I simboli del dio o del Re del mondo

Sezione: Studi


L’approfondimento di una simbologia non consiste nell’accumulare attorno ad un nucleo originale il maggior numero di particolari complementari o chiarificatori, ma nell’arricchire di armonie nuove il simbolismo fondamentale senza togliergli la purezza e la semplicità primitive.

I simboli del dio e del re del mondo hanno in comune un’intuizione di base sulla quale non è più necessario dilungarci. Il dio del mondo, l’imperatore che lo rappresenta visibilmente sulla terra, il mediatore tra Dio e gli uomini, il gran sacerdote, si collocano di necessità dove maggiormente si esprimono le relazioni tra cielo e terra: nel centro del mondo, sul passaggio dell’asse cosmico; è lì che possono riunire in sé la totalità del reale e risplendere sull’universo intero.

Prendiamo un esempio concreto, molto pregnante, al fine di comprendere bene il processo di incastro che questa straordinaria sintesi dell’immaginazione attorno ad un personaggio assiale ci consente. In Cina, la simbologia cosmica organizzata attorno ai quattro punti cardinali e al loro centro dimostra una coerenza eccezionale. Essa si fonda interamente su quei cinque elementi cui corrispondono colori, sapori, suoni, simboli. Ma tali classificazioni non si limitano a governare lo spazio, s’impongono anche al tempo.

L’ordinamento dello spazio avverrà periodicamente, il dramma celebrato nel rito si ripeterà ogni anno. L’est corrisponde alla primavera, alla nascita della creatura, alla levata del sole (elemento legno); il sud all’estate, al mezzogiorno, alla pienezza (elemento fuoco; in questo punto s’incrocia il centro, l’elemento terra cui corrisponde un tempo fittizio di pienezza); l’ovest all’autunno, alla morte, al tramonto del sole (elemento metallo) e il nord all’inverno, al riposo (elemento acqua).

Ma il microcosmo corrisponde esattamente, o meglio, è la stessa cosa del macrocosmo in cui, se così si può dire, il mondo teoricamente siripete all’infinito e ritualmente in un certo numero di elementi in zone concentriche inserite l’una nell’altra, a partire dal corpo umano e dall’abitazione fino ai confini della terra, passando per il luogo santo, il palazzo, la capitale. Sempre si ritroveranno il cielo e i quattro orientamenti, il tutto raddoppiato da una successione verticale di 3 o 4 piani (cielo e terra, o cielo, terra e sottoterra) dall’umile pantano centrale e dall’apertura del camino della casa primitiva fino al palazzo nel centro della capitale e alla capitale nel centro del regno con le quattro porte ai quattro punti cardinali. L’organizzazione del mondo in zone concentriche e in piani sovrapposti non è statica.

Il loro buon funzionamento dipende dal centro regolatore, sede del potere politico e magico-religioso (il Re, il Santo). Nel Ming-t’ang, sorta di casa del calendario, il sovrano si sposta seguendo le stagioni da un punto cardinale all’altro, in perfetta armonia con la corrispondenza degli elementi che regolano i colori dei suoi abiti, il cibo che mangia, ecc… Se si verifica una simile organizzazione periodica sul piano orizzontale, la coesione del mondo è ugualmente assicurata sul piano verticale. In effetti, fra i due piani del cielo e della terra c’è un legame di comunicazione, un asse piazzato nel centro del mondo; quando la terra è immaginata come il cassone quadrato di un carro, l’asse è rappresentato dal pilastro centrale che sostiene il baldacchino, rotondo come il cielo

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

Questo legame con il cielo è ancora l’albero o la pietra su un monticello: il dio del suolo. È anche l’obelisco eretto nel centro della capitale o la torre con tanti piani quanti il cielo (nove) o la Montagna sacra, pilastro del Cielo o essa stessa cielo a piani. A tutte queste forme dell’asse centrale corrisponde il Re o il Santo, ma, come nell’organizzazione del piano orizzontale, il legame tra gli ordini del mondo non è semplicemente statico, bensì dinamico. Il Re e il Santo ascendono e discendono dalla torre, dalla montagna dall’apoteosi luminosa.

Più vicino a noi, Svetonio ci insegna (Nerone, 31) che la stanza principale delle cenationes ruotava come il mondo ininterrottamente attorno al suo asse. Questa straordinaria costruzione resta isolata in Occidente ma trova delle corrispondenze nel palazzo dei Sassanidi. Le torri girevoli cinesi esprimono la stessa concezione (torre di Butthap a Tonchino, torre del tempio lamaico di Young-ho-Kong a Pechino): alcuni uomini sotto la torre, in un sotterraneo, la fanno ruotare con l’aiuto di pali di legno, mentre in cima all’edificio l’imperatore fa il gesto d’azionare egli stesso la costruzione cosmica di cui costituisce il centro.

Dopo aver ricordato qualcuno degli elementi maggiori del simbolismo del re del mondo, riprendiamoli uno per uno al fine di approfondirli ulteriormente, il che ci fornirà l’occasione di constatare che alcuni, non importa quali, sono capaci in un modo o nell’altro, di sinterizzare o di esprimere tutti gli altri: da qui l’incredibile ricchezza d’espressione di simboli apparentemente poco interessanti.

Partiamo da un’opera concreta, la statua romanica di Carlomagno nella chiesa di Müstair (Svizzera). L’imperatore è in piedi e tiene nella mano sinistra uno scettro, nella destra il globo del mondo segnato dei suoi grandi cerchi, con la croce piantata nel polo; egli porta una caratteristica corona. Esaminiamo innanzitutto ciascuno di questi emblemi.

Müstair, Chiesa – Statua: Carlomagno

Lo scettro è una riduzione del grande bastone del comando: verticale pura che gli consente di simboleggiare prima di tutto l’uomo in quanto tale, quindi la superiorità di quest’uomo eletto alla guida, infine il potere ricevuto dall’alto. Lo scettro dei nostri sovrani occidentali non è che il modello ridotto della colonna del mondo con cui le altre civiltà rappresentano la persona del re e del sacerdote. Citiamo, a questo riguardo, gli esemplari così espressivi pur nella loro semplicità, che ci offrono i popoli dell’Asia centrale e settentrionale e che a noi sono molto noti grazie ai lavori di Uno Harva. Egli riporta che l’asta di legno che per essi simboleggia l’asse cosmico è talvolta sormontata da un piccolo ripiano quadrangolare a forma di tetto; l’asta o il ripiano, recano spesso un uccello mitico, normalmente un’aquila considerata un uccello celeste; l’aquila è un simbolo universale dell’ascesa al cielo, della sovranità, del potere ricevuto o esercitato dall’alto o almeno da uno stadio superiore.

Asia centrale e settentrionale: Le colonne del mondo

In cima all’asse del mondo, allo scettro dei sovrani o alle aste delle bandiere, questo emblema diventa il simbolo del re del mondo o della divinità che troneggia nel polo celeste. Conviene sottolineare il carattere sacro di questo simbolismo. «Un’asta simile è oggetto di culto nel santuario a tenda dei Soioti delle steppe. Là, il bastone collocato in modo che la sua estremità superiore emerga dalla cima della tenda conica è abitualmente ornato… di pezzetti di stoffa che sono più spesso bleu, gialli, bianchi, i colori dei punti cardinali. Il bastone stesso è considerato sacro, quasi come un dio. Ai suoi piedi si eleva un altare rudimentale in pietre sovrapposte». In tal modo si avvia l’assimilazione del capo del re, al prete che fa tutt’uno con l’altare e il santuario e infine il mediatore in cui si rende presente la divinità.

La Corona è sempre stara espressione di un simbolismo cosmico. Quella di Carlomagno è tradizionale e caratteristica: di forma circolare, marcata ai quattro punti cardinali da quattro piccoli archi come l’imago mundi, le carte mitiche, le rappresentazioni più stringate delle città sante, lo schema cosmico della nuova Gerusalemme. Corona e scettro sono due simboli complementari che collocano il re in rapporto a tutto ciò che lo circonda; il riferimento cosmico appare chiaramente in un legno inciso del sec. XVI, che riassume perfettamente il simbolismo assiale del re mediatore: in piedi al centro del cerchio cosmico (con le quattro grosse gemme della corona che segnano i punti cardinali). Corona e scettro sono gli emblemi del sovrano in se stesso, mentre il globo rimanda al regno governare da questo sovrano.

Incisione su legno del XVI secolo: Scettro e corona

Il Globo è un simbolo di totalità: esso implica un’affermazione di sovranità universale da parte di colui che lo tiene in mano; ciò non significa sovranità sul mondo intero ma sovranità sul regno; di contro, non bisogna dimenticare che l’idea di regno ha sempre conservato qualcosa della nozione primitiva che lo eguagliava alla totalità del reale umanizzato. Il regno, l’impero, tanto in Occidente, quanto in Oriente – la Cina ha magistralmente sviluppato questo simbolismo geografico – sono costituiti da quattro parti al centro delle quali si colloca il monarca che ne assicura la totale coesione. Egli lo tiene in mano, tuttavia lo riceve anche dai suoi sudditi che collaborano alla stabilità permanente e che gliene fanno omaggio come al rappresentante di Dio sulla terra. Questo doppio movimento ha dato origine in Cina ad un grandioso cerimoniale; più discretamente la concezione occidentale si trova riassunta in una miniatura ottoniana che mostra le quattro parti dell’Europa che vengono ad offrire in omaggio il loro globo ad Ottone II (1002), il figlio di Ottone il Grande; attraverso la sua persona l’omaggio raggiunge il papa che incorona gli imperatori, e al quale questi si sentono uniti nel governo del mondo: Ottone in risiede frequentemente a Roma; l’imperatore coronato regge il globo con la croce e il bastone del comando.

Chantilly, Museo Condé –
Registrum Gregorii: L’imperatore Ottone II riceve in omaggio le quattro parti dell’Impero

Il Costume è talvolta anch’esso fortemente evocativo, soprattutto presso i popoli che sottolineano con vigore l’idea del sovrano assiale. Questa nozione di asse è correlativa a quella degli altri due o tre fori che mettono in comunicazione i diversi piani del mondo. I popoli dell’Altai parlano di un foro per il fumo della terra; da ciò deriva l’immagine del mondo delle antiche popolazioni civilizzate dell’Asia e dell’Asia Minore, per le quali gli inferi sono accessibili da un’apertura che sbocca nell’ombelico della terra: essa è in corrispondenza diretta con l’apertura situata in mezzo al cielo. L’apertura è dunque essenziale a questa simbologia quanto l’asse che ad essa conduce, ed è perché appartiene alla simbologia del re del mondo, del sacerdote o del pellegrino dell’aldilà. Lo sciamano iakuta porta nella schiena una placca di ferro rotonda forata nel centro.

In Cina, l’imperatore indossava una veste rotonda in alto come la pi e quadrata alla base come il ts’ong: la sua persona costituiva la scala della vita che ricongiungeva le due aperture. Non meno interessante la grande casula circolare in un solo pezzo aperta nel centro per far passare la testa: il prete che la indossa si trova ritualmente collocato al centro dell’universo, identificato nell’asse del mondo, essendo la cappa la tenda celeste e trovandosi la testa nell’aldilà, dove si trova Dio, di cui il sacerdote è il rappresentante in terra.

Casula circolare

La cappa detta di Carlomagno a Metz, è ornata d’aquile che convergono verso l’apertura centrale, il che ben sottolinea il loro simbolismo ascensionale e celeste.

Metz – Cappa di Carlomagno

Tale schema viene necessariamente replicato nell’architettura (processo di incastro); pensiamo, per esempio, alla cupola absidale della chiesa di Notre-Dame du Thor, in Provenza, ornata d’aquile in volo che circondano alla chiave di volta l’Agnello di Dio in posizione.

Le Thor, Notre-Dame-du-Lac – Catino absidale

Il Trono non si presenta più come emblema, ma come mobile che «contiene» il sovrano e che costituisce un secondo livello simbolico.

In India l’incastro successivo dei microcosmi che costituiscono il sovrano, il trono su cui siede e il tempio al centro del quale questo trono è collocato, risulta particolarmente illuminante. Colui che siede sul trono è anch’egli una riduzione dell’universo, l’Embrione d’Oro collocato nella Matrice del Mondo. A questo proposito, sono significativi numerosi tipi di trono: il celebre Trono-di-Diamante (Vajrasana) sul quale, a Bodh-Gayā, il Budda Sakyamuni ricevette l’Illuminazione; quelli messi in relazione con la colonna-perno del mondo (illustrati in particolare a Amaravati, II-IV secolo circa); quelli di Pegou e di Mandalay (Birmania) ancora più espliciti, che rappresentano, attraverso una particolare iconografia, il mondo degli dei sostenuto dal monte Meru. Seduto nel centro del cosmo, il re che lo occupa ne è il maestro e il rappresentante; il possesso è assicurato dal profitto di coloro sui quali governa quaggiù. Ciò spiega la grandissima importanza accordata alla fabbricazione del trono reale e alla sua decorazione simbolica che riassume le componenti del cosmo; ciò, inoltre, motiva le severe proibizioni di sedersi sul trono reale senza averne diritto (cioè senza essersi predestinati), o rende ragione della onnipotenza universale di chi vi si siede. Infatti, simbolo minore del Mondo, il Trono nella tradizione indiana fa il re. Le tre colossali sedie di pietra scolpita di Siva, Brama e Visnù di Besaki (Bali), rappresentano dei troni-altari posti sulla cima di torri simboleggianti l’asse cosmico e il Meru: ciascuna torre s’innalza su un’enorme Tartaruga del Mondo.

Le civiltà più disparate testimoniano diffusamente le stesse fondamentali concezioni. Il valore rappresentativo del trono è così forte che costituisce di per sé un simbolo della presenza di colui che ha il diritto di sedervisi. Vuoto, esprime il carattere trascendente – o sperato – di questa presenza. Il tema iconografico del trono vuoto di Cristo, o etimasia, era un modo di assicurargli una presidenza invisibile, (per esempio in occasione dei Concili) e anche d’anticipare l’ora in cui ritornerà per il giudizio, alla fine dei tempi.

Il trono vuoto e l’albero della conoscenza, simboli di Buddha

Il trono è sopraelevato: è una realtà eminente come la montagna cosmica o l’asse del mondo.

Papiro di Hunefer: Osiride in trono

La figura rappresenta Osiride (Dio della vita nell’aldilà) seduto su un trono; quest’ultimo è collocato sulle acque della ricreazione (rappresentate da piccole linee spezzate) da cui emerge, davanti ad esso, un fiore di loto sbocciato; dal fiore escono i quattro figli di Horo che sono gli dèi dei quattro punti cardinali del nuovo cosmo d’oltretomba. Nella stessa prospettiva tradizionale, gli autori cristiani dei primi secoli hanno visto senza difficoltà nella croce piantata sul Calvario il trono cosmico, dall’alto del quale il Salvatore crea il mondo nuovo accogliendolo nel suo mistero: «Quando sarò elevato da terra (cioè sulla croce considerata come la prima tappa o lo strumento della sua esaltazione celeste), io attirerò tutti a me» ha detto Gesù.

Non occorre soffermarsi sui troni che si riconducono essenzialmente al sedile cubico (terra) sormontato da un arco di cerchio che si sviluppa in aureola (cielo). Un secondo tipo, invece, merita di essere considerato a lungo; innanzi tutto, perché meno conosciuto, nonostante sia piuttosto diffuso, e poi perché ci consente di cogliere come un simbolo fondamentale possa essere incredibilmente ricco di significati senza tuttavia alterarsi sensibilmente. Questo secondo tipo di trono è innanzi tutto un simbolo del dio dell’universo o del re del mondo. La sua struttura è quella dell’asse cosmico circondato dai quattro punti cardinali, cioè quella della più tradizionale imago mundi, che abbiamo già rintracciato, per esempio, nelle civiltà dell’Asia orientale (in particolare nei templi assiali indù) e ritrovato tanto alle latitudini tropicali quanto a quelle equatoriali. Leo Frobenius cita un certo numero di esempi che ha personalmente rilevato nell’Africa nera e che sono considerati già molto più che simboli dell’universo. Tale, nel paese di Joruba, quell’area consacrata al dio Edschou, dove si trovavano cinque coni di argilla con al centro il più grande sormontato da una coppa e attorno i quattro più piccoli, il tutto circondato da un canaletto. Vi sono migliaia di santuari dedicati ad Edschou; la maggior parte consiste semplicemente in una massa di argilla, ma eccezionalmente si trovano anche degli esemplari perfetti, come quello di Gbaga, che comprende non solo il cono di Edschou, ma anche delle quattro divinità locali dei quattro punti cardinali e dei giorni della settimana. Edschou è il dio dell’ordine, dell’immagine del mondo. Il cono di Edschou è il monte del mondo.

Nigeria, Gbaba – Area consacrata al dio Edschou degli Joruba

Osserviamo la coppa in cima al monte-asse; essa è il simbolo delle benefiche relazioni cielo-terra, rappresenta il ricettacolo delle elargizioni divine e la disponibilità all’accoglienza dei fedeli (cfr. il calice eucaristico ai piedi della croce, il Graal…), ed è anche ciò che rappresenta simbolicamente la divinità, o la sua sede: al sommo dell’asse cosmico, essa coincide con il polo dell’asse celeste dove egli troneggia. Questo concetto è spesso sviluppato fino a concepire l’immagine cosmica intera come il trono gigantesco della divinità.

Il Baldacchino reale e il parasole da cerimonia o divino meritano una menzione a parte. Ne abbiamo già parlato spesso. Essi compaiono in numerosi protocolli. In Cina, l’universo ha per simbolo tanto la casa del capo quanto il carro cosmico. Questo carro è costituito da un cassone cubico in cui prende posto l’Uomo-Unico, il Figlio del Cielo; un palo centrale, replica dell’Albero della vita e dell’Albero centrale, Kien Mou (legno elevato) per mezzo dei quale i sovrani salgono e scendono, sorregge un grande baldacchino circolare che rappresenta il cielo; esso risponde ad una geometria simbolica precisa che ne determina con rigore i tre elementi: la parte centrale, piatta, i due bordi curvi, il contorno. Il parasole da cerimonia ne costituisce la replica portatile. È un emblema, tanto che, come il trono, esso talvolta sostituisce il sovrano o la divinità quando si voglia evitare di rappresentarli di persona.

Bassorilievo: La partenza del principe Siddharta, che diverrà il Buddha

Un affresco dell’oratorio di S. Silvestro a Roma (sec. XIII) mostra Costantino che offre una tiara conica al Papa Silvestro mentre un personaggio del suo seguito agita il parasole da cerimonia e un altro stringe al petto la corona quadripartita che l’imperatore ha deposto per l’occasione: questi tre simboli appartengono allo stessoordine simbolico. (Rinunciando alla tiara, Paolo vi ha inteso eliminare ogni equivoco di dominio temporale che essa conservava fin dalle sue origini). Dietro il Papa, l’alta croce costituisce la replica dello scettroche teneva Carlo Magno e il simbolo dell’autorità religiosa.

Roma, San Silvestro – Oratorio, Affresco: Costantino offre la tiara al papa Silvestro

La miniatura carolingia che rappresenta Carlo il Calvo sul suo trono (IX secolo) costituisce una piccola sintesi di quanto abbiamo appena detto.

Parigi, Biblioteca Nazionale – Bibbia di Viviano: Carlo il calvo sul trono

Si noti l’incastro: uomo, corona e scettro, trono con predella e schienale; la scena appare in un’arcata formata da un arco di cerchio su due pilastri; il velo che pende simboleggia il firmamento; al di sopra, si stende dunque il cielo. In alto alcuni personaggi si protendono verso il monarca reggendo delle corone per dimostrare che il potere è dato da Dio; la mano divina esce da una nuvola, in verticale e designa il luogotenente di Dio sulla terra, il suo rappresentante, come spesso si rileva nei battesimi di Cristo o nelle Crocifissioni; due lampade da santuario pendono da entrambe le parti per sottolineare la presenza divina. Il fiore di lis sopra l’arcata corrisponde a quello sopra l’arcata del trono: entrambi determinano la verticale che è l’asse della rappresentazione e colloca il monarca al centro del mondo con i suoi dignitari in cerchio attorno a lui come rappresentanti di tutto il popolo.

Cerimoniali e riti esprimono a loro modo lo stesso principio. Nel mondo gallo-germanico, l’antico uso di proclamare un capo elevandolo sul trono costituiva un rito evidente del simbolismo teocratico. Come nella Croce di Saint-Omer, la forma bombata dello scudo – trasformazione occidentale della tartaruga orientale e dei tamburi sciamani – rappresentava il cielo. Innalzare nel suo centro il capo, il bren,significava collocarlo nella posizione di rappresentanza di Dio che troneggia nel cielo. L’idea rimase nei tempi successivi, per esempio fu ripresa dallo scultore Lemoyne in un progetto di monumento dedicato a Luigi XV, in cui il sovrano compare in piedi su un trono elevato da numerosi uomini. Una tradizione che ha dei paralleli nell’antico Egitto, in Cina e in molti altri paesi o civiltà si è perpetuata nel rituale dei re di Ungheria: l’ultima cerimonia consisteva nella salita a cavallo del monarca su un poggio emisferico formato dalla terra portata da tutte le province del regno. Quando il monarca aveva raggiunto la cima di questo luogo simbolico, dava un colpo di spada – in Egitto tirava quattro frecce – verso i quattro orizzonti, per indicare il suo comando sui quattro punti cardinali.

Nell’iconografia cristiana, la funzione di rappresentanza del sovrano rispetto a Dio era vigorosamente sottolineata affinché nessuno l’ignorasse. Ci si compiaceva d’illustrarla chiaramente, come in una miniatura del Salterio d’Egberto (sec. X). Gesù è sul trono: egli stesso incorona Costantino e sua moglie prima di cedere loro il posto; la scena si svolge in un quadro celeste: cherubini e serafini sostengono il trono sopra il quale stanno i quattro Viventi dell’Apocalisse. Così si assicura la continuità del potere terreno con quello celeste e tale continuità è di ordine teologico: essa sarà perfetta quando Cristo in persona si presenterà come sovrano dell’universo, troneggiando su di esso.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo    
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine381-402 

La Gerusaleme della fine dei tempi

Sezione: Studi


New York, Pierpont Morgan Library – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 222v: La Gerusalemme celeste

L’immagine proviene dall’Apocalisse del Beatus. È sufficiente un colpo d’occhio per accorgersi che la composizione è fondata sul quadrato. Essa illustra una delle più belle pagine del Libro sacro, quella in cui l’apostolo dipinge la Gerusalemme della fine dei tempi. La città simbolica quadrata nella quale si trova raccolta tutta la Nuova Creazione si distingue dal cielo circolare come il mondo terreno si distingue dall’aldilà; o, per meglio dire, essa è considerata nel suo rapporto necessario con il cielo, come del resto abbiamo visto che il quadrato resta necessariamente in rapporto con il cerchio che lo genera. Ecco il testo di san Giovanni al capitolo 21: l’angelo «mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, ov’era presso Dio, splendente della gloria di Dio… Essa è cinta da una alta e grande muraglia, con dodici porte; a queste porte sono dodici angeli, e alcuni nomi scritti, quelli delle dodici tribù dei figli d’Israele. Ci sono tre porte a nord, tre porte a est, tre porte a sud e tre porte a ovest. La muraglia della città ha dodici pietre fondamentali sulle quali sono dodici nomi, quelli dei dodici apostoli dell’Agnello. E colui che mi parlava teneva un’asticciola graduata, in oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è quadrangolare; la sua lunghezza è uguale alla larghezza. Egli misurò la città con il suo strumento: dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali».

Questo testo è essenziale per la comprensione del simbolismo delle chiese e di innumerevoli opere d’arte religiose.

Nella nostra miniatura, questi elementi si rintracciano facilmente. Nel centro, uno spazio quadrato, col fondo a scacchiera di piccoli quadrati. Dal fondo si distaccano a destra san Giovanni con in mano il suo Libro, al centro l’Agnello di Dio, a sinistra l’angelo misuratore con la sua asta d’oro. All’interno si aprono le dodici porte, tre per lato, con un apostolo su ciascuna, identificabile dall’iscrizione posta sopra la testa. Al di sopra dei dodici apostoli, dodici biglie variamente colorate. Le iscrizioni che le accompagnano recano il nome di dodici pietre preziose che ci rimandano al seguito del testo di san Giovanni: «Le pietre delle sue mura sono ornate da pietre di ogni tipo: la prima è di diaspro, la seconda di zaffiro, la terza di calcedonio, la quarta di smeraldo, la quinta di sardonico, la sesta di cormalina, la settima di crisolite, l’ottava di berillo, la nona di topazio, la decima di crisofazio, l’undicesima di giacinto, la dodicesima di ametista».

Il fatto che queste pietre appaiano del tutto inattese nell’arco superiore della porta non deve stupire: ciò che importa è il simbolismo della pietra preziosa unito a quello della terra.

La pietra preziosa evoca una reale trasformazione della materia che, da minerale ed opaca come era, diventa trasparente, o per meglio dire diventa luce; tale metamorfosi dall’elemento più grezzo e più materiale (la terra, le rocce) in luce, cioè nella quintessenza dell’elemento più leggero, più spirituale (il fuoco), simboleggia il passaggio dalla creazione dei primordi a quella nuova, quella appunto della Gerusalemme celeste.

Ciascuna di queste porte non è altro che un quadrato sormontato da un cerchio. In questo riconosciamo l’elemento più caratteristico della chiesa romanica. L’architettura cistercense, estremamente spoglia, tesa ad accentuare la linea simbolica – talvolta fino ad un’astrazione un po’ eccessiva – ci consente di coglierla con particolare intensità. Qualunque sia la ricerca puramente decorativa o la funzione utilitaristica d’illuminamento dei begli oculi che adornano, per esempio, le arcate superiori del lavabo di Fontfroide, del suo chiostro o di quello di Thoronet, si deve riconoscere che essi concorrono in maniera determinante a creare l’ambiente sacro. Nel chiostro di Fontfroide la dimensione stessa degli oculi impone una spiritualità poco comune; e lo stesso bisognerebbe dire di quegli oculi di diverse dimensioni che gli architetti dell’epoca amavano collocare in fondo e sulla sommità delle absidi, nel frontone delle facciate e che contribuivano a dare un senso ai loro edifici: in fondo, non facevano altro che seguire una tendenza diffusa in quasi tutta l’architettura sacra tradizionale. L’epoca romanica ha utilizzato il procedimento con un senso molto sicuro delle proporzioni da rispettare e ci ha lasciato dei discreti capolavori, quali il coro della chiesa di San Quirce, in Spagna. Il gotico con i suoi immensi rosoni segna già una decadenza: il vano svuota il muro, la decorazione sovrasta il sostegno, la luce fisica acquista valore di per sé.

Se ci si attiene all’ordine puramente simbolico, è significativo che il simbolo del cerchio, considerato come una finestra aperta sull’aldilà, sia stato utilizzato tanto nell’architettura che nell’iconografia. La mandorla di gloria è una variante di quel cerchio. Una gustosa miniatura della Bibbia di San Pedro de Roda, conservata a Parigi nella Biblioteca Nazionale, ci servirà come prima sintesi.

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): La creazione del mondo, il peccato originale e le sue conseguenze

Essa rappresenta in alto la creazione, il peccato originale, e le sue prime conseguenze. Da sinistra a destra nei tre registri inferiori si distinguono: Dio che modella Adamo con l’argilla; la creazione di Eva, mentre Iahvè tiene nella mano la costola di Adamo che riposa su un letto, nell’atteggiamento delle Vergini della Natività; il peccato originale: ubi locutus est serpens ad mulierem (il serpente mentre parla con Eva), tenendo il pomo nella gola; sotto, i nostri progenitori cacciati dal Paradiso; essi qui appaiono vestiti; sotto ancora, le offerte di Caino il contadino e di Abele il pastore; l’assassinio di quest’ultimo a colpi di scure; la sua sopravvivenza nell’altro mondo; infine l’episodio di Lamech (Genesi, cap IV). In alto, un vasto cerchio; vi si legge: cae (a sinistra) –lum (a destra), è il cielo.

Attraverso il cerchio e dietro ad esso, la banda orizzontale e montagnosa della terra (ter-ra): «il cielo e la terra», binomio esprimente totalità con il quale il primo versetto del Genesi evoca tutto il mondo creato. Tale immagine è particolarmente importante perché illustra chiaramente il valore simbolico della quaterna. La divisione del cerchio in due, poi in quattro, è la prima divisione che s’impone allo spirito umano. Spontaneamente, e certo senza riflettervi, l’artista ha ricostruito sotto i nostri occhi l’evoluzione della decorazione degli specchi cinesi.

Specchi cinesi

Egli è partito dal punto centrale, è passato al piccolo cerchio che lo circonda, quindi alla croce che genera il quadrato ed infine alle quattro zone in cui si ripartisce l’intera superficie. In queste zone si scorgono delle piccole croci e delle ondulazioni: indubbiamente le stelle e le nubi ma più ancora la quaterna in sé, che costituisce il segno della creazione in contrasto al celeste trascendente. La medesima necessità ha ricondotto ad una quaterna i motivi che inquadrano il cielo. La loro apparizione è il risultato delle prime due operazioni con le quali è iniziata la Genesi: separazione della luce dalle tenebre, e poi della terra dalle acque. In alto a sinistra, la falce di luna (luna) abbinata ad una donna (nox), e a destra, il disco solare (s-ol) abbinato ad un uomo, il giorno (dies). In basso a sinistra, i percorsi delle correnti d’acqua (abissus, l’abisso marino personificato da una maschera) con dei pesci, e a destra gli antri della terra.

Sul retro di questa stessa pagina, troviamo l’inizio del testo della Genesi (lo scritto In principio del primo versetto appare sul retto accanto alla luna, in trasparenza). Vi si vede nel centro il Creatore troneggiante su due cerchi al di sopra dei quali stava scritta la parola caelum in un punto oggi degradato e, in basso, sotto delle foglie che disegnano quattro arcate, gli animali creati sormontati dalla scritta: et terram (e la terra), la fine del versetto: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Queste miniature sono proprie di una mentalità desiderosa di simili corrispondenze, intrisa di tali immagini, quale fu proprio quella degli artisti romanici.

Il più piccolo quadrato e la più modesta quaterna servivano loro intuitivamente a evocare i misteri naturali o teologici. Bisogna abituarsi a guardare le loro opere con i loro occhi.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo   
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine94-97 

Il simbolismo dell’albero

Sezione: Studi


In un certo senso, la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe è la storia della conquista della Terra santa. Essi l’hanno sacralizzata con la ripetizione quasi monotona di atti compiuti attorno ai tre elementi di culto più arcaici: steli (come quella di Giacobbe), altari eretti un po’ dappertutto nel paese, alberi rimasti celebri per sempre come la quercia di Mambre così spesso al centro di questioni… Questi tre elementi riuniti rappresentano l’essenza della forma più antica di luogo sacro. In effetti, «il tempio primitivo e naturale, prima che l’uomo conoscesse l’arte di costruire, fu il mondo, semplicemente; il mondo come dimora della Divinità, poiché è scritto: “Il cielo e la terra sono pieni della Tua Gloria” (Isaia, VI, 3). Ma dal momento che il mondo è troppo vasto per essere scelto come luogo di un atto rituale, l’uomo riduce l’universo a un paesaggio familiare e significativo. Lo schema generale e naturale del tempio è il paesaggio elementare costituito dalla collina (o dal tumulo) con la sua grotta, le pietre, l’albero e la sorgente, il tutto circondato e protetto da un recinto che indica il carattere sacro del luogo. Tali furono, in origine, i boschi sacri, il lucus dei Romani, l’alsos dei Greci. Quando più tardi nacque l’architettura, il tempio diventò una casa e le sue componenti minerali e vegetali si trasposero per costituire gli elementi stessi dell’edificio. Mentre il recinto naturale o rudimentale diventava la muratura, la grotta diventava la nicchia dell’abside e il soffitto veniva assimilato al cielo. Così il tempio appare come un paesaggio pietrificato» (Jean Hani, Le symbolisme du temple chrétien, 1962, p. 81).

Abbiamo visto come la stele unita all’altare costituisca il punto focale del tempio, centro di santificazione e di ricreazione. Ciò che il nostro discorso aveva ancora, per la forza delle parole e delle cose, di troppo geometrico nell’espressione, di troppo naturalistico nelle immagini cosmiche, deve a questo punto essere sfumato, umanizzato, interiorizzato e cristianizzato. Lo faremo considerando il simbolismo naturale dell’albero: perfetto simbolo di Vita, piantata nel Paradiso, in elevazione verso i cieli, vivificatore di tutto l’universo prima di pervenire alla sua dimensione totale nel mistero della croce cosmica di Cristo. Secondo il metodo già utilizzato, è indispensabile partire dallo studio delle immagini evocate spontaneamente dall’albero in ogni uomo. Sono queste sensazioni profonde che recano la dinamica del messaggio di cui successivamente le si può caricare.

L’albero è insieme il mistero della verticalizzazione, della crescita prodigiosa verso il cielo, della perpetua rigenerazione; rappresenta non solo l’espansione della vita ma anche la costante vittoria sulla morte; è l’espressione perfetta del mistero della vita che costituisce la realtà sacrale del cosmo.

Non esiste concezione più estesa di quella del cosmo vivente simboleggiato da un albero. L’arte più antica, le leggende, i miti dei popoli più disparati lo dimostrano con sufficiente profusione.

Il simbolo di Quetzalcóatl rappresenta il mondo come un cubo aperto, dalle superfici distese sulle quali figurano degli alberi cosmici, di cui uno (in alto), diventa l’asse del mondo. Una volta ricostituito il cubo, i quattro alberi si sovrappongono e si fondono accumulando i loro rispettivi simbolismi, in un albero centrale che è l’asse verticale del cubo cosmico. Alla sommità di questi alberi, le aquile dì cui abbiamo già citato la frequenza sopra agli assi del mondo per simboleggiare uno stato spiritualizzato o trascendente o la sovranità.

Liverpool, Museo del mondo – Codice Féjerváry-Mayer, prima pagina: Quetzalcoatl signore dell’aurora, al centro dell’universo

Nella rappresentazione cinese di un albero, tratta da un rilievo della Camera delle Offerte di Wou Yong (168 d. C), un personaggio sceso dal suo cocchio, al termine di un viaggio mitico, Jo tocca con la mano; fra le foglie e svolazzanti tutt’attorno si vedono uccelli e diversi animali. E un microcosmo completo.

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

L’albero è un asse verticale attorno al quale si avvolgono e da cui si dipartono radici e rami: è l’immagine del mondo in espansione in unità e in ascensione. Si celebrano le sue tre zone cosmiche: sotterranea (radici che si allungano verso il basso), terrena e umana (tronco, pura verticalità), superiore e celeste (ramificazione, espansione). Tale albero spesso viene caricato di uccelli e di vari animali.

Nelle tradizioni orientali, così capaci di esprimere il mistero delle cose, molto spesso l’albero sacro appare rovesciato: ha la radice nel cielo e cresce in direzione della terra, al fine di invaderla e di sacralizzarla per assimilazione: mistero della creazione e delle ricreazioni della grazia venute dall’alto. «I rami si allungano verso il basso, in alto, invece, si trova la radice; che i rami discendano su di noi», dice il Rig-Veda. Gli Upanishad precisano la sua costituzione cosmica che è quella degli elementi: «I suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra»; la stessa tradizione appartiene alla dottrina esoterica ebraica: «L’albero della vita si stende dall’alto verso il basso e il sole l’illumina interamente». La tradizione islamica afferma lo stesso a proposito dell’albero della felicità. Nel Paradiso di Dante le sfere celesti formano la ramificazione di un albero che si erge secondo natura, ma del «quinto ramo», quello del pianeta Giove, si dice che «l’albero che vive dalla cima» è un albero rovesciato. Lungi dal voler attuare giochi letterari, numerosi popoli ne fanno la materia di una liturgia che rivela il valore immaginario di questo simbolismo. Gli uni pongono accanto all’altare un albero con le radici all’aria; altri lo piantano secondo un rito e sempre rovesciato. In certe iniziazioni esso è utilizzato nel cerimoniale che simula il passaggio dalla morte alla vita.

La Bibbia cita gli alberi sacri che all’epoca erano conosciuti presso i popoli circostanti, e che occupavano nelle loro religioni un posto fondamentale: il cedro del Libano, gigantesco e prestigioso, che implica un universo intero che vive per millenni; l’olivo per le stesse ragioni e per il prodotto che dona, l’olio. Nell’ordine dei simboli ascensionali, si celebrano ugualmente due alberi che sembrano due netti colpi di pennello verticali: il pioppo e il cipresso, quest’ultimo avvantaggiato per di più da un fogliame sempreverde che ne fa il simbolo della Vita eterna.

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 70v: San Giovanni e l’angelo

Con l’immagine di un albero che invade l’universo, Dio predica al suo popolo il ritorno a tempi di prosperità e l’era in cui si realizzerà la sua vocazione di essere una fonte di benedizione divina per tutta la terra.

Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici,
Israele fiorirà e germoglierà,
e riempirà dei suoi frutti il mondo intero
(Isaia, xxvii, 6)

La conquista del mondo, le rivendicazioni di egemonia utilizzano volentieri questo simbolismo. È il caso del famoso sogno di Nabucodònosor, re di Babilonia riferito al capitolo IV dal profeta Daniele (vv. 7-9): «Tali erano le visioni del mio spirito, nel mio letto; io vedevo in mezzo alla terra un albero altissimo. Esso cresceva; era vigoroso. La cima toccava il cielo; lo si scorgeva fin dall’estremo della terra. Le sue foglie erano belle e i suoi frutti abbondanti fornivano a tutti di che mangiare».

Daniele rivela al monarca la chiave del sogno: «L’albero che hai visto crescere ed abbellirsi, la cui cima toccava il cielo e che si scorgeva dall’estremo della terra, quell’albero dalle belle foglie, dai frutti abbondanti che consentivano a tutti di mangiare, sotto il quale pascolavano tutte le bestie terrestri e fra i rami del quale albergavano gli uccelli del cielo, quell’albero sei tu, sire, che sei diventato grande e potente, la cui altezza ha raggiunto gli astri e la cui dominazione si stende fino ai confini della terra» (vv. 17-19).

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): Il sogno di Nabucodonosor

La figura rappresenta una miniatura della Bibbia di Roda (Parigi, Biblioteca Nazionale) che illustra questo episodio. Nella parte inferiore, a destra, Nabucodonosor consulta i saggi di Babilonia che si rivelano incapaci di interpretare il sogno. A sinistra, Daniele glielo spiega. Sopra, l’albero, che si è elevato «nel centro della terra, molto grande»; gli uccelli che vi si raccolgono, gli animali che vi trovano asilo, rappresentano tutti i popoli del globo. Nel centro, in un’aureola, la mano divina per rappresentare la voce venuta dal cielo di cui al versetto 10. Le radici sono ben visibili e particolarmente sviluppate e ornate per illustrare il versetto 12.

L’albero cosmico si riconosce generalmente dalla sublime pienezza del suo disegno; la forma pura è una sfera ideale al di sopra di un tronco che è pura verticalità. Una sensazione di sicurezza ne ha fatto un attributo della Prostituta Famosa descritta ai capitoli XVII e XVIII dell’Apocalisse di san Giovanni.

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 64: La donna sulla Bestia

Il personaggio simboleggia Babilonia-la-Grande, nome convenzionale di Roma in quanto tipo della città del diavolo che ha sottomesso tutta la terra. La prostituzione designa l’idolatria che, in effetti, è un’infedeltà spirituale di carattere coniugale nei confronti del vero Dio, sposo del suo popolo. «Questa donna è la grande città, che regna sui re della terra… Dell’ebbrezza delle sue prostituzioni hanno goduto tutte le nazioni e i re della terra hanno brindato con lei». Di questo vino è piena la coppa che essa tiene in mano e che offre a chiunque si avvicini. Il mondo è il suo potere; quando sopraggiunge l’ora del regno di Dio, allora una voce annuncia la sua condanna: «Vai, o mio popolo, abbandonala, affinché, complici dei suoi errori, voi non abbiate a patire le stesse sue piaghe. Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo… In misura del suo fasto e dei suoi lussi le saranno dati tormenti e disgrazie… Ecco perché in un solo giorno molte piaghe si abbatteranno su di lei: peste, lutto, e fame; ella sarà consumata dal fuoco. Perché è potente il Signore Dio che l’ha condannata». Il suo impero crollerà col fracasso dei grandi alberi recisi.

La Bibbia aveva reso tradizionale il confronto con l’albero magnifico per significare le pretese orgogliose degli imperi pagani e spiegare i loro rovesci di fortuna col giudizio di Dio onnipotente (è la versione vegetale del tema dell’ascesa orgogliosa descritta nella satira sulla morte di un tiranno al capitolo XIV di Isaia). Il testo più bello si trova al cap. 31 del profeta Ezechiele. Questo poema descrive «l’Egitto sotto forma di un albero sacro… un albero del Paradiso di Dio… La dimensione di questo pino gigante è quella di un albero sacro che domina il mondo. Ci si ricorderà degli alberi venerati negli altipiani semitici. Nella speculazione buddista si ritrova il mito dell’albero cosmico. Quello descritto da Ezechiele sorpassa i cedri del Libano… Le radici dell’albero raggiungono l’abisso originale ove attingono la linfa e alla sua ombra abitano numerose nazioni» (Ezechiele, Desclé de Brouwer, 1961, Commentario, p. 73 e 75). Ecco il testo:

«L’undicesimo anno, al terzo mese, il primo del mese, la parola di Iahvè mi raggiunse dicendo: Figlio d’uomo, parla a Faraone, re d’Egitto e alla sua gente:

A che cosa ti paragonerò, nella tua maestà?

A un pino dalla fronda rigogliosa!

Dal folto fogliame, dal tronco slanciato!

In mezzo alle nubi emerge la sua cima!

Le acque l’hanno fatto crescere, l’abisso lo ha ingrandito,

irrigando con le sue correnti le culture circostanti,

dirigendo i suoi ruscelli verso ogni terreno.

Così si slanciava al di sopra di tutti gli alberi della campagna.

I suoi rami si erano moltiplicati, le sue fronde si allargavano.

Tra i suoi rami nidificavano tutti gli uccelli del cielo,

Sotto le sue fronde si riparavano tutte le bestie della campagna,

Alla sua ombra abitavano numerose nazioni.

Era bello nella sua maestà per il numero dei rami,

Le sue radici si estendevano in acque abbondanti.

1 cedri non lo superavano nel giardino di Dio,

I cipressi non erano paragonabili ai suoi rami,

I platani non competevano con le sue fronde.

Nessun albero del Paradiso di Dio l’uguagliava in bellezza,

Faceva invidia agli alberi dell’Eden, che sono nel Paradiso di Dio».

Ma questa grandezza è indebita, frutto e simbolo di orgoglio; e Iahvè interviene per riportarla al nulla: «Per questo Iahvè parla così: Poiché esso si è erto in tutta la sua altezza, poiché ha elevato la sua cima fino alle nuvole e poiché si è illuso riguardo alla sua grandezza, io l’ho abbandonato in balia dell’ariete delle nazioni. Stranieri, popoli barbari l’hanno tagliato e adagiato sulle montagne. I suoi rami sono caduti per tutte le valli; le sue fronde si sono disperse per tutti i torrenti della terra. Tutti i popoli della terra hanno abbandonato la sua ombra». Ed ecco la morale: nessuna potenza terrena tenti di sollevarsi fino alle nubi, poiché ogni uomo è destinato ai paesi sotterranei.

Tentare di rendersi pari a Dio è come, ripetendo il peccato dei nostri progenitori, andare verso la morte: « Così dunque, nessun albero si elevi nel suo orgoglio sulla riva delle acque e nessuno innalzi la sua cima fra le nubi e non insuperbisca se è ben irrigato. Perché essi sono tutti destinati alla morte, al paese sotterraneo, fra gli uomini comuni che scendono nella fossa». Il seguito del testo annuncia che l’Egitto, alla sua ora, discenderà nel paese delle ombre e sarà inghiottito nell’abisso precedente la creazione. I testimoni della sua caduta saranno atterrati; gli alti alberi dell’Eden che il Faraone aveva posto in ombra, pieni di gioia, si prenderanno beffe della potenza decaduta mentre scenderanno nello shéol per condividere la loro sorte. Nulla sfugge alla sorte comune e ancor meno alle mani di Dio. «Così parla Iahvè: Il giorno della sua discesa allo shéol, io ho richiuso su di lui l’abisso, ho immobilizzato i fiumi, e le acque sconfinate si sono arrestate. Per causa sua, ho oscurato il Libano e tutti gli alberi della terra si sono seccati. Al rumore della sua caduta, ho fatto tremare le nazioni, quando l’ho fatto precipitare nello shéol con coloro che sono scesi nella fossa. Nel paese sotterraneo, tutti gli alberi dell’Eden, le magnificenze del Libano, tutti bene irrigati, sono stati consolati, e anch’essi sono scesi con lui nello shéol verso quelli recisi dalla spada; essi sono stati abbattuti, essi che abitavano alla sua ombra, nel centro delle nazioni. “Chi era tuo pari in gloria e grandezza fra gli alberi dell’Eden? Tu sei stato precipitato, con tutti gli alberi dell’Eden, nel paese sotterraneo. Eccoti giacente fra gli incirconcisi, con le ferite per la spada!” Così avverrà di Faraone e di tutta la sua stirpe! Oracolo di Iahvè».

Il confronto dell’albero della Prostituta Famosa illumina l’iconografia del serpente che avvolge l’albero del giardino dell’Eden.

El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial – Codex Vigilanus, fol. 17r: Il peccato originale

In origine, lungi dal rappresentare solamente un artificio d’artista – come invece avverrà in seguito, almeno in molti casi -, questa attitudine è la sola che convenga in assoluto al Principe degli Angeli, creato da Dio in tale splendore e con tale potenza sul cosmo da meritare a buon diritto la definizione di Principe di questo mondo. Dio ha voluto che egli, una volta caduto, conservasse ugualmente la sua potenza e il suo titolo. Così l’universo trascorre la propria esistenza in possesso del Maligno: fare cadere a sua volta la coppia originale nel peccato, significava, secondo il suo pensiero, consolidare definitivamente il proprio dominio eliminando gli ultimi possibili importuni. Il mezzo che concretizzò la tentazione fu il frutto dell’albero… L’iscrizione che funge da inquadratura reca le parole… UBI INTER LIGNA PARADISI AD POMU EVA MANUM PORREXERAT SUMENSQ(VE) ID DE SERPENTIS ORO PERNICITER ADE CONTULERAT ecc., cioè: «Qui, fra gli alberi del paradiso, Eva aveva teso la mano verso il frutto ed avendolo preso dalla gola del serpente l’aveva per disgrazia offerto ad Adamo, ecc.». Sulla pagina di fronte una visione di Cristo in gloria: la sua scelta è dovuta probabilmente alla volontà di contrapporre la caduta e la rigenerazione.

C’è una relazione tra la piccola mela rotonda – il frutto dell’albero – che il serpente tiene nella gola, che Eva prende in mano e che Adamo presenta tra due dita da una parte, e la piccola boccia che il Cristo, nuovo Adamo, tiene delicatamente fra tre dita della mano destra dall’altra. L’importanza del gesto è sottolineata dall’iscrizione: DOMINUS IN TRIBUS DIGITIS DEXTERAE MOLEM ARBAE LIBRAVIT FERENSQUE CODICEM IN LEBA VITAE OM’A ENIM IN COELO ET IN TERRA ET SUBTUS TERRA EQUANIMITER PER IPSUM DOMINATA SUNT, cioè «Il Signore ha tenuto tra tre dita della sua destra la massa della terra e ha portato nella sinistra il libro della vita. Infatti ogni cosa nel cielo, sulla terra e sotto terra sta ugualmente in suo potere». L’iscrizione allude al poema che canta l’incomparabile grandezza di Dio e del suo dominio sull’universo, al capitolo XI di Isaia; essa attinge liberamente al testo sacro, che suona così:

Quis mensus est pugillo aquas
et caelos palmo ponderavit?
quis appendif tribus digitis molem terrae?

Che significa: «Chi dunque, come Dio, ha mai misurato nella sua mano le acque (del mare) e pesato i cieli nel suo palmo e soppesato fra le dita la massa della terra?» Mare, cielo, terra: le tre componenti del mondo, interpretate dalla seconda parte dell’iscrizione: «Ogni cosa, in effetti, in cielo, sulla terra e sottoterra sta ugualmente in suo potere». Il Cristo ha ricondotto il potere del mondo, che Satana aveva usurpato nel giardino dell’Eden, e viene rappresentato nel Signore dell’Apocalisse; un alfa e un omega giganteschi sono disegnati sopra il suo capo e sotto i suoi piedi, mentre una banda trasversale reca scritto INITIUM ET FINIS: «Io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine (di ogni cosa), dice il Signore Dio, Egli è, Egli era, Egli viene, il maestro di tutto» (Apocalisse i).

Nel Codex Vigìlanus, datato al 976, come nel Codex Aemilianus (992), suo gemello, la mandorla a forma di losanga di Cristo è inquadrata da un cherubino, un serafino, Michele e Gabriele: eminenti rappresentanti della corte celeste (la losanga è disseminata di stelle).

El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial – Codex Vigilanus, fol. 16r: Il Cristo in Gloria

Nell’Aemilianus, un’altra iscrizione spiega come Cristo abbia potuto soppiantare il Principe di questo mondo: DS et HOMO; Gesù è insieme Dio e uomo. Un’analoga composizione, arricchita dei quattro Viventi del tetramorfo si trova nel Beatus di Girona. Il Cristo tiene fra le dita la posta del dramma della creazione, la piccola boccia dietro la quale si distingue una sola parola: mundus, il mondo. «Ed ogni creatura, nel cielo e sulla terra e sottoterra e nel mare, l’universo intero io sento gridare: “A colui che siede sul trono, così come all’Agnello, lode, gloria, potenza nei secoli dei secoli!”» (Apocalisse V).

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 2: Cristo in gloria, Tetramorfo e Angeli

L’albero implica spesso il tema dell’albero della vita che dà o rende l’immortalità; dell’albero paradisiaco piantato alle origini e atteso alla fine dei tempi. La sua espressione ultima è quella dell’albero divino che divinizza, o il cui frutto è esclusivamente riservato al rappresentante degli dei sulla terra. Forse l’esempio più splendido da citare è l’affresco egiziano, di grossolana fattura, dell’ipogeo di Thoutmes III a Tebe (metà del II millennio a.C); il re, identificabile per l’uraeus della capigliatura, prende con le mani infantili il braccio della dea-sicomoro, assimilata a Iside, e succhia avidamente dal suo grosso seno che emerge fra le foglie.

Tebe, Ipogeo di Thoutmès III – Affresco: L’albero divino

È una variante dell’albero del latte, dell’albero da cui scorre la rugiada, dell’albero fontana. Iahvè spesso si è paragonato ad un albero: «Io sono come il cipresso verdeggiante, è da me che viene il tuo frutto» (Osea, XIV). Il fogliame persistente del cipresso ne ha fatto l’albero sacro di numerosi popoli; essi chiamano il cipresso-tuia, l’albero della vita. Nel testo citato, Iahvè si rivolge al suo popolo e gli spiega che egli è la sorgente della fecondità, in maniera del resto totalmente simbolica, poiché i frutti del cipresso non sono commestibili. Nella Bibbia il serpente tenta Adamo ed Eva con queste parole: «Se mangerete il frutto dell’albero, sarete come gli dei».

Per ricondurci all’albero del Paradiso, propriamente detto, citiamo un bel poema relativo ad un punto dei più celebri alberi, l’Yg drasil dei popoli scandinavi; esso si adatterebbe altrettanto bene all’Hom iraniano e ad altri.

Io mi ricordo dei giganti nati all’alba dei tempi,

di quelli che un tempo mi hanno fatto nascere.

Io conosco nuovi mondi, nuovi domini coperti dall’albero del mondo,

quell’albero saggiamente edificato che affonda le radici fin nelle viscere della terra.

Io so che esiste un frassino che chiamano Yggdrasil.

La cima dell’albero è bagnata nei bianchi vapori delle acque,

di là scorrono gocce di rugiada che cadono nella valle.

Esso si innalza eternamente verde al di sopra della fontana d’Urd.

La descrizione potrebbe riferirsi altrettanto bene alla montagna del mondo. Notiamo il riferimento ai tempi primordiali, i piani mitici del mondo ordinati dopo i cieli fino nelle profondità della terra, all’albero della saggezza (albero della conoscenza) che s’identifica al mondo di cui rappresenta l’estensione; albero che riceve le benedizioni dall’alto (cima bagnata da bianchi vapori d’acqua) e da cui scorre la rugiada fecondante, albero-fontana le cui acque irrigano la valle del mondo. L’immagine ricopre a suo modo il mosaico del Laterano: per altro verso essa ci introduce ad una maggior comprensione dell’asse che attraversa la montagna sacra e della croce piantata sul Golgota.

L’Hom della tradizione iraniana è contemporaneamente vegetale e sorgente. Piantato alle origini da Ahura Mazda sul Monte Araiti, ha il suo prototipo nel cielo, l’hom bianco, pianta dell’immortalità che rigenererà l’universo. Le sue radici affondano in un lago dove si nasconde una lucertola che cerca di nuocere all’albero, replica del serpente Midhuigg che tenta, invece, di danneggiare le radici dell’Yggdrasil. L’hom iraniano è passato nell’iconografia occidentale sotto numerose forme più o meno riconoscibili, derivate per lo più dal tronco a doppia voluta.

Iran, epoca sassanide (VI-VII sec.):
Sciamito decorato da rotae o orbicoli contenenti due cavalieri che affrontati cacciano con l’arco

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine307-324 

L’albero della croce

Sezione: Studi


La croce rende esplicito il mistero del centro. Essa è diffusione, emanazione, ma anche riunione, sintesi. È il più completo di tutti i simboli; nessun’altro quanto questo sa condensare nel più essenziale dei segni la più vasta delle sintesi. Forse è il simbolo più universale, infatti tutte le civiltà lo hanno compreso nel proprio patrimonio simbologico. La croce costituisce l’elemento fondamentale dello schema alla base delie immagini del mondo o del luogo sacro. È un simbolo spaziale e temporale e questa proprietà privilegiata lo rende adatto ad esprimere il mistero del cosmo animato.

Per questo essa si sovrappone sempre – in un modo o nell’altro, e con una sovrapposizione non tanto geometrica quanto immaginaria – al tempio cosmico che è la chiesa. La chiesa costituisce la sintesi liturgica dell’universo animato da Dio, dell’universo reso presente dalla epifania permanente delle strutture e dei cicli naturali. La chiesa è al centro del mondo, e l’uomo liturgico è al centro della chiesa. In essa e per essa, egli si orienta e con il suo orientarsi determina la direzione e il senso del mondo. Egli lo ricapitola e così lo dilata nell’espansione cruciforme. La croce del microcosmo-chiesa non è tanto quella costituita dal suo perimetro (la navata che si incrocia con i bracci del transetto, dal momento che questa forma può fare difetto) quanto quello della sua intima espansione nelle quattro direzioni dello spazio. È questa relazione psicologica, così imperativa nell’uomo, che gli conferisce misteriosamente la coestensione dei quattro orizzonti, dei quattro venti dello spazio. È ancora essa che inscrive nello spazio il cerchio delle stagioni, scandito dall’alternanza rituale dei solstizi e degli equinozi che sono i quattro punti cardinali del ciclo liturgico (Natale, Pasqua, San Giovanni, San Michele). È ancora essa che salda la croce cardinale terrestre sulla celeste e fonda il simbolismo dei loro rapporti. Questo rapporto è animazione, e la sua espressione più vivamente percepita dalla psiche umana è quella della rotazione della sfera del mondo attorno al suo asse polare; tale asse è perpendicolare al grande cerchio dell’orizzonte, del luogo sacro, e forma con una qualsiasi delle parallele al suolo una croce, questa volta drizzata verticalmente.

Queste due croci, croce orizzontale, d’orientamento cardinale, e croce verticale assiale, in realtà non sono che una sola croce: quella a tre dimensioni e a sei bracci che orna i campanili delle chiese orientali. In Occidente, essa assume la forma della girandola in cima ai campanili divisa alla base da una croce orizzontale orientata. Tale è la croce del mondo vivente, la croce che fa della chiesa il centro e la ripetizione del cosmo liturgico. Poiché essa è perfettamente coestensibile ai simboli del cosmo naturale non meno perfettamente misura il microcosmo che è la chiesa. In essa e per essa la vita e il movimento emanati dal polo celeste, simbolo di divinità, si trasmettono al centro sacro terrestre: all’altare, al santuario, alla chiesa, e raggiando da questo centro, a tutto l’universo.

La croce tridimensionale è la più perfetta immagine sacra del mondo. È il segno visibile della trinità nell’unità. Il sei caratterizza la creazione-emanazione; si ricordino l’opera di sei giorni e tutti i motivi sestuplici incontrati nel contesto della creazione, per esempio sui portali romanici ove si potrà incontrare sei volte la maschera della terra che vomita viticci tra cui giocano alcuni animali. Il settenario indica la conclusione e la pienezza (il settimo giorno) ottenuti quando si aggiunge al computo dei sei bracci il punto centrale da cui essi emanano o dove vengono riassorbiti nell’unità indifferenziata. Dio sta in questo centro: «Volgendo il suo sguardo verso queste sei estensioni come, verso un numero sempre uguale, egli conclude compiutamente il mondo; egli è l’inizio e la fine; in lui si compiono le sei fasi del tempo e da lui esse ricevono la loro indefinita estensione; là è il segreto del numero sette» (Clemente d’Alessandria).

La croce tridimensionale può essere rappresentata in modi assai differenti. Sulla superficie piana, la sua forma più semplice è la stella a sei bracci, più o meno regolari sia per la loro dimensione che per la disposizione; la verticale zenith-nadir appare spesso distinta dalla croce orizzontale e orientata da una freccia, una fiamma, un cerchio, un motivo qualsiasi. Si riconosce la forma nota del crisma , simbolo polivalente vecchio come il mondo, che la simbologia cristiana si è compiaciuta di utilizzare, dopo un semplice battesimo mentale che risultava sia dalla lettura della X e della P, le prime due lettere del nome di Cristo in greco, sia dall’incrocio di questa X con la I di Jesus. Il monogramma di Cristo diventava la formula simbolica della salvezza universale operata dalla croce di Gesù Cristo.

Crisma

Quest’ultima non appariva sul labaro di Costantino, mentre compariva il crisma; la conversione dell’imperatore consentì la sostituzione con mezzo secolo di ritardo: l’impero divenuto cristiano, abolendo il supplizio della croce, soppresse l’odiosa sensazione connessa allo strumento di tortura finché restò in uso; verso la fine del IV secolo il segno, spogliato di quel senso, diviene degno di rivestire la livrea di gloria sopra il segno delle ferite. La croce latina compare in seno al crisma stesso ma conserva in alto l’anello che ricorda la P e costringe a rilevare nell’incrocio l’antica X raddrizzata. All’inizio del V secolo l’anello sparisce, e nasce la nostra tradizionale croce cristiana. Il crisma viene usato ancora, anzi in quest’epoca raggiunge le sue espressioni più perfette e trae dalla croce latina l’alfa e l’omega che spesso e volentieri gli vengono associate per assicurargli una cristianizzazione aliena da ogni equivoco segnico: questo riferimento al Cristo dell’Apocalisse, Pantocratore e Maestro del tempo, conferisce al vecchio simbolo le dimensioni della Rivelazione. Il mosaico del battistero di Albenga (V-VI secolo) rappresenta a questo proposito un vero capolavoro. Tutta la simbologia dell’emanazione-espansione, dell’’exitus-reditus, che abbiamo osservato sul piano dei fenomeni naturali e che abbiamo visto sottesa alla presentazione, da parte di san Paolo e dei Padri della Chiesa, del mistero dell’amore di Cristo, è qui presente.

Albenga, Battistero: Mosaico: Crisma

Si noteranno il centro origine, i cerchi disposti in triplice risalto (allusione trinitaria), la croce tridimensionale dei crismi, gli alfa e omega, le dodici colombe che rendevano presente la Chiesa universale diffusa in tutto il mondo, occupando il quadrato terrestre segnato ai quattro angoli dalle quattro stelle.

Si giunge così alla simbologia del tracciato di consacrazione delle chiese che si riassume in un segno, e precisamente nel crisma inquadrato dall’alfa e dall’omega. Il crisma è il simbolo del tempio cristiano considerato nel suo dinamismo liturgico che mira a fare del mondo umanizzato il corpo consacrato del Pantocratore: «Il corpo di Cristo è la Chiesa» (san Paolo).

Simbolo dell’universo, simbolo della chiesa di pietra, la croce tridimensionale è ugualmente il simbolo dell’ultimo microcosmo della catena, l’uomo. La sagoma dell’uomo con le braccia aperte evoca spontaneamente quella della croce eretta; questo tracciato però è semplicemente uno schema incompleto; se infatti esso esprime a meraviglia l’orientazione verticale ed ascensionale dell’uomo come pure la sua lateralità destra e sinistra, non fa apparire la seconda dimensione della sua intima croce orizzontale: il davanti-dietro che privilegia l’incrocio laterale (ciò è ancor più chiaro nell’animale a quattro zampe che ha solo due dimensioni fondamentali: il davanti-dietro e la lateralità). La croce tridimensionale è la croce completa dell’uomo: essa struttura la sua spina dorsale che costituisce l’asse verticale dell’organismo. La simbologia dei microcosmi-macrocosmi si rivela perfettamente omogenea a tutti i livelli.

La croce completa del Cristo salvatore non è né panteista né semplicemente d’ordine naturale. La sua coestensione al mondo è opera dell’amore universale e ricreatore di Gesù. I simboli sensibili aprono alle realtà spirituali. «Radicati in questo amore voi riceverete la capacità di comprendere con tutti i santi ciò che è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, voi conoscerete l’amore di Cristo che va oltre ogni conoscenza ed entrerete per la vostra pienezza nella pienezza di Dio» (Lettera agli Efesini, cap. III). Vi si riconosce la simbologia storica diffusa al tempo dell’apostolo per designare la totalità dell’universo. Di comune accordo, i Padri della chiesa hanno interpretato questo testo leggendovi la croce cosmica di Cristo che invade l’universo per ricrearlo, quella croce che i Greci chiamavano «sèmeion ekpétaséôs», il segno dell’estensione. Il testo più classico dell’antichità cristiana a questo proposito è quello di sant’Ireneo: «Per obbedienza cui è stato fedele fino alla morte sul legno della croce, il Verbo ha espiato l’antica disobbedienza (quella dei nostri progenitori). E dal momento che Egli è il Verbo onnipotente la cui invisibile presenza è estesa in noi e riempie il mondo intero, la sua azione sul mondo continua ad esercitarsi in tutta la sua lunghezza, larghezza, altezza e profondità. Grazie al Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’opera redentrice e il Figlio di Dio, con la sua benedizione, ha posto il segno della croce su tutte le cose. Perché era giusto e necessario che colui che si è reso visibile conducesse tutte le cose visibili a partecipare alla croce, ed è così che sotto una forma sensibile la sua influenza si è fatta sentire nelle cose visibili stesse. Infatti è lui che illumina le altezze cioè i cieli, lui che penetra le profondità di quaggiù, lui che percorre la lunga distesa dall’Oriente all’Occidente, lui che congiunge lo spazio immenso da nord a sud richiamando gli uomini dispersi in tutti i luoghi alla conoscenza del Padre».

Il Cristo morendo inchiodato ad una traversa fissata ad un palo ne ha fatto il segno storico del compiersi del disegno divino.

Per il credente, la croce primaria è l’ultima nella storia: quella che fu piantata nella sera dei tempi sul Golgota, una croce silenziosa che con le sue braccia aperte esprime un amore grande come il mondo non aveva mai conosciuto. Un amore che ha trovato nello strumento del sacrificio il simbolo della sua grandezza. La passione di Cristo ha trasfigurato il segno della croce; ormai, al di là dell’antica immagine, è l’universale e misteriosa bontà del suo Signore che l’uomo redento percepisce e venera. Attraverso la comunione con il segno sacro, egli penetra nelle vertiginose profondità del disegno di Dio sul mondo, così come diceva san Paolo agli Efesini.

«Dalla croce su cui morì il Verbo creatore del mondo, il cristiano sposta lo sguardo verso il cielo stellato in cui si muove il cerchio di Elios e di Selene. Quindi, se egli si addentra nelle più profonde strutture del cosmo o penetra le leggi della costituzione del corpo umano, dappertutto – e fino nella forma dei più piccoli oggetti familiari – egli vede impresso il misterioso sigillo: la croce del suo Signore ha mutato radicalmente il mondo». Se egli considera la croce tridimensionale di san Paolo, essa è per lui «la legge della costruzione, lo schema fondamentale che Dio imprime ad ogni sua opera, quel Dio che segretamente, fin dalle origini, teneva gli occhi fissi sulla croce di suo Figlio» (H. Rahner). Certo, è proprio nel suo mistero «che sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, create da lui e per lui» (Lettera ai Colossesi, cap. I). Se egli scopre negli scritti di Platone che la grande X costituita dall’intersezione del cerchio dell’equatore con quello dell’eclittica disegna sulle nostre teste una croce piana che è il simbolo dell’anima del mondo, egli vede in ciò il grandioso annuncio della croce-in-cielo di Cristo.

San Cirillo di Gerusalemme spiega ai suoi catecumeni: «Dio ha steso le mani sulla croce per abbracciare le estremità dell’universo. Anche il monte Golgota è diventato il perno del mondo». Con Firmico Materno, il perno diventa l’asse dinamico che unisce cielo e terra: «Il legno della croce sostiene la volta celeste, e consolida le fondamenta della terra». E così pure mette in comunicazione i piani del mondo, costituitivi del luogo sacro. Andrea di Creta, riprendendo san Paolo, fa una litania della croce: «Riconciliazione del mondo, determinazione delle frontiere terrestri, altezza del cielo, profondità della terra, legame che unisce la creazione, lunghezza di tutte le cose visibili e larghezza dell’universo!».

«Il segno della croce apparirà nel cielo il giorno del Giudizio finale», canta l’inno della festa dell’Esaltazione della santa Croce nella liturgia latina.

La croce salda il ciclo del tempo del mondo, il grande cerchio creazionale: essa pone su tutte le cose il sigillo ultimo che le giudicherà secondo l’amore incarnato: «O croce piantata nella terra che rechi frutti in cielo! O nome della croce che racchiudi in te l’universo! Salute a te, o croce che tieni legato il cerchio del mondo! Salute, o croce che hai saputo dare alla tua sembianza informe una forma piena di senso profondo!» (Atti apocrifi di Andrea). Essa è il polo e il motore immobile di un mondo in movimento; stat crux dum volvitur orbis, la croce sta fissa mentre il mondo ruota: è il motto dei monaci.

L’uomo stesso trova nella croce l’espressione sintetica della sua intrinseca identità strutturale con il cosmo, con il vivente e con il cielo che lo chiama. Egli vi legge anche il segno della sua irriducibile originalità. «Fisicamente l’uomo non differisce in nulla dagli altri animali, fuorché per il fatto che egli è diritto (verticalizzazione-umanizzazione) e può stendere le mani» (Giustino). Inoltre, egli, anch’egli croce viva e attiva, croce eretta, può conservare e concludere il cerchio del mondo iscrivendosi all’interno del suo disegno, può ricreare in sé il mondo tracciando le fondamenta dei suoi santuari.

Solsona, Museo Diocesano – Affresco (proveniente da Pedret): L’uomo, centro del mondo

«La volta celeste non è forse anch’essa a forma di croce? E l’uomo che cammina, che alza le braccia, anch’egli descrive una croce… Per questo noi dobbiamo pregare con le braccia stese, al fine di esprimere fino nell’atteggiamento le sofferenze del Signore» (Massimo di Torino). Perché dopo tutto è sempre di Lui che si tratta. «Così tutto si riempie del mistero amato. Questo punto di vista è decisivo per la comprensione dell’arte cristiana. C’è un mistero nella piattezza e nella semplicità apparenti dei simboli della croce che si vedono dipinti o incisi rozzamente nelle catacombe, così come nella semplicità primitiva della posizione del cristiano in preghiera. L’uomo antico possiede ancora un senso assai vivo dell’opposizione, per così dire dialettica, tra l’insignificante gesto da nulla, o simbolo e il contenuto grandissimo che vi si nasconde». (Rahner). L’arte romanica risulta impregnata di questa sensazione che costituisce il fondamento dell’arte sacra. Essa ha conservato vivamente questa intuizione fondamentale che la forza dei simboli risiede in un contrasto paradossale tra l’inesprimibile realtà significata e l’irrilevanza del simbolo che ad essa conduce.

La croce è il grande segno cosmico; il segno dell’universo, il segno dell’uomo; il segno di Dio presente e agente in entrambi. È allo stesso modo un segno biblico, un segno storico, un segno personale: e di nuovo si verifica il contrasto incredibile tra questo insignificante simbolo con l’incommensurabile e adorabile ricchezza del mistero della Croce di Gesù Figlio di Dio che lo fa essere fra tutti i simboli il più evocativo.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo 
Editore Jaca Book
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine369-374 

Figure semplici: il Paradiso terrestre

Sezione: Studi


La Gerusalemme celeste è quadrata, è la terra rinnovata e trasportata nel cielo. Il Paradiso terrestre, al contrario, è il giardino in cui Dio conversa liberamente con Adamo ed Eva, nella luminosa chiarezza delle origini, prima che il peccato scavasse un abisso tra l’uomo e il suo creatore: è il cielo sulla terra. O ancora, secondo il IV libro di Esdra (III, 6), è il giardino meraviglioso che esisteva nel cielo prima della stessa creazione del mondo. Esso, dunque, è rotondo, ed è proprio così che lo rappresenta la tradizione più diffusa.

Citiamo soltanto qualche esempio tardo (sec. XV-XVI) ma tipico.

Giovanni di Paolo (XV secolo): cacciata dal Paradiso

Il paradiso terrestre di Giovanni di Paolo (1403-1482) è rappresentato con la carta in rilievo di un continente dalle forme vaghe, con un’alta montagna dalla quale scendono quattro fiumi, il tutto circondato dal mare. L’insieme occupa il fondo di un disco dai bordi coperti di numerosi cerchi concentrici, blu, rossi, viola, bianchi, dall’aspetto smagliante. La parte più esterna è ornata di costellazioni che si staccano da un fondo profondo e blu notte. L’espressione è puramente simbolica. La varietà dei colori suggerisce l’impressione di una ruota luminosa che gira velocemente nell’oscurità. Gli altri elementi sono realistici: Dio, l’angelo che scaccia la coppia peccatrice, Adamo ed Eva, la decorazione degli alberi.

Libro delle ore del Duca di Berry (XV secolo): Paradiso

Con le Ricchissime ore del duca di Berry, conservate al Museo Condé a Chantilly, ci troviamo in un ambito ben noto. Tutti hanno visto quella immagine di un giardino circondato da mura circolari, in cui sono rappresentate le scene del peccato originale e della cacciata. Procediamo nell’analisi: nel centro si erge una fontana gotica, la sorgente della vita; attorno, ancora il mare.

Frate Mauro (XV secolo): Paradiso

Il Paradiso terrestre di Frate Mauro è ancora più completo. C’è un recinto circolare costituito da un alto bastione interrotto da quattro porte; nel centro, l’albero della tentazione. Un fiume esce dal Paradiso, scorre lungo le mura e va ad irrigare la terra. Certamente le mura stanno a ricordare quei giardini ben chiusi caratteristici del medioevo, descritti nel Roman de la Rose; ma l’interesse sta altrove, in quella forma circolare propria della rappresentazioni del Paradiso terrestre considerato nel suo insieme, come un tutto compiuto.

Cosmografia universale (1559): Paradiso

Il Paradiso terrestre della figura è circolare: il centro è occupato dalla Fontana della vita, come nelle Ricchissime ore del duca di Berry, e dai due alberi del Paradiso, come nel Paradiso terrestre di Frate Mauro.

Autore Gerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx
Pubblicazione  I simboli del medioevo
Editore Jaca Book
Luogo Milano
Anno 1981
Pagine 97-99

Figure semplici: il cielo

Sezione: Studi


Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 258v-259r: il cielo

La composizione è interamente circolare; nel centro una sorta di ruota dentata a metà della quale troneggia Dio. Attorno a lui, quasi affacciati ad una balaustra, eletti ed angeli guardano ad occhi spalancati: sporgono solo le teste rotonde, sapientemente disposte su due piani; ciò che. produce una sensazione di rotazione sottolineata ulteriormente dalla disposizione delle ali fluttuanti al vento come bandiere. Osservando con più attenzione, si nota che l’artista ha ulteriormente rinforzato l’impressione di movimento mutando due volte il senso delle ali, evitando così la monotonia geometrica tanto aborrita dal Medioevo. Egli viene in tal modo a suggerire contemporaneamente una rotazione nei due sensi. Segue, poi, una zona chiara, vuota che conferisce profondità al disco centrale sul quale spicca Dio come nell’occhio centrale delle cupole delle chiese. Sull’esterno un magistrale anello di angeli in piedi. Tutti indicano con il dito qualcosa che non si vede, ma che si intuisce essere il punto d’attrazione dell’insieme, evidentemente Dio. Impossibile incrociare uno di questi sguardi che sono assorbiti altrove, presi dalla loro stessa contemplazione: essi godono perfettamente il loro privilegio di vedenti cioè di coloro che desiderano vedere ciò che vedono. Stupisce il fatto che essi non guardano in direzione di Dio, perché la loro contemplazione si risolve tutta interiormente. Questo piano esterno è più calmo, concentra l’attenzione, ravviva la curiosità facendo cercare ciò che contemplano questi angeli, prima di scoprirlo, immobile e trascendente, nel polo del cerchio celeste.

Ai quattro angoli della composizione, quattro aspetti della Bestia dell’Apocalisse, rabbiosa ma impotente a turbare la pace di lassù, e i quattro venti dei punti cardinali terrestri.

Il secondo esempio ci consente un passo più avanti. La miniatura precedente ci mostrava il cielo in se stesso, in tutta la sua indifferenziata rotondità. Nell’immagine seguente, al contrario, abbiamo una bellissima immagine del cielo nei suoi rapporti con il cosmo.

New York, Pierpont Morgan Library – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 87: i cieli aperti

L’Agnello di Dio occupa il disco centrale. Il bordo esterno è disseminato di stelle. La corona circolare qui è ritmata dalla quaterna delle figure alate disposte in croce; una iscrizione circolare tra le loro teste li identifica: quattuor animalia, i quattro Viventi della visione del capitolo 4 dell’Apocalisse. Il numero basterebbe ad indicare che la visione celeste va interpretata nei suoi rapporti con la terra, più precisamente con l’universo creato. Tra i bracci della croce formata dai quattro Viventi, otto personaggi reggono gli uni degli strumenti musicali, gli altri dei curiosi recipienti da cui escono delle strane bolle; altri quattro sono in posizione prona sotto i Viventi. Sono i ventiquattro Vegliardi aventi ciascuno un’arpa e delle coppe d’oro piene di profumi, le preghiere dei santi… Ogni volta che i Viventi glorificano con il bene e azioni di grazia Colui che siede sul trono e che vive nei secoli dei secoli, lanciano la loro corona davanti al trono (le corone simboleggiano il governo del mondo di cui Dio li ha investiti e per cui essi devono rendergli omaggio) dicendo: «Tu sei degno, o nostro Signore e nostro Dio, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza perché sei tu che creasti l’universo», (cap. V, versetto 8 e cap. IV, versetti 9-11). Questo è quanto indica l’iscrizione che si legge in alto: isti prosternunt se ante agnum (questi si prosternano davanti all’Agnello). In basso, sotto il cerchio stellato, due angeli: angeli tronum tenentes (gli angeli che reggono il trono). All’estremità superiore, in corrispondenza degli angeli, un cherubino (cerubin) ed un serafino (serafin). Tra i due, la parola che sintetizza tutta la visione: tronum, il trono di Dio che costituisce il cielo. Se si trasponesse volumetricamente questa rappresentazione bidimensionale, si otterrebbe la classica «costruzione del cielo» degli antichi: quattro angeli cariatidi (con lo stesso ruolo dei venti), reggono la volta stellata del firmamento; la cupola, divisa in quattro, è abitata da personaggi che costituiscono la corte del re del cielo; nella chiave di volta troneggia Dio. La versione parallela di questa miniatura nel Beatus di Madrid non reca iscrizioni e il trono di Dio vi appare al di sopra e al di fuori del cerchio celeste (là dove noi leggiamo la parola tronum); è un modo originale di suggerire l’elemento che, in prospettiva, sarà quello di un lanternone collocato su una cupola con la quale comunica attraverso un occhio centrale: il grande cerchio in cui si vede l’Agnello nella miniatura; così l’Agnello e il Cristo dall’alto coincidono trovandosi sul medesimo asse.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano
Anno 1981
Pagine93-94

Figure semplici: la croce e il quadrato

Sezione: Studi


Due simboli fondamentali sono la croce e il quadrato. La loro correlazione è così stretta che diventa necessario studiarli insieme. Il pericolo maggiore, in questo frangente, è quello della logica. Il simbolismo non è logico; è piuttosto pulsione vitale, conoscenza istintiva; è un’esperienza della totalità del soggetto che nasce al dramma di se stesso per il gioco complesso e inafferrabile degli innumerevoli legami che tessono il suo divenire contemporaneamente a quello dell’universo cui appartiene e al quale attinge la materia di tutte le sue conoscenze.

Poiché, infine, si tratta sempre di nascere con, ponendo l’accento su questo con, piccola parola misteriosa alla quale converge tutto il mistero del simbolo. Cerchiamo di discernere il legame che intercorre tra il centro (o il cerchio) e la croce che conduce al quadrato. Il simbolo quadrangolare è determinato dai contatto della perfezione trascendente con la creazione contingente che ne deriva. Ciò s’impone con una determinazione esistenziale tutta particolare nell’ordine cosmico, al quale siamo continuamente ricondotti.

Poiché il beduino si lascia assorbire dalla sola stella Polare che tutto attrae, gli è impossibile privilegiare o distinguere un punto qualunque dei cerchi astrali disegnati sopra ai suoi occhi. Al contrario, da che li abbassa verso l’orizzonte per fissare lì la sua attenzione, da che abbandona la contemplazione di Lassù, del Trascendente, dell’Ultratemporale per volgersi al Basso, le costellazioni che interferiscono con questo orizzonte entrano nella storia: una storia che fa parte integrante con la sua stessa esistenza. Il celeste sopratemporale si unisce con il terreno per costituire il paesaggio nel quale si svolge la vita degli uomini: paesaggio mitico e sacro prima che cosmologico. Allora inizia il tempo numerato, scandito da quelle sveglie astrali, vere e proprie sincronie che fanno ingranare la vita terrena sul movimento celeste.

Grant Kalendier – Pastore che calcola il procedere della notte dal passaggio delle stelle sulla verticale della Polare

Questa rigorosa interdipendenza tra i due mondi celeste e terrestre costituisce uno dei fenomeni naturali più sbalorditivi. Ogni giorno il sorgere e il tramontare del sole, con l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del caldo e del freddo, condiziona profondamente la vita vegetale ed animale. Ma c’è di più. Il sole che ogni mattina compare in ‘quella direzione e che sparisce al contrario nella direzione opposta, che nel corso della giornata culmina a mezzogiorno, poi discende dalla parte opposta, descrive nello spazio abitato dall’uomo quattro direzioni primordiali che sono le quattro grandi strade attraverso le quali l’uomo stesso prende coscienza del suo dominio terreno. La prima consapevolezza del quaggiù-generato-dal-cielo si manifesta così sotto lo schema generale immaginario di questa quaternìtà; ricordiamo bene questo concetto. La ragione è che l’uomo è un animale essenzialmente orientato per struttura psichica, organica e scheletrica. C’è una faccia ventrale ed una dorsale, una lateralità destra e una sinistra. Esso non può compiere nulla senza riferire, almeno inconsciamente, la propria orientazione a quella del paesaggio cosmico in cui bisogna necessariamente inserirsi per essere se stessi ed agire. Di qui egli attingerà la pienezza dell’animalità sulla quale si fonderà la sua attività propriamente umana, cioè informata dallo spirito. La rivelazione del sole delle quattro direzioni rivela così l’uomo a se stesso e, insieme, alla distesa spaziale che con lui ed in lui entra nella realtà.

Si concepisce, allora, l’importanza del sole nella vita dell’umanità e si comprende come varie religioni abbiano potuto prenderlo per un vero dio. Tuttavia, occorre evitare accuratamente di esagerare l’importanza che riveste. Coloro che vivono costantemente in contatto con la natura sanno bene che a lato di questo prestigioso signore altri attori più discreti entrano in scena. Meno appariscenti, sono più ammantati di mistero. Gli spiriti più profondi vi discernono dei simboli rivelatori di misteri ancora più nascosti. Ricordiamo, fra gli altri esempi, l’importanza che riveste presso tante civiltà la luna, le cui fasi coincidono in maniera così strana con i cicli dei vegetali e con i ritmi della fecondità della donna.

Nondimeno, i pianeti appaiono svantaggiati dal carattere anacronistico della loro corsa paragonata al movimento fondamentale della volta celeste; e così si rifiuta loro l’attitudine a simboleggiare la trascendenza che l’uomo appassionatamente reclama. Dopo tutto è nel firmamento immutabile che egli deve cercare le coordinate ideali ed esemplari del suo orientamento terreno. Il sole si vede allora ridotto al ruolo ancora decisivo, ma non più definitivo, di cursore celeste: gigantesco faro luminoso che segna sulla carta della volta stellata gli spostamenti quotidiani e stagionali del divenire storico della nostra terra. La contemplazione concreta del firmamento ce l’ha mostrato: è lui, il sole, che per la circostanza delle sue levate e dei suoi tramonti davanti all’una o all’altra costellazione permette di distinguere sul cerchio della banda zodiacale le quattro costellazioni stagionali, dell’Acquario, del Toro, del Leone, dello Scorpione: è grazie al suo intermediario che il cerchio percepito nel cielo entra in rapporto con la croce d’orientamento terrestre. L’orientazione totale dell’uomo esige soprattutto un triplice accordo: l’orientazione del soggetto animale in rapporto a se stesso; l’orientazione spaziale in rapporto ai punti cardinali terrestri, l’orientazione temporale, infine, in rapporto ai punti cardinali celesti. L’orientazione spaziale si articola sull’asse est-ovest scandito dalla levata e dal tramonto del sole. L’orientazione temporale si articola sull’asse di rotazione del mondo, insieme sud-nord e basso-alto. L’incontro di questi due assi maggiori realizza la croce d’orientazione totale. La concordanza nell’uomo dei due orientamenti, animale e spaziale, fa sì che egli sia in rapporto con il mondo terrestre immanente; ecco il triplice accordo, animale, spaziale e temporale con il mondo soprannaturale trascendente per e attraverso il contingente.

Il ciclo quaternario conferisce al nostro mondo terreno il suo ritmo vitale fondamentale che è quello delle stagioni e per questo lo caratterizza. Il quaternario è apparso sulla banda di una figura circolare (cerchio zodiacale o orizzonte) da cui si è distinto per una sorta d’emanazione a partire dai quattro punti maggiori.

Schema del ciclo quaternario

Tale emanazione continuerà per ulteriori sotto-distinzioni, suddividendosi il quaternario in 8, 12, 16, ecc. realizzando così la rosa dei venti. Questo processo annuncia e realizza il passaggio dell’aldilà trascendente al quaggiù immanente.

Attraverso un passaggio simbolico che già riflette qualche cosa del mistero della creazione, si giunge, dunque, alla presa di coscienza simultanea di due direzioni vitali rettangolari e di quattro punti diametralmente opposti; ciò che si può evocare anche se piuttosto astrattamente, sulla carta, attraverso i simboli della croce o del quadrato che ne deriva.

Angkor – Tempio di Bakong

Questi due simboli correlativi della croce e del quadrato sono universalmente riconosciuti come simboli perfetti della terra.

Giada rituale cinese – Ts’ong (simbolo della terra)

Per terra intendiamo tutto ciò che si oppone al trascendente celeste; è opportuno che questo concetto venga sempre tenuto presente. La figura quadrata, e più precisamente la squadra che ne costituisce l’elemento fondamentale, materializza simbolicamente due direzioni spaziali: è il noto sistema delle coordinate cartesiane. Allo stesso modo simboleggia lo spazio che, del resto, è una dimensione propriamente terrena; il cielo gli è immediatamente rapportato come incommensurabile, aspaziale.

Quanto al cerchio, simboleggia il cielo nei suoi rapporti con la terra anche quando è considerato sotto il suo aspetto trascendente (significa allora il totalmente diverso dalla terra, ciò che implica ancora un riferimento negativo alla terra).

L’idea astratta della trascendenza metafisica non ha spazio nel simbolismo; l’intuizione concreta che se ne può avere ha senso solo all’interno del simbolismo negativo; ciò che è infinitamente differente dal terreno perché lo oltrepassa infinitamente. In pari contesto, il cerchio simboleggia l’attività del cielo, il suo inserimento dinamico nel cosmo, la causalità, l’esemplarità, il ruolo provvidente. Di qui, raggiunge i simboli della divinità protesa sulla creazione, di cui regola, produce e ordina la vita.

È interessante rilevare qui l’accordo dei simboli con il pensiero concettuale più alto: si conosce la forma sotto la quale Dante, al termine della sua ascensione, scopre le tre Persone divine: «nella profonda e chiara sussistenza dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza» (Paradiso, XXXIII). Dionigi l’Aeropagita (Nomi divini IV, 4; Gerarchia Celeste I, 1) vi aveva riconosciuto il simbolo dell’Amore divino. Su questo punto l’accordo delle più antiche tradizioni, dei grandi pensatori e della filosofia cristiana è significativo. Un secolo prima di Copernico, due secoli prima di Galileo (1564-1642) che doveva fare le spese della questione, quel tedesco di genio che fu Nicola Cusano (1401-1464), cardinale, teologo, filosofo e uomo di scienza, spostò la terra dal centro dell’universo. Cinque secoli prima del suo compatriota Albert Einstein (1879-1955), egli pose i principi della famosa teoria della relatività destinata a rivoluzionare la meccanica classica diventata insufficiente a dare ragione dei fenomeni atomici o astronomici. «Il mondo, spiegava Nicola, è come una ruota in una ruota, una sfera in una sfera». Di colpo si viene ad affondare tutta la costruzione tolemaica. Ora ecco la sua conclusione – come Platone o Aristotele egli non s’inganna sulle parole, testimone piuttosto di un’età che sta per finire, età in cui gli uomini sapevano tradurre le più alte scoperte scientifiche in un linguaggio simbolico che conferiva loro continuità su un diverso piano del sapere umano -: «Dunque, egli continua, i poli delle sfere coincidono con il centro che è Dio… Dio è circonferenza e centro, Lui che è dappertutto e in nessun luogo». Il tribunale che condannò Galileo per aver osato sostenere che la terra girava attorno al sole, idea non solo incompatibile con le affermazioni della Bibbia ma che per di più disprezzava i principi fondamentali della rappresentazione simbolica dell’epoca, non seppe o non volle accettare questo cambio di prospettiva. Sarebbe puerile scandalizzarsi dell’oscurantismo di allora e della mancanza di apertura ai risultati delle osservazioni scientifiche. Noi non possiamo immaginare la portata del rivoluzionamento di prospettiva che era richiesta agli uomini di quel periodo. Occorre, dunque, giudicare con cautela, considerando anche la difficoltà che noi stessi sperimentiamo nel cambiare opinione su questioni molto meno gravi. Comunque, siamo al punto in cui il male di cui oggi soffriamo comincia a manifestarsi prepotentemente: il tragico dilemma che sembra opporre la conoscenza scientifica alla conoscenza simbolica… Qui si rompe la grande tradizione che risale alle radici comuni dell’umanità, all’interno della quale ci accontenteremo di rilevare l’accordo di un cristiano e di un pagano, entrambi rappresentativi: sant’Ireneo e Platone.

Sant’Ireneo (secondo vescovo di Lione, morto nel 202), instancabile oppositore degli gnostici eretici, appare colpito dal fatto di poterli combattere con l’autorità di Platone: «Paragonato a questi uomini (gli eretici e Marcione), Platone risulta molto più religioso, egli che riconosce un Dio che è lo stesso, giusto e buono, che ha potere su tutte le cose; ed eccone le parole: “Dio, seguendo una antica tradizione, è l’inizio, la fine e il mezzo di tutte le cose che sono. Egli agisce in linea retta mentre per natura è circonferenza” (Leggi, 4) e dimostra che l’Autore e l’Artefice di questo universo è buono» (Adv. Haer., 136). Il cerchio, dunque, può simboleggiare la divinità considerata non solamente nella sua immutabilità ma anche nella bontà elargitrice quale origine, essenza e divenire ultimo di tutte le cose; la tradizione cristiana dirà come alfa e come omega. Il rapporto che esso ha con il mondo creato è invece espresso da simboli di linea retta: il lampo, la freccia, il raggio, la pioggia, la colonna, il campanile.

Il mondo generato riflette così nella sua struttura l’azione che l’ha prodotto. Rimane caratterizzato innanzitutto da figure formate da rette la cui prima associazione è la squadra, elemento di base del quadrato terrestre.

Così, il cerchio e il quadrato si uniscono spesso per costituire un complesso indistruttibile al di fuori del quale essi perdono il loro significato.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Questo è fondamentale. Insieme simboleggiano il cosmo, cioè il cielo e la terra, quell’universo di cui sant’Agostino ama sottolineare che trae il nome dal fatto che è uno, che forma un tutto inscindibile. Ma cerchio e quadrato rappresentano ugualmente il tempo e lo spazio nella loro inevitabile correlazione: il famoso continuum spazio-temporale, fondamento dell’antropologia di san Tommaso d’Aquino e di cui tanto si parla ai nostri giorni; una delle principali chiavi d’interpretazione degli edifici romanici in generale e dei loro timpani in particolare. A condizione tuttavia di mantenere chiara una gerarchia tra questi due elementi: lo spazio è subordinato al tempo davanti al quale deve costantemente cancellarsi dopo avervi condotto lo spirito. Non si vuol dire che bisognerebbe equiparare da una parte il cielo e il tempo e dall’altra la terra e lo spazio; una tale logica, estranea per natura alla simbologia, porterebbe a conclusioni per lo meno assurde.

Boher, Reliquiario – Borchia semisferica

Ciò che bisogna dire è che il rapporto della terra e del cielo è simbolicamente dello stesso tipo del rapporto spazio-temporale e quindi anche dell’immanente con il trascendente. Si ha, così, a che fare con due coppie che non bisogna scindere ma considerare sempre nella loro dualità complementare.

In tal modo, guardandoci da semplicistiche astrazioni, non bisognerà mai dimenticare che sul piano delle gerarchie immaginarie il quadrato appare in dipendenza del cerchio, nella sua aureola in espansione; esso segue non per una successione cronologica, ma nell’ordine delle ripercussioni simboliche. Il peggiore dei quadrati non è altro che un cerchio a quattro angoli, o a quattro facce, un cerchio ammaccato che si ricorda dell’antica perfezione. Si tratta dunque di tempo cristallizzato nell’attimo, di un riflesso dell’aldilà. La Gerusalemme celeste dell’Apocalisse sarà quadrata. In geometria la quadratura del cerchio è un non-senso; in simbologia diventa un’operazione fondamentale. La simbologia aggira il problema ricostruendo attorno al quadrato il suo originale cerchio circoscritto, trasfigurando così lo spazio fisso nella rotondità mobile del tempo. Le chiese sono quadrilateri all’interno dei quali i raggi luminosi ruotano per il corso della giornata, mentre esternamente, l’ombra segnata dal campanile traccia il cerchio del tempo celeste. I simboli consentono l’accesso ad ambiti preclusi al pensiero discorsivo. Non è sempre possibile esprimere la correlazione di natura che lega il cerchio al quadrato. Non si può mai eluderla, ancor meno combatterla. Cosa che risulterà ancor più chiara considerando in che modo l’immagine circolare sia connessa dinamicamente a quella quadrata. Il cerchio, questo punto ingrandito, possiede una superficie limitata, circoscritta, chiusa. Ha una frontiera; è un hortus conclusus, un giardino chiuso.

Libro delle ore del Duca di Berry – Paradiso

E ciò è esattamente quanto il quadrato ha in comune con esso. Dal momento che c’è un limite, è possibile che un osservatore vi si trovi all’interno. Questo riconduce al principio fondamentale secondo cui non esiste simbologia se non in rapporto ed a partire da un uomo all’interno chiamato centro. La simbologia non è affatto la geometria nonostante abbia alcuni punti in comune con essa. A questo osservatore, il quadrato si manifesta non già come la secca figura geometrica che comunemente si designa con quel nome, ma come un’estensione espansa in quattro direzioni a due a due opposte – estensione che null’altro è se non quella della propria struttura animale percettiva – o, ancora, come una divisione dello spazio in quattro settori.

Così, il quadrato evidenzia l’orientamento fisso o durevole mentre il cerchio non denuncia alcuna propria orientazione. Il quadrato è figura antidinamica fissata su quattro angoli; simboleggia la stasi o l’attimo prestabilito; implica un’idea di ristagno, di solidità, simbolo di stabilità nella perfezione: sarà il caso della Gerusalemme celeste. Il movimento agevole, invece, è circolare, rotondo. L’arresto, la stabilità s’associano con figure angolose e linee opposte e movimentate. Ciò che stimola nell’immaginazione il quarto simbolo fondamentale: la croce.

Quadrato e croce sono entrambi caratterizzati dalla quaterna che è un simbolo d’universalità spaziale e d’universalità creata: la loro cifra è il quattro. Sul piano della simbolica dei numeri, essendo la triade il simbolo della divinità e dei principi trascendenti dell’universo, l’aggiunta di un’unità rompe la perfezione e costituisce un numero simbolo del mondo materiale, il 4.

Dopo le epoche vicine alla preistoria, il 4 venne utilizzato per significare il solido, il tangibile, il sensibile. Ma il suo rapporto con la croce ne faceva, per altro, un simbolo incomparabile di pienezza, di universalità, un simbolo totalizzante. Da qui si comprende come natti i popoli abbiano considerato la terra come divisa in quattro settori. Il sanscrito, l’antico babilonése, il cinese, i testi dell’America precolombiana designano i capi e i re con il titolo di «Signore dei quattro mari», «Maestro delle quattro parti del mondo», «Maestro dei quattro soli». Gli stati sono stati spesso divisi in quattro province o in multipli di quattro. Le grandi religioni hanno ciascuna quattro libri sacri. «Nelle Indie, Brahma, l’Anima del mondo, il Padre, il più antico degli Dei, il regolatore degli elementi ha quattro teste e quattro facce corrispondenti ai quattro Veda, libri sacri dell’India che sono le quattro Rivelazioni corrispondenti alle quattro Bocche. È noto che Brahma inviò suo figlio nel mondo per diffondervi l’insegnamento dei quattro libri». (Loeffler-Delachaux). Vedremo la conseguenza che ne ha tratto a sua volta la simbolica biblica.

La cifra della croce, noi affermiamo, è il 4. Ma è ancor più il 5… La simbologia cinese ci ha aiutato a ritrovare questa paradossale verità. Ci ha esortato a non considerare mai i quattro angoli del quadrato o i quattro bracci della croce al di fuori del necessario rapporto con il centro della croce o col punto d’intersezione dei suoi bracci. Senza giocare sulle parole, si potrebbe dire senza fallo che questo quinto punto è il più importante della quaterna.

Ahenny – Croce celtica in pietra

Come il cerchio, il quadrato è una figura centrale. Ed ecco che il centro del quadrato coincide con il centro del cerchio; questo punto comune è il grande incontro del piano dell’immaginario. È il luogo favorevole di tutte le rotture di livello, di tutti i passaggi da un mondo all’altro: l’omphalos dei Greci, l’ombelico del mondo degli antichi, la scalinata rimale di tante religioni, la scala degli dei. Di lì si passa dal cielo alla terra e viceversa, per di lì spazio, tempo, eternità, entrano in comunicazione.

La croce è ancora quella figura che congiunge a due a due i punti diametralmente opposti comuni al cerchio ed al quadrato inscritto. Per tutte queste funzioni – quella del centro che si diffonde nelle quattro direzioni o quella della riduzione all’unità dei punti estremi delle due ortogonali -, la croce ha carattere di sintesi e di misura: in essa si riuniscono il cielo e la terra nella maniera più intima possibile.

Zurigo, Museo Nazionale – Smalto ad alveoli

In essa si confondono il tempo e lo spazio. Essa è il cordone ombelicale mai tagliato del cosmo legato al centro d’origine. Tra tutti ì simboli essa è il più universale, il più completo. È il simbolo dell’intermediario, del mediatore, di colui che è per natura eterna unità dell’universo e comunicazione tra terra e cielo e cielo e terra.

Quest’ultima proprietà appare ancora più netta nell’ordine dei volumi. I volumi non aggiungono nulla in fatto di nuovi valori simbolici alle figure piane che li generano: il simbolismo della sfera è lo stesso del cerchio; quello del cubo è lo stesso del quadrato. I volumi però, appaiono talvolta più espressivi; rendono meglio alcune proprietà meno evidenti e ne conferiscono un’esperienza più sviluppata. La percezione tridimensionale è strettamente inerente all’agire umano; l’immaginario si annette il suo potere di valorizzazione. Per questa ragione la totalità celeste-terrestre si esprime meravigliosamente nella coppia cubo-sfera. In architettura la ritroviamo sotto forma di quadrilatero sormontato dalla sfera. Quest’ultima è riconducibile ordinariamente alla mezza sfera come nei casi di cupole o al quarto di sfera come nei casi dei catini delle absidi. Tuttavia, in questo caso, come sempre, il simbolo è e resta quello della forma pura, della linea e non dell’oggetto materiale. L’immaginazione s’avvale del supporto che le si offre, per quanto imperfetto sia, a condizione che sia evocatore, per ricrearlo in sé perfetto. Essa è generatrice di forme ideali.

I simboli danno all’uomo il potere, unico, di rendere presente e tangibile, fin nei suoi segreti più riposti, il mondo che ci circonda. Per non contraddire questa verità dovremo avere la lealtà di non separare mai i simboli dal loro accoppiamento esistenziale; di non scinderli mai dall’atmosfera luminosa in seno della quale essi ci sono stati rivelati, per esempio, il grande, sacrale silenzio delle notti di fronte all’immensità del firmamento, maestoso, totale; di ritrovare sempre sotto le parole usate la linfa vivificante, al di là del simbolo, il simbolismo che ne deriva. In secondo luogo, bisognerà non inventare ma informarci. Cercare le costanti più certe per essere sicuri di cogliere le espressioni simboliche universali relative all’uomo in quanto tale.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano
Anno 1981
Pagine29-52

Figure semplici: il centro e il cerchio

Sezione: Studi


Il centro

Come una pietra gettata nel centro di uno stagno determina delle onde concentriche che trasmettono il movimento originale fino all’orizzonte del creato, così il centro è prima di tutto il Principio. La stella Polare fornisce l’espressione naturale più stupefacente di questo simbolismo.

Cerchio luminoso attorno alla Stella Polare

È noto che per gli antichi il cielo è un mare costituito da quelle che essi chiamano le acque superiori e che le cosmogenesi iniziano dall’elemento acqueo. La stella Polare manifesta il punto primordiale dell’oceano celeste di cui il mondo terrestre non è che una frangia estrema e l’ultima creata. Essa costituisce il centro principale a partire dal quale tutto prende origine, il punto indiviso, senza forma né dimensione, immagine perfetta della unità primigenia e finale nella quale ogni cosa trova inizio e conclusione; perché tutte le cose ritornano a colui che le ha create e non può affidare loro altro fine che la propria perfezione assoluta.

Albenga, Battistero – Mosaico: Crisma

Per irradiazione, questo punto principale determina tutti gli esseri come la cifra unitaria produce tutti i numeri. In questi casi c’è parallelismo tra il simbolismo geometrico e il simbolismo aritmetico; entrambi sono ugualmente adatti a tradurre i simbolismi cosmici della espansione creatrice; questa rivela uno degli aspetti essenziali del mistero divino. La stessa realtà può essere simboleggiata su piani differenti e spesso complementari al punto di vista dell’osservatore. Il punto centrale è l’Essere puro, l’Assoluto e il Trascendente. Esso è diffuso nello spazio-tempo che non è null’altro che l’irraggiarsi di questo Assoluto; senza tale riferimento naturale lo spazio-tempo non satebbe che privazione, vuoto del caos mitico.

Il cerchio

Il cerchio è il secondo simbolo fondamentale. Gli astri circumpolari ne disegnano continuamente la sacra figura nel cielo e più ancora nella psiche di quelli che l’osservano. Attorno alla stella fissa, il cerchio fisso di ogni stella appare come la prima manifestazione del Punto primordiale. Il cerchio, innanzi tutto, è un punto esteso, quindi partecipa della sua perfezione

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (particolare)

Così punto e cerchio hanno proprietà simboliche comuni: perfezione, omogeneità, assenza di distinzione o di divisione.

Se su questo non occorre insistere, non si ripeterà mai abbastanza che un tale simbolismo non ha alcun valore, fintanto che non ha costituito l’oggetto di un’autentica esperienza umana, ciò che non ha nulla a che vedere con un elenco di nozioni astratte.

Allora e solo allora ci si meraviglia dell’intensità del sacro che emana da tutte le forme circolari. Il cerchio può per di più simboleggiare non solo le perfezioni nascoste del Punto primordiale, ma i suoi effetti creati; detto in altro modo il mondo in quanto si distingue dal suo Principio. I cerchi concentrici rappresentano i gradi degli esseri, le gerarchie create che costituiscono la manifestazione universale dell’Essere Unico e Non-Manifesto. In tutto ciò il cerchio è considerato nella sua indivisa totalità.

Al contrario, se noi distinguiamo sulla circonferenza uno o più punti, siamo condotti verso il movimento circolare, quello così ben rivelato dagli astri che non sono altro che punti luminosi che ruotano in tondo.

Cardona – Cupola del transetto

Cardona – Cupola del transetto

Dublino, Museo Nazionale – Calice di Ardagh (vista dal basso)

Diversamente dagli altri movimenti (rettilineo, sinusoidale, disordinato) questo movimento è perfetto, immutabile, senza inizio né fine né variazioni; ciò che l’abilita a simboleggiare il tempo. Il tempo si definisce come una successione continua e invariabile di momenti tutti identici gli uni agli altri.

Nell’ordine delle strutture cosmiche, il cerchio simbolizzerà facilmente il cielo, di cui abbiamo rilevato che il movimento circolare e inalterabile è la caratteristica più espressiva.

Giada rituale cinese – Pi (simbolo del cielo)

Appare significativo che la parola latina caelum indichi insieme il cielo, il firmamento e la forma circolare. Cerchio, tempo e cielo comunicano attraverso il loro aspetto di perfezione che li ha fatti considerare rispettivamente come punto, eternità e trascendente, cioè tutt’altro dal mondo corruttibile terreno.

Secondo un altro punto di vista, il cerchio può rivestire delle valenze d’imperfezione; esso diventa la ruota; si pensi alla linea ondulata della sinusoide che instancabilmente sale e scende sempre avanzando. La rotazione della ruota genera i cicli, le riprese, il rinnovarsi. Ruota e linea ondulata si prestano ai simbolismi della creazione in atto. Ci troviamo, così, nell’ordine del divenire, del mutevole, del caduco, del creato, del dipendente. Gli archi intrecciati caratterizzano i cicli del tempo terreno.

Payerne – Capitello

Non è più l’eternità radiosa ma il tempo che trascorre inesorabilmente e che occorrerà considerare nella giusta prospettiva o addirittura esorcizzare per liberarsi dei condizionamenti terreni… Quanto al cielo, esso si presenta allora nel suo innegabile rapporto con la terra che da esso emana; diventa, insomma, il modello che in certo modo riporta allo stato preesistente il divenire del mondo terreno.

Non possiamo non prendere in considerazione la spirale: essa suggerisce o, meglio, è emanazione, estensione, sviluppo, continuità ciclica ma progressiva, rotazione creativa.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Essa manifesta l’apparizione del movimento circolare dal suo punto originale; movimento che essa trattiene e prolunga all’infinito: è il genere di linea continua che lega incessantemente le due estremità del divenire. Il disco di bronzo di Somerset (età del ferro) confonde per la sua incredibile perfezione.

Dublino, Museo Nazionale – Disco di Somersst

Nell’ordine delle figure cruciformi, la spirale ha come equivalente la svastica, simbolo tra i più complessi che moltissime civiltà hanno adottato come emblema principale. La svastica simboleggia l’asse verticale di un tiro a quattro braccia il cui movimento di rotazione è espresso dal ritorno di ciascun braccio come tanti nastri mossi dal vento o come altrettanti piedi che imprimano il movimento.

Londra, British Museum – Ciotola di Sutton Hoo

Visby, Gotland Fornsal – Pietra sferica di Myrvalder in Tingstäde

Le immagini mostrano la continuazione immaginaria della svastica e della spirale ed evidenziano come la percezione simbolica si faccia gioco delle interpretazioni. Inoltre si notano le risorse decorative che tali simboli puri offrono all’arte sacra.

I Cristi romanici sono spesso concepiti attorno ad una spirale o ad una svastica: queste figure ritmano la posizione, ambientano i gesti, le pieghe del vestito. Con queste figure si trova per di più reintrodotto il vecchio simbolo del turbine creativo attorno al quale si collocano le gerarchie create che ne emanano.

 

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano 
Anno 1988
Pagine27-29

Fregio a zig-zag: il simbolo romanico

Sezione: Lessico


Come ci ha confermato la testimonianza dei Dogon, l’acqua considerata in Africa come benefica, a causa della calura tropicale, è stata intuitivamente vista nell’arte romanica come simbolo della vita che rinasce, giacché questa deperisce, se essa manca. Si è dunque guardato al tracciato a zig-zag come alla figurazione degli alti e bassi della vita, e lo si è iscritto in orizzontale o in verticale, secondo le due linee che formano la croce. Nel primo caso, voleva dire porsi nella prospettiva terrestre; per esempio, sulla facciata di Saint-Jouin-de-Marnes (Deux-Sévres), i pellegrini si muovono verso la Vergine (la Chiesa) che cammina su una fascia a zig-zag orizzontale.

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Sulla stessa facciata, però, nella decorazione a rombi di pietra che fa da sfondo alle figure di Costantino e di Sansone col Leone, il fregio assume l’aspetto di un motivo verticale (tav. 86); ed è proprio nella prospettiva celeste così indicata che compare, alla sommità, il Cristo Giudice con la croce greca. Il segno verticale mostrava al cristiano che, una volta superate, come quegli eroi, le prove della vita su questa terra, egli si sarebbe potuto dirigere sia verso destra, dal lato degli eletti, sia verso sinistra: il segno aveva finito col complicarsi in relazione con l’idea delle «direzioni» e in relazione con la Y.

Ma non per questo era caduto in dimenticanza il simbolismo dell’acqua. Per esempio, un fregio a zig-zag orna l’acquasantiera di Saint-Paulien (Haute Loire), e un disegno ondulato a zig-zag su un capitello di Chanteuges fa da mare o da fiume alla barca di un vescovo: sta a significare il corso della vita. Ma, come a Saint-Jouin, bisogna osservare altresì le variazioni del motivo nelle restanti parti della chiesa. Il fregio a zig-zag verticale si presenta infatti sotto forma di intarsio di pietra nella zona del coro, soprattutto attorno alle due cappelle absidali, una delle quali contiene, tema unico e perfettamente visibile, gli uomini ravvolti dall’intreccio di uroboros, simboli del giovane e del vecchio, dell’eletto e del dannato, al pari degli uomini entro i racemi sugli stipiti della finestra assiale di Aulnay: ci troviamo insomma di fronte allo stesso significato di Saint-Jouin-de-Marnes.

Il fregio a zig-zag compare infine in una forma intermedia, intesa a stabilire un legame fra il cielo e la terra, nell’arco con coronamento a denti di sega, largamente diffuso nel Velay. A Chanteuges lo troviamo sul lato nord, quello tradizionalmente riservato al Giudizio, dove è stata, per essere precisi, incastrata una stele gallo-romana raffigurante un Priapo, al quale era attribuito un valore profilattico e che veniva chiamato Saint Coudiou. I denti di sega sull’arco in questione sono in numero di otto – il numero della vita futura.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 144-145

Disposizione anteriore: i portali e l’ascensione

Sezione: Lessico


È a proposito dell’Ascensione della porta Miégeville che appare in secondo luogo il punto debole del metodo di Mâle, basato sui manoscritti e discriminante in funzione di questi una formula ellenistica e una formula siriana. Anche se tale discriminazione aveva un senso all’origine, essa ne ha meno all’epoca romanica, giacché ora la formula ellenistica nella quale si vede il Cristo effettuare l’ascensione di una montagna, si trova nella zona mesopotamica, mentre la formula siriana, in cui il Cristo appare nettamente distinto e portato da due angeli in maniera più realistica, sarebbe più conforme al tipo egiziano. Il Cristo seduto e la Vergine orante rimasta stilla terra non compaiono nel testo evangelico; il tema non può essere quindi che un prodotto della teologia. Ispirato dal concilio di Efeso, esso compare simultaneamente a Bawit, sulle ampolle di Monza (imitate dai mosaici della basilica del Monte degli Ulivi), su un reliquiario del Sancta Sanctorum a Roma, su un piatto d’argento che si trova a Perm, in Russia, ecc.

Quella che è più sicuramente siriaca o copta è l’ulteriore evoluzione di questo tema. Sono siriani gli angeli del manoscritto del monaco mesopotamico Rabula che, scettro alla mano, si rivolgono direttamente agli Apostoli dicendo loro di non contemplare il Cristo, in attesa della sua venuta definitiva, e così pure, dall’altra parte, la posizione del Cristo, in piedi dentro l’aureola. La tendenza della zona egiziana e dell’arte copta è quella di trasformare il tema in geroglifico, in tema doppio. Il sacramentario di Saint-Bertin (sec. XI) accentua la formula siriana. I due angeli sono mescolati agli Apostoli e la Vergine si perde un po’ tra la folla. Per contro, l’agitazione degli Apostoli sul timpano di Montceaux-l’Etoile (Saône-et-Loire) (cfr. La Borgogna, cit., tav. 123), fra i quali è san Pietro con la sua chiave monumentale, sembra sì tipicamente siriana, però gli angeli non sono angeli avvisatori. D’altra parte, la monumentalità dell’aureola separa nettamente il Cristo e rende evidente il tema doppio, conformemente al carattere della zona egiziana, alla quale questa chiesa appartiene. Ciò che appartiene alla zona mesopotamica, in questo timpano, è di fatto piuttosto l’allusione al Giudizio, riconoscibile nella croce greca portata dal Cristo e nella grandezza della croce di san Pietro. Sia essa siriana o alessandrina, è l’insistenza su un aspetto del giudizio che distingue l’una zona dall’altra: le minacce ai dannati caratterizzano la zona mesopotamica, mentre l’avvenimento è rivolto nel sud est agli eletti, in armonia con il duplice aspetto del Cristo in questo tema: «Buono con i buoni», secondo san Girolamo, «tremendo con i malvagi»; «alto sulla montagna come apparirà agli eletti», secondo Onorio di Autun, «innalzato sulla croce, come si presenterà ai dannati.» La differenziazione vera fra zona e zona è infatti nell’atteggiamento degli angeli e degli apostoli: si avrà di fronte più spesso, nel sud ovest, una illustrazione letterale dell’avvertimento, che fa comunicare fra loro le due scene, legando la scena superiore agli apostoli e facendo apparire in pari tempo questi ultimi in atteggiamenti agitati, per cui l’Ascensione mesopotamica si presenta come un tema unico, conformemente alla vocazione di questa zona, mentre invece, nel sud est, l’Ascensione è un tema doppio. Tre complessi del sud ovest (zona mesopotamica) ci daranno un’idea della reale complessità di questo tema dell’Ascensione: gli architravi rossiglionesi di Saint-Genis-des-Fontaines e di Sorède e la porta Miégeville in Saint-Sernin a Tolosa.

I tratti distintivi dell’Ascensione del sud est emergono sugli architravi del Roussillon: si tratta infatti di Ascensioni siriane come appunto nel sud est. E tuttavia i due architravi in questione, celebri per l’antichità della loro datazione e i cui personaggi sotto file di archi sembrano identici a quelli delle stele copte, consentono di mettere in risalto gli aspetti comuni che si ritrovano nei diversi tipi di portali – Miégeville, Moissac, Beaulieu –, per il fatto che vi vediamo riuniti in un tutto unico Ascensione, Tetramorfo e Giudizio. Questi architravi fanno inoltre apparire nitidamente l’imitazione diretta di reliquari d’oro o d’argento, tipo quello, d’argento appunto, dell’Arca Santa di Oviedo (sec. XI). L’aspetto «gorgogliante» delle vesti del Cristo di Sorède, meno avvertibile a Saint-Genis, e l’atteggiamento degli angeli «avvisatori» sono emblematici dell’Ascensione. La presenza dell’alfa e dell’omega sta a indicare il Cristo del Ritorno; idea questa che si presenta anch’essa più chiara a Sorède, per il fatto che il Cristo dell’Ascensione è qui completato dalle figure del Tetramorfo, come ad Angoulême, collocate nei quattro angoli della cornice della finestra soprastante, sulla quale sono raffigurati anche degli angeli suonatori di tromba. L’idea del Giudizio appare invece nella asimmetria degli apostoli che fiancheggiano il Cristo. A destra del Cristo, a sinistra per noi, vediamo un personaggio in atteggiamento medititativo – il primo della fila a Sorède, il terzo a Saint-Genis –, l’uno e l’altro segnati a dito da un secondo personaggio. È l’eletto che non osa guardare il Cristo, in attesa del suo ritorno, e che obbedisce in questo modo all’avvertimento dell’angelo che raccomanda agli apostoli di non stare a fissare il cielo. A sinistra del Cristo, a destra per noi, si trova invece un uomo agitato dalle preoccupazioni del mondo, riconoscibile a Saint-Genis dalle mani e dagli occhi rivolti verso il Cristo e a Sorède dai due lembi della veste che s’incrociano sul petto. Atteggiamenti opposti fra l’uno e l’altro apostolo di fronte all’avvertimento degli angeli si ritroveranno più tardi a Miégeville, così come si ritroveranno personaggi con doppia benda di stoffa o con doppio allacciamento vegetale sul famoso trumeau di Souillac e sull’altare di Tolosa. Le due opere fanno insomma toccare con mano quanto profonda fosse la mancanza di distinzione nei temi dei portali e come questi, al pari dei temi doppi della zona egiziana, discendano tutti, da lungi o da presso, dalle rappresentazioni dell’Ascensione.

Émile Mâle ha chiamato «ellenistico» questo tema dell’Ascensione, così come appare in epoca più tarda sulla porta Miégeville, perché lo attribuisce all’epoca che così di solito viene denominata.

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La presenza di una croce ad asta lunga fra le mani del Cristo è un particolare caratteristico e denota un’origine copta. il Cristo sta scalando una montagna, alla maniera di un dio dell’Olimpo, del quale ha anche la bellezza apollinea; ad accoglierlo è la mano di Dio, motivo pur esso di origine egiziana. Ai fianchi, tuttavia, della montagna, Nicodemo è prono con la faccia a terra nell’atteggiamento bizantino della proskinesis. La sua posizione e quella di un apostolo avvicinano la scena a quella della Trasfigurazione, altra teofania avvenuta anch’essa, secondo la tradizione, sulla vetta di una montagna, il Tabor. A causa del valore attribuito alla destra, la mano verso cui si dirige il Cristo di profilo è a destra. Lo stesso tipo lo ritroviamo a Roma, sulla porta di Santa Sabina, dove il Cristo è circondato da angeli che l’aiutano a salire la montagna, sui sarcofagi di Gallia, su un avorio di Monaco, ecc. Gli avori carolingi riprenderanno l’ascensione della montagna, ma grazie a un compromesso con la formula siriana o copta, la Vergine appare ai piedi dell’erta (sacramentario di Drogone, Bibbia di San Paolo fuori le Mura, avorio di Essen). Le due Ascensioni di Miégeville e di León sembrano il frutto di un compromesso della stessa natura, con in più i due angeli che aiutano il Cristo a innalzarsi, come a Santa Sabina. Due altri angeli portano delle croci ad asta lunga: l’uno, a destra del Cristo, sorregge la sua con la mano destra, l’altro, a sinistra la sua (che per altro ha l’asta più corta) con la mano sinistra, contrapposizione che a noi pare voler rilevare l’idea del Giudizio. Di fatto però la formula adottata nell’uno e nell’altro caso è una formula ellenistica e quindi trionfale. È, nonostante tutto, l’idea siriana di avvertimento quella che culmina in entrambi i portali, e al tempo stesso l’idea di giudizio, proprio come nei due architravi rossiglionesi. A Tolosa, infatti – ed è bene fermarvi una volta per tutte l’attenzione –, non è tanto il timpano, dal quale la mano del Padre è scomparsa, a ospitare l’Ascensione, quanto piuttosto l’architrave. E qui, l’atteggiamento agitato degli apostoli, che levano gli occhi al cielo, incrociano le gambe e fanno gesti diversi, è evidentemente siriano. È qui che compaiono gli angeli «avvisatori», assenti dal timpano propriamente detto, sotto l’aspetto di due geni con in testa il berretto frigio, accolti in maniera differente a destra e a sinistra. Dal lato di san Pietro, ch’è a destra, fuori dell’archivolto, sul pennacchio, un apostolo è intento a leggere il rotolo srotolato; dall’altro lato invece un secondo apostolo rifiuta di aprire il libro che l’altro genio gli presenta: tiene gli occhi rivolti al cielo, mentre il genio, per parte sua, si gira verso san Giacomo che sta sul pennacchio di sinistra, dal lato opposto a san Pietro. La contrapposizione si spiega facilmente facendo mente locale ai due architravi del Roussillon: dal lato di san Pietro ci si trova con la Chiesa militante in attesa dell’ultimo giorno, dal lato di san Giacomo si ha già per contro la certezza della salvazione grazie al pellegrinaggio che conduce alla sua tomba e quindi nulla vieta di contemplare il Signore nella sua gloria.

L’Ascensione di León è associata ad altre due scene che, con i leoni delle mensole, rendono evidente l’idea del Giudizio. In effetti ciò che risalta nei due insieme non è tanto il tema glorioso del timpano, quanto la composizione congiunta del timpano e della porta che implica, tutt’al contrario, un’idea di minaccia. Anche se sono stati i copti a creare il tema in un’ottica gloriosa, la sua diffusione nella zona mesopotamica è dovuta, a parer nostro, alla presenza della montagna che qui fa la sua comparsa e che in questa stessa zona si manifesta in maniere molteplici, particolarmente attraverso il simbolismo delle squame, nell’importanza che vi assume il tema della Città celeste, situata anch’essa su una montagna, ecc. Lo schema della porta di difesa di questi due complessi è legato direttamente alla stessa Città celeste.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 128-130