, che sei diventato grande e potente, la cui altezza ha raggiunto gli astri e la cui dominazione si stende fino ai confini della terra» (vv. 17-19).

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): Il sogno di Nabucodonosor

La figura rappresenta una miniatura della Bibbia di Roda (Parigi, Biblioteca Nazionale) che illustra questo episodio. Nella parte inferiore, a destra, Nabucodonosor consulta i saggi di Babilonia che si rivelano incapaci di interpretare il sogno. A sinistra, Daniele glielo spiega. Sopra, l’albero, che si è elevato «nel centro della terra, molto grande»; gli uccelli che vi si raccolgono, gli animali che vi trovano asilo, rappresentano tutti i popoli del globo. Nel centro, in un’aureola, la mano divina per rappresentare la voce venuta dal cielo di cui al versetto 10. Le radici sono ben visibili e particolarmente sviluppate e ornate per illustrare il versetto 12.

L’albero cosmico si riconosce generalmente dalla sublime pienezza del suo disegno; la forma pura è una sfera ideale al di sopra di un tronco che è pura verticalità. Una sensazione di sicurezza ne ha fatto un attributo della Prostituta Famosa descritta ai capitoli XVII e XVIII dell’Apocalisse di san Giovanni.

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 64: La donna sulla Bestia

Il personaggio simboleggia Babilonia-la-Grande, nome convenzionale di Roma in quanto tipo della città del diavolo che ha sottomesso tutta la terra. La prostituzione designa l’idolatria che, in effetti, è un’infedeltà spirituale di carattere coniugale nei confronti del vero Dio, sposo del suo popolo. «Questa donna è la grande città, che regna sui re della terra… Dell’ebbrezza delle sue prostituzioni hanno goduto tutte le nazioni e i re della terra hanno brindato con lei». Di questo vino è piena la coppa che essa tiene in mano e che offre a chiunque si avvicini. Il mondo è il suo potere; quando sopraggiunge l’ora del regno di Dio, allora una voce annuncia la sua condanna: «Vai, o mio popolo, abbandonala, affinché, complici dei suoi errori, voi non abbiate a patire le stesse sue piaghe. Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo… In misura del suo fasto e dei suoi lussi le saranno dati tormenti e disgrazie… Ecco perché in un solo giorno molte piaghe si abbatteranno su di lei: peste, lutto, e fame; ella sarà consumata dal fuoco. Perché è potente il Signore Dio che l’ha condannata». Il suo impero crollerà col fracasso dei grandi alberi recisi.

La Bibbia aveva reso tradizionale il confronto con l’albero magnifico per significare le pretese orgogliose degli imperi pagani e spiegare i loro rovesci di fortuna col giudizio di Dio onnipotente (è la versione vegetale del tema dell’ascesa orgogliosa descritta nella satira sulla morte di un tiranno al capitolo XIV di Isaia). Il testo più bello si trova al cap. 31 del profeta Ezechiele. Questo poema descrive «l’Egitto sotto forma di un albero sacro… un albero del Paradiso di Dio… La dimensione di questo pino gigante è quella di un albero sacro che domina il mondo. Ci si ricorderà degli alberi venerati negli altipiani semitici. Nella speculazione buddista si ritrova il mito dell’albero cosmico. Quello descritto da Ezechiele sorpassa i cedri del Libano… Le radici dell’albero raggiungono l’abisso originale ove attingono la linfa e alla sua ombra abitano numerose nazioni» (Ezechiele, Desclé de Brouwer, 1961, Commentario, p. 73 e 75). Ecco il testo:

«L’undicesimo anno, al terzo mese, il primo del mese, la parola di Iahvè mi raggiunse dicendo: Figlio d’uomo, parla a Faraone, re d’Egitto e alla sua gente:

A che cosa ti paragonerò, nella tua maestà?

A un pino dalla fronda rigogliosa!

Dal folto fogliame, dal tronco slanciato!

In mezzo alle nubi emerge la sua cima!

Le acque l’hanno fatto crescere, l’abisso lo ha ingrandito,

irrigando con le sue correnti le culture circostanti,

dirigendo i suoi ruscelli verso ogni terreno.

Così si slanciava al di sopra di tutti gli alberi della campagna.

I suoi rami si erano moltiplicati, le sue fronde si allargavano.

Tra i suoi rami nidificavano tutti gli uccelli del cielo,

Sotto le sue fronde si riparavano tutte le bestie della campagna,

Alla sua ombra abitavano numerose nazioni.

Era bello nella sua maestà per il numero dei rami,

Le sue radici si estendevano in acque abbondanti.

1 cedri non lo superavano nel giardino di Dio,

I cipressi non erano paragonabili ai suoi rami,

I platani non competevano con le sue fronde.

Nessun albero del Paradiso di Dio l’uguagliava in bellezza,

Faceva invidia agli alberi dell’Eden, che sono nel Paradiso di Dio».

Ma questa grandezza è indebita, frutto e simbolo di orgoglio; e Iahvè interviene per riportarla al nulla: «Per questo Iahvè parla così: Poiché esso si è erto in tutta la sua altezza, poiché ha elevato la sua cima fino alle nuvole e poiché si è illuso riguardo alla sua grandezza, io l’ho abbandonato in balia dell’ariete delle nazioni. Stranieri, popoli barbari l’hanno tagliato e adagiato sulle montagne. I suoi rami sono caduti per tutte le valli; le sue fronde si sono disperse per tutti i torrenti della terra. Tutti i popoli della terra hanno abbandonato la sua ombra». Ed ecco la morale: nessuna potenza terrena tenti di sollevarsi fino alle nubi, poiché ogni uomo è destinato ai paesi sotterranei.

Tentare di rendersi pari a Dio è come, ripetendo il peccato dei nostri progenitori, andare verso la morte: « Così dunque, nessun albero si elevi nel suo orgoglio sulla riva delle acque e nessuno innalzi la sua cima fra le nubi e non insuperbisca se è ben irrigato. Perché essi sono tutti destinati alla morte, al paese sotterraneo, fra gli uomini comuni che scendono nella fossa». Il seguito del testo annuncia che l’Egitto, alla sua ora, discenderà nel paese delle ombre e sarà inghiottito nell’abisso precedente la creazione. I testimoni della sua caduta saranno atterrati; gli alti alberi dell’Eden che il Faraone aveva posto in ombra, pieni di gioia, si prenderanno beffe della potenza decaduta mentre scenderanno nello shéol per condividere la loro sorte. Nulla sfugge alla sorte comune e ancor meno alle mani di Dio. «Così parla Iahvè: Il giorno della sua discesa allo shéol, io ho richiuso su di lui l’abisso, ho immobilizzato i fiumi, e le acque sconfinate si sono arrestate. Per causa sua, ho oscurato il Libano e tutti gli alberi della terra si sono seccati. Al rumore della sua caduta, ho fatto tremare le nazioni, quando l’ho fatto precipitare nello shéol con coloro che sono scesi nella fossa. Nel paese sotterraneo, tutti gli alberi dell’Eden, le magnificenze del Libano, tutti bene irrigati, sono stati consolati, e anch’essi sono scesi con lui nello shéol verso quelli recisi dalla spada; essi sono stati abbattuti, essi che abitavano alla sua ombra, nel centro delle nazioni. “Chi era tuo pari in gloria e grandezza fra gli alberi dell’Eden? Tu sei stato precipitato, con tutti gli alberi dell’Eden, nel paese sotterraneo. Eccoti giacente fra gli incirconcisi, con le ferite per la spada!” Così avverrà di Faraone e di tutta la sua stirpe! Oracolo di Iahvè».

Il confronto dell’albero della Prostituta Famosa illumina l’iconografia del serpente che avvolge l’albero del giardino dell’Eden.

El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial – Codex Vigilanus, fol. 17r: Il peccato originale

In origine, lungi dal rappresentare solamente un artificio d’artista – come invece avverrà in seguito, almeno in molti casi -, questa attitudine è la sola che convenga in assoluto al Principe degli Angeli, creato da Dio in tale splendore e con tale potenza sul cosmo da meritare a buon diritto la definizione di Principe di questo mondo. Dio ha voluto che egli, una volta caduto, conservasse ugualmente la sua potenza e il suo titolo. Così l’universo trascorre la propria esistenza in possesso del Maligno: fare cadere a sua volta la coppia originale nel peccato, significava, secondo il suo pensiero, consolidare definitivamente il proprio dominio eliminando gli ultimi possibili importuni. Il mezzo che concretizzò la tentazione fu il frutto dell’albero… L’iscrizione che funge da inquadratura reca le parole… UBI INTER LIGNA PARADISI AD POMU EVA MANUM PORREXERAT SUMENSQ(VE) ID DE SERPENTIS ORO PERNICITER ADE CONTULERAT ecc., cioè: «Qui, fra gli alberi del paradiso, Eva aveva teso la mano verso il frutto ed avendolo preso dalla gola del serpente l’aveva per disgrazia offerto ad Adamo, ecc.». Sulla pagina di fronte una visione di Cristo in gloria: la sua scelta è dovuta probabilmente alla volontà di contrapporre la caduta e la rigenerazione.

C’è una relazione tra la piccola mela rotonda – il frutto dell’albero – che il serpente tiene nella gola, che Eva prende in mano e che Adamo presenta tra due dita da una parte, e la piccola boccia che il Cristo, nuovo Adamo, tiene delicatamente fra tre dita della mano destra dall’altra. L’importanza del gesto è sottolineata dall’iscrizione: DOMINUS IN TRIBUS DIGITIS DEXTERAE MOLEM ARBAE LIBRAVIT FERENSQUE CODICEM IN LEBA VITAE OM’A ENIM IN COELO ET IN TERRA ET SUBTUS TERRA EQUANIMITER PER IPSUM DOMINATA SUNT, cioè «Il Signore ha tenuto tra tre dita della sua destra la massa della terra e ha portato nella sinistra il libro della vita. Infatti ogni cosa nel cielo, sulla terra e sotto terra sta ugualmente in suo potere». L’iscrizione allude al poema che canta l’incomparabile grandezza di Dio e del suo dominio sull’universo, al capitolo XI di Isaia; essa attinge liberamente al testo sacro, che suona così:

Quis mensus est pugillo aquas
et caelos palmo ponderavit?
quis appendif tribus digitis molem terrae?

Che significa: «Chi dunque, come Dio, ha mai misurato nella sua mano le acque (del mare) e pesato i cieli nel suo palmo e soppesato fra le dita la massa della terra?» Mare, cielo, terra: le tre componenti del mondo, interpretate dalla seconda parte dell’iscrizione: «Ogni cosa, in effetti, in cielo, sulla terra e sottoterra sta ugualmente in suo potere». Il Cristo ha ricondotto il potere del mondo, che Satana aveva usurpato nel giardino dell’Eden, e viene rappresentato nel Signore dell’Apocalisse; un alfa e un omega giganteschi sono disegnati sopra il suo capo e sotto i suoi piedi, mentre una banda trasversale reca scritto INITIUM ET FINIS: «Io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine (di ogni cosa), dice il Signore Dio, Egli è, Egli era, Egli viene, il maestro di tutto» (Apocalisse i).

Nel Codex Vigìlanus, datato al 976, come nel Codex Aemilianus (992), suo gemello, la mandorla a forma di losanga di Cristo è inquadrata da un cherubino, un serafino, Michele e Gabriele: eminenti rappresentanti della corte celeste (la losanga è disseminata di stelle).

El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial – Codex Vigilanus, fol. 16r: Il Cristo in Gloria

Nell’Aemilianus, un’altra iscrizione spiega come Cristo abbia potuto soppiantare il Principe di questo mondo: DS et HOMO; Gesù è insieme Dio e uomo. Un’analoga composizione, arricchita dei quattro Viventi del tetramorfo si trova nel Beatus di Girona. Il Cristo tiene fra le dita la posta del dramma della creazione, la piccola boccia dietro la quale si distingue una sola parola: mundus, il mondo. «Ed ogni creatura, nel cielo e sulla terra e sottoterra e nel mare, l’universo intero io sento gridare: “A colui che siede sul trono, così come all’Agnello, lode, gloria, potenza nei secoli dei secoli!”» (Apocalisse V).

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 2: Cristo in gloria, Tetramorfo e Angeli

L’albero implica spesso il tema dell’albero della vita che dà o rende l’immortalità; dell’albero paradisiaco piantato alle origini e atteso alla fine dei tempi. La sua espressione ultima è quella dell’albero divino che divinizza, o il cui frutto è esclusivamente riservato al rappresentante degli dei sulla terra. Forse l’esempio più splendido da citare è l’affresco egiziano, di grossolana fattura, dell’ipogeo di Thoutmes III a Tebe (metà del II millennio a.C); il re, identificabile per l’uraeus della capigliatura, prende con le mani infantili il braccio della dea-sicomoro, assimilata a Iside, e succhia avidamente dal suo grosso seno che emerge fra le foglie.

Tebe, Ipogeo di Thoutmès III – Affresco: L’albero divino

È una variante dell’albero del latte, dell’albero da cui scorre la rugiada, dell’albero fontana. Iahvè spesso si è paragonato ad un albero: «Io sono come il cipresso verdeggiante, è da me che viene il tuo frutto» (Osea, XIV). Il fogliame persistente del cipresso ne ha fatto l’albero sacro di numerosi popoli; essi chiamano il cipresso-tuia, l’albero della vita. Nel testo citato, Iahvè si rivolge al suo popolo e gli spiega che egli è la sorgente della fecondità, in maniera del resto totalmente simbolica, poiché i frutti del cipresso non sono commestibili. Nella Bibbia il serpente tenta Adamo ed Eva con queste parole: «Se mangerete il frutto dell’albero, sarete come gli dei».

Per ricondurci all’albero del Paradiso, propriamente detto, citiamo un bel poema relativo ad un punto dei più celebri alberi, l’Yg drasil dei popoli scandinavi; esso si adatterebbe altrettanto bene all’Hom iraniano e ad altri.

Io mi ricordo dei giganti nati all’alba dei tempi,

di quelli che un tempo mi hanno fatto nascere.

Io conosco nuovi mondi, nuovi domini coperti dall’albero del mondo,

quell’albero saggiamente edificato che affonda le radici fin nelle viscere della terra.

Io so che esiste un frassino che chiamano Yggdrasil.

La cima dell’albero è bagnata nei bianchi vapori delle acque,

di là scorrono gocce di rugiada che cadono nella valle.

Esso si innalza eternamente verde al di sopra della fontana d’Urd.

La descrizione potrebbe riferirsi altrettanto bene alla montagna del mondo. Notiamo il riferimento ai tempi primordiali, i piani mitici del mondo ordinati dopo i cieli fino nelle profondità della terra, all’albero della saggezza (albero della conoscenza) che s’identifica al mondo di cui rappresenta l’estensione; albero che riceve le benedizioni dall’alto (cima bagnata da bianchi vapori d’acqua) e da cui scorre la rugiada fecondante, albero-fontana le cui acque irrigano la valle del mondo. L’immagine ricopre a suo modo il mosaico del Laterano: per altro verso essa ci introduce ad una maggior comprensione dell’asse che attraversa la montagna sacra e della croce piantata sul Golgota.

L’Hom della tradizione iraniana è contemporaneamente vegetale e sorgente. Piantato alle origini da Ahura Mazda sul Monte Araiti, ha il suo prototipo nel cielo, l’hom bianco, pianta dell’immortalità che rigenererà l’universo. Le sue radici affondano in un lago dove si nasconde una lucertola che cerca di nuocere all’albero, replica del serpente Midhuigg che tenta, invece, di danneggiare le radici dell’Yggdrasil. L’hom iraniano è passato nell’iconografia occidentale sotto numerose forme più o meno riconoscibili, derivate per lo più dal tronco a doppia voluta.

Iran, epoca sassanide (VI-VII sec.):
Sciamito decorato da rotae o orbicoli contenenti due cavalieri che affrontati cacciano con l’arco

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine307-324 

Il Paradiso

Sezione: Studi


Fra i temi suscettibili di conferire la loro profondità ai simbolismi fondamentali, uno dei più importanti è quello del Paradiso. Ci interessa per più di un motivo: innanzitutto, perché da quasi tutte le tradizioni è avvicinato alla Montagna Sacra; poi perché corrisponde ad alcune espressioni plastiche ben definite proprie dell’iconografia religiosa.

La Montagna Sacra è un luogo di benedizioni; riceve più di ogni altro posto le piogge, simbolo del favore celeste; le distribuisce ai quattro angoli dell’universo attraverso la rete dei fiumi che scendono da essa; dà così la fecondità alla terra circostante; è l’ombelico primordiale e il centro vitale. E proprio questa ad essere emersa per prima dalle acque al tempo della cosmogonia originaria ed è su di essa che è apparso il primo uomo, da essa è disceso per andare a popolare l’universo e dargli vita con la sua attività. Inversamente, questa montagna è il luogo verso il quale gli uomini convergono e dove si riuniscono, in cerca del paradiso che hanno lasciato o dal quale sono stati cacciati. L’avventura umana è un ritorno difficile verso la Montagna Sacra delle origini, proiettata nell’avvenire della pienezza dei tempi.

La localizzazione del Paradiso ossessiona l’uomo da quando ne ha perso la strada. Miti e leggende si aprono un passaggio nella giungla dei simboli, alla ricerca del luogo sognato. Due sono i sistemi principali che si confrontano o si completano, poiché la simbologia si ride delle apparenti incoerenze: per alcuni, il paradiso è localizzato nell’estremo nord, là dove s’innalza la Montagna Sacra, soggiorno degli dei e perno del cielo; cosa che viene attestata, per esempio, dal Libro di Enoch. «Se si ricorda che gli scritti di Enoch erano assiduamente letti e copiati nel monastero di Qumrân allo stesso titolo di altre opere considerate ispirate e canoniche, è verosimile che, alla domanda che tormenta l’uomo da cinquemila anni: “Dov’è il paradiso?”, gli esseni rispondessero prontamente e fermamente: “Al nord, com’è scritto nei libri di Enoch, lo scriba di giustizia!”».

Carta mitica del Libro di Enoch (da P. Grelot)

I morti, che attendono il giorno della resurrezione, giacciono con la testa verso sud, contemplano la patria futura nel sogno di un sonno passeggero. Svegliati, si alzeranno con il viso rivolto verso il nord e s’incammineranno verso il Paradiso, la Montagna Sacra della Gerusalemme celeste. Nessuno, a quanto ci risulta, ha mai tentato di spiegare l’orientamento sud-nord di centoundici tombe essene di Qumrân. La soluzione che proporremo pare l’unica possibile. Gli altri ebrei e i cristiani giustificavano la disposizione est-ovest dei loro morti con la collocazione orientale che davano al paradiso (cf. J.T. Milik, Rivista Biblica, 1958, pag. 77). Paradiso a nord, Paradiso ad est… Fino all’epoca romanica il mondo, così com’era rappresentato dalle carte simboliche, prende la forma di una pera diritta; ritorna alla memoria la bella formula di Platone: «La terra, nostra nutrice, schiacciata strettamente intorno all’asse che attraversa il tutto…» (Timeo, 40 b). Sulla punta della pera è situato il Paradiso dell’est. Quando l’est cartografico, dopo molte esitazioni, ruoterà per occupare la destra, il Paradiso resterà più spesso in alto, tanto forte è la necessità simbolica che ne fa il luogo più alto della terra, legato alla verticale sud-nord e all’asse del mondo.

I progressi della cartografia e la sua evoluzione verso il rigore delle ricerche scientifiche si scontrarono per lungo tempo con l’incoercibile resistenza del simbolo. La carta del mondo di Gérard Kremer, detto Mercator (1512-1594), pone già i grandi insiemi continentali nei luoghi dei quali i planisferi più moderni non dovranno far altro che precisare contorni e distanze.

Carta di Mercatore

Tuttavia si constata, non senza sorpresa, che il polo artico è qui ancora concepito secondo l’antico simbolismo del Paradiso terrestre settentrionale occupato dalla Montagna assiale (Rupes nigra et altissima) che s’innalza al di sotto della Polare: questa Roccia s’eleva in mezzo ad un mare circolare ambrato e limitato da un largo anello di terra circondato da montagne; le acque di questo mare primordiale scorrono negli oceani conosciuti attraverso quattro bracci fluviali orientati verso i quattro punti cardinali. Cinque secoli prima, le carte del mondo avevano imposto questo taglio della terra, grazie ai mari concepiti come larghi fiumi, in quattro parti simboliche (o, qualche volta, nelle tre grandi parti del mondo conosciuto: Europa, Asia, Africa); il Paradiso originale e il mondo che ne era scaturito si corrispondevano attraverso il tempo e lo spazio.

Carta del mondo divisa in quattro parti (epoca romanica)

La carta di Mercator attesta la sopravvivenza di uno solo di questi due omologhi, il polo-Paradiso quadripartito, in un’epoca in cui si è dovuto rinunciare all’altro a causa di una migliore conoscenza delle grandi vie della terra e del mare.

Ma il problema non fu accantonato, e la scoperta del mondo che, allora, proseguiva ad un ritmo accelerato, relegando il Paradiso in regioni inaccessibili, non mise fine all’antica nostalgia. La mentalità di un Cristoforo Colombo che, un secolo prima (ottobre 1492), scopriva un nuovo continente e, risalendo il corso dell’Orinoco, s’aspettava ogni momento di veder sorgere, infine, la terra felice ove comincia il Paradiso… resta, e resterà per lungo tempo inalterata. A misura che le contrade inviolate del globo si aprono davanti a viaggiatori ed esploratori, si assiste ad una frenesia di ricerca in cui si mescolano le discipline e le preoccupazioni più diverse, il meglio e il peggio. Ci basti trascrivere il testo della Cosmografia universale di Sébastien Munster (edita nel 1559, e quindi contemporanea alla carta di Mercator), la quale fa il punto delle tesi più scientifiche dell’epoca: «Poiché il nostro proposito è quello di descrivere in questo libro tutto il cerchio della terra, il suo aspetto fisico e le regioni abitate, e poiché, d’altra parte, il Paradiso è un luogo determinato della terra, non è senza motivo che, all’inizio della nostra opera, ne faremo menzione, per domandarci dove dunque si trovava questo giardino di delizie al tempo dei nostri progenitori e se esiste ancora nel mondo attuale. Invero, i sapienti hanno su questo punto diverse opinioni, e non c’è quindi nessuno che non proponga una convinzione personale. In effetti, alcuni pretendono che il Paradiso sia situato verso l’Oriente, al di fuori del tropico del Capricorno e di quello del Cancro. Altri vogliono porlo nella zona equinoziale, in un luogo temperato. Altri ancora lo immaginano in un posto molto alto, separato dal nostro globo da una lunga distanza e che s’avvicina al cerchio della luna, al riparo da ogni evento atmosferico, dove non possono arrivare né il vento né le nuvole; affermano che è proprio là che Enoch ed Elia vivono col loro corpo. Una quarta categoria scrive che questo giardino, prima del diluvio, ha occupato qualche regione molto fertile dell’Oriente, come la Siria, Damasco, l’Arabia, l’Egitto…».

Sotto il regno di Luigi XIV (1638-1715) viene ordinato che l’Accademia Francese porti avanti un’inchiesta destinata a fare luce sulla situazione geografica di «questo luogo di delizie pieno d’alberi magnifici e di profumi squisiti». Daniel Huet, vescovo di Avranches, eminente membro del saggio consesso, ha l’incarico di occuparsene; di fronte alla proliferazione divergente delle soluzioni attestate, sembra che lo sfortunato sia stato parecchie volte preso dallo scoraggiamento. Il vescovo d’Avranches conclude il rapporto dando il suo parere personale: con saggezza e prudenza, si accontenta di spremere quanto più possibile i dati della Bibbia, interpretandoli alla lettera, secondo l’uso del suo tempo; questo lo portò a situare il Paradiso «sul canale formato dal Tigri e dall’Eufrate congiunti, fra il luogo della loro unione e quello della separazione delle loro acque, prima di gettarsi nel Golfo Persico», dunque, in una specie di isola fluviale stretta fra i due fiumi menzionati nel libro del Genesi.

Note bibliche concernenti il Paradiso

La Bibbia indica che «un fiume usciva dall’Eden per innaffiare il giardino, e di là si divideva per formare quattro bracci»; i nomi sono indicati: Fisone, Gione, Tigri ed Eufrate. Questa disposizione è quella dei fiumi che scendono dalla montagna, ma non bisogna vedervi un fatto di geografia generale! Questi fiumi, mentre partono dalla montagna per simboleggiare il movimento di emanazione e vivificazione, vi ritornano per simboleggiare il ritorno al Paradiso e il compimento di ogni cosa da parte del creatore. Su questo tema dell’exitus-reditus, emanazione-ritorno, si elaborerà una riflessione teologica. L’opera della creazione materiale, avendo la sua origine nel Paradiso terrestre, è l’immagine perfetta dell’opera della creazione spirituale e di quella della ricreazione universale richiesta dalle distruzioni del peccato e più ancora dalla vocazione trascendente di tutto il cosmo purificato per essere assunto nel mistero totale del Cristo. Intorno a queste riflessioni s’è sviluppata tutta un’iconografia. La loro origine comune dev’essere cercata nella stessa Bibbia.

Giovanni di Paolo: Cacciata dal Paradiso

Il capitolo 24 del libro dell’Ecclesiastico, a questo proposito, costituisce una chiave. E un grande discorso della Sapienza divina, che parla in prima persona. Appare nello stesso tempo presente in Dio da tutta l’eternità e parte attiva, con Lui, nell’opera di creazione. Dietro a questo personaggio misterioso si profila già la rivelazione della Sapienza incarnata e Verbo di Dio, nel quale e attraverso il quale tutto è stato realizzato; il Cristo Pantocratore, Figlio di Dio. Bisogna citare il passaggio: ci introdurrà nell’ambiente da cui dipendono le opere che spiegheremo poi. È la Sapienza che parla: «Sono derivata dalla bocca dell’Altissimo, e ho coperto la terra come un vapore (allusione a Genesi I, 2: la Sapienza è identificata con lo Spirito di Dio che plana sulle acque della creazione primordiale). Ho abitato nei cieli e il mio trono era su una colonna di nuvole. Ho fatto da sola il giro del cerchio dei cieli, ho percorso la profondità degli abissi (prerogative divine applicate al potere di creare)… Il creatore dell’universo mi ha dato un ordine, colui che mi ha creato mi ha fatto alzare la tenda. Mi ha detto: “Installati in Giacobbe” (la Sapienza scende dal cielo e va a stabilire la sua dimora fra i discendenti del patriarca che fu gratificato della visione di Béthel). Prima dei secoli, fin dalle origini, mi ha creato, e vivrò eternamente. Ho officiato alla sua presenza, nella tenda sacra: è così che mi sono stabilita a Sion e ho trovato riposo nella beneamara città, è così che esercito il mio potere in Gerusalemme» (XIVV, 3 segg.).

Terminato il discorso della Sapienza, l’autore comincia un parallelo fra la Sapienza e la Legge, che ci porta al centro del nostro tema. Per comprendere pienamenre la portata di questo passaggio, si può contemplare la scena evangelica della Trasfigurazione, in cui Cristo appare sulla Montagna della salvezza, in compagnia di Mosè: si presenta come il nuovo Mosè che dà al mondo la Legge definitiva, nella sua qualità di Sapienza incarnata. Il testo spiega che la Legge, come la Sapienza, dà esistenza e vita al mondo: è una specie di rilettura del racconto della prima creazione, nella quale si scopre il simbolo della nuova creazione trasfigurata. Innanzitutto, la Legge viene mostrata come l’unica origine del Paradiso, da dove scorre il fiotto vivificante delle qualità-virtù principali: «Tutto questo non è altro che il libro dell’Alleanza dell’Altissimo Dio e della Legge (ricevuta sul Sinai) promulgata da Mosè, lasciata in eredità alle assemblee di Giacobbe. È questa che ha fatto si che la Sapienza abbondasse come le acque del Fisone, come il Tigri nella stagione dei frutti (fecondità), che fa abbondare l’intelligenza come l’Eufrate…; che fa scorrere la scienza… come il Gione nel giorno della vendemmia… I suoi pensieri sono più vasti del mare, i suoi disegni più grandi dell’abisso. Ed io (qui è il saggio, portavoce della Sapienza, che parla) sono come un canale nato da un fiume, come un corso d’acqua sono uscito verso il Paradiso (reditus, ritorno al Paradiso, senza dubbio per prendervi l’acqua da spandere dopo, exitus)… Ed ecco che il mio canale è diventato fiume e il fiume è diventato mare». Le prospettive s’allargano sempre più, si lascia intravvedere l’era del compimento; quest’era è concepita come una vasta creazione nella luce e attraverso essa: «Farò splendere la scienza dell’aurora, porterò lontano la sua luce». Il tema della Sapienza Fiume delle acque della Vita e Luce viene dal Paradiso originale; tenderà all’Agnello che troneggia al centro della Gerusalemme celeste, nuovo santuario del nuovo Paradiso. Tuttavia, la Sapienza s’è svelata agli occhi degli uomini… E apparsa fra noi nel mistero di colui che ha rivelato di essere il nuovo Tempio, il Cristo Pantocratore.

Sotto l’antica Alleanza, tutto era già pronto. Il Tempio di Gerusalemme s’innalzava sul monte Moriah, una delle alture del monte Sion. La più probabile etimologia del termine Sion è seja, di origine hurrita, che significa: acqua, fiume; si adatta bene al motivo della fontana di Gihon che zampilla ai piedi della collina sud-est di Gerusalemme. «Dal Moriah provenivano quattro ruscelli sacri che si pensava uscissero, per comunicazione sotterranea, dalla sorgente d’acqua viva che zampillava sotto il Tempio. Uno di questi, scorrendo verso nord, si chiamava Gihon; era il nome di uno dei quattro fiumi dell’Eden. In questo modo si ritrova sul monte Sion la configurazione della Montagna primordiale che porta il Paradiso e i suoi quattro fiumi» (Hani 132).

Riguardo a ciò, l’Apocalisse ci fa contemplare la grandiosa visione degli eletti «davanti al trono di Dio, servendolo giorno e notte nel suo tempio; e colui che siede sul Trono stenderà su di essi la sua Tenda» (cap. VII). L’Agnello che siede sul trono (versetto 17) «sta sul monte Sion» (XIV, 1) e «dal suo trono zampilla il fiume di vita, limpido come cristallo. Al centro del luogo, da una parte e dall’altra del fiume, ci sono degli alberi della Vita» (XXII, 1-2), così come al centro del giardino dell’Eden si vedevano l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male (Genesi II, 9 e III, 3, ripreso in Ezechiele XLVII, 12).

L’iconografia del Paradiso

Tutti questi elementi sono radunati nell’affresco che orna la volta del vestibolo della chiesa di San Pietro al Monte a Civate, databile alla prima metà del sec. XII.

Civate, San Pietro al Monte – Affresco: Paradiso

Al centro, il Cristo Pantocratore troneggia sul globo del mondo. Davanti a lui, il suo emblema: l’agnello. Nella sinistra, il Libro sul quale si legge l’iscrizione abbreviata: «SI QUIS SITIS VENIAT, se qualcuno ha sete, venga a me (e beva)» (Gv. VII). Da una parte e dall’altra, i due alberi del Paradiso. Cristo siede in mezzo alla Gerusalemme celeste, quadrata, con tre porte su ogni lato; all’interno di ogni porta appare un personaggio, poiché queste porte sono in relazione con le dodici tribù di Israele e, nello stesso tempo, con i dodici Apostoli (Apocalisse XXI, 10-14). Il fiume della vita che scorre dal trono ha permesso di non rappresentare i quattro fiumi paradisiaci, che ne sono i quattro rami; essi sono stati dipinti un po’ più lontano, su di una volta laterale.

Si potrebbero citare numerosissime varianti; ognuna mette l’accento su un punto piuttosto che su un altro. Illustrano preferibilmente il fatto che i fiumi che si dirigono verso i quattro punti cardinali riempiono tutto l’universo. È il caso della rilegatura in cuoio dorato conservata al Museo di Cluny (arte mosana della metà del sec. XII).

Parigi, Museo di Cluny – Tavola di legatura in cuoio dorato: Paradiso

Nell’anello centrale si vede l’Agnus Dei con lo stendardo la cui asta è sormontata dalla croce. Il piano è diviso, come il mondo, in quattro settori occupati dai fiumi: sulle bordure inferiore e superiore si leggono i loro nomi. I fiumi sono seduti su un arco coperto da scaglie (è uno dei simboli iconografici della montagna). Gli steli vegetali che escono dai loro berretti o da dietro simboleggiano la fecondità che portano dovunque scorrono. Il resto dell’iscrizione si legge a sinistra e poi a destra: FONS PARADISIACUS PER FLUMINA QUATOR EXI(T), la fontana del Paradiso si ramifica in quattro fiumi -H(A)EC QUADRIGA LEVIS TE XTE PER OMNIA VEXIT, questa quadriga (antico carro trainato da quattro cavalli), o Cristo, ti porta leggera dappertutto. L’iscrizione che circonda il medaglione centrale indica che, attraverso l’irradiamento del suo sacrificio, l’Agnello è fonte di vita per il mondo: CARNALES ACTUS TULIT AGNOS HIC HOSTIA FACTU, quest’agnello ha portato i peccati, si è fatto vittima. Si noti la doppia allusione, da una parte ai poemi del Servitore (languores nostros ipse tulit, sono le nostre sofferenze che ha preso su di lui, Isaia LIII, 4), e dall’altra all’Agnus Dei qui tollis peccata mundi (Agnello di Dio che togli – o porti- i peccati del mondo, espressione con cui il Battista designa Cristo, nel cap. I del Vangelo secondo Giovanni). Ai secoli seguenti piacerà rappresentare l’Agnus tamquam occisus, l’Agnello sgozzato, dall’Apocalisse (cap. V), che spande il suo sangue in quattro fiumi che andranno a bagnare l’universo: di qui, si passerà al tema del Frantoio mistico, che mostra Cristo come un grappolo sotto il frantoio il cui succo eucaristico cola sul mondo per purificarlo e riscattarlo. Il sec. XII è più sobrio.

Nell’iscrizione precedente, il termine importante è l’HIC rimanda innanzitutto all’Agnello disegnato e, in questo senso, si potrebbe tradurre con «l’Agnello che è qui». Ma ha anche un’altra profondità: un po’ come le icone, le rappresentazioni medievali di questo tipo sono concepite quasi per rendere presenti gli uni agli altri gli aspetti complementari del mistero che rappresentano: permettono ai simboli di giocare il loro ruolo di solidarizzazione di realtà molto diverse. HIC designa allora il luogo sacro, situato sulla montagna centrale dalla quale scendono i fiumi, al centro del Paradiso, ma in quanto luogo del sacrificio redentore dell’Agnello. Nell’ordine locale, corrisponde all’in illo tempore (in quel tempo) dell’ordine temporale. La porta del Paradiso, chiusa con il peccato, è stata riaperta dal Cristo che ha dato la sua vita sulla croce, quando ha detto al buon ladrone: «Oggi sarai con me in Paradiso». Il motivo è dato dal fatto che la croce redentrice è posta sull’altura del Golgota, la montagna della salvezza definitiva e perfetta, localizzata al centro del mondo, e quindi al centro del Paradiso: è l’albero della vita recuperato. Da molto tempo le tradizioni rabbiniche riportavano che l’uomo era stato creato in Paradiso, chiamato «ombelico del mondo»; era là che era morto per il suo peccato; si sapeva che Adamo era seppellito là, sotto la roccia del Tempio di Gerusalemme. Le apocalissi ebraiche e il midrash precisano volentieri che Adamo è stato forgiato con del fango proprio a Gerusalemme; è là che dev’essere di nuovo bagnato con il sangue del Cristo redentore che cola su di lui dall’alto della croce. Così, in questo luogo unico e totalizzante, appare il nuovo Adamo, la nuova umanità salvata da un diluvio abolito per sempre, e che riprende a vivere sul monte Sion della Gerusalemme degli ultimi tempi, al centro del nuovo mondo.

Il Libro di Adamo fa eco a queste tradizioni. Adamo ordina al figlio Seth di seppellire il suo corpo dopo il diluvio che sta per arrivare. Poiché «il luogo dove riposa il mio corpo è il centro della terra, e Dio andrà là per salvare tutta la nostra razza». Poi, dopo il diluvio, quando la bara del primo uomo sarà uscita dall’arca, si fa sentire di nuovo la voce di Adamo: «Il Verbo di Dio andrà nel paese dove noi andiamo; là egli vivrà, e sarà crocefisso sul punto dove riposa il mio corpo, in modo tale che la mia testa sarà innaffiata dal suo sangue».

La carta del mondo assume allora il suo vero significato. Il disco terrestre è perfettamente rotondo: è limitato all’esterno dal bordo dell’oceano, come nelle antiche cosmografie; in quesre acque fluttuano medaglioni che rappresentano le principali isole conosciute all’epoca, pittoreschi battelli, sirene, mostri marini, piovre, pesci grandi e piccoli. Una rappresentazione schematica tradizionale dispone i paesi, i fiumi e le montagne: realtà e finzione si mescolano liberamente. Il posto lasciato, nella parte inferiore, alla Spagna e alla Francia rivela che il miniatore abitava in queste regioni. Gli altri paesi menzionati sono quelli delle strade di pellegrinaggio verso la Terra santa, quelli segnalati nel Nuovo Testamento e nelle leggende che da esso discendono. Gerusalemme è posta poco al di sopra del centro del mondo; Adamo ed Eva sono ancora più in alto, in un cartiglio divisorio; vicino a loro, l’albero del Paradiso, intorno al quale s’arrotola il serpente: il Paradiso e la caduta originale.

Parigi, Bibliothèque Nationale – NAL 2290 (Beatus), f. 13v-14r: Carta del mondo

Gerusalemme non è esattamente al centro del mondo: la città santa degli ebrei ha fatto posto al nuovo centro del mondo cristiano, Roma, che vediamo occupare, in rapporto al centro del disco, un luogo simmetrico a quello di Gerusalemme: l’antica Gerusalemme prefigurava quella nuova di fronte alla quale, alla fine dei tempi, Roma scomparirà. In questo modo, vediamo Gerusalemme e Roma trasportate ambedue nel luogo e nel tempo sacro, e le vediamo beneficiare simultaneamente del privilegio di occupare il centro assoluto del mondo religioso, il punto in cui si opera la salvezza degli uomini: HIC. Lo sviluppo cristiano della Storia non è altro che la storia di queste tappe: il Paradiso terrestre e la caduta dei nostri progenitori, la Gerusalemme dell’Antico Testamento, depositaria delle Promesse e dell’Alleanza, Roma, la città santa della Chiesa fondata da Gesù Cristo per essere il centro della nuova Alleanza, infine la Gerusalemme celeste, che dalla fine dei tempi attira ogni cosa verso il suo definitivo compimento.

Un mosaico dell’abside delia basilica del Laterano, a Roma, offre una notevole sintesi delle concezioni simboliche incontrate nelle pagine precedenti. Risale al sec. XIII, ma riproduce un’opera della Chiesa primitiva. La croce della salvezza è piantata sulla Montagna del paradiso; ai suoi piedi zampilla in un piccolo lago la sorgente di vita, da dove l’acqua scorre attraverso i quattro fiumi con il nome inscritto: vi si abbeverano dei cervi, simbolo tradizionale delle anime assetate di Dio, secondo un versetto del Salmo 41: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima anela a te mio Dio»; queste acque vivificano alcune piante ed animali che rappresentano tutta la creazione. Nelle profondità della montagna, il cherubino (rappresentato da san Michele) posto da Dio alla porta del Paradiso per impedirne l’accesso, brandisce la spada e veglia davanti ad una città circondata da mura: la Gerusalemme dell’Antico Testamento (immagine del limbo); al di sopra delle mura, si scorgono le anime dei giusti con l’aureola, che aspettano che il sangue redentore, colando su di loro, le purifichi e apra loro le porte del nuovo Paradiso, la Gerusalemme celeste. Sopra la città, si innalza il fogliame rigoglioso dell’albero della vita, nel quale è posta la fenice, tradizionale simbolo paleocristiano della resurrezione. Sopra la grande croce gemmata – che corrisponde all’albero della vita – corrispondente a sua volta alla fenice, appare la colomba dello Spirito Santo ricreatore e vivificatore, mentre plana sulle acque della nuova Genesi che viene operata allora. Le comunicazioni con il cielo sono ristabilite. Le linee discendenti dell’influsso della grazia divina emanate dallo Spirito Santo avviluppano la croce come una pioggia di benedizioni celesti e perfezionano il profilo della montagna che tocca il cielo.

Roma, Basilica Lateranense – Mosaico: Croce della salvezza

Il Pastore di Erma (sec. II d.C.) descrive la Chiesa come una torre che s’innalza nelle acque del battesimo e le cui pietre sono i credenti. Al centro della croce architettonica del mosaico del Laterano, di cui la torre di Erma è una variante simbolica, un medaglione rappresenta il battesimo di nostro Signore nel Giordano.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx  
PubblicazioneI simboli del medioevo
Editore (Collana) /Numero, fasc.Jaca Book
LuogoMilano
Anno1981
Pagine216-234

La creazione

Sezione: Lessico


La creazione del mondo ad opera di Dio è oggetto di una celebre pagina del libro della Genesi (Gn 1). Essa si svolge in un periodo di sei giorni, mentre il settimo è dedicato al riposo del Creatore.

La creazione dell’uomo e della donna, nel giardino dell’Eden, è il tema di una se­conda narrazione (Gn 2). In epoca romanica, le diverse fasi hanno fatto nascere una ricca iconografia.

Iconografia

1° giorno: la creazione della luce

Gerona, Tesoro della Cattedrale – Arazzo della Creazione: la luce

«Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: Sia la luce! E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre». La tradizione cristiana ha vi­sto in questo passo la prima manifestazione dello Spirito Santo nella Bibbia. In un paliotto d’avorio della cattedrale di Salerno (XI secolo), lo Spirito di Dio è rappresentato da una colomba che si libra fra due dischi re­canti rispettivamente le iscrizioni Lux e Nox; gli Angeli s’inchinano davanti al Creatore. In una miniatura del manoscritto della cele­bre badessa Herrat di Landsberg, l’Hortus Deliciarum, la luce e le tenebre sono simbo­leggiate da due geni, di cui uno è illuminato dal sole e l’altro dalla luna.

2° giorno: la separazione delle acque

«Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento; e chiamò il firma­mento cielo».

Nell’Hortus Deliciarum, il cielo e le ac­que sono personificati, come lo erano la luce e le tenebre: il cielo è rappresentato come un dio dalle vesti svolazzanti che cavalca un grifone, spinto dai quattro venti che portano la pioggia e la neve; l’acqua si identifica con Nettuno, che è armato di tridente e ha in mano un pesce; in questa composizione è evidente l’influsso dell’arte greca antica.

3° giorno: la creazione della terra e dei mari

«Le acque che sono sotto il cielo si raccolga­no in un solo luogo e appaia l’asciutto. (…) Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. (…) Dio disse: La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie».

4° giorno: la creazione del sole e della luna

«Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle».

Gerona, Tesoro della Cattedrale – Arazzo della Creazione: i due luminari, Sole e Luna

Il terzo e il quarto giorno della Creazione sono rappresentati insieme negli affreschi della chiesa di Saint-Savin-sur-Gartempe. A sinistra, Dio indossa una lunga veste ed è coronato da un nimbo crucifero – è il Cristo –; ha nella destra un covone di grano, simbolo della vegetazione che comincia a spuntare non appena la Terra è creata. Sulla destra della composizione, l’Eterno mostra la luna e il sole, raffigurati in maniera antropomorfa da due teste iscritte ciascuna entro un meda­glione. Molti strani alberi sui quali crescono fiori a forma di funghi indicano l’abbondanza di vegetazione del Paradiso.

Saint-Savin-sur-Gartempe, Chiesa abbaziale – Affresco: creazione del sole e della luna

5° giorno: la creazione degli animali

«Le acque brulichino di esseri viventi e uc­celli volino sopra la terra, davanti al firma­mento del cielo. Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro spe­cie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie». Nell’Hortus Deliciarum, Dio, con le mani tese, cammina maestoso sulle acque popolate di pesci.

6° giorno: la creazione dell’Uomo e della Donna

«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagi­ne di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Ma a questo punto subentra il secon­do capitolo del libro della Genesi: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente», e più oltre: «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò, con la costola che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo» (Gn 2,7.21-22).

Ovviamente, è questa la sequenza più rappresentata di tutto il ciclo della Creazio­ne. Per primo viene creato Adamo, il cui ap­parire è illustrato da numerosissime opere di epoca romanica. Nell’Hortus Deliciarum, Dio infonde la vita alla sua creatura. In un capitello del chiostro di Elne, le gambe di Adamo sono ancora prigioniere nell’argilla, mentre in un affresco della chiesa di Château-Gontier, l’uomo, disteso sul dorso, le mani giunte, apre gli occhi alla luce; una lunga linea, simbolo del soffio animatore, unisce alla sua la bocca del Creatore. Trovia­mo la creazione di Adamo anche in un bassorilievo della porta degli Orafi a Santiago de Compostela.

Santiago de Compostela, Cattedrale – Porta degli Orafi: creazione delluomo

La creazione di Eva, nata dal fianco di Adamo, è molto meno rappresentata di quel­la del suo compagno. È resa in maniera fede­le al testo biblico sull’architrave del portale della chiesa di Andlau, in Alsazia, su un capitello del chiostro di Elne o, ancora, in un affresco di San Giovanni a Porta Latina a Roma.

Andlau, Chiesa abbaziale di San Pietro e Paolo – Portale: Dio crea Eva dalla costola di Adamo

Roma, Basilica di San Giovanni a Porta Latina – Affresco: creazione della donna

A Saint-Savin-sur-Gartempe, invece, l’artista si è preso qualche libertà ri­spetto alla lettera della Genesi: Dio infatti si china per prendere il corpo della Donna che sembra strappare al suolo.

7° giorno: il riposo

Gli artisti medievali hanno dedotto dal rac­conto biblico che Dio, dopo la Creazione, fosse stato preso da una profonda stanchez­za. In un capitello della cattedrale di Mon­reale, il Creatore è seduto, stanco, con le mani sulle ginocchia, mentre in una scultura di una finestra della cattedrale di Laon arri­va ad addormentarsi, sfinito, con la testa ap­poggiata al bastone. Il ciclo completo della Creazione è stato rappresentato in un celebre arazzo di Gerona. Qui il Creatore è al centro della compo­sizione, mentre le diverse fasi della sua ope­ra si susseguono entro medaglioni disposti in cerchio attorno a lui; la lettura di questi ultimi si effettua in senso orario. In ciascun angolo dell’arazzo, sta un Angelo che suona la tromba, a cavallo di un otre che simboleggia uno dei quattro fiumi del Para­diso. Il bordo è decorato coi lavori dei cam­pi. L’insieme dimostra una grande ricchezza d’immaginazione e freschezza d’invenzione, tanto nella scelta dei motivi quanto in quella dei colori.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 133-136

Daniele

Sezione: Lessico


Fonti

A Daniele, uno dei grandi profeti dell’Anti­co Testamento, è dedicato un intero libro della Bibbia. Esule a Babilonia dopo la conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, vive a corte dove conquista il favore del principe. È il protagonista di mol­ti episodi leggendari dai quali è nata una ric­chissima iconografia.

Beaulieu-sur-Dordogne, Abbazia di San Pietro – Facciata, rilievo: Daniele

Anzitutto, Daniele è l’unico che riesce ad interpretare un sogno che spaventa il re, divenendo così intimo del monarca (Dn 2,1-49).

Segue l’episodio dei tre giovani Ebrei, uno dei quali è Daniele, gettati nella fornace. Il re ha affidato loro il governo della provin­cia di Babilonia, ma essi si rifiutano di ado­rare gli dei del luogo, come pure una statua d’oro eretta dal sovrano. Gettati nella forna­ce per ordine di Nabucodonosor, i tre ven­gono risparmiati dalle fiamme. «Sopra i loro corpi il fuoco non aveva avuto nessun potere e neppure un capello del loro capo era stato bruciato, (…) e neppure l’odore del fuoco era penetrato in essi» (Dn 3,94). La tradizio­ne cristiana vede in questo brano l’immagi­ne dei morti che Dio protegge dalle fiamme dell’Inferno.

Daniele spiega al re un secondo sogno, nel quale quest’ultimo ha visto un grande al­bero completamente distrutto, ad eccezione delle radici. Secondo il profeta, l’albero è simbolo del monarca, precipitato dal trono e spogliato della sua gloria finché, attingendo la fede dalle radici rimaste intatte, ricono­scerà Dio (Dn 4).

Viene poi il banchetto durante il quale Baldassarre, che pretende a torto di essere il figlio di Nabucodonosor, profana alcuni vasi sacri del Tempio di Gerusalemme: Daniele decifra un’iscrizione apparsa prodigiosamen­te, che annuncia la rovina di Baldassarre e del suo regno. La notte seguente, Babilonia è presa da Dario, re dei Medi (Dn 6). La tradi­zione ha assimilato il re empio all’Anticristo.

Uno degli episodi più noti della storia del profeta è quello della fossa dei leoni, ripreso due volte nel libro, che lo colloca pri­ma all’epoca di Dario (Dn 6), poi a quella di Ciro (Dn 14). I due racconti sono simili: avendo infranto un decreto reale che proibi­sce, per trenta giorni, di pregare un dio o un uomo che non sia il re, Daniele, rimasto fe­dele al Dio degli Ebrei, è gettato alle fiere; ma l’Onnipotente gli manda un Angelo che chiude le fauci dei leoni «che non gli hanno fatto alcun male, poiché davanti a Lui è sta­to trovato innocente». Durante la perma­nenza nella fossa, Daniele è stato nutrito dal profeta Abacuc: quest’ultimo stava per an­dare a portare il cibo a dei mietitori, quando un Angelo lo aveva preso per i capelli depo­nendolo a Babilonia, di fianco al prigionie­ro; i Cristiani hanno interpretato la scena co­me un simbolo dell’Eucaristia. Alla fine, il sovrano libera Daniele e getta nella fossa i suoi accusatori, che vengono immediata­mente fatti a pezzi dalle fiere. Il libro ag­giunge che «Daniele prosperò durante il regno di Dario e il regno di Ciro il Persiano» (Dn 6).

Daniele è celebre anche per le sue visio­ni, riprese in parte da Giovanni nell’Apoca­lisse. Il profeta vede quattro animali che escono dal mare: un leone, un orso, un grifo­ne e un’idra a dieci corna (Dn 7); Dio gli ri­vela che si tratta di quattro re, l’ultimo dei quali, il più potente, opprimerà «i santi del­l’Altissimo»; ma verrà il Giudizio e il suo do­minio sarà abbattuto. Poi, Daniele vede in sogno un montone nel fiume e un capro che viene dall’Occidente, con «un grosso corno fra i suoi occhi» (Dn 8).

Madrid, Biblioteca Nacional de España – Ms. Vit. 14-2 (Beatus di Facundus): visione di Daniele del capro e dell’ariete

In epoca relativamente tarda, il libro di Daniele è stato arricchito dalla storia di Su­sanna e dei vecchi. La giovane donna, sor­presa al bagno, respinge le profferte dei due libertini che, per il dispetto, l’accusano di avere un giovane amante; il profeta, chiama­to a risolvere la questione, dà un giudizio che smaschera i due colpevoli.

Per i Cristiani, il personaggio di Daniele prefigura Cristo. La permanenza nella fossa dei leoni è paragonata alla discesa agli Inferi del Salvatore, dopo la Crocifissione. Inoltre egli trionfa sulle fiere, come Gesù domina Satana.

Iconografia

Nell’arte medievale, il profeta ha l’aspetto di un giovane imberbe, che porta il berretto frigio dei Babilonesi; suoi attributi sono i leoni della fossa e il montone della visione apocalittica.

In età romanica gli sono stati dedicati molti cicli figurativi: nel manoscritto di Saint-Sever, il commento di san Gerolamo al libro di Daniele è illustrato dettagliatamen­te, seguendo il commento del Beatus all’A­pocalisse; la stessa cosa accade per molti ma­noscritti del Beatus. Cicli narrativi notevoli sono anche quelli delle miniature della Bib­bia di Roda e dei bassorilievi della facciata della chiesa di Ripoll. Esaminiamo le diverse scene della vita del profeta.

1. I tre giovani Ebrei nella fornace

Nel trattare questo tema, gli artisti romanici si sono ispirati all’arte delle catacombe; di solito, i tre indossano il costume mesopotamico, composto da brache e berretto frigio. In alcuni capitelli della chiesa di Saint-Pierre a Moissac e della cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, un Angelo inviato da Dio li pro­tegge dall’azione mortale del fuoco mentre, in una miniatura della Bibbia di santo Stefa­no Harding, è Cristo in persona che li pren­de sotto la sua protezione. Ad Autun, si ve­de anche un diavolo che si dispera vedendo­si sfuggire la preda. A Moissac, l’artista ha istituito un rapporto simbolico fra i tre mar­tiri e le tre Persone della Trinità: sull’abaco del capitello, alcuni Angeli affrontati sorreg­gono dei medaglioni con una figura umana, un agnello e una colomba, immagini rispetti­vamente del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. L’autore delle miniature della Bibbia di Roda ci dà un saggio di realismo un po’ ingenuo: i carnefici attizzano il fuoco con dei mantici. La scena compare anche in un bassorilievo della chiesa di Saint-Phal a Gyl’Évêque, nella Yonne.

2. Daniele nella fossa dei leoni

Per ragioni di simmetria, gli artisti rappre­sentano quasi sempre un numero pari di leo­ni, mentre il testo parla di sette. Nella maggior parte dei capitelli romanici la composi­zione, molto semplice, presenta il profeta tra due belve.

Le fiere affrontate attorno ad un perso­naggio sono un motivo la cui origine risale all’antichità orientale, e che è stato creato per illustrare il ciclo dell’eroe sumero Gilgamesh. La stessa rigorosa simmetria si incontra anche nell’arte persiana, che ha moltiplicato i personaggi attorno all’albero sacro di Hom, a cui si sono ispirate le rappresentazioni di Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden. Come abbiamo visto, l’episodio è riportato due vol­te nel libro di Daniele: la Bibbia di Roda e i capitelli del chiostro di Moissac ne presenta­no entrambe le sequenze, cosa eccezionale nell’arte romanica: nel primo capitello di Moissac, il profeta, con le braccia alzate, prega fra le due belve che lo guardano senza osare avvicinarsi; nel secondo, è seduto in mezzo a sei fiere.

Moissac, Saint-Pierre – Capitello: Daniele nella fossa dei leoni

In un capitello della chiesa di Saint-Eutrope a Saintes, Daniele è nell’atteggiamento dell’orante cristiano, fra i leoni che gli leccano i piedi. Il profeta è nella stessa posizione su di un capitello di Varen, nella Linguadoca, e anche a San Pedro de la Nave, in Spagna.

Varen, Chiesa di San Pietro – Capitello: Daniele nella fossa dei leoni

San Pedro de la Nave, Chiesa – Capitello: Daniele nella fossa dei leoni

3. Daniele nutrito da Abacuc

La scena, molto rara nell’arte romanica, si trova tuttavia ad Autun e a Moissac. Nel primo caso, il profeta è seduto sotto un arco che rappresenta la fossa dei leoni; due teste di fiere sovrapposte lo fissa­no; dall’altro lato di Daniele, Abacuc, solle­vato da un Angelo, porta il cibo.

Autun, Cattedrale di San Lazzaro – Capitello nord: il profeta Abacuc, afferrato da un Angelo, porta da mangiare a Daniele nella fossa dei leoni

A Moissac la composizione è abbastanza simile: l’ange­lo prende per i capelli Abacuc, che ha in spalla due ceste di viveri; una volta compiu­ta la sua missione, il profeta vivandiere torna in Giudea.

4. Il sogno dell’albero abbattuto

Il soggetto è ancora più raro del precedente, tuttavia è illustrato da una miniatura della Bibbia di Roda.

5. La punizione di Nabucodonosor trasformato in bestia

La punizione del re troppo orgoglioso è sta­ta diffusa dai manoscritti dei commenti all’Apocalisse di Beatus di Liébana, in particolare nel Beatus di Astorga.

Un capitello del chiostro di Moissac è interamente dedicato a questo tema. Sulle quattro facce compaiono, in successione:

  • Nabucodonosor prima della punizione: il re, incoronato, assiso in trono fra i suoi con­siglieri, sotto delle arcate fiancheggiate da torri che simboleggiano il suo palazzo;
  • la città di Babilonia, simboleggiata da ba­stioni;
  • la punizione: Nabucodonosor è stato tra­sformato in un quadrupede mostruoso; con­serva però la testa umana, sempre coronata, e bruca l’erba, a quattro zampe; l’artista ha insistito di proposito sul carattere derisorio della sua nuova condizione; di fianco all’animale, un Angelo annuncia la punizione;
  • Nabucodonosor recupera il trono dopo essersi umiliato: il suo nome è inciso sul car­tiglio che tiene in mano trionfalmente per indicare la dignità ritrovata.

Nella Bibbia di Roda, la scena della pu­nizione è molto simile: il re nudo, con lunghi capelli e artigli ai piedi, cammina a quattro zampe accanto a un bue che bruca.

Immagini dello stesso tipo si trovano in molti capitelli, nelle chiese di Saint-Gaudens, Saint-Benoît-sur-Loire, Saint-Hilaire di Foussay nel Poitou, o ancora a Bourg-Ar­gentat.

6.   Il convito di Baldassarre

L’episodio è illustrato dagli artisti medievali in maniera molto convenzionale. È una sce­na di banchetto, nella quale si riconoscono il re, per la corona, e il profeta, per il gesto della mano che indica l’iscrizione misteriosa. La troviamo nell’Apocalisse di Saint-Sever, nella Bibbia di Farfa e in un capitello della tribuna del nartece di Vézelay.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 141-145

Giona

Sezione: Lessico


Fonti

Giona è uno dei dodici profeti «minori» della Bibbia. Il libro che ne porta il nome è il racconto dell’avventura della sua predicazione a Ninive, la grande città pagana. Il profeta riceve da Dio l’ordine di andarvi per annunciare agli abitanti l’imminente castigo. Giona si rifiuta di obbedire e fugge per mare nella direzione opposta. Ma l’Eterno scatena una tempesta che mette in pericolo la nave. A questo punto, Giona confessa di esserne la causa e i marinai lo gettano in mare, dove viene inghiottito da un mostro marino, nel cui ventre passa tre giorni e tre notti. Dopo essersi pentito, viene ributtato dall’animale sulla spiaggia. Finalmente, si decide ad andare a Ninive per annunciare, secondo il comando di Dio, la distruzione della città. Ma gli abitanti si pentono e sono risparmiati. Giona, furioso per essere stato sconfessato, lascia la città e si rifugia all’ombra di un ricino che Dio ha fatto spuntare per proteggere dal sole la sua testa calva. Quando l’Onnipotente fa seccare l’albero, che così non può più fargli ombra, il furore di Giona raddoppia; ma Dio l’invita a chiedersi perché si addolori per la morte di un arbusto, lui che si disinteressa di quella degli abitanti di Ninive… Dio non agisce così!

Le origini del racconto sono antiche e molteplici: in particolare, i Greci hanno conosciuto il mito dell’eroe inghiottito da un mostro e poi restituito alla luce.

La tradizione ha trattenuto soprattutto l’episodio del mostro marino, del quale i popoli del Libro hanno dato un’interpretazione che si pone nel solco di questo tema universale. Per gli Ebrei, Giona incarna il popolo d’Israele divorato dal «drago» babilonese e tornato in libertà per l’intervento divino; per i Cristiani, l’avventura del Profeta prefigura la sepoltura di Cristo, seguita, dopo tre giorni, dalla Risurrezione dai morti. Il parallelo è stato spiegato da Matteo (12,40): «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Iconografia

Nei primi secoli dell’era cristiana, il ciclo di Giona è stato spesso rappresentato. In questo periodo, il profeta appare come un giovane imberbe e nudo. In seguito, nel Medioevo, la tipologia cambia: prima di essere divorato, egli è vestito e ha lunghi capelli. Appare così in una vetrata di Augsburg, in Baviera; ai suoi piedi, si apre la gola del mostro marino.

Augsburg, Cattedrale – Vetrata: il profeta Giona

Una volta risputato, ha perso abiti e capelli. La nudità e la calvizie esprimono, in maniera simbolica, la sua purezza e la ritrovata innocenza. Giona, durante la permanenza nel ventre dell’animale, si è in un certo senso rigenerato.

Fra le opere romaniche in cui è illustrata la storia di Giona, troviamo un medaglione del paliotto smaltato di Klosterneuburg, opera dell’orafo lorenese Nicola di Verdun. Questo medaglione è accanto ad una rappresentazione della Risurrezione di Cristo, il che indica la concordanza simbolica fra i due temi. I bassorilievi della facciata della chiesa di Ripoll, in Catalogna, dedicano molto spazio al libro di Giona. In essi vediamo, in particolare, la mano divina che ordina al profeta di partire per Ninive.

La scena rappresentata più frequentemente è quella in cui l’eroe è vomitato dal mostro. La troviamo, naturalmente, a Ripoll, ma anche in un’iniziale miniata della Bibbia di Admont, dove Giona, calvo, che emerge dalla gola del pesce, ha l’atteggiamento dell’oratore antico che si accinge a parlare. Nel manoscritto della badessa Herrat di Landsberg, l’Hortus Deliciarum, il mostro che vomita il profeta assomiglia ad un’enorme carpa.

Herrat di Landsberg, Hortus DeliciarumGiona vomitato dal mostro

Nella Bibbia di Saint-Bénigne di Digione, un’iniziale miniata presenta una geniale composizione: le due sequenze dell’episodio sono illustrate in due scene separate dalla barra orizzontale della E. Nel registro superiore Giona, caduto in mare tutto vestito, viene inghiottito dal mostro. Dietro di lui, quattro compagni rimasti sull’imbarcazione sono nell’impossibilità di soccorrerlo. Nella parte inferiore il profeta, nudo, esce dalla gola dell’animale e riceve la benedizione dalla mano di Dio. Una straordinaria rappresentazione si trova sul pannello di un pulpito conservato a Sessa Aurunca, in Campania.

Sessa Aurunca, Cattedrale di san Pietro – Pulpito: Giona e il pesce

Il mostro, gigantesco, insegue Giona e comincia a divorarlo dalle vesti; un’immagine simile, sempre su un pulpito, si trova a Ravello.

Nella chiesa alverniate di Saint-Pierre di Mozat vediamo uno dei pochi capitelli romanici con la raffigurazione dei due episodi: su una faccia, Giona è come infilato nella gola del pesce da uno degli uomini della nave.

Mozat, Saint-Pierre – Capitello: Giona inghiottito dal pesce

Contrariamente alla tradizione iconografica, è già nudo, e del suo corpo si vede ormai solo la parte inferiore, poiché la testa e il torso sono già stati divorati. Sull’imbarcazione un marinaio rema, mentre un altro membro dell’equipaggio si copre gli occhi con la mano per non assistere al terribile spettacolo. Su un’altra faccia del capitello, il profeta è rigettato dal pesce. Dietro di lui, si scorgono le mura di Ninive. L’artista ha rappresentato anche un arbusto, che allude certamente al seguito della storia, allorché Giona manifesta il proprio disappunto e Dio lo protegge all’ombra di un albero che cresce in una notte.

Mozat, Saint-Pierre – Capitello: Giona vomitato dal pesce

L’immagine del profeta che si ripara la testa calva all’ombra dell’albero è rarissima nell’arte romanica. Nella versione greca dei Settanta, la pianta protettrice è una cucurbitacea, mentre nella traduzione latina della Vulgata diventa un’edera. Ed è quest’ultima interpretazione che è stata accolta dagli scultori di Ripoll.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 234-236

Fregio a zig-zag: il simbolo romanico

Sezione: Lessico


Come ci ha confermato la testimonianza dei Dogon, l’acqua considerata in Africa come benefica, a causa della calura tropicale, è stata intuitivamente vista nell’arte romanica come simbolo della vita che rinasce, giacché questa deperisce, se essa manca. Si è dunque guardato al tracciato a zig-zag come alla figurazione degli alti e bassi della vita, e lo si è iscritto in orizzontale o in verticale, secondo le due linee che formano la croce. Nel primo caso, voleva dire porsi nella prospettiva terrestre; per esempio, sulla facciata di Saint-Jouin-de-Marnes (Deux-Sévres), i pellegrini si muovono verso la Vergine (la Chiesa) che cammina su una fascia a zig-zag orizzontale.

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Sulla stessa facciata, però, nella decorazione a rombi di pietra che fa da sfondo alle figure di Costantino e di Sansone col Leone, il fregio assume l’aspetto di un motivo verticale (tav. 86); ed è proprio nella prospettiva celeste così indicata che compare, alla sommità, il Cristo Giudice con la croce greca. Il segno verticale mostrava al cristiano che, una volta superate, come quegli eroi, le prove della vita su questa terra, egli si sarebbe potuto dirigere sia verso destra, dal lato degli eletti, sia verso sinistra: il segno aveva finito col complicarsi in relazione con l’idea delle «direzioni» e in relazione con la Y.

Ma non per questo era caduto in dimenticanza il simbolismo dell’acqua. Per esempio, un fregio a zig-zag orna l’acquasantiera di Saint-Paulien (Haute Loire), e un disegno ondulato a zig-zag su un capitello di Chanteuges fa da mare o da fiume alla barca di un vescovo: sta a significare il corso della vita. Ma, come a Saint-Jouin, bisogna osservare altresì le variazioni del motivo nelle restanti parti della chiesa. Il fregio a zig-zag verticale si presenta infatti sotto forma di intarsio di pietra nella zona del coro, soprattutto attorno alle due cappelle absidali, una delle quali contiene, tema unico e perfettamente visibile, gli uomini ravvolti dall’intreccio di uroboros, simboli del giovane e del vecchio, dell’eletto e del dannato, al pari degli uomini entro i racemi sugli stipiti della finestra assiale di Aulnay: ci troviamo insomma di fronte allo stesso significato di Saint-Jouin-de-Marnes.

Il fregio a zig-zag compare infine in una forma intermedia, intesa a stabilire un legame fra il cielo e la terra, nell’arco con coronamento a denti di sega, largamente diffuso nel Velay. A Chanteuges lo troviamo sul lato nord, quello tradizionalmente riservato al Giudizio, dove è stata, per essere precisi, incastrata una stele gallo-romana raffigurante un Priapo, al quale era attribuito un valore profilattico e che veniva chiamato Saint Coudiou. I denti di sega sull’arco in questione sono in numero di otto – il numero della vita futura.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 144-145

Fioroni: i fioroni delle cornici

Sezione: Lessico


Significato simbolico possono avere a volte, nella zona mesopotamica, anche i fregi posti in alto, sotto le cornici; è il caso del portale di León, dove temi paragonabili a quelli degli archivolti di Bourg-Argental sono presentati proprio nella maniera suddetta. Ma, dettaglio significativo, a parte alcuni Eletti inseriti entro delle scanalature concentriche, circolari, il coro degli angeli che accompagna David e i Segni dello zodiaco – che a Bourg-Argental appaiono iscritti rispettivamente entro dei medaglioni circolari e semicircolari – sono a León entro delle cornici quadrate o rettangolari.

In linea di massima questi fioroni, al pari di quelli degli architravi, non obbediscono a un preciso programma, e questo si spiega facilmente, data l’altezza a cui si trovano e la conseguente scarsa visibilità da parte dei fedeli. Sulla porta Miégeville sono tutti disposti alla stessa maniera, sulle mètope: si tratta di magnifiche margherite, pienamente sbocciate, che si ripetono sul fianco; quelle però che probabilmente formano un programma e completano il significato di questi fioroni sono le otto mensole che sorreggono la cornice. Bisogna leggere il tutto da sinistra a destra mettendolo in relazione con quella specie di svastica o di disco ruotante che disegnano i temi della porta: da Eva a Maria, cioè da destra a sinistra in basso, poi salendo, dal lato di san Giacomo fino al personaggio accovacciato, quindi il fregio da sinistra a destra e, infine, dal lato di san Pietro, di nuovo dal basso in alto. Si notano così, sulla linea orizzontale della parte alta, da sinistra a destra, l’uomo in groppa al leone, un grappolo d’uva, una serie di felini il sole, la luna, il capricorno con valore cosmico e un animale con la testa in basso. Assai significativi sono anche i tre ombelichi (3 = Cielo) a forma di spirale che scandiscono la cornice propriamente detta. L’insieme richiama il perpetuo movimento della natura e della vita: la nascita con l’animale a testa in basso, poi l’uomo col leone l’età adulta, quindi la morte con l’androfago e da ultimo il Cielo con gli astri che disegnano il movimento della spirale.

Quantunque non si tratti, a rigor di termini, di una vera cornice, la sommità della profonda nicchia in cui è collocato il Cristo col Tetramorfo, in alto, sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande a Poitiers, presenta in maniera più raccolta lo stesso significato dell’insieme delle mensole e delle margherite della cornice di Tolosa: le margherite propriamente dette sono qui inquadrate da due fregi vegetali complementari; al di sopra del Cristo, le figurazioni a mezzo busto del sole e della luna circondate da striature ondulate hanno un aspetto del tutto originale: il sole, nimbato, regge un albero cosmico a sette bracci simile al candelabro biblico del tempio di Salomone; la luna è accompagnata dall’animale falce crescente. Inoltre alle margherite si alternano, sui modiglioni, delle figure leonine: l’accostamento dei leoni, in quanto animali solari, ai fiori è un fatto frequente e risalente a tempi assai remoti. Nessuna di queste margherite è perfettamente identica alla sua vicina, ma costituiscono tutte altrettante variazioni sul tema della rosa dei venti, della stella cioè a otto raggi, il cui significato è piuttosto complesso. Può anche essere esclusivamente solare, come sembra esser qui, alternato a dei leoni; sul manoscritto di Beato conservato nel tesoro della cattedrale di Gerona vediamo infatti la donna rivestita di sole (Apocalisse, XII) coperta da un fiorone perfettamente simile; la mezzaluna è sotto i suoi piedi e le fanno da cornice delle stelle a otto raggi. Il ripetersi dei fiori solari e dei leoni sta a indicare il sole di Giustizia che splende eternamente. Più sopra, un fregio vegetale disegna delle specie di ellissi o delle mandorle successive: è un’allusione al livello celeste dell’aria acquosa o pesante, secondo Herrade di Landsberg, mentre i fioroni, alternativamente diritti e ripiegati, con le corolle volte in senso contrario agli steli, formano un tema maschile e, proprio per la suddetta posizione di «contrasto» delle corolle, intendono riferirsi, con ogni probabilità, all’etere invisibile.

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Segnaliamo anche le strane ruote a sei o sette raggi della interessante facciata di Echillais, nella Saintonge. Sembra che la ruota a sei raggi equivalente al crisma, sia un’allusione al Cristo onnipotente, «terribile coi malvagi», mentre quella a sette raggi rappresenta il Cristo «buono con i buoni», in relazione con tutti i significati benefici del numero sette. Inoltre, il sette opposto al sei evoca il valore superiore, sacro, che Pitagora riconosceva ai numeri dispari. In effetti, le ruote in questione, collocate in modo da essere perfettamente visibili, esprimono l’idea del Giudizio, al pari delle diverse mensole che reggono la cornice soprastante, una delle più belle che siano state create dall’arte romanica, al cui centro spicca, fra due motivi vegetali che ricordano la Y, la testa del Cristo, mentre i restanti numerosi temi che vi sono raffigurati vogliono dare l’idea della bilancia del Giudizio.

Ritroviamo le stesse ruote sulle mensole della parte absidale anche qui con valore simbolico. Le vediamo però circondate da una corona di perle. È segno che ci troviamo dal lato del cielo, l’oriente; del resto è del molto particolare l’importanza che veniva attribuita in Saintonge all’orientazione dell’edificio, come abbiamo sottolineato con particolare evidenza esaminando la finestra assiale di Aulnay. Una di queste ruote possiede otto raggi (otto = vita futura) ed è posta accanto a una variante puramente animale dell’uomo col leone. L’uomo è infatti qui rimpiazzato dall’uccello, simbolo dell’anima, alle prese con un intreccio formato da tre belve. il tema in questione si trova sul lato sud. Più avanti, su tutto il circuito del coro, si trovano invece delle ruote a sette raggi, numero che supera di una unità la famosa cifra della bestia (6) ed evoca così, al di la della distruzione, l’idea del Paradiso.

Bisogna avvicinare tutte queste ruote alla figura del disco celtico, giacché le influenze celtiche – come nel Forez, del resto, specialmente a Rozier-Côtes d’Auree – sono vivissime nella Saintonge: basta pensare ai numerosi tricefali, alla mazza del dio Esus, al disegno della greca ecc. Bisogna soprattutto avvicinarle alle ruote degli archivolti di svariati portali che ostentano, con ogni evidenza, un simbolismo solare.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 137-138

Disposizione anteriore: i portali e l’ascensione

Sezione: Lessico


È a proposito dell’Ascensione della porta Miégeville che appare in secondo luogo il punto debole del metodo di Mâle, basato sui manoscritti e discriminante in funzione di questi una formula ellenistica e una formula siriana. Anche se tale discriminazione aveva un senso all’origine, essa ne ha meno all’epoca romanica, giacché ora la formula ellenistica nella quale si vede il Cristo effettuare l’ascensione di una montagna, si trova nella zona mesopotamica, mentre la formula siriana, in cui il Cristo appare nettamente distinto e portato da due angeli in maniera più realistica, sarebbe più conforme al tipo egiziano. Il Cristo seduto e la Vergine orante rimasta stilla terra non compaiono nel testo evangelico; il tema non può essere quindi che un prodotto della teologia. Ispirato dal concilio di Efeso, esso compare simultaneamente a Bawit, sulle ampolle di Monza (imitate dai mosaici della basilica del Monte degli Ulivi), su un reliquiario del Sancta Sanctorum a Roma, su un piatto d’argento che si trova a Perm, in Russia, ecc.

Quella che è più sicuramente siriaca o copta è l’ulteriore evoluzione di questo tema. Sono siriani gli angeli del manoscritto del monaco mesopotamico Rabula che, scettro alla mano, si rivolgono direttamente agli Apostoli dicendo loro di non contemplare il Cristo, in attesa della sua venuta definitiva, e così pure, dall’altra parte, la posizione del Cristo, in piedi dentro l’aureola. La tendenza della zona egiziana e dell’arte copta è quella di trasformare il tema in geroglifico, in tema doppio. Il sacramentario di Saint-Bertin (sec. XI) accentua la formula siriana. I due angeli sono mescolati agli Apostoli e la Vergine si perde un po’ tra la folla. Per contro, l’agitazione degli Apostoli sul timpano di Montceaux-l’Etoile (Saône-et-Loire) (cfr. La Borgogna, cit., tav. 123), fra i quali è san Pietro con la sua chiave monumentale, sembra sì tipicamente siriana, però gli angeli non sono angeli avvisatori. D’altra parte, la monumentalità dell’aureola separa nettamente il Cristo e rende evidente il tema doppio, conformemente al carattere della zona egiziana, alla quale questa chiesa appartiene. Ciò che appartiene alla zona mesopotamica, in questo timpano, è di fatto piuttosto l’allusione al Giudizio, riconoscibile nella croce greca portata dal Cristo e nella grandezza della croce di san Pietro. Sia essa siriana o alessandrina, è l’insistenza su un aspetto del giudizio che distingue l’una zona dall’altra: le minacce ai dannati caratterizzano la zona mesopotamica, mentre l’avvenimento è rivolto nel sud est agli eletti, in armonia con il duplice aspetto del Cristo in questo tema: «Buono con i buoni», secondo san Girolamo, «tremendo con i malvagi»; «alto sulla montagna come apparirà agli eletti», secondo Onorio di Autun, «innalzato sulla croce, come si presenterà ai dannati.» La differenziazione vera fra zona e zona è infatti nell’atteggiamento degli angeli e degli apostoli: si avrà di fronte più spesso, nel sud ovest, una illustrazione letterale dell’avvertimento, che fa comunicare fra loro le due scene, legando la scena superiore agli apostoli e facendo apparire in pari tempo questi ultimi in atteggiamenti agitati, per cui l’Ascensione mesopotamica si presenta come un tema unico, conformemente alla vocazione di questa zona, mentre invece, nel sud est, l’Ascensione è un tema doppio. Tre complessi del sud ovest (zona mesopotamica) ci daranno un’idea della reale complessità di questo tema dell’Ascensione: gli architravi rossiglionesi di Saint-Genis-des-Fontaines e di Sorède e la porta Miégeville in Saint-Sernin a Tolosa.

I tratti distintivi dell’Ascensione del sud est emergono sugli architravi del Roussillon: si tratta infatti di Ascensioni siriane come appunto nel sud est. E tuttavia i due architravi in questione, celebri per l’antichità della loro datazione e i cui personaggi sotto file di archi sembrano identici a quelli delle stele copte, consentono di mettere in risalto gli aspetti comuni che si ritrovano nei diversi tipi di portali – Miégeville, Moissac, Beaulieu –, per il fatto che vi vediamo riuniti in un tutto unico Ascensione, Tetramorfo e Giudizio. Questi architravi fanno inoltre apparire nitidamente l’imitazione diretta di reliquari d’oro o d’argento, tipo quello, d’argento appunto, dell’Arca Santa di Oviedo (sec. XI). L’aspetto «gorgogliante» delle vesti del Cristo di Sorède, meno avvertibile a Saint-Genis, e l’atteggiamento degli angeli «avvisatori» sono emblematici dell’Ascensione. La presenza dell’alfa e dell’omega sta a indicare il Cristo del Ritorno; idea questa che si presenta anch’essa più chiara a Sorède, per il fatto che il Cristo dell’Ascensione è qui completato dalle figure del Tetramorfo, come ad Angoulême, collocate nei quattro angoli della cornice della finestra soprastante, sulla quale sono raffigurati anche degli angeli suonatori di tromba. L’idea del Giudizio appare invece nella asimmetria degli apostoli che fiancheggiano il Cristo. A destra del Cristo, a sinistra per noi, vediamo un personaggio in atteggiamento medititativo – il primo della fila a Sorède, il terzo a Saint-Genis –, l’uno e l’altro segnati a dito da un secondo personaggio. È l’eletto che non osa guardare il Cristo, in attesa del suo ritorno, e che obbedisce in questo modo all’avvertimento dell’angelo che raccomanda agli apostoli di non stare a fissare il cielo. A sinistra del Cristo, a destra per noi, si trova invece un uomo agitato dalle preoccupazioni del mondo, riconoscibile a Saint-Genis dalle mani e dagli occhi rivolti verso il Cristo e a Sorède dai due lembi della veste che s’incrociano sul petto. Atteggiamenti opposti fra l’uno e l’altro apostolo di fronte all’avvertimento degli angeli si ritroveranno più tardi a Miégeville, così come si ritroveranno personaggi con doppia benda di stoffa o con doppio allacciamento vegetale sul famoso trumeau di Souillac e sull’altare di Tolosa. Le due opere fanno insomma toccare con mano quanto profonda fosse la mancanza di distinzione nei temi dei portali e come questi, al pari dei temi doppi della zona egiziana, discendano tutti, da lungi o da presso, dalle rappresentazioni dell’Ascensione.

Émile Mâle ha chiamato «ellenistico» questo tema dell’Ascensione, così come appare in epoca più tarda sulla porta Miégeville, perché lo attribuisce all’epoca che così di solito viene denominata.

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La presenza di una croce ad asta lunga fra le mani del Cristo è un particolare caratteristico e denota un’origine copta. il Cristo sta scalando una montagna, alla maniera di un dio dell’Olimpo, del quale ha anche la bellezza apollinea; ad accoglierlo è la mano di Dio, motivo pur esso di origine egiziana. Ai fianchi, tuttavia, della montagna, Nicodemo è prono con la faccia a terra nell’atteggiamento bizantino della proskinesis. La sua posizione e quella di un apostolo avvicinano la scena a quella della Trasfigurazione, altra teofania avvenuta anch’essa, secondo la tradizione, sulla vetta di una montagna, il Tabor. A causa del valore attribuito alla destra, la mano verso cui si dirige il Cristo di profilo è a destra. Lo stesso tipo lo ritroviamo a Roma, sulla porta di Santa Sabina, dove il Cristo è circondato da angeli che l’aiutano a salire la montagna, sui sarcofagi di Gallia, su un avorio di Monaco, ecc. Gli avori carolingi riprenderanno l’ascensione della montagna, ma grazie a un compromesso con la formula siriana o copta, la Vergine appare ai piedi dell’erta (sacramentario di Drogone, Bibbia di San Paolo fuori le Mura, avorio di Essen). Le due Ascensioni di Miégeville e di León sembrano il frutto di un compromesso della stessa natura, con in più i due angeli che aiutano il Cristo a innalzarsi, come a Santa Sabina. Due altri angeli portano delle croci ad asta lunga: l’uno, a destra del Cristo, sorregge la sua con la mano destra, l’altro, a sinistra la sua (che per altro ha l’asta più corta) con la mano sinistra, contrapposizione che a noi pare voler rilevare l’idea del Giudizio. Di fatto però la formula adottata nell’uno e nell’altro caso è una formula ellenistica e quindi trionfale. È, nonostante tutto, l’idea siriana di avvertimento quella che culmina in entrambi i portali, e al tempo stesso l’idea di giudizio, proprio come nei due architravi rossiglionesi. A Tolosa, infatti – ed è bene fermarvi una volta per tutte l’attenzione –, non è tanto il timpano, dal quale la mano del Padre è scomparsa, a ospitare l’Ascensione, quanto piuttosto l’architrave. E qui, l’atteggiamento agitato degli apostoli, che levano gli occhi al cielo, incrociano le gambe e fanno gesti diversi, è evidentemente siriano. È qui che compaiono gli angeli «avvisatori», assenti dal timpano propriamente detto, sotto l’aspetto di due geni con in testa il berretto frigio, accolti in maniera differente a destra e a sinistra. Dal lato di san Pietro, ch’è a destra, fuori dell’archivolto, sul pennacchio, un apostolo è intento a leggere il rotolo srotolato; dall’altro lato invece un secondo apostolo rifiuta di aprire il libro che l’altro genio gli presenta: tiene gli occhi rivolti al cielo, mentre il genio, per parte sua, si gira verso san Giacomo che sta sul pennacchio di sinistra, dal lato opposto a san Pietro. La contrapposizione si spiega facilmente facendo mente locale ai due architravi del Roussillon: dal lato di san Pietro ci si trova con la Chiesa militante in attesa dell’ultimo giorno, dal lato di san Giacomo si ha già per contro la certezza della salvazione grazie al pellegrinaggio che conduce alla sua tomba e quindi nulla vieta di contemplare il Signore nella sua gloria.

L’Ascensione di León è associata ad altre due scene che, con i leoni delle mensole, rendono evidente l’idea del Giudizio. In effetti ciò che risalta nei due insieme non è tanto il tema glorioso del timpano, quanto la composizione congiunta del timpano e della porta che implica, tutt’al contrario, un’idea di minaccia. Anche se sono stati i copti a creare il tema in un’ottica gloriosa, la sua diffusione nella zona mesopotamica è dovuta, a parer nostro, alla presenza della montagna che qui fa la sua comparsa e che in questa stessa zona si manifesta in maniere molteplici, particolarmente attraverso il simbolismo delle squame, nell’importanza che vi assume il tema della Città celeste, situata anch’essa su una montagna, ecc. Lo schema della porta di difesa di questi due complessi è legato direttamente alla stessa Città celeste.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 128-130

Disposizione anteriore: i portali e l’idea di interdizione, caratteri generali

Sezione: Lessico


La porta è una componente essenziale della chiesa romanica. Quello che essa svolge è un ruolo capitale. È dalla porta infatti che prende il via la cerimonia della dedicatio o consacrazione dell’edificio: la chiesa comincia a esistere solo quando il vescovo ha consacrato la porta. Una simile importanza si spiega agevolmente con i testi biblici, con quelli in particolare pei quali il Cristo s’identifica con la porta.

In virtù di tale ruota, il portale comporta, come regola generale, una decorazione d’insieme particolarmente ricca, che arriva di frequente ben al di là dei contorni del portale propriamente detto. Ciò si verifica soprattutto nella zona mesopotamica – per esempio a León, a Tolosa (porta Miégeville), a Santiago de Compostella (porta degli Orafi) –, dove la decorazione dei pennacchi ai lati degli archivolti appare più ricca e più significativa di quella dei timpani. Succede anche che la decorazione si estenda ai piedritti, sotto forma di statue, annunciando in questo modo la formula gotica. Succede addirittura – è il caso di Angoulême e di Poitiers – che un programma d’insieme, che potrebbe benissimo essere concentrato su un portale – il Cristo dell’Ascensione e la Chiesa rappresentata dalla Vergine e dagli Apostoli (più altri Santi, a Poitiers), scene della Natività con la loro tipologia (figure di Profeti, ad Angoulême), Missione degli Apostoli, ecc. –, si sviluppi sull’intera facciata. Prova ne è il portale-portico di Vézelay, per esempio, che se vi comprendiamo i capitelli del nartece e i timpani laterali esprime da solo, e con più ricchezza ancora, tutto il pensiero contenuto sulla facciata di Angoulême. In effetti la distanza delle raffigurazioni, ad Angoulême, non permette, viste le dimensioni dell’edificio, tutte le sfumature della Missione degli Apostoli di Vézelay; vi mancano perfino alcuni dettagli, anzi, come la rappresentazione dei Popoli sconosciuti.

Come si sa, la soglia ha di per sé un valore sacro. Già questo giustifica l’importanza della decorazione anteriore nella chiesa romanica e soprattutto quella del portale. Da parte nostra, tenuto conto dell’ampiezza che può raggiungere la decorazione di questi portali e della varietà delle soluzioni adottate, abbiamo preferito dedicare loro una voce specifica e intitolarla «disposizione anteriore». Ad onor del vero, ci occuperemo soprattutto dei portali, giacché le facciate e i capitelli dei narteci, benché parte integrante di tale disposizione anteriore, sono diffusamente trattati sotto altre voci. In più, di tutte le componenti dell’edificio romanico, i portali sono certamente quelli che contengono la massa più considerevole di significati, su una superficie relativamente ristretta.

Si noterà, ad ogni modo, che non abbiamo scelto come voce o titolo di questa trattazione la parola «timpano». Si ha infatti l’abitudine di attribuire un’importanza estrema a questa parte del portale: e a buon diritto, se vogliamo essere sinceri, giacché proprio il timpano è l’elemento spesso più significativo della chiesa romanica. Però non bisogna dimenticare che questo è un fenomeno specifico della Francia: il timpano, per esempio, è sconosciuto in Italia, salvo casi di importazioni francesi – il che tuttavia non inficia la ricchezza di pensiero di un complesso architrave – archivolto tipo quello di Modena, con l’idea del Giudizio espressa mediante favole e temi cavallereschi (il Calcio dell’asino, la Volpe e la cicogna, l’Attacco al castello), per non parlare dell’interesse dedicato nella penisola ai battenti delle porte. Se si sopravvaluta l’importanza del timpano, è sempre perché non si fa abbastanza caso all’insegnamento espresso dai mostri, dagli animali e dai motivi vegetali che, come nel caso di Saint-Ursin a Bourges, possono inserirsi con un significato quanto mai corposo sul timpano stesso, mentre si accorda un valore eccessivo ai temi religiosi istoriati. I fioroni di Moissac, per esempio, hanno un significato che trova piena spiegazione a Beaulieu, dove gli stessi fioroni appaiono divorati dalle maschere o dai mostri: sono il simbolo dei ritorni solari, della vegetazione del mondo sottomesso al Signore. Se ne deduce automaticamente che l’architrave, in questi due complessi, completa senza ombra di dubbio il timpano propriamente detto: è addirittura indispensabile alla sua comprensione, né più né meno dei piedritti laterali e del pilastro mediano (o trumeau).

Il portale, ovverosia la disposizione anteriore scolpita, è in linea di massima, soprattutto quando la decorazione investe la facciata – giacché la cappella-nartece, il Westwerk o il campanile-portico sono più antichi –, un fatto nuovo, specificamente romanico.

Il nostro proposito qui non è quello di passare in rivista la straordinaria varietà, in Francia specialmente, dei temi dei timpani, che vanno dai soggetti romanzeschi o desunti dalle favole antiche ai soggetti propriamente religiosi, tanto sentita e tanto ferma era la volontà di istruire. E neppure è nostro intento sottoporre ad analisi la non meno grande varietà delle formule architettoniche adottate nella parte anteriore della chiesa, che possono essere grosso modo rapportate alle due fonti fondamentali, egiziana e mesopotamica. Il punto su cui insisteremo è l’idea di divieto, di interdizione, che caratterizza i portali in entrambe le zone: idea essenzialmente primitiva, che basta in buona misura a spiegare le analogie col lontano passato. Il valore della soglia è una realtà indiscutibile che ha riscontri dappertutto; una realtà che sopravvive ancora nelle abitazioni contadine, con le croci e gli amuleti di vario genere collocati sopra le porte, con le bestie e i ferri di cavallo contro il malocchio, ecc. L’altare all’interno della facciata, dove veniva celebrata una messa speciale, particolare comune alle chiese cluniacensi (vedi Semur-en-Brionnais), non è che un ricordo del valore profilattico che caratterizzava l’entrata delle chiese carolinge, con le sue porte dedicate agli arcangeli incaricati di difenderle. Le cappelle di San Michele, frequenti nei locali sovrastanti i portali d’ingresso, venivano edificate generalmente nei pressi di grotte o di precipizi; così a Rocamadour, non lontano da Padirac, così a Le Puy e in svariate località dell’Alvernia, non distanti da zone di attività vulcanica, così sul Gargano. Nella maggioranza dei casi, il loro compito era quello di scongiurare le manifestazioni infernali, di cui antri, vulcani, rupi, ecc. erano agli occhi delle genti medievali il sito predestinato. Il Varagnac ha studiato con molta cura la genesi del tema asiatico dell’arco o dell’arcata, che rappresenta, così com’è, una difesa, una barriera, parimenti utilizzabile per la gloria del vincitore e per la vergogna del vinto costretto a passarci sotto.

Fra i temi principali che «vietano» l’ingresso, citeremo naturalmente i Ieoni, che negli antichi templi-montagna mesopotamici compaiono stilla soglia, da una parte e dall’altra dell’entrata, sostituiti all’epoca assira dai Kerub, prototipi del Tetramorfo, con la loro natura multipla. E citeremo anche le sfingi egiziane, disposte su due filari, all’entrata dei santuari. I leoni posti a difesa della soglia sono una realtà romanica, siano essi i leoni cosiddetti lombardi che reggono sulla schiena le colonne del protiro oppure quelli che arrivano a essere presenti perfino sul timpano, secondo una forma mesopotamica che attesta l’importanza di questo simbolo animale nella sua zona d’influenza. Pensiamo ai leoni che si fronteggiano ai due lati del crisma di Jaca, o anche ai personaggi accompagnati dal leone, Daniele o Gilgamesh, sui timpani del portale di Oloron. Talvolta s’incontra Sansone in lotta col mostro: a Mauriac (Cantal), per esempio. Gérard de Champeaux (I simboli del medioevo, p. 194 e sgg.) ha messo bene in risalto come questi leoni dinanzi alle entrate fossero generalmente asimmetrici e associati all’ariete e all’uomo, così da implicare l’idea di un giudizio. Un preciso documento, pubblicato dal Déonna, mostra che in Svizzera i leoni posti all’ingresso delle chiese erano effettivamente adoperati dal priore «sedentem inter leones», quando rendeva giustizia. I leoni si moltiplicarono davanti alle porte della zona mesopotamica, specialmente sotto forma di allegorie imperniate sulla figura del leone (porta Miégeville a Tolosa Compostella, ecc.).

Ai temi mesopotamici corrispondono nella zona egiziana i serpenti. Tuttavia, un fatto alquanto significativo è questo; pur nascendo i temi della Lussuria, o piuttosto quello della Donna coi serpenti, aggredita da rospi e rettili che le mordono le parti genitali – tema notissimo, fra l’altro –, sul portale di Moissac, in definitiva è nella Francia sud orientale che esso incontra la sua diffusione maggiore: la Donna coi serpenti di Charlieu (d’una grazia tutta ellenica), l’orribile bertuccia di Bourg-Argental, la Donna di Dunières che ne è l’imitazione vista a mezzo busto, ecc. Nondimeno, a differenza delle coppie di leoni, simbolo del Cristo «buono con i buoni e tremendo con i malvagi», come dice san Girolamo, i serpenti non hanno alcuna possibilità di comparire sui timpani col medesimo significato, salvo che a Compostella, e ogni volta che uno di essi vi appare è solo come personificazione del demonio, nella scena della Tentazione.

Una figura mostruosa con funzioni di guardiano, somigliante contemporaneamente al leone e al drago e di significato ambiguo, è la ghul della mitologia araba, detta anche bocca d’Inferno, analoga al t’ao t’ie cinese. La troviamo indifferentemente nell’una e nell’altra zona. In quella egiziana è presente, per esempio, ad Anzy-le-Duc, alla base del timpano, insieme con l’Adorazione dei Magi e con Adamo ed Eva; tuttavia ha più importanza in quella mesopotamica. Gli studi del de Chasseloup-Laubat hanno chiaramente attestato il suo valore profilattico, negli ingressi, giacché la si colloca sempre a nord, dal lato del demonio, sui portali. La si deve raffrontare, secondo il Burckhard, al makara indiano, che veniva posto all’esterno dei santuari, entro delle nicchie, affiancato dal leone di difesa. Però la si potrebbe accostare anche alle maschere lunari, immagini dei defunti che s’accingono a entrare nel cielo, poste in cima ai pali nei villaggi dell’Oceania: le somiglianze di aspetto, infatti, se non addirittura le somiglianze di significato, sono stupefacenti. La loro collocazione all’entrata della capanna ha lo scopo di proteggere questa e i suoi abitanti contro il ritorno del morto. Non siamo molto lontani dalle chiese romaniche che debbono essere difese dalle iniziative del demonio. Quanto al mostro di cui ci stiamo occupando, la posizione che gli viene assegnata nella Saintonge, in facciata, sul lato nord, è un fatto pressoché esclusivo di questa regione: il de Chasseloup-Laubat non cita che un’unica eccezione nella Gironda. Sempre nella Saintonge, alle maschere del demonio poste sulla facciata debbono essere contrapposti i parati decorativi della parte absidale che insistono particolarmente, in funzione dell’orientamento, sull’idea dell’eletto che entra nel Cielo. Basta osservare ad Aulnay i personaggi inseriti fra le volute a S ai lati della finestra assiale, più o meno vicini al Cielo, in corrispondenza con la bilancia di san Michele su un modiglione del lato sud, mentre a nord, per un meccanismo d’inversione, è sviluppata l’idea della salvezza.

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Aulnay-de-Saintonge (Charente-Maritime). Veduta esterna della finestra assiale dell’abside.

La stessa disposizione la troviamo a Varaize, dove le ghul che divorano i rei sono raffigurate sui modiglioni sud del coro e la vittoria dell’eroe san Giorgio sul drago viceversa a nord. Analogamente, vero è che la celebre maschera profilattica di Echillais (cfr. La Civiltà… cit., tav. 129), in cima alla colonna, si trova dal lato nord, ma altrettanto vero è che dall’altro lato una maschera più piccola, intenta a ingoiare una testa, si integra al programma d’insieme di questa facciata, implicando l’idea del Giudizio.

Le maschere lunari e solari si presentano nella medesima situazione, diversamente associate alla greca solare, sul timpano di Moissac, oppure l’una adorna di foglie, l’altra in atto d’ingoiare la greca, sul secondo architrave di Beaulieu, e in quest’ultimo caso associate rispettivamente all’uomo nudo che sta per essere divorato, immagine dei Vizi della carne, e all’uomo vestito egualmente vittima di una belva, immagine dei Vizi dello spirito. Queste maschere sono collocate ai piedi del Cristo ed evocano secondo l’Apocalisse il sole e la luna che scompariranno, quando la loro luce si sarà spenta dinanzi all’Agnello che illuminerà da solo la Città celeste. Esiste inoltre una relazione sicura fra la carne minacciata, la luna e il fogliame, da un lato, e lo spirito e il sole, dall’altro. Però le maschere in questione sono pure prototipi delle future bocche d’inferno della iconografia gotica. Tutti sanno, del resto, che è stato il giudizio di Beaulieu a ispirare quello di Saint-Denis. Accanto a maschere simili a quelle della zona mesopotamica, per esempio sui portali provenzali o a Dinan, la zona egiziana nelle sue già più elaborate rappresentazioni del Giudizio conoscerà un altro genere di maschera, tipo, per esempio, il san Michele con in mano la bilancia, messo anche lui lì per difendere l’entrata. La presenza di quest’ultimo, vincitore del mostro, da solo, su un timpano che ricorda i portali d’ingresso sormontati da una cappella al piano superiore, è un fatto piuttosto eccezionale: ricordiamo ad ogni buon conto l’esempio magnifico di Saint-Michel di Entraygues, presso Angoulême, posto alla base di una cappella rotonda o per meglio dire poligonale. Ma non sono soltanto le sembianze diverse dei mostri a differenziare le due zone: bisogna anche tener conto dell’importanza relativa attribuita all’arcata mesopotamica o al timpano egiziano, delle Ascensioni con angeli annunciatori o con angeli anch’essi ascendenti delle varianti del tema delle tappe, dello sviluppo sul timpano del tema della Donatio Clavis e della Traditio legis a Pietro e Paolo, caratteristico della Zona egiziana.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 124-126