Alexander Neckam, De naturis rerum – Presentazione

Sezione: Studi


Alexander Neckam o Alexander de Sancto Albano, erudito e scienziato inglese vissuto tra il 1157 ed il 1217, può considerarsi uno degli autori più fecondi del Medioevo: scrisse di liturgia e di scolastica, di grammatica e di storia biblica, compose fabulae e trattò di virtù morali come della nomenclatura di strumenti di ogni genere. Tuttavia la sua opera capitale, che lo rese celebre presso i contemporanei e i posteri, fu senz’altro il De naturis rerum, un grande compendio scientifico in prosa.

Innanzi tutto merita attenzione il singolare richiamo che un testo di questo genere porta con sé, ossia l’invito a guardare e pensare l’universo come un meraviglioso tappeto tramato di innumerevoli nomi e figure simbolici, secondo un ordine che coniuga mistero e bellezza, vanità mortale e arcani misticismi, creature ordinarie con monstra e mirabilia. Le cose tutte, dalle stelle ai colori, dalle pietre ai sogni, agli stessi avvenimenti storici o mitici, divengono qui cifre di qualcos’altro, una sorta di poliedrico lessico rischiarato da una mirabile unità: omnia in unum tendunt scrive Agostino nel De ordine. È un mare di creature che, nel rispetto e nei limiti della gerarchia delle cose, pensata neoplatonicamente, costituisce il concento del Creatore e il veicolo attraverso cui l’uomo, aurea medietà tra Dio e i regni naturali, può conoscere se stesso e il senso di ogni cosa nella mirabile cornice redentiva del messaggio cristiano: per visibilia ad invisibilia.

L’uomo medievale si sente il colpevole epigono di Adamo nel perduto Paradiso: come questo dava allora i nomi alle creature, quello, ormai allontanato dal Giardino, prova ora a ritrovarli, perché ne ha dimenticati i suoni e la pronuncia, ignora il senso delle parole e delle immagini edeniche, e le cerca in un pellegrinaggio altrove che coinvolge l’anima e il corpo.

Una volta Adamo conosceva il linguaggio divino, dove il nome e la cosa nominata coincidono sostanzialmente, adesso la sua errante progenie tenta di imitarlo, in ben minor grado e con ben più fatica. Qui, come vuole il dettato paolino, il senso delle cose (dei verba e delle imagines), della creazione e del divino, si può cogliere soltanto “per speculum in aenigmate”, e non più direttamente, “faccia a faccia”.

Ne consegue che, per l’uomo decaduto, l’unica possibile via per accedere alla Sapienza sia quella di una lettura simbolica del fenomeno mondano: tale da trasmutare gli “oscuri riflessi”, che ci appaiono dinanzi, in signa dell’invisibile. L’imperfezione diviene pertanto un umile gradino sulla strada della perfezione, ed il signum o symbolum può coniugare il caduco all’eterno. Così quest’uomo crede di imitare – analogicamente s’intende – la sapiente parola del primo Adamo, il suo colloquio con la natura divina delle cose, come può immaginare di volare di nuovo su quel mare di creature fino ai più alti cieli. In quest’ottica sta la genesi dell’enciclopedismo medievale. Ma non solo. Infatti l’uomo medievale si sente anche l’erede ed il continuatore della cultura antica, dell’idea di una classificazione dello scibile umano secondo dati cosmologici, cronologici ed etimologici, ovvero di una catalogazione della totalità di conoscenze relative ad un determinato campo. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo enciclopedia, termine ignoto al Medioevo e che inizierà a circolare in Europa soltanto agli inizi del XVI secolo. Le Antiquitates di Varrone (116-27 a.C.), oggi perdute ma note ad Agostino, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79), il De lingua latina ancora di Varrone, sono i modelli classici di una simile concezione. È Agostino (354-430) a sottolineare, nel De doctrina Christiana, quanto sarebbe opportuno riunire tutte le conoscenze per interpretare le Scritture: e qui sta il nodo della questione, cioè nella interpretazione e ripresa che il cristianesimo dette del concetto di “enciclopedia” proprio del mondo antico. Difatti mentre nelle opere degli autori classici l’intento è prevalentemente scientifico e documentale, si guarda cioè alla storia del mondo e dei suoi fenomeni rispettandone sia la complessità che le contraddizioni e la molteplicità delle opinioni (naturalistiche, filosofiche, etimologiche o altro che siano), con l’avvento del Cristianesimo tutto ciò si restringe, l’angolo di visuale viene ridotto ad un monocolo: la verità è la dottrina cristiana e ad essa tutto va rapportato e commisurato. Si afferma così, in tempi e modi diversi, con toni più o meno accentuati, quel fenomeno della moralizzazione cristiana del sapere che impregnerà l’intera produzione “enciclopedica” medievale.

Si tratta di un oscillante connubio tra fede e scienza, tra curiositas e accettazione passiva di nozioni bibliche e patristiche, che trova, a seconda di questo o quell’autore, soluzioni discontinue. Tuttavia costante e prevalente rimane per tutti l’intento pedagogico ed evangelico: lo scopo dell’“enciclopedista” o compilatore medievale è soprattutto quello di edificare spiritualmente il lettore, relegando in secondo piano, e talvolta ignorandolo, quell’intento storico-critico ed ermeneutico, alieno da pregiudizi, comune a un Varrone o ad un Plinio il Vecchio. Il fine infatti è di accostare il fedele ad una giusta condotta morale secondo gli insegnamenti cristiani, di favorirne la conoscenza del mondo così come l’ha creato Dio e l’hanno spiegato le Sacre Scritture. Allora nelle pagine degli “enciclopedisti” è comune trovare, accanto a dati scientifici, talvolta di grande interesse, ‘autorevoli’ affermazioni che ‘moralizzano’ cristianamente tali dati, secondo un meccanismo analogico che ne garantisce la veridicità in maniera apodittica. Alcuni esempi: l’astro lunare allude alla Chiesa, perché esso è illuminato dal sole proprio come la Chiesa lo è dal Cristo; la balena “è il pesce che ricevette Giona nel ventre suo”; le candide perle significano la dottrina evangelica o la speranza del regno dei cieli; lo stagno è allegoria del discorso sofistico e della simulazione degli eretici, mentre il ferro della tribolazione e della sofferenza; lo smeraldo reprime la lussuria e protegge dalle illusioni diaboliche.

Dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) al De rerum natura di Beda (673-753), dal De universo di Rabano Mauro (784-856) all’opera di Neckam o al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, composto verso il 1250, fino all’immensa compilazione, lo Speculum mundi, di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), o a Li Livres dou Tresor di Brunetto Latini (1240-1294), il significato delle parole e delle immagini, del tempo e dello spazio verranno trasmessi, mutatis mutandis, sotto l’egida dei dottori cristiani e delle Scritture, in un orizzonte sempre e comunque cristocentrico.

Esemplare testimonianza sono alcune parole del dottissimo Isidoro di Siviglia, il capostipite di questa tradizione, a proposito del suo De natura rerum. Si legge nella dedica: “Quae omnia secundum id quod a veteribus viris ac maxime sicut in litteris catholicorum virorum scripta sunt, proferentes brevi tabella notamus. Neque enim earum rerum naturam noscere superstitiosae scientiae est, si tantum sana sobriaque doctrina considerentur” (“Esponendo tutte queste cose secondo quanto è stato scritto dagli antichi e massimamente come ne hanno trattato gli autori cattolici, ci siamo comportati con grande concisione. Infatti la conoscenza di questi fenomeni naturali non è propria di una scienza superstiziosa, se soltanto vengano esaminati con dottrina incorrotta e giudiziosa”). La non velata distinzione tra autori pagani e quelli cattolici, come il parallelismo tra superstizione e dottrina incorrotta riflette in breve il tema della moralizzazione di cui sopra. Non a caso il De natura rerum è una compilazione musiva di notizie cosmografiche e meteorologiche, inerenti gli anni, la notte e il giorno, le stagioni, la corsa dei pianeti, le stelle, lo zodiaco, i venti, i mari, i fiumi, il fulmine, e così via. Ebbene nel testo, seppure non manchino prelievi, non sempre diretti, da autori come Quintiliano, Marziano Capella, Servio, Igino, Lucano, Lucrezio, Solino o Virgilio, le auctoritates vere e proprie che garantiscono le sue parole, di scienziato e di credente, sono soprattutto Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e Cassiodoro, oltre ovviamente ai Vangeli e all’ Antico Testamento.

Non molto diversamente, circa due secoli dopo, Rabano, altro magister di questa vision du monde, comporrà con il suo De universo una vasta glossa allegorica o mistica alle Etymologiae dello stesso Isidoro. Analogamente, circa cinque secoli dopo, Neckam coniugherà scienza e allegorismo morale, fantasiose etimologie e simbolismi edificanti, avvertendo che la sua opera vuole soprattutto innalzare lo spirito del lettore a Dio attraverso Cristo, citando ancora come indiscutibili autorità i Padri della Chiesa e la verità biblica, senza per altro dimenticare Virgilio, considerato un negromante, Ovidio, Claudiano e altri “antichi”.

Di notevole interesse, per l’intelligenza del pensiero “enciclopedico” medievale, è lo studio dell’organizzazione interna di questi trattati, che non è alfabetica né cronologica tout court, bensì segue di solito una divisione gerarchica o tematica delle cose naturali o artificiali, della storia sacra o di quella profana, delle virtù e dei vizi. In particolare nell’età d’oro dell’“enciclopedismo”, cioè tra il XII ed il XIII secolo, questo tipo di struttura interna risente dello schematismo gerarchico dionisiano. Infatti, la fortunata opera di Dionigi Areopagita, approdata in Europa nel IX secolo con la traduzione dello Scoto Eriugena, propone un modello gerarchico, di conio neoplatonico, per cui l’universo intero è realmente una scala, una catena di creature tra loro interconnesse e disposte gerarchicamente. A partire dall’alto il risultato della causalità divina ha prodotto angeli, uomini, animali, piante ed esseri inanimati. Al di sopra di tutti stanno i nomi divini, che giustificano ontologicamente quella stessa trama gerarchica e costituiscono il vero oggetto di conoscenza per l’uomo. L’artificio dionisiano viene esplicitamente preso come guida tematica da Bartolomeo Anglico per il suo De proprietatibus rerum e Tommaso di Cantimpré, nel Liber de natura rerum composto verso il 1240, suddivide l’opera parlando prima dell’uomo poi degli animali (seguendo naturalmente una processualità che va dai quadrupedi fino ai vermi), successivamente delle piante e infine al mondo minerale.

Un simile tessuto di nozioni se da un lato trova il fondamento della storia e della natura nei fatti biblici e nella parola di Dio, dall’altro individua, come si diceva sopra, nel linguaggio allegorico o simbolico lo strumento più adatto per decifrare e descrivere quella storia e quella natura. La ragione di ciò ha il suo crogiuolo concettuale nella convinzione dei maggiori Padri della Chiesa, da Girolamo a Gregorio, da Origene ad Agostino (ma fondante è Paolo nella Lettera ai Galati, IV,24: “Queste cose sono dette in senso allegorico”), che la Scrittura, “creata” da Dio come il mondo, in quanto rivelazione dell’unico Altissimo e Verbum Redemptionis, costituisca una “infinita sensuum silva”, contenga allegoricamente un oceano di significati e di misteri, la cui profondità benché indecifrabile va scandagliata e meditata dal credente. Infatti interpretare le allegorie ed i simboli delle Scritture permette di decrittare appunto la “scrittura” di Dio e dunque la sua volontà. Similmente spiegarne il senso morale permette di esaltare quei parametri virtuosi che edificano la fede, così come accogliendone il messaggio profetico ed escatologico si risolve il senso della storia e della salvezza.

Il libro della “natura delle cose” si dispiega e scorre dinanzi agli occhi di Neckam e degli altri compilatori enciclopedici allo stesso modo in cui si leggono le pagine della Bibbia: l’analogica e l’allegorica li coniugano, il simbolismo misterico li salda. Ne nasce quello straordinario e mirabolante vocabolario di nuove combinazioni iconologiche, di sincretismi figurativi e verbali, di azzardate e talvolta sconclusionate etimologie, che forse costituisce ancora oggi uno dei contributi più affascinanti del Medioevo. Epoca in cui il simbolo e il traslato non si sovrappongono alla realtà, ma l’accompagnano fino a fondersi con essa, fino all’invenzione di una vera e propria realtà fantastica, ma non fantasiosa.

Il trionfo di tanto “enciclopedico” linguaggio verrà poi concretato nell’arte dei chiostri, dei capitelli, sulle pareti o sui portali delle chiese, nelle miniature e sulle stoffe: ovunque i bestiari e i florari, la Biblia pauperum o il cielo e gli elementi verranno materiati da scalpellini, muratori, pittori e tessitori. Le sillabe e le parole scritte nel libro di Neckam, come quelle che corrono nelle altre opere consimili, si trasferiscono così nell’arte e una chiesa istoriata diviene un libro, le cui pagine sono le pareti e le superfici dei più svariati membri architettonici. Un simile insegnamento per figure permette al fedele di guardare e contemplare la scala della “natura delle cose”, e di incamminarsi, viandante, sul monte sofianico dell’universo: ne può ammirare l’ordine, la misura, la musicale gerarchia. In questo il Medio Evo appare il degno e nobile erede delle fabulae e dell’harmonia di una più antica e arcana sapienza, che spetterà poi al Rinascimento, come ai secoli successivi, riconoscere, studiare e ricollocare degnamente nella storia e nel mito precristiani, quando Thoth e Orfeo, Prometeo e Atena, Aglaofamo e Pitagora educavano gli uomini sulla secreta “natura delle cose”.

AutoreMino Gabriele
PubblicazioneAlexander Neckam: De naturis rerum libri duo
CuratoreThomas Wright 
EditoreLa Finestra (Archivio medievale)
LuogoLavis (TN)
Anno2003 
PagineIII-XII

Figure semplici: la croce e il quadrato

Sezione: Studi


Due simboli fondamentali sono la croce e il quadrato. La loro correlazione è così stretta che diventa necessario studiarli insieme. Il pericolo maggiore, in questo frangente, è quello della logica. Il simbolismo non è logico; è piuttosto pulsione vitale, conoscenza istintiva; è un’esperienza della totalità del soggetto che nasce al dramma di se stesso per il gioco complesso e inafferrabile degli innumerevoli legami che tessono il suo divenire contemporaneamente a quello dell’universo cui appartiene e al quale attinge la materia di tutte le sue conoscenze.

Poiché, infine, si tratta sempre di nascere con, ponendo l’accento su questo con, piccola parola misteriosa alla quale converge tutto il mistero del simbolo. Cerchiamo di discernere il legame che intercorre tra il centro (o il cerchio) e la croce che conduce al quadrato. Il simbolo quadrangolare è determinato dai contatto della perfezione trascendente con la creazione contingente che ne deriva. Ciò s’impone con una determinazione esistenziale tutta particolare nell’ordine cosmico, al quale siamo continuamente ricondotti.

Poiché il beduino si lascia assorbire dalla sola stella Polare che tutto attrae, gli è impossibile privilegiare o distinguere un punto qualunque dei cerchi astrali disegnati sopra ai suoi occhi. Al contrario, da che li abbassa verso l’orizzonte per fissare lì la sua attenzione, da che abbandona la contemplazione di Lassù, del Trascendente, dell’Ultratemporale per volgersi al Basso, le costellazioni che interferiscono con questo orizzonte entrano nella storia: una storia che fa parte integrante con la sua stessa esistenza. Il celeste sopratemporale si unisce con il terreno per costituire il paesaggio nel quale si svolge la vita degli uomini: paesaggio mitico e sacro prima che cosmologico. Allora inizia il tempo numerato, scandito da quelle sveglie astrali, vere e proprie sincronie che fanno ingranare la vita terrena sul movimento celeste.

Grant Kalendier – Pastore che calcola il procedere della notte dal passaggio delle stelle sulla verticale della Polare

Questa rigorosa interdipendenza tra i due mondi celeste e terrestre costituisce uno dei fenomeni naturali più sbalorditivi. Ogni giorno il sorgere e il tramontare del sole, con l’alternarsi della luce e dell’oscurità, del caldo e del freddo, condiziona profondamente la vita vegetale ed animale. Ma c’è di più. Il sole che ogni mattina compare in ‘quella direzione e che sparisce al contrario nella direzione opposta, che nel corso della giornata culmina a mezzogiorno, poi discende dalla parte opposta, descrive nello spazio abitato dall’uomo quattro direzioni primordiali che sono le quattro grandi strade attraverso le quali l’uomo stesso prende coscienza del suo dominio terreno. La prima consapevolezza del quaggiù-generato-dal-cielo si manifesta così sotto lo schema generale immaginario di questa quaternìtà; ricordiamo bene questo concetto. La ragione è che l’uomo è un animale essenzialmente orientato per struttura psichica, organica e scheletrica. C’è una faccia ventrale ed una dorsale, una lateralità destra e una sinistra. Esso non può compiere nulla senza riferire, almeno inconsciamente, la propria orientazione a quella del paesaggio cosmico in cui bisogna necessariamente inserirsi per essere se stessi ed agire. Di qui egli attingerà la pienezza dell’animalità sulla quale si fonderà la sua attività propriamente umana, cioè informata dallo spirito. La rivelazione del sole delle quattro direzioni rivela così l’uomo a se stesso e, insieme, alla distesa spaziale che con lui ed in lui entra nella realtà.

Si concepisce, allora, l’importanza del sole nella vita dell’umanità e si comprende come varie religioni abbiano potuto prenderlo per un vero dio. Tuttavia, occorre evitare accuratamente di esagerare l’importanza che riveste. Coloro che vivono costantemente in contatto con la natura sanno bene che a lato di questo prestigioso signore altri attori più discreti entrano in scena. Meno appariscenti, sono più ammantati di mistero. Gli spiriti più profondi vi discernono dei simboli rivelatori di misteri ancora più nascosti. Ricordiamo, fra gli altri esempi, l’importanza che riveste presso tante civiltà la luna, le cui fasi coincidono in maniera così strana con i cicli dei vegetali e con i ritmi della fecondità della donna.

Nondimeno, i pianeti appaiono svantaggiati dal carattere anacronistico della loro corsa paragonata al movimento fondamentale della volta celeste; e così si rifiuta loro l’attitudine a simboleggiare la trascendenza che l’uomo appassionatamente reclama. Dopo tutto è nel firmamento immutabile che egli deve cercare le coordinate ideali ed esemplari del suo orientamento terreno. Il sole si vede allora ridotto al ruolo ancora decisivo, ma non più definitivo, di cursore celeste: gigantesco faro luminoso che segna sulla carta della volta stellata gli spostamenti quotidiani e stagionali del divenire storico della nostra terra. La contemplazione concreta del firmamento ce l’ha mostrato: è lui, il sole, che per la circostanza delle sue levate e dei suoi tramonti davanti all’una o all’altra costellazione permette di distinguere sul cerchio della banda zodiacale le quattro costellazioni stagionali, dell’Acquario, del Toro, del Leone, dello Scorpione: è grazie al suo intermediario che il cerchio percepito nel cielo entra in rapporto con la croce d’orientamento terrestre. L’orientazione totale dell’uomo esige soprattutto un triplice accordo: l’orientazione del soggetto animale in rapporto a se stesso; l’orientazione spaziale in rapporto ai punti cardinali terrestri, l’orientazione temporale, infine, in rapporto ai punti cardinali celesti. L’orientazione spaziale si articola sull’asse est-ovest scandito dalla levata e dal tramonto del sole. L’orientazione temporale si articola sull’asse di rotazione del mondo, insieme sud-nord e basso-alto. L’incontro di questi due assi maggiori realizza la croce d’orientazione totale. La concordanza nell’uomo dei due orientamenti, animale e spaziale, fa sì che egli sia in rapporto con il mondo terrestre immanente; ecco il triplice accordo, animale, spaziale e temporale con il mondo soprannaturale trascendente per e attraverso il contingente.

Il ciclo quaternario conferisce al nostro mondo terreno il suo ritmo vitale fondamentale che è quello delle stagioni e per questo lo caratterizza. Il quaternario è apparso sulla banda di una figura circolare (cerchio zodiacale o orizzonte) da cui si è distinto per una sorta d’emanazione a partire dai quattro punti maggiori.

Schema del ciclo quaternario

Tale emanazione continuerà per ulteriori sotto-distinzioni, suddividendosi il quaternario in 8, 12, 16, ecc. realizzando così la rosa dei venti. Questo processo annuncia e realizza il passaggio dell’aldilà trascendente al quaggiù immanente.

Attraverso un passaggio simbolico che già riflette qualche cosa del mistero della creazione, si giunge, dunque, alla presa di coscienza simultanea di due direzioni vitali rettangolari e di quattro punti diametralmente opposti; ciò che si può evocare anche se piuttosto astrattamente, sulla carta, attraverso i simboli della croce o del quadrato che ne deriva.

Angkor – Tempio di Bakong

Questi due simboli correlativi della croce e del quadrato sono universalmente riconosciuti come simboli perfetti della terra.

Giada rituale cinese – Ts’ong (simbolo della terra)

Per terra intendiamo tutto ciò che si oppone al trascendente celeste; è opportuno che questo concetto venga sempre tenuto presente. La figura quadrata, e più precisamente la squadra che ne costituisce l’elemento fondamentale, materializza simbolicamente due direzioni spaziali: è il noto sistema delle coordinate cartesiane. Allo stesso modo simboleggia lo spazio che, del resto, è una dimensione propriamente terrena; il cielo gli è immediatamente rapportato come incommensurabile, aspaziale.

Quanto al cerchio, simboleggia il cielo nei suoi rapporti con la terra anche quando è considerato sotto il suo aspetto trascendente (significa allora il totalmente diverso dalla terra, ciò che implica ancora un riferimento negativo alla terra).

L’idea astratta della trascendenza metafisica non ha spazio nel simbolismo; l’intuizione concreta che se ne può avere ha senso solo all’interno del simbolismo negativo; ciò che è infinitamente differente dal terreno perché lo oltrepassa infinitamente. In pari contesto, il cerchio simboleggia l’attività del cielo, il suo inserimento dinamico nel cosmo, la causalità, l’esemplarità, il ruolo provvidente. Di qui, raggiunge i simboli della divinità protesa sulla creazione, di cui regola, produce e ordina la vita.

È interessante rilevare qui l’accordo dei simboli con il pensiero concettuale più alto: si conosce la forma sotto la quale Dante, al termine della sua ascensione, scopre le tre Persone divine: «nella profonda e chiara sussistenza dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza» (Paradiso, XXXIII). Dionigi l’Aeropagita (Nomi divini IV, 4; Gerarchia Celeste I, 1) vi aveva riconosciuto il simbolo dell’Amore divino. Su questo punto l’accordo delle più antiche tradizioni, dei grandi pensatori e della filosofia cristiana è significativo. Un secolo prima di Copernico, due secoli prima di Galileo (1564-1642) che doveva fare le spese della questione, quel tedesco di genio che fu Nicola Cusano (1401-1464), cardinale, teologo, filosofo e uomo di scienza, spostò la terra dal centro dell’universo. Cinque secoli prima del suo compatriota Albert Einstein (1879-1955), egli pose i principi della famosa teoria della relatività destinata a rivoluzionare la meccanica classica diventata insufficiente a dare ragione dei fenomeni atomici o astronomici. «Il mondo, spiegava Nicola, è come una ruota in una ruota, una sfera in una sfera». Di colpo si viene ad affondare tutta la costruzione tolemaica. Ora ecco la sua conclusione – come Platone o Aristotele egli non s’inganna sulle parole, testimone piuttosto di un’età che sta per finire, età in cui gli uomini sapevano tradurre le più alte scoperte scientifiche in un linguaggio simbolico che conferiva loro continuità su un diverso piano del sapere umano -: «Dunque, egli continua, i poli delle sfere coincidono con il centro che è Dio… Dio è circonferenza e centro, Lui che è dappertutto e in nessun luogo». Il tribunale che condannò Galileo per aver osato sostenere che la terra girava attorno al sole, idea non solo incompatibile con le affermazioni della Bibbia ma che per di più disprezzava i principi fondamentali della rappresentazione simbolica dell’epoca, non seppe o non volle accettare questo cambio di prospettiva. Sarebbe puerile scandalizzarsi dell’oscurantismo di allora e della mancanza di apertura ai risultati delle osservazioni scientifiche. Noi non possiamo immaginare la portata del rivoluzionamento di prospettiva che era richiesta agli uomini di quel periodo. Occorre, dunque, giudicare con cautela, considerando anche la difficoltà che noi stessi sperimentiamo nel cambiare opinione su questioni molto meno gravi. Comunque, siamo al punto in cui il male di cui oggi soffriamo comincia a manifestarsi prepotentemente: il tragico dilemma che sembra opporre la conoscenza scientifica alla conoscenza simbolica… Qui si rompe la grande tradizione che risale alle radici comuni dell’umanità, all’interno della quale ci accontenteremo di rilevare l’accordo di un cristiano e di un pagano, entrambi rappresentativi: sant’Ireneo e Platone.

Sant’Ireneo (secondo vescovo di Lione, morto nel 202), instancabile oppositore degli gnostici eretici, appare colpito dal fatto di poterli combattere con l’autorità di Platone: «Paragonato a questi uomini (gli eretici e Marcione), Platone risulta molto più religioso, egli che riconosce un Dio che è lo stesso, giusto e buono, che ha potere su tutte le cose; ed eccone le parole: “Dio, seguendo una antica tradizione, è l’inizio, la fine e il mezzo di tutte le cose che sono. Egli agisce in linea retta mentre per natura è circonferenza” (Leggi, 4) e dimostra che l’Autore e l’Artefice di questo universo è buono» (Adv. Haer., 136). Il cerchio, dunque, può simboleggiare la divinità considerata non solamente nella sua immutabilità ma anche nella bontà elargitrice quale origine, essenza e divenire ultimo di tutte le cose; la tradizione cristiana dirà come alfa e come omega. Il rapporto che esso ha con il mondo creato è invece espresso da simboli di linea retta: il lampo, la freccia, il raggio, la pioggia, la colonna, il campanile.

Il mondo generato riflette così nella sua struttura l’azione che l’ha prodotto. Rimane caratterizzato innanzitutto da figure formate da rette la cui prima associazione è la squadra, elemento di base del quadrato terrestre.

Così, il cerchio e il quadrato si uniscono spesso per costituire un complesso indistruttibile al di fuori del quale essi perdono il loro significato.

Newgrange, Tumulo – Pietra d’ingresso

Questo è fondamentale. Insieme simboleggiano il cosmo, cioè il cielo e la terra, quell’universo di cui sant’Agostino ama sottolineare che trae il nome dal fatto che è uno, che forma un tutto inscindibile. Ma cerchio e quadrato rappresentano ugualmente il tempo e lo spazio nella loro inevitabile correlazione: il famoso continuum spazio-temporale, fondamento dell’antropologia di san Tommaso d’Aquino e di cui tanto si parla ai nostri giorni; una delle principali chiavi d’interpretazione degli edifici romanici in generale e dei loro timpani in particolare. A condizione tuttavia di mantenere chiara una gerarchia tra questi due elementi: lo spazio è subordinato al tempo davanti al quale deve costantemente cancellarsi dopo avervi condotto lo spirito. Non si vuol dire che bisognerebbe equiparare da una parte il cielo e il tempo e dall’altra la terra e lo spazio; una tale logica, estranea per natura alla simbologia, porterebbe a conclusioni per lo meno assurde.

Boher, Reliquiario – Borchia semisferica

Ciò che bisogna dire è che il rapporto della terra e del cielo è simbolicamente dello stesso tipo del rapporto spazio-temporale e quindi anche dell’immanente con il trascendente. Si ha, così, a che fare con due coppie che non bisogna scindere ma considerare sempre nella loro dualità complementare.

In tal modo, guardandoci da semplicistiche astrazioni, non bisognerà mai dimenticare che sul piano delle gerarchie immaginarie il quadrato appare in dipendenza del cerchio, nella sua aureola in espansione; esso segue non per una successione cronologica, ma nell’ordine delle ripercussioni simboliche. Il peggiore dei quadrati non è altro che un cerchio a quattro angoli, o a quattro facce, un cerchio ammaccato che si ricorda dell’antica perfezione. Si tratta dunque di tempo cristallizzato nell’attimo, di un riflesso dell’aldilà. La Gerusalemme celeste dell’Apocalisse sarà quadrata. In geometria la quadratura del cerchio è un non-senso; in simbologia diventa un’operazione fondamentale. La simbologia aggira il problema ricostruendo attorno al quadrato il suo originale cerchio circoscritto, trasfigurando così lo spazio fisso nella rotondità mobile del tempo. Le chiese sono quadrilateri all’interno dei quali i raggi luminosi ruotano per il corso della giornata, mentre esternamente, l’ombra segnata dal campanile traccia il cerchio del tempo celeste. I simboli consentono l’accesso ad ambiti preclusi al pensiero discorsivo. Non è sempre possibile esprimere la correlazione di natura che lega il cerchio al quadrato. Non si può mai eluderla, ancor meno combatterla. Cosa che risulterà ancor più chiara considerando in che modo l’immagine circolare sia connessa dinamicamente a quella quadrata. Il cerchio, questo punto ingrandito, possiede una superficie limitata, circoscritta, chiusa. Ha una frontiera; è un hortus conclusus, un giardino chiuso.

Libro delle ore del Duca di Berry – Paradiso

E ciò è esattamente quanto il quadrato ha in comune con esso. Dal momento che c’è un limite, è possibile che un osservatore vi si trovi all’interno. Questo riconduce al principio fondamentale secondo cui non esiste simbologia se non in rapporto ed a partire da un uomo all’interno chiamato centro. La simbologia non è affatto la geometria nonostante abbia alcuni punti in comune con essa. A questo osservatore, il quadrato si manifesta non già come la secca figura geometrica che comunemente si designa con quel nome, ma come un’estensione espansa in quattro direzioni a due a due opposte – estensione che null’altro è se non quella della propria struttura animale percettiva – o, ancora, come una divisione dello spazio in quattro settori.

Così, il quadrato evidenzia l’orientamento fisso o durevole mentre il cerchio non denuncia alcuna propria orientazione. Il quadrato è figura antidinamica fissata su quattro angoli; simboleggia la stasi o l’attimo prestabilito; implica un’idea di ristagno, di solidità, simbolo di stabilità nella perfezione: sarà il caso della Gerusalemme celeste. Il movimento agevole, invece, è circolare, rotondo. L’arresto, la stabilità s’associano con figure angolose e linee opposte e movimentate. Ciò che stimola nell’immaginazione il quarto simbolo fondamentale: la croce.

Quadrato e croce sono entrambi caratterizzati dalla quaterna che è un simbolo d’universalità spaziale e d’universalità creata: la loro cifra è il quattro. Sul piano della simbolica dei numeri, essendo la triade il simbolo della divinità e dei principi trascendenti dell’universo, l’aggiunta di un’unità rompe la perfezione e costituisce un numero simbolo del mondo materiale, il 4.

Dopo le epoche vicine alla preistoria, il 4 venne utilizzato per significare il solido, il tangibile, il sensibile. Ma il suo rapporto con la croce ne faceva, per altro, un simbolo incomparabile di pienezza, di universalità, un simbolo totalizzante. Da qui si comprende come natti i popoli abbiano considerato la terra come divisa in quattro settori. Il sanscrito, l’antico babilonése, il cinese, i testi dell’America precolombiana designano i capi e i re con il titolo di «Signore dei quattro mari», «Maestro delle quattro parti del mondo», «Maestro dei quattro soli». Gli stati sono stati spesso divisi in quattro province o in multipli di quattro. Le grandi religioni hanno ciascuna quattro libri sacri. «Nelle Indie, Brahma, l’Anima del mondo, il Padre, il più antico degli Dei, il regolatore degli elementi ha quattro teste e quattro facce corrispondenti ai quattro Veda, libri sacri dell’India che sono le quattro Rivelazioni corrispondenti alle quattro Bocche. È noto che Brahma inviò suo figlio nel mondo per diffondervi l’insegnamento dei quattro libri». (Loeffler-Delachaux). Vedremo la conseguenza che ne ha tratto a sua volta la simbolica biblica.

La cifra della croce, noi affermiamo, è il 4. Ma è ancor più il 5… La simbologia cinese ci ha aiutato a ritrovare questa paradossale verità. Ci ha esortato a non considerare mai i quattro angoli del quadrato o i quattro bracci della croce al di fuori del necessario rapporto con il centro della croce o col punto d’intersezione dei suoi bracci. Senza giocare sulle parole, si potrebbe dire senza fallo che questo quinto punto è il più importante della quaterna.

Ahenny – Croce celtica in pietra

Come il cerchio, il quadrato è una figura centrale. Ed ecco che il centro del quadrato coincide con il centro del cerchio; questo punto comune è il grande incontro del piano dell’immaginario. È il luogo favorevole di tutte le rotture di livello, di tutti i passaggi da un mondo all’altro: l’omphalos dei Greci, l’ombelico del mondo degli antichi, la scalinata rimale di tante religioni, la scala degli dei. Di lì si passa dal cielo alla terra e viceversa, per di lì spazio, tempo, eternità, entrano in comunicazione.

La croce è ancora quella figura che congiunge a due a due i punti diametralmente opposti comuni al cerchio ed al quadrato inscritto. Per tutte queste funzioni – quella del centro che si diffonde nelle quattro direzioni o quella della riduzione all’unità dei punti estremi delle due ortogonali -, la croce ha carattere di sintesi e di misura: in essa si riuniscono il cielo e la terra nella maniera più intima possibile.

Zurigo, Museo Nazionale – Smalto ad alveoli

In essa si confondono il tempo e lo spazio. Essa è il cordone ombelicale mai tagliato del cosmo legato al centro d’origine. Tra tutti ì simboli essa è il più universale, il più completo. È il simbolo dell’intermediario, del mediatore, di colui che è per natura eterna unità dell’universo e comunicazione tra terra e cielo e cielo e terra.

Quest’ultima proprietà appare ancora più netta nell’ordine dei volumi. I volumi non aggiungono nulla in fatto di nuovi valori simbolici alle figure piane che li generano: il simbolismo della sfera è lo stesso del cerchio; quello del cubo è lo stesso del quadrato. I volumi però, appaiono talvolta più espressivi; rendono meglio alcune proprietà meno evidenti e ne conferiscono un’esperienza più sviluppata. La percezione tridimensionale è strettamente inerente all’agire umano; l’immaginario si annette il suo potere di valorizzazione. Per questa ragione la totalità celeste-terrestre si esprime meravigliosamente nella coppia cubo-sfera. In architettura la ritroviamo sotto forma di quadrilatero sormontato dalla sfera. Quest’ultima è riconducibile ordinariamente alla mezza sfera come nei casi di cupole o al quarto di sfera come nei casi dei catini delle absidi. Tuttavia, in questo caso, come sempre, il simbolo è e resta quello della forma pura, della linea e non dell’oggetto materiale. L’immaginazione s’avvale del supporto che le si offre, per quanto imperfetto sia, a condizione che sia evocatore, per ricrearlo in sé perfetto. Essa è generatrice di forme ideali.

I simboli danno all’uomo il potere, unico, di rendere presente e tangibile, fin nei suoi segreti più riposti, il mondo che ci circonda. Per non contraddire questa verità dovremo avere la lealtà di non separare mai i simboli dal loro accoppiamento esistenziale; di non scinderli mai dall’atmosfera luminosa in seno della quale essi ci sono stati rivelati, per esempio, il grande, sacrale silenzio delle notti di fronte all’immensità del firmamento, maestoso, totale; di ritrovare sempre sotto le parole usate la linfa vivificante, al di là del simbolo, il simbolismo che ne deriva. In secondo luogo, bisognerà non inventare ma informarci. Cercare le costanti più certe per essere sicuri di cogliere le espressioni simboliche universali relative all’uomo in quanto tale.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book
LuogoMilano
Anno 1981
Pagine29-52

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (11)

Ancora più direttamente legato ai risultati della rinascita scientifica ottoniana è Adalboldo, maestro della fiorente scuola di Liegi e poi vescovo di Utrecht († 1026), autore di una serie di quaestiones di argomento matematico inviate a Gerberto dopo l’elezione papale, di scritti di argomento musicale e di un breve trattato Sul modo di calcolare il volume della sfera. L’importanza specifica del suo contributo intellettuale viene dal fatto che egli ha individuato nelle dottrine fisiche dei filosofi latini tardo-antichi la filigrana su cui tentare una sistemazione filosofica del mondo fisico e dare corpo all’aspirazione, dominante nei maestri della generazione precedente, di elaborare – in base ad una sintesi di sapienza cristiana e nozioni matematiche – una coerente cosmogonia teologica.

Già nell’opuscolo geometrico il tentativo di calcolare i rapporti tra diametro e circonferenza del mondo è suggerito ad Adalboldo da un’allusione letta nel commento di Macrobio al Somnium Scipionism. Ma il suo testo più interessante in questo senso è un approfondito commento alla cosmologia teologica del carme O qui perpetua, il nono del terzo libro della Consolatio di Boezio. Qui il pensiero dell’autore si può lanciare, sulla solida scorta delle competenze filosofico-scientifiche maturate nelle scuole del suo tempo, in una descrizione dell’ordine e delle proporzioni vigenti nel creato e nella natura umana, che è esplicitamente finalizzata a favorire una comprensione almeno prospettica di quella ratio che governa il mondo e che, nella sua eterna condizione di causa immutabile, si identifica con il Verbo divino. In questo modo egli può affermare, al seguito di Abbone, che, pur essendo esterno ad ogni determinazione, Dio è presente, come principio di tutte le determinazioni, in ogni luogo e in ogni tempo, rimanendo tutto in sé e insieme tutto in tutte le cose, in ciascuna di esse, dalle più grandi alle minime.

La cosmologia può così diventare il riflesso di una teologia filosofica, nel senso che conoscere il mondo e le sue leggi consente allo scienziato di conoscere l’immagine dell’indicibile essenza divina. La dialettica è lo strumento che consente all’intelligenza non soltanto di orientarsi nelle indagini sulla creazione ma anche di mantenere rigorosamente distinta la conoscenza dell’effetto, articolata in dimostrazioni e definizioni, dal presupposto intuitivo della natura della causa, che resta inconoscibile per la razionalità. Adalboldo procede dunque dal mondo verso Dio con un corretto andamento sillogistico, in base al quale è in grado di elaborare una delle prime, rigorose dimostrazioni (in ambito cristiano) dell’esistenza di Dio a partire dal creato: ogni forma è creata, ma nulla può essere creato e insieme superiore rispetto a tutte le cose create; ora, le cose formate sono tutte buone, quindi esiste il Bene che le fa essere buone, e che dovrà essere qualcosa di superiore a tutte le cose formate; dunque il Bene, che esiste necessariamente, è increato, ed è la fonte divina da cui derivano tutte le forme.

Perciò i teologi chiamano Dio «forma di tutte le cose», anche se in sé Dio, non essendo formato, non dovrebbe poter essere veramente chiamato forma. Questo abuso linguistico viene spiegato sulla base del fatto che gli uomini spesso attribuiscono ad una realtà una forma che essa ha in verità non in sé, ma soltanto per loro che ne fruiscono e che, tramite questa attribuzione di forma possono riconoscerla: come, per esempio, quando diciamo che una cosa, che in sé è un pezzo di legno, ha (per noi soltanto) la forma di una tavola. Così diciamo che il Sommo Bene è una forma, solo per poter comprendere in quale modo esso abbia formato le cose, e, formandole, si sia reso a noi intelligibile.

Autore: Giulio d’Onofrio
Pubblicazione:
Storia della Teologia nel Medioevo. I: I princìpi
Editore
: Piemme
Luogo: Casale Monferrato
Anno: 1996
Pagine:  379-380
Vedi anche:
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (1)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (2)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (3)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (4)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (5)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (6)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (7)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (8)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (9)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (10)

Incrocio: simbolismo e genesi del segno

Sezione: Lessico


Una volta capito il simbolismo dell’incrocio, si può dire capito tutto quanto il simbolismo romanico – nella misura in cui questo è comprensibile. Potremmo anche chiamarlo Croce rovesciata, o inclinata, ma il termine di Incrocio (Croisement), che noi adottiamo sulla scia dell’Alleau, è più adeguato per la sua stessa indeterminatezza, perché racchiude in sé una moltitudine difatti e di immagini, addirittura di dati scientifici, dei quali un termine preciso e restrittivo non potrebbe rendere assolutamente l’idea.

Aspetto scientifico: il tema si lega al simbolismo matematico. Tutti i primitivi fanno i loro calcoli servendosi delle dita, e il numero dieci rappresenta l’insieme delle dita delle mani, che viene espresso incrociando le mani stesse, così da disegnare una X, il dieci romano, un incrocio appunto. La X si collega direttamente alle squame di pesce o alle penne di uccello che formano delle embricature.

L’incrocio si trovava già come segno esoterico nella parte più interna e più segreta delle grotte preistoriche, sotto l’aspetto del «Tettiforme»; noi stessi, poi, fondandoci su dei raffronti a posteriori, siamo del parere che l’unione dei due triangoli evochi forse già la ierogamia, l’unione delle due divinità, maschile e femminile, che in innumerevoli mitologie regola il destino dell’universo. Questo significato appare perfettamente chiaro in quello che è per eccellenza il regno del triangolo, ovverosia nell’area delle civiltà preelleniche, il bacino orientale del Mediterraneo. Questi complessi significati si manterranno vivi nel simbolismo matematico, per il fatto che l’incrocio legato alla nascita divina diventerà il segno della moltiplicazione e anche perché esso, come espressione di un mistero sacro, si trasporrà nella lettera X, impiegata per rappresentare l’ignoto. Si tenga presente, a questo proposito, quello che nell’uomo appare come un riflesso perfettamente naturale e del tutto elementare: quando vogliamo sbarrare con forza un termine inadeguato, non tracciamo una semplice linea, bensì due, oblique e incrociate. Ora, anche se non si può dire che un tema così importante possegga nell’arte romanica dei significati imprecisi, pure il volerlo trattare in questa sede in maniera esaustiva finirebbe col farci ricondurre ad esso tutto il simbolismo romanico. Non esiste tema, infatti, che non presenti in un modo o nell’altro una qualche apparenza di incrocio: rosoni, fiori, racemi, spirali contrapposte, decorazioni di colonne, cuori diritti e capovolti, leoni e uccelli, gambe di personaggi allegorici, sedie curuli, intarsi, uomini col leone (Aulnay, Jaca), alberi perfino (Aix, Compostella); certi temi (Lottatori, Abbraccio, Squame) si possono capire solo in funzione dell’incrocio. Perciò, dopo una introduzione generale che tenterà di definire sommariamente il tema nel suo significato di massima e di delinearne la genesi e la storia, e dopo avere messo in evidenza il suo aspetto nelle due zone, ci limiteremo ad analizzare dei casi ben precisi, espressi da complessi chiari e sicuri, primo fra tutti quello degli animali in posa di «contrasto» (a testa indietro, cioè); un caso particolare, poi, esigerà una speciale attenzione: quello della riunione di due nature in un solo essere (tipo la sirena), ripresa evidentemente dall’Antichità classica: sia per il loro aspetto – tritoni di foglie con le code incrociate –, sia per la loro natura – ali di sirene-uccello (o arpie) o squame di sirene-pesce –, si tratta sempre di esseri ibridi che evocano una realtà superiore, ambigua. Come l’incrocio vero e proprio, essi costituiscono una pura e semplice eredità del mondo classico, senza alcun riferimento biblico.

Dalla preistoria ai nostri giorni, l’incrocio dimostra le perennità, entro una data struttura, di un archetipo nato, si può dire, insieme con l’uomo. Lo si ritrova diversificato solo in qualche dettaglio, presso tutte le culture del globo, con ancora più frequenza del triangolo. Comunque si presenti e qualsiasi cosa voglia dire – dieci, cento o mille, decina, centinaio o migliaio, sul piano matematico, oppure incrocio propriamente detto –, esso possiede in sé qualcosa di misterioso, legato alla molteplicità stessa di questi significati. L’incrocio, per ripetere l’espressione dell’Alleau, può essere considerato come «il fatto simbolico in se». Naturalmente, i Greci gli hanno dato grande importanza. Per Pitagora, non diversamente da quanto si può riscontrare più o meno dappertutto, il dieci è il numero sacro per eccellenza, il numero dell’universo; è parte integrante della tetractys (1 + 2 + 3 + 4 = 10), altrimenti detta numero quaternario. Dal canto suo Platone, nel Timeo, cerca di spiegare la formazione del mondo, ovverosia delle cose che cadono sotto i sensi; movendo da dotte considerazioni sia sulla materia e sullo spirito, dalla cui connessione trae origine l’anima, sia sui numeri reali, che esprimono la grandezza delle orbite planetarie, egli ritiene che per regolare il buon andamento dell’universo il demiurgo abbia trasposto sul piano cosmologico il segno primitivo delle «due mani». Questa lettera khi di cui parla Platone, che corrisponde alla figura dell’incrocio, si collega a sua volta ad antichi geroglifici egiziani, rivelati dal dio Thot, e insieme ad antichi caratteri ebraici, come lo heth. Il numero Dieci è sacro anche nella descrizione che lo stesso Platone fa dell’Atlantide: nel Crizia, infatti, si afferma che Nettuno, re della suddetta Atlantide, aveva diviso l’intera isola in dieci parti, affidandone il governo a dieci diversi sovrani – di cui il primo era Atlante –, i quali avevano dato origine a dieci dinastie. La lunghezza del canale di irrigazione che circondava la pianura era di diecimila stadi. Una tradizione dell’America centrale parla anch’essa di questi mitici dieci sovrani. L’iniziale del Cristo, la X, rappresenta quindi, in virtù di queste remote tradizioni, la forma occulta, esoterica, della croce. Ecco la ragione per cui i copti, per primi, nel raffigurare gli Animali evangelici, li hanno disposti in forma di croce rovesciata, ricalcando la decisione di Costantino che aveva fatto ricamare il crisma sui labari delle sue legioni. L’incrocio è al tempo stesso una forma di espressione dell’assoluto, dell’inconoscibile: ed è proprio per questo che il suo segno è diventato – ed è rimasto – la x matematica. In quanto espressione della trascendenza divina la X – o incrocio – svolge un molo di primissimo piano nella simbolistica cristiana.

Facciamo notare come il paganesimo avesse già intravisto l’importanza della X (= incrocio), all’interno della parola archos (capo), prima ancora che questa diventasse archô (io comando). La X si adatta perciò perfettamente al potere del Cristo stesso, così come avviene per l’imago clypeata, che si trasforma naturalmente nell’aureola dei martiri, e per le Vittorie del trionfo romano, che si trasformano in angeli portatori di gloria.

L’iconografia cristiana non crea insomma niente di nuovo; si inserisce in una tradizione di portata e dimensioni immense: solo questo. E se l’arte romanica diversifica all’infinito una formula, è perché nessun altro segno sembra essere più adatto per esprimere la signoria del Cristo sui più diversi aspetti dell’universo. Una certa forma di croce finisce così col trasparire anche dalle penne remiganti degli uccelli, dalle squame, dalle onde del mare, dalle pose dell’uomo, dalle mani che venivano incrociate per significare la prova dei prigionieri e dei martiri: lo vediamo chiaramente, tanto per fare un esempio, su un archivolto dell’Abbaye-aux-Dames, a Saintes. D’altra parte, nessuna tradizione ignora questo simbolo. Quale importanza avessero gli intrecci lo rileviamo senza difficoltà nell’arte barbarica. I Celti, pure loro, attribuivano all’incrocio un valore preciso e fondamentale: su certe statue del Museo di Saint-Germain-en-Laye il segno dell’incrocio appare tracciato – e non ceno a caso – in maniera inequivocabile: si tratta infatti di figure funerarie o di immagini commemorative di vittime sacrificali; gli eroi dei santuari celtici di Roquepertuse e di Entremont sono seduti con le gambe incrociate: sembra che stiano eseguendo esercizi yoga.

Una posizione del genere non viene adottata solo perché è comoda: essa ha innanzi tutto una portata simbolica, perché esprime la meditazione e il dominio. E infatti per il suo atteggiamento maestoso che si distingue Cernunnos, il dio dell’abbondanza, raffigurato sul vaso di Gundestrup con in mano due attributi, la collana e il serpente, quale signore delle potenze infernali. Fra le sue corna di cervo, come fra le corna del cervo che lo accompagna, si nota una vegetazione simbolica, l’edera «cordifora», simbolo di eternità: come si sa, i Celti credevano fermamente nella resurrezione. Analogamente, frutti e foglie lanceolate escono dalle corna del cervo sul sarcofago di Saint-Ludre de Déols: sono i simboli dell’abbondanza autunnale; immediatamente sopra, l’incrocio, simbolo del sacrificio, appare disegnato su una colonna tronca che sembra poggiata sulla schiena della vittima cornuta.

I vari modi di esprimere l’incrocio, per esempio le gambe incrociate, hanno una portata universale e non bisogna considerarli come un’esclusività romanica, d’origine mediterranea. Se ci mettessimo a illustrare i molteplici aspetti in talune arti primitive, tipo l’arte oceanica, nella zona circumpacifica e in Estremo Oriente, finiremmo con l’andare troppo lontano. Ci basterà citare il Kuen-Luen cinese, il Monte degli immortali, degli dèi, è dato dall’unione al vertice di due coni contrapposti, da cui deriva un ampio incrocio sviluppato volumetricamente e non soltanto in piano come la X platonica. Ma soprattutto è da segnalare il segno che esprime le successive fini del mondo nel Calendario azteco. E bisogna ricordare anche le posizioni delle gambe incrociate – propizie alla meditazione buddista – degli Indiani, senza contare, nella medesima area culturale, le diverse accezioni del nodo usato per i conteggi commerciali. L’arte buddista, che muove dal comune ceppo ellenico da cui trae origine la nostra arte romanica, presenta gli stessi motivi di elementi contrastanti disposti in fregio, oltre, naturalmente, alle pose mistiche di cui si è appena detto.

Tuttavia, se si considera la storia del simbolismo su un piano generale, si può ammettere che la prevalenza del segno della X o dell’Incrocio nelle culture circumpacifiche, così come l’apogeo da esso raggiunto nell’arte romanica, siano il sintomo di una sorta di ànsito dell’espressione simbolica: si è ormai ad un punto in cui non ci si può più accontentare del solo linguaggio simbolico, e in cui è la scrittura, soprattutto quella delle cifre, a prendere il sopravvento. La X è in effetti più un segno di congiunzione che un segno compiuto come tale; l’insistere su di essa finisce col perturbare le altre espressioni più semplici Ogni simbolo archetipico ha un significato fondamentale e universale al quale è possibile agganciare una moltitudine di accezioni quanto mai diverse: in linea di massima non è difficile rinvenire, in ciascuno di essi, uno dei vari elementi del ventaglio, legato, con più o meno coerenza, secondo il caso, al tema principale.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 161-163

Rabano Mauro – La formazione dei chierici (III, 21-23)

Possiamo definire alla latina la matematica come la scienza teorica che studia la quantità astratta. Si dice astratta la quantità separata con l’intelletto dalla materia o da altre accidentalità, come il pari, il dispari e altri aspetti simili, che trattiamo con il solo ragionamento. Si divide in aritmetica, musica, geometria, astronomia. Le esporremo, ciascuna secondo l’ordine.

L’aritmetica è la disciplina della quantità in sé numerabile. Infatti è la disciplina dei numeri – i greci chiamano rithmon il numero – e i letterati secolari la vollero prima tra le discipline matematiche, poiché per esistere non ha bisogno di alcun’altra disciplina. Invece la musica, la geometria e l’astronomia, che vengono di seguito, richiedono il suo aiuto per esistere con fondamento. Dobbiamo sapere che Giuseppe, il più dotto fra gli ebrei, nel primo libro delle Antichità [giudaiche], al titolo nono , afferma che Abramo fu il primo a tramandare l’aritmetica e l’astronomia agli egizi, i quali, assimilandone i semi, da uomini di acutissimo ingegno come sono, ne ricavarono più largamente le rimanenti discipline. E i nostri santi padri con ragione esortano i più zelanti a studiarle, perché attraverso esse il desiderio viene in gran parte distolto dalle cose carnali e indirizzato verso le realtà che, con la grazia di Dio, possiamo contemplare soltanto col cuore. Dunque non si deve disprezzare la scienza del numero, il cui grande valore brilla, per chi osserva con diligenza, in molti passi delle sante Scritture. Non per nulla nelle lodi di Dio è detto: “Hai regolato tutto secondo misura, numero e peso” (Sap 11,21).

Ogni numero è delineato dalle sue proprietà, cosicché nessuno di essi può essere uguale a qualsiasi altro. Sono dunque tra loro disuguali e diversi, e ciascuno singolarmente è diverso e finito, e tutti insieme sono infiniti. E non oseranno certo disprezzare i numeri e pensare che non riguardino la conoscenza di Dio coloro ai quali Platone con grande autorità assicura che Dio costruisce il mondo in base ai numeri. A noi il profeta dice di Dio: “E colui che esprime l’universo coi numeri” (Is 40,12.16). E il Salvatore nel Vangelo: “I vostri capelli sono tutti contati” (Mt 10,30).

Sebbene si presentino allo sguardo della mente certe immagini, come di corpuscoli, mentre si pensa una composizione o ordine o partizione basata sul numero sei, tuttavia una più valida e molto più potente ragione superiore non consente a loro, e contiene interiormente il valore del numero, e attraverso questa intuizione afferma con sicurezza che ciò che si chiama unità numerica non si può affatto dividere in parti, mentre non ci sono corpi che non si possano dividere in parti innumerevoli, e che il cielo e la terra, costruiti secondo il numero sei, possono più facilmente passare di quanto si possa fare in modo che il numero sei non sia completato dalle sue parti. Pertanto non possiamo affermare che il numero sei è perfetto perché Dio compì tutte le sue opere in sei giorni, bensì che Dio ha compiuto tutte le sue opere in sei giorni perché il numero sei è perfetto. Cosicché quel numero sarebbe perfetto anche se queste realtà non esistessero; ma se quello non fosse perfetto, queste in base ad esso non sarebbero perfette.

La mancanza di dimestichezza con i numeri non consente inoltre di intendere molti passi della Scrittura aventi senso traslato o mistico. Indubbiamente il problema di che cosa significhi il digiuno di quaranta giorni osservato da Mosè, da Elia e dallo stesso Signore non può non scuotere un ingegno, per così dire, ingenuo. Il particolare senso figurato di quell’azione non può essere risolto senza conoscere e considerare questo numero. Infatti il dieci moltiplicato per quattro contiene una specie di conoscenza di tutte le cose intessuta con i tempi. Sul numero quattro si snodano i corsi dei giorni e degli anni: i giorni hanno il ritmo delle ore del mattino, del pomeriggio, della sera e della notte; gli anni hanno quello dei mesi primaverili, estivi, autunnali e invernali.

Finché viviamo nel tempo, dobbiamo astenerci e digiunare dal piacere temporale, per amore dell’eternità nella quale vogliamo vivere, sebbene i corsi dei tempi ci suggeriscano proprio l’insegnamento del disprezzo del tempo e del desiderio di eternità. Inoltre il numero dieci simboleggia la conoscenza del Creatore e della creatura: infatti la trinità appartiene al Creatore, mentre il numero sette indica la creatura a causa della vita e del corpo. Poiché nella vita ci sono tre aspetti, per cui pure si deve amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. Nel corpo invece si manifestano con tutta evidenza i quattro elementi dei quali è composto. Con questo numero dieci ci vien suggerito temporalmente, cioè moltiplicandolo quattro volte, il vivere con castità e astinenza dal piacere temporale, ossia il digiuno di quaranta giorni. Così ammonisce la Legge, impersonata da Mosè, la profezia, impersonata da Elia, e lo stesso Signore, che, avendo a testimoni la Legge e i profeti, in mezzo a loro risplendette sul monte alla vista stupefatta di tre discepoli.

Allo stesso modo poi ci si chiede come dal numero quaranta si ricavi il cinquanta, reso sacro non poco dalla nostra religione a causa della Pentecoste; e in qual maniera, moltiplicato per tre in base alle tre epoche, prima della Legge, sotto la Legge, sotto la Grazia, o per il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, aggiungendo in modo più eminente la stessa Trinità, sia riferito al mistero della Chiesa purissima e giunga ai cento [cinquanta] e tre pesci catturati dopo la Risurrezione del Signore dalle reti gettate a destra. Allo stesso modo in parecchi e svariati altri casi nei Libri santi sono poste sotto forma numerica certe misteriose similitudini, che rimangono precluse ai lettori per mancanza di competenza in fatto di numeri.

Perciò, a coloro che vogliono giungere a capire la sacra Scrittura, è necessario imparare con diligenza quest’arte. Quando l’avranno appresa, ne potranno ricavare una più facile comprensione dei numeri mistici nei Libri divini.

Ora veniamo alla geometria, che è descrizione speculativa delle forme, ed anche modello visivo dei filosofi, i quali, per esaltarlo con i più grandiosi elogi, assicurano che il loro Giove compie le proprie opere in modo geometrico. Cosa che non so se si applichi a lode o a biasimo, dal momento che favoleggiano un Giove intento a fare in cielo i disegni che loro tracciano nella polvere colorata. Ma se questo pensiero si applica sanamente al vero Creatore, Dio onnipotente, può forse concordare con la verità. Infatti, se è lecito dirlo, la santa Divinità agisce con criteri geometrici quando concede alla sua creatura, che conserva nell’essere fino al presente, diverse figure e schemi; e quando, con veneranda potenza, regolò i percorsi degli astri e fece seguire linee prestabilite a quelli mobili, mentre determinava la sede di quelli fissi. Ciascuna opera bene ordinata e compiuta si può infatti avvicinare alle caratteristiche di questa disciplina.

Latinamente si dice e definisce geometria la misurazione del terreno. La geometria è la disciplina della grandezza immobile e delle figure, poiché, tramite appunto le diverse figure di tale disciplina, secondo alcuni in origine l’Egitto fu diviso fra i suoi padroni. I maestri in quest’arte erano chiamati anticamente misuratori. Ma Varrone, il più competente fra i latini, spiega così l’origine di questo nome. Dapprima gli uomini procurarono utili strumenti di pace per i popoli nomadi col fissare i confini misurando le terre; poi divisero il ciclo dell’intero anno per il numero dei mesi, e di qui presero nome i mesi stessi, perché misurano l’anno. Dopo tali scoperte, gli studiosi, stimolati a conoscere le realtà invisibili, cominciarono a cercare la distanza della Luna dalla Terra e del Sole dalla Luna, e quanto fosse esteso lo spazio fino alla sommità del cielo. [Varrone] riferisce che i più esperti geometri riuscirono a ottenere tali risultati. Afferma poi che furono calcolate con probabilità le dimensioni di tutta la Terra, e perciò avvenne che la disciplina stessa prese il nome di geometria che conserva da molti secoli.

Le regole di quest’arte furono osservate nel costruire il Tabernacolo e il Tempio, dove fu adottato l’uso della misura lineare e la disposizione del cerchio, della sfera e della semisfera, nonché della forma quadrangolare e di tutte le altre figure. Nozioni tutte che aiutano non poco il commentatore nella comprensione spirituale.

Autore: Rabano Mauro
Traduttore: Luigi Samarati
Pubblicazione:
La formazione dei chierici (De institutione clericorum)
Editore: Città Nuova (Fonti Medievali, 25)
Luogo: Roma
Anno: 2002
Pagine: 199-203
Vedi anche:
Rabano Mauro – La formazione dei chierici (III, 17)

Rabano Mauro – La formazione dei chierici (III, 18)
Rabano Mauro – La formazione dei chierici (III, 19-20)

La Musica e le Arti Liberali nel IX secolo: origini speculative del sapere teorico-musicale occidentale (1)

Più di mille anni ci separano dal secolo della Rinascenza carolingia, eppure è proprio a quell’epoca che dobbiamo ritornare per veder germogliare i principi di una teoria musicale che ancora si pone a fondamento della musica occidentale, una teoria che nasce dall’esigenza di organizzare e strutturare il canto sacro cristiano e che affonda le sue radici nella scienza greca, trasmessa al medioevo attraverso alcune opere della tarda latinità. Nei trattati di teoria musicale composti nel IX secolo si intrecciano infatti per la prima volta la pratica di una musica da sempre trasmessa oralmente e gli elementi di una teoria armonica, quella greca, inserita nel quadro speculativo neoplatonico trasmesso dal De institutione musica di Boezio, dal commentario di Calcidio al Timeo, dal commentario di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone, dal De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella. Nei quattro secoli che dividono la stesura di questi lavori dalla loro riscoperta (dalla fine del V secolo agli inizi del IX secolo), la continuità della trasmissione della teoria musicale antica, pur senza mai essere consapevolmente raccolta dai cantores, fu invero assicurata, anche se in maniera assai succinta ed elementare, dai capitoli dedicati alla musica nelle Institutiones di Cassiodoro e nelle Etymologiae di Isidoro, assai letti nel contesto dell’insegnamento delle arti liberali. Ed è proprio in tale contesto che prende vita la riflessione teorico-musicale dei musici, i quali seppero raccogliere la scienza matematico-filosofica antica ed accostarla al repertorio del canto liturgico, a sua volta analizzato e classificato secondo i criteri musicali proposti dalla teoria bizantina degli otto “modi”, descritta con l’aiuto della terminologia del grande sistema perfetto boeziano.

1. Il posto della musica nella storia delle arti liberali

La tradizione degli studi liberali ha radici antiche. Fu infatti nel IV secolo avanti Cristo che due grandi educatori, Isocrate e Platone, disputandosi la direzione spirituale della gioventù ateniese, plasmarono di fatto il percorso disciplinare che rimase per secoli alla base della formazione culturale “classica”. Da una parte, Isocrate guardò agli studi letterari come preparatori alle discipline superiori dell’eloquenza e della dialettica, intesa come l’arte della discussione; dall’altra, Platone riconobbe il valore propedeutico delle scienze matematiche ai fini della formazione di uno spirito filosofico.
Ma, fra le matematiche, fu alla musica che egli attribuì altissima considerazione, poiché essa è la scienza dei rapporti, chiave d’accesso alle leggi che reggono l’universo e strumento di comprensione della sua armonia; un’armonia che si esplicita in consonanze perfette, come quelle che, nel mito di Er, intonano le Sirene preposte ad ognuno degli otto fusaioli del fuso di Ananke, rappresentazione della Necessità, che governa i moti circolari dei cieli delle stelle fisse e dei sette pianeti, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole, Luna:

Il fuso si svolgeva sulle ginocchia di Ananke. In alto, sopra ciascun cerchio, incedeva, seguendone il moto, una Sirena, ed emetteva una sola nota in un unico tono; e da tutte e otto derivava un armonioso concento.

Repubblica X, 616c-617d

Per Platone, inoltre, la ragione stessa dell’udibilità del suono è aiutare l’anima a comprendere l’armonia che la governa:

L’armonia, poi, avendo movimenti affini ai cicli dell’anima che sono in noi, a chi si giovi con intelligenza delle Muse non sembrerà data per un piacere irrazionale […] ma come alleata per ridurre all’ordine e all’accordo con se stesso il ciclo dell’anima che in noi si fosse fatto discordante.

Timeo, 47d-e

Studi letterari e formazione matematica, che comprendeva anche lo studio della scienza musicale, apparvero pertanto dall’inizio del IV secolo come costituenti quella cultura di base, che, seguendo l’istruzione elementare, doveva introdurre il giovane all’insegnamento più avanzato del retore e del filosofo. In epoca ellenistica, come testimoniano, fra gli altri, Varrone, Cicerone e Filone di Alessandria, questo percorso educativo, già definito nella sostanza, si strutturò nel programma schematico5 che, raccolto da Macrobio e Marziano Capella, ultimi autori pagani della tarda latinità, si trasmise poi fino al medioevo cristiano, quando la volontà di una profonda e completa comprensione del Testo Sacro rese gli studiosi consapevoli della necessità di un aggancio con l’unico patrimonio culturale che era loro proprio, quello classico greco e latino. D’altra parte, erano gli stessi libri Sapienziali della Bibbia a dare piena legittimazione al sapere:

Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi […] Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so, poiché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose.

Sap., 7, 17-21.

Così, nel De Ordine Agostino, uomo formatosi attraverso lo studio dei classici e la lettura dei “libri dei platonici”, per il quale dunque il cammino di fede è già ricerca filosofica, poté scrivere che scopo della filosofia è la ricerca della Verità e del Bene e la contemplazione di Dio; ma la filosofia è una conquista che l’uomo raggiunge gradualmente, disciplinando la sua razionalità attraverso l’eruditio, nella pratica delle sette arti liberali, che fungono da propedeutica, da exercitatio animi. Da qui, il progetto dei Disciplinarum Libri, fra i quali il De musica, in cui troviamo scritto

Musica est scientia bene modulandi. Sed […] modulari a modo esse dictum, cum in omnibus bene factis modus servandus sit.

De musica, I 2, 2,

Scienza del modulare bene, cioè del valutare razionalmente la giusta misura (poiché modulare deriva da modus, ovvero misura), la musica analizza il ritmo della parola come un vero e proprio trattato di metrica per i primi cinque Libri, ma poi, nel VI, diviene studio del numerus, inteso sia come ente matematico sia come numero ideale, modello della Creazione e quindi Idea di Dio, e, muovendo dalle “tracce sensibili” giunge infine “dove è spoglia da tutto ciò che è corporeo” per contemplare così l’armonia di un mondo neoplatonicamente unificato dal primo principio. Propedeutica alla filosofia o filosofia essa stessa?

In Agostino il confine tra lo studio preparatorio e il pensiero teoretico è labile, confuso, e risente di una tendenza già evidente nei primi Padri a integrare le artes liberales alla cultura filosofica, in quanto sapere puramente teorico, distinto da una sapienza superiore, la ragione illuminata dalla fede e guidata da Dio stesso, unica via all’intellezione delle Sacre Scritture.

Così in Boezio, il quale riprendendo circa un secolo più tardi l’idea agostiniana della cultura liberale come supporto teoretico indispensabile nelle discussioni teologiche e come strumento per l’interpretazione della Sacra Pagina, nel proemio al De institutione arithmetica tracciò il quadruplice cammino delle matematiche che, indagando le res quae vere sunt, ossia le essentiae, toccano il cumulum perfectionis, cioè la vera e propria sapientia filosofica.
La musica, in quanto disciplina matematica, appartiene pertanto alla teoretica, pur avendo notevoli implicazioni etiche (e confluendo così parzialmente nella prima sezione della philosophia practica). Essa investiga l’armonia cosmica, seguendo l’insegnamento di Platone; sonda l’equilibrata relazione tra le parti dell’anima e tra l’anima e il corpo; analizza le proporzioni che governano le consonanze tra i suoni e, attraverso l’analisi matematica giunge infine a comprendere che il numero è principio di tutte le cose e che ordina l’universo intero.

Studio astratto dei suoni che si relazionano tra loro seguendo le proprietà aritmetiche dei rapporti e delle proporzioni, la musica è collocata nello stesso quadro epistemologico di Boezio anche da Cassiodoro, per il quale tuttavia essa è soprattutto un’arte dai singolari poteri etico-catartici, della quale Davide si servì per cacciare gli spiriti maligni da Saul e riportare in lui la calma e la pace; è l’espressione dell’intima armonia dell’anima, sempre presente quando l’uomo segue la strada del bene, assente quando cede all’errore e al male; è infine lo strumento del quale Dio si servì nell’opera della Creazione, estrinsecazione della struttura armoniosa del cosmo.
Se dunque la musica si pone al principio stesso dell’ordinamento del mondo, l’osservanza delle sue regole contribuisce alla perfezione della vita cristiana. La felice fusione di temi neoplatonici e di immagini bibliche fece la fortuna del capitolo de musica delle Institutiones, spesso citato e parafrasato, a volte anche copiato in forma autonoma dall’intera opera, come accadde fino al IX secolo anche per l’analogo capitolo presente nelle Etymologiae di Isidoro, assai breve e decisamente meno teorico, ma considerato dai suoi lettori validissimo supporto didattico per la sua breve e chiara presentazione della musica vocale e strumentale.

I lavori di Isidoro e Cassiodoro contengono pressoché tutta la conoscenza sulle arti liberali conservata nell’Alto Medioevo, tramandata spesso in modo non sistematico, a volte solo come dettaglio erudito, come avvenne in molti rappresentanti della cultura britannica, fortemente influenzata da movimenti mistici e spirituali che rigettarono la tentazione delle dottrine profane, piene di errori e di menzogne, strumento diabolico per distogliere il cristiano dal cammino verso la salvezza, come lo stesso Beda le definì.

Autore: Anna Morelli
Periodico: Esercizi Filosofici
Anno: 2002
Numero: 6
Pagine:
 189-192

Informazioni su questi ad

Il primato dell’aritmetica in Nicomaco da Gerasa

Nicomaco nel proemio della Introductio arithmeticae attribuisce un ruolo privilegiato all’aritmetica rispetto alle altre scienze esatte: essa viene rivestita di una tale importanza che sembra difficile pensare che vi possa essere scienza di qualche cosa di ulteriore dopo quella dei numeri. Subito dopo le citazioni, raffiguranti in modo non univoco, come si è visto, la relazione tra matematiche e filosofia, Nicomaco instaura una gerarchia tra le quattro discipline e assegna all’aritmetica una posizione di primato rispetto alle altre scienze, per due importanti ragioni.

  1. Innanzitutto egli sovraordina l’aritmetica alle altre scienze in quanto essa preesiste alle altre discipline nel pensiero del demiurgo, come modello archetipo in base al quale egli ordina tutte le cose;
  2. in secondo luogo per l’anteriorità intrinseca dell’aritmetica, anteriorità in virtù della quale essa sopprime con sé le altre scienze, senza essere a sua volta coinvolta nella loro soppressione.

Nicomaco sostiene che, come il genere viene prima della specie, così l’aritmetica precede la geometria, poiché il numero viene prima delle figure geometriche, che da esso derivano (il triangolo, per esempio, non può essere concepito senza il numero 3, il quadrato non può essere concepito senza il numero 4, e così via). Nicomaco si basa sul concetto che ciò che è anteriore per natura é il fondamento di ciò che è posteriore, per cui, se si elimina il primo, necessariamente viene meno anche il secondo, mentre non si verifica il contrario, ovvero ciò che è successivo non può determinare l’eliminazione di ciò che lo precede. Si considerino ad esempio i due concetti di essere animato e di uomo. L’essere animato viene prima dell’uomo, in quanto è un concetto più ampio e generale che comprende il secondo, per cui, se si elimina l’essere animato, si elimina anche l’uomo, mentre se si toglie l’uomo, l’essere animato non viene affatto meno.

Il ragionamento è analogo nel caso della geometria e dell’aritmetica: le figure geometriche, come il quadrato, il triangolo, prendono i loro nomi dai numeri e ne presuppongono l’esistenza, per cui, se essi vengono eliminati, viene meno anche la geometria, mentre se si tolgono le figure geometriche, i numeri restano. Analogamente l’aritmetica precede la musica, non solo perché ciò che è assoluto è anteriore a ciò che è relativo, ma anche perché l’armonia musicale si fonda su rapporti numerici. A questo punto Nicomaco anticipa il discorso sulle consonanze musicali, che sarà poi sviluppato nella parte finale dell’opera in rapporto alla teoria delle proporzioni, accennando ai principali tipi di accordo e al tono. L’astronomia o sferica, essendo preceduta dalla geometria e dalla musica, a maggior ragione sarà preceduta dall’aritmetica. La quarta disciplina matematica, infatti, si serve delle figure e dei concetti della geometria, (cerchi,sfere, assi e paralleli sono tutti elementi che appartengono a quest’ultima) ed inoltre studia le grandezze mobili, mentre la geometria si occupa di quelle immobili ed è noto che la quiete precede il movimento. Il fatto poi che il moto degli astri sia accompagnato da armonie musicali, dimostra che anche la musica è anteriore all’astronomia. La sferica infine, considerata in se stessa, si fonda sulla natura dei numeri, per mezzo dei quali possiamo calcolare le albe e i tramonti, i moti degli astri, le eclissi e le fasi lunari.

L’ordinamento delle scienze esatte proposto da Nicomaco è il seguente: I) aritmetica; II) musica; III) geometria; IV) astronomia o sferica. È interessante osservare che il criterio che stabilisce l’ordinamento gerarchico delle discipline del quadrivio è quello che considera il rapporto tra due termini in base ai concetti di anteriorità per natura e di posteriorità per natura. L’aritmetica allora diventa condizione necessaria perché tutte le altre scienze possano esistere, in quanto, dati i suoi oggetti (i numeri), possono darsi anche gli oggetti delle altre discipline, mentre se quelli (i numeri) vengono soppressi, non sono più pensabili nemmeno questi (gli oggetti delle altre scienze). Tale relazione è però unilaterale, nel senso che l’aritmetica è la causa dell’esistenza delle altre scienze esatte, ma non è vero il contrario (soppressi i quadrati, il numero quattro non viene soppresso anch’esso, ma rimane). Si viene, dunque, a creare un parallelismo tra ambito logico ed ambito ontologico. Il rapporto tra genere e specie (ambito logico) assume un valore ontologico, poiché, quando si afferma che il genere (per esempio l’essere vivente) è ciò senza di cui la specie (per esempio l’uomo) non è pensabile né concepibile, si condiziona l’essere stesso della specie, tanto che se viene meno il genere, viene meno anche la specie (mentre non si verifica il contrario). Il rapporto genere-specie, che esprime una dipendenza ontologica, diviene rapporto gerarchico, rapporto d’ordine. Pertanto il criterio logico che ha validità nell’ambito dei concetti (senza i numeri le figure non sono nemmeno pensabili) assume la funzione di principio di ordinamento gerarchico in ambito ontologico (i numeri precedono nell’essere le figure): l’ordine che c’è tra i concetti è lo stesso che c’è tra gli enti.

L’altra ragione che conferisce il primato all’aritmetica rispetto alle altre discipline matematiche risiede nel fatto che essa preesiste nel pensiero del demiurgo a tali scienze. I numeri, dunque, descritti come modelli archetipi, cioè come idee, sono posti nel pensiero del demiurgo. In sintesi: l’anteriorità dell’aritmetica si fonda dunque su due ragioni: essa è radice, principio e madre delle altre scienze esatte, da un lato (1), perché preesiste alle suddette scienze nella mente di Dio come modello del cosmo, dall’altro (II), per l’anteriorità naturale, per cui essa elimina con sé le altre scienze, senza essere a sua volta coinvolta nella loro eliminazione.

Autore: Silvia Pieri
Pubblicazione: Tetraktys. Numero e filosofia tra I e II secolo d.C.
Editore
Ermes (Philosophia Perennis, 2)
Luogo: Firenze
Anno: 2005
Pagine: 38-41

Il gusto estetico nel Medioevo

Nel gusto per il colore e nel prestigio del fisico, tendenze fondamentali della sensibilità medievale, ci si può domandare che cosa colpisca maggiormente gli uomini del Medioevo, se le attrattive sensibili o le nozioni astratte che si dissimulano sotto le apparenze: l’energia luminosa e la forza.

Il gusto del Medioevo per i colori smaglianti è ben noto. È un gusto «barbaro»: borchie inserite nei piatti di rilegatura, oreficerie rutilanti, policromia delle sculture, pitture che coprono i muri delle chiese e delle dimore dei potenti, magia colorata delle vetrate. Il Medioevo quasi incolore che si ammira oggi è il prodotto delle distruzioni del tempo e del gusto anacronistico dei nostri contemporanei. Ma dietro questa fantasmagoria colorata c’è la paura della notte, la ricerca della luce che è salvezza.

Progresso tecnico e morale sembrano orientarsi verso un uso della luce sempre maggiore. Il muro delle chiese gotiche si svuota e lascia cullare ondate di luce colorata dalle vetrate, il vetro per le finestre delle case compare timidamente a cominciare dal XIII secolo, la scienza del XIII secolo con un Grossatesta, un Witelo e altri scruta la luce, mette l’ottica al primo posto delle indagini e, sul piano tecnico, dà la luce agli occhi stanchi o malati inventando gli occhiali negli ultimi anni del secolo. L’arcobaleno interessa gli scienziati: è luce colorata, analisi naturale, capriccio della natura. Soddisfa nello stesso tempo le tendenze tradizionali e gli orientamenti nuovi dello spirito scientifico medievale. Dietro a lutto ciò, vi è quella che è stata definita la «metafisica medievale della luce», diciamo più in generale e più modestamente la ricerca di sicurezza luminosa. La bellezza è luce, rassicura, è segno di nobiltà. Il santo medievale è esemplare a questo riguardo. Come ha scritto André Vauchez, «il santo è un essere di luce». Ecco santa Chiara: «Il suo viso angelico era più luminoso e più bello dopo l’orazione tanto risplendeva di gioia. In verità il Signore generoso e liberale arricchiva dei suoi raggi la sua povera piccola sposa in modo che ella diffondeva la luce divina intorno a sé». Alla morte di sant’Edmondo di Canterbury «una rugiada luminosa emanò improvvisamente da lui e il suo volto si colorò di un bel rosa». L’Elucidarium precisa che al Giudizio universale i santi risusciteranno con corpi di colori diversi, secondo se saranno martiri, confessori o vergini. Pensiamo all’odore di santità, simbolico sicuramente, ma reale per la gente del Medioevo. A Bologna, nella notte dal 23 al 24 maggio 1233, in occasione della canonizzazione di san Domenico, la sua bara fu aperta per la traslazione del corpo alla presenza di un gruppo di frati predicatori e di una delegazione di nobili e di borghesi. «Ansiosi, pallidi, i frati pregano pieni di inquietudine». Quando fu schiodato il coperchio un odore meraviglioso avvolse tutti i presenti.

Ma la luce è l’oggetto delle aspirazioni più ardenti, è carica dei simboli più alti. Ecco, rappresentati da Chrétien de Troyes, Cligès e Fenice;

Un po fu li jorz enublez; (Un poco si era il giorno coperto)
meis tant estoient bel andui (ma tanto belli erano tutti e due)
antre la pucele et celui, (la fanciulla e Cligès, che da loro)
qu’uns rais de lor biauté issoit, (raggio di bellezza emanava)
don li paleis resplandissoit (di cui il palazzo risplendeva)
tot autresi con li solauz (come al mattino il sole)
reluist au main clers et vermauz. (riluce chiaro, brillante e vermiglio)

«Fra tutti i corpi, la luce fisica è quanto vi è di meglio, di più piacevole, di più bello… quello che costituisce la perfezione e la bellezza delle cose corporee è la luce» dice Roberto Grossatesta e, citando sant’Agostino, ricorda che «il nome di Bellezza», quando è capito, fa scorgere di colpo «la luce prima». Questa luce prima non è altro che Dio, focolare luminoso e incandescente. Il Paradiso di Dante è un cammino verso la luce.

Guglielmo di Alvernia unisce il numero e il colore per definire il bello: «La bellezza visibile si definisce o con la figura e la posizione delle parti all’interno di un tutto, oppure con il colore, o con questi due caratteri riuniti, sia che si contrappongano, sia che si consideri il rapporto di armonia che li riferisce l’uno all’altro». Grossatesta fa del resto derivare dall’energia fondamentale della luce il colore e la proporzione insieme.

La bellezza è anche ricchezza. Senza dubbio la funzione economica dei tesori, riserve per i casi di bisogno, contribuisce a fare ammassare ai potenti oggetti preziosi. Ma il gusto estetico ha anche la sua parte in quest’ammirazione delle opere e forse soprattutto dei materiali rari. Gli uomini del Medioevo ammirano la qualità della materia prima più di quella del lavoro dell’artista. Bisognerebbe studiare da questo punto di vista i tesori delle chiese, i doni che si scambiano i principi e i potenti, le descrizioni di monumenti e di città. Si è notato che il Liber pontificalis che descriveva le imprese artistiche dei papi dell’Alto Medioevo era pieno di gold and
glitter. Uno scritto anonimo della metà del XII secolo, Mirabilia Romae, di Roma parla soprattutto in termini di oro, di argento, di bronzo, di avorio, di pietre preziose. Un luogo comune della letteratura, storica o cavalleresca, è la descrizione, o piuttosto l’enumerazione delle ricchezze di Costantinopoli, il grande polo di attrazione dei cristiani del Medioevo. Nel Pèlerinage de Charlemagne, ciò che colpisce prima di tutto gli Occidentali sono i campanili, le aquile, i ponti «rilucenti». Nel palazzo vi sono le tavole e le sedie di oro fino, i muri ricoperti di ricche pitture, la grande sala la cui volta è sostenuta da un pilastro d’argento niellato, circondato da cento colonne di marmo niellato d’oro.

Il bello è ciò che è colorato e brillante, che perlopiù è anche ricco. Ma Ia bellezza è nello stesso tempo bontà. Il prestigio della bellezza fisica è tale che la bellezza è un attributo obbligatorio della santità. Il buon Dio è prima di tutto il Dio bello, e gli scultori gotici realizzano l’ideale degli uomini del Medioevo. I santi medievali posseggono non soltanto i sette doni dell’anima (amicizia, saggezza, concordia, onore, potenza, sicurezza, gioia), ma anche i sette doni del corpo: bellezza, agilità, forza, libertà, salute, voluttà, longevità. Ciò è vero anche per i santi «intellettuali». Il caso di san Tommaso d’Aquino è caratteristico. Una accolta di leggende domenicane narra: «Quando san Tommaso passava per la campagna, il popolo che si trovava nei campi abbandonava il lavoro per precipitarsi incontro a lui e ammirare la statura imponente del suo corpo e la bellezza dei suoi lineamenti; essi erano attirati verso di lui molto più dalla sua bellezza che dalla sua santità». Nell’Italia meridionale lo chiamavano «Bos Siciliae», il Bove di Sicilia. Cosi quest’intellettuale era per il popolo innanzi tutto un «bel pezzo d’uomo».

Autore: Jacques Le Goff
Pubblicazione:
La civiltà dell’Occidente medievale
Editore
: Einaudi
Luogo: Torino
Anno: 1981
Pagine:
360-363
Vedi anche:
Il simbolismo medievale
Il simbolismo medievale: i numeri

L’Introductio arithmeticae di Nicomaco di Gerasa: un’opera teoretica tra matematica e filosofia (2)

Dopo aver definito la filosofia ἐπιστήμη τῆς ἐν τοῖς οὖσιν ἀληθέιας, Nicomaco precisa che l’ἐπιστήμη è apprensione stabile e sicura del sostrato, e che gli enti sono le cose che permangono sempre identiche a se stesse e che non si allontanano mai nemmeno per un attimo dall’essere. Quindi, Nicomaco definisce le cose immutabili ed immateriali enti in senso proprio (κυρίος ὄντα), e le cose corporee, soggette ad ogni tipo di mutamento e destinate alla corruzione, enti per omonimia (ὁμωνύμως ὄντα). I primi (enti veri) esistono in senso vero e proprio, mentre i secondi (enti per omonimia) esistono solo per omonimia, appunto, rispetto ai primi, in quanto partecipano di essi:

Questi enti sono per natura immateriali, eterni, senza fine, del tutto simili e immutabili, sussistono identici nella loro sostanza e ciascuno di essi è definito essere in senso proprio, mentre quelli che sono immersi nella nascita e nella corruzione, nella crescita e nella diminuzione, in ogni genere di mutamento e nella partecipazione appaiono continuamente in mutamento e sono definiti enti per omonimia con i primi, poiché di essi partecipano, ma per la loro propria natura non sono propriamente degli esseri: essi infatti, non dimorano nell’identico nemmeno per un attimo, ma mutano sempre essendo alterati in tutti i modi.

Questa distinzione permette di precisare più accuratamente l’oggetto della σοφία. La sapienza è conoscenza principalmente (ἐξαιρέτως) degli enti veri, ovvero delle cose immateriali, e per accidens (συμβεβητότως) anche degli enti per omonimia, ovvero delle cose corporee, in quanto partecipano delle precedenti. Il contesto platonico in cui ci introduce la distinzione tra enti veri e enti per omonimia viene fatto ulteriormente emergere dalla citazione del Timeo inserita da Nicomaco per spiegare che l’essere si può cogliere con il pensiero razionale, cioè è conoscibile, in quanto è immutabile, mentre ciò che diviene può essere solo oggetto di opinioni e percezioni irrazionali, in quanto nasce e perisce e non ‘è’ mai veramente. Allora giustamente solo gli enti in senso proprio sono oggetto di scienza, mentre gli enti per omonimia lo sono indirettamente, poiché partecipano dei primi. Non solo la distinzione tra i due gradi dell’essere, ma anche la loro qualifica come essere in senso proprio e essere per omonimia mostra l’influenza della filosofia platonica. Nel Timeo, infatti, Platone parla di una specie immutabile ed eterna che è conoscibile solo con l’intelletto e di una specie sensibile e mutevole che ha con la prima solo un rapporto di omonimia, cioè di somiglianza:

Bisogna ammettere che esiste una sola specie immutabile, ingenerata ed immortale, che in sé non riceve null’altro da altre parti né si muta mai in altro, invisibile ed anche impercettibile, che solo l’intelletto ha la ventura di contemplare;ma c’è un’altra specie omonima, simile a quella, sensibile, generata, sempre in movimento, che nasce in un luogo e poi da lì sparisce, ed è percettibile con l’opinione fondata sulla sensazione.

La distinzione tra enti in senso proprio ed enti per omonimia coincide con quella tra intelligibili e sensibili, tra νοητά e αἰσθητά, come Nicomaco stesso afferma: «degli enti in senso proprio e di quelli per omonimia, vale a dire degli intelligibili e dei sensibili». Il discorso sulla filosofia non è ancora concluso. Nicomaco introduce un’altra distinzione che si sovrappone a quella tra enti in senso proprio e enti per omonimia.

Degli enti in senso proprio e di quelli per omonimia, vale a dire degli intelligibili e dei sensibili, alcuni sono uniti e allo stato di coesione, come l’essere vivente, il mondo, l’albero e tutte le cose simili a queste, che sono chiamate propriamente e particolarmente grandezze, altri sono divisi e allo stato di aggregazione e come prodotti di un accumulo, e sono chiamati molteplicità, come il gregge, il popolo, il mucchio, il coro e le cose simili a queste. Si deve ritenere che la sapienza sia scienza di queste due forme.

Le forme più generali dell’essere sono due: l’essere continuo, ovvero la grandezza (μέγεθος),
la quale è unita nelle sue parti, come un albero, una pietra e i corpi, e l’essere discontinuo, ovvero la molteplicità (πλῆθος), che è costituita da un insieme di parti, come un gregge, un coro ecc. Sia gli intelligibili che i sensibili possono essere continui o discontinui, cioè grandezze o aggregati. Tale distinzione perciò è più generale di quella precedentemente operata tra enti in senso proprio ed enti per omonimia e pertanto la riassorbe in sé come mostra lo schema seguente:


Ciò comporta che sia intelligibili che sensibili siano misurabili e siano suscettibili di essere descritti secondo criteri matematici, come la relazione di maggiore/minore/ uguale, il procedimento di scomponibilità delle parti e di aumento e diminuzione. Il concetto di misura inoltre, implicato dalla distinzione continuo/discontinuo, comporta anche l’intervento di coordinate spazio-temporali. I criteri ora descritti sono certamente applicabili agli enti sensibili, mentre non dovrebbero valere per gli enti intelligibili almeno nell’ambito della filosofia ortodossamente platonica cui Nicomaco sembra volersi ricollegare. Platone infatti afferma, come è noto, che le idee non sono scomponibili in parti, che non occupano alcuno spazio e che sono eterne. In Platone pertanto sembra che la distinzione continuo/discontinuo non possa essere valida per quanto riguarda gli intelligibili. Nicomaco allora si pone sì in una prospettiva platonica, ma non in modo perfettamente coerente e fedele alla filosofia di Platone, bensì con quelle rielaborazioni cui essa era andata incontro per opera dei suoi interpreti.

Se la distinzione continuo/discontinuo vale non solo per i sensibili, ma anche per gli intelligibili, gli intelligibili vengono ad essere simili ai sensibili, dal momento che, come si è visto, essi sono descrivibili secondo il concetto di misura (sono cioè confrontabili e perciò definibili secondo i criteri di maggiore/minore/uguale, sono scomponibili in parti, sono soggetti a procedimenti di crescita e di diminuzione) per cui tra mondo intelligibile e mondo sensibile non sembra esserci la netta separazione teorizzata da Nicomaco all’inizio, ma un rapporto di continuità: le due sfere sembrano avvicinarsi, poiché possono essere valutate in base alle stesse leggi.

I concetti di πλῆθος e μέγεθος richiedono, tuttavia, un’ulteriore precisazione, poiché sono ancora troppo generali. Quantità e grandezza, infatti, sono suscettibili, per loro stessa natura, rispettivamente di crescere e di essere divisa all’infinito. La quantità, spiega Nicomaco, a partire da una radice definita non cessa di crescere, mentre la grandezza a partire da una determinata grandezza non può arrestare la divisione, ma continua all’infinito. Dal momento che non c’è scienza di ciò che è infinito, ma solo di ciò che è finito, i concetti di πλῆθος e μέγεθος, in se stessi indeterminati, in quanto ammettono la crescita e la divisione all’infinito, risultano inconoscibili. È necessario pertanto sostituirli con quelli di quantità determinata (τὸ ποσόν) e di grandezza determinata (τὸ πηλίκον).

Al discorso sulla filosofia e alla definizione della sapienza come scienza delle due forme fondamentali dell’essere, quantità e grandezza, Nicomaco collega il discorso sulle discipline matematiche, presentando un ordinamento delle stesse in relazione al loro oggetto. In pratica tutta la discussione che Nicomaco ha sviluppato intorno agli enti veri e agli enti per omonimia e riguardo alla distinzione tra corpi ed aggregati, ovvero tra grandezza e quantità, serve al filosofo per introdurre il discorso sulle quattro scienze matematiche ed è funzionale proprio alla classificazione di queste discipline, in quanto gli ha permesso ad individuare gli oggetti di studio di tali scienze.

Egli specifica che la quantità può essere assoluta (καθ’ ἑαθτό) come pari, dispari ecc., o relativa (πρὸς ἄλλο),
come il doppio, il minore, il maggiore, la metà ecc. Della prima si occupa l’aritmetica, della seconda la musica. La grandezza a sua volta può essere in quiete o in movimento. La geometria studia la grandezza statica, l’astronomia quella dinamica. L’ordinamento delle scienze può essere rappresentato nel modo seguente:

Poiché le scienze matematiche studiano le due forme fondamentali dell’essere, quantità e grandezza, e la sapienza è scienza dell’essere, e quindi di queste stesse forme, sembra che tali discipline siano parte della filosofia e ne costituiscano, anzi, l’aspetto più alto, giacché il loro oggetto viene a coincidere.

Data l’identità dell’oggetto, sembra che le discipline matematiche salgano ai vertici della conoscenza di cui rappresentano il culmine. Come si è già accennato, tuttavia, il rapporto tra matematica e filosofia non è descritto con chiarezza e coerenza da Nicomaco.

Altre osservazioni di Nicomaco, infatti, sono di diverso significato e ci portano in un’altra direzione. Egli, infatti, afferma che senza le scienze matematiche non è possibile studiare le forme dell’essere, né conoscere la verità che è negli enti, né filosofare correttamente. Queste parole sembrano lasciare intendere che l’oggetto delle scienze matematiche e della filosofia non sia lo stesso, ma che ciò di cui si occupa la filosofia sia un qualche cosa che sta oltre e più in alto delle matematiche, per cui esse verrebbero a costituire un momento necessario e imprescindibile, ma anteriore rispetto al φιλοσοφεῖν. Nicomaco introduce poi una serie di citazioni, non tutte coerenti tra loro: alcune sembrano assegnare alle scienze matematiche una funzione solo preparatoria alla conoscenza più alta, altre, invece, non lasciano cogliere fratture tra le suddette discipline e la filosofia.

La prima citazione, che è attribuita al pitagorico Androcide, assimila la funzione delle discipline matematiche rispetto alla σοφία a quella del progetto disegnato rispetto alla teoria che porta alla realizzazione di un’opera tecnica. La seconda citazione è di Archita di Taranto, il quale sostiene che le scienze matematiche sembrano sorelle, poiché studiano le due forme primarie dell’essere, che sono sorelle. Nicomaco cita poi Platone: prima l’Epinomide in cui si afferma che il vero filosofo è colui che si dedica allo studio di tutte e quattro le scienze matematiche, che sono come scale (κλίμακες) o ponti (γέφυραι) che elevano il pensiero dalle realtà sensibili al mondo degli intelligibili; poi la Repubblica in cui Socrate spiega che l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astronomia rivestono una grande importanza non per la loro utilità pratica, ma perché esse illuminano e risvegliano l’occhio dell’anima, ora distratto da altre preoccupazioni, che è l’unico in grado di scorgere la verità.

Si può notare che le citazioni inserite da Nicomaco non possono essere considerate tutte sullo stesso piano. L’assimilazione del rapporto tra scienze esatte e conoscenza piena a quello che intercorre tra progetto disegnato e teoria, espressa dalle parole di Androcide, e il passo della Repubblica sembrano accentuare il ruolo strumentale delle discipline matematiche. Il passo dell’Epinomide,
invece, che considera le scienze matematiche scalini o ponti che collegano il sensibile all’intelligibile, pur mettendo in risalto il ruolo di tramite svolto dalle suddette discipline, non comporta necessariamente una separazione tra matematica e filosofia. Nicomaco, infatti, aveva precedentemente affermato che la filosofia è conoscenza propriamente degli intelligibili, ma anche, per accidens, dei sensibili, per cui, se le scienze matematiche sono il ponte che collega i due piani, esse non sembrano comunque uscire dalla sfera della filosofia stessa. Anche le parole di Archita non fanno emergere separazioni tra il campo delle scienze esatte e quello della filosofia. La posizione delle scienze matematiche non è dunque delineata con chiarezza da Nicomaco, ma oscilla tra una concezione che le assimila alla conoscenza piena e la visione platonica che invece le subordina alla filosofia, con cui intrattengono un rapporto di propedeuticità.

Autore: Silvia Pieri
Pubblicazione: Tetraktys. Numero e filosofia tra I e II secolo d.C.
Editore
: Ermes (Philosophia Perennis, 2)
Luogo: Firenze
Anno: 2005
Pagine: 32-38
Vedi anche:

L’osservazione del Cielo

Il beduino che la sera sosta nel centro del deserto nudo e sconfinato, l’astrologo caldeo sulla cima della sua torre, il marinaio il cui orizzonte appare perfettamente libero da ogni parte, godono di condizioni eccezionali e invidiabili per noi che possiamo solamente tentare di rappresentarcele con l’immaginazione. Nulla interviene a sbarrare loro la visione o a restringere il loro campo di visuale. L’immensità di cui sono circondati, la semplicità della decorazione ridotta a semplici strutture geometriche, il silenzio che aiuta a dimenticarsi per ascoltare, il rigore stimolato dal contatto con l’assoluto spaziale, la scelta costante dell’interpretazione del cielo e della terra che si ricongiungono all’orizzonte e pulsano degli stessi ritmi su due analoghi registri, tutto insomma contribuisce a risvegliare in essi l’acutezza delle sensazioni e l’intensità d’emozioni che conferisce ai simboli la loro totale risonanza umana.

Il momento privilegiato è la notte, quando miriadi di stelle scintillanti rendono più toccante l’immensità del cielo, più forte il suo essere inaccessibile, più ammaliante il suo carattere trascendente e sacrale.

Secondo il loro differente splendore e il loro tracciato irregolare le stelle vengono classificate in insiemi dai contorni un poco arbitrari ma sufficientemente definiti per essere riconosciuti dalla maggioranza dei popoli. Queste costellazioni riempiono ed animano la volta celeste ed affascinano chi le osserva. Sollecitano l’immaginazione, sempre alla ricerca di figure da interpretare per riconoscersi in esse con una coscienza accresciuta del suo proprio mistero.

Per osservarle noi ci porremo intenzionalmente lungo le latitudini mediterranee, comuni all’ambiente biblico e alle grandi civiltà di cui siamo gli eredi: egizia, araba, mesopotamica, indiana, cinese, e più tardi greco-romana. Queste civiltà maggiori hanno contemplato con la stessa angolatura le stesse costellazioni; le hanno viste comparire, scindersi, sparire.

Con un bel sole d’aprile rileviamo innanzi tutto Orione sulla linea dell’orizzonte con i suoi grandi fari dai nomi arabi leggermente deformati: Rigel e Betelgeuse. Nella stessa zona, assai prossima all’orizzonte ed intensamente brillante trattandosi della più bella stella di tutto il cielo, scorgiamo Sirio che ebbe grandissima importanza nell’astronomia egiziana: la sua apparizione in agosto coincideva ogni anno con la piena del Nilo, tanto che ne costituiva il segno premonitore. Quindi, poco lontano, Procione del Piccolo Cane, grazioso cucciolo che può onorevolmente porsi accanto a Sirio del Grande Cane. L’una dopo l’altra si susseguono varie costellazioni dello Zodiaco. Prima delle altre, la figura a V del Toro in cui scintilla il magnifico e rosseggiante Aldebaran, il più antico simbolo di primavera. Poi, il rettangolo dei Gemelli con le due stelle-sorelle di Castore e Polluce. Il Cancro, invece, è molto difficile a scorgersi, sembra quasi semplicemente una costellazione di riempimento, concepita successivamente, quando si volle portare a dodici i segni zodiacali.

Più oltre, il Leone ben visibile grazie alle sue stelle maestre di Regolo e di Denebola; quest’ultima annunciava l’estate in Caldea. Infine la Vergine con la splendida Spada. Volgendoci a Oriente, sempre lungo la linea dell’orizzonte, si evidenziano stelle poco importanti e dai contorni imprecisi ma comode per segnare l’equinozio di autunno; il nome diceva meravigliosamente l’equilibrio del giorno e della notte. Guardando verso nord, ecco Cassiopea, facilmente riconoscibile dalla sua forma a W. Facilmente ritroveremo i contorni familiari della Grande Orsa e della Piccola Orsa per soffermarci sulla più celebre delle stelle, la Polare. Essa sola è fissa, almeno così appare e questo solo interessa al nostro proposito.

Tutta la contemplazione degli antichi d’Oriente e d’Occidente ebbe come fulcro questo punto unico, privilegiato, d’importanza estrema, centro assoluto attorno al quale ruota il firmamento. Molto più che la forma delle costellazioni, molto più delle loro rispettive posizioni, è in effetti l’immenso movimento di rotazione di cui sono animate che le colloca in un mondo a parte. Dopo la rivelazione immediata dell’altezza come valore sacrale è quella del movimento circolare e invariabile che fa del cielo l’extraterreno, il modello perfetto e il motore trascendente del cosmo. La scienza religiosa e sacrale degli antichi ha osservato con attenzione queste rivoluzioni, ha cercato di determinarne le costanti, di penetrare l’enigma dell’ordine cosmico di cui esse ai loro occhi non costituivano che la prestigiosa epifania.


Il cerchio delle stelle, di notte, intorno alla stella polare

La riproduzione della foto ci offre un’immagine statica di quello che, senza l’aiuto della lastra sensibile, gli antichi avevano impresso nella propria immaginazione per conservarvelo con tutto l’apporto dinamico del vissuto. Il ripetersi di interminabili osservazioni avvolte dal silenzio profondissimo delle notti trasformava l’uomo, fino al suo subcosciente, in un fedele apparecchio registratore; ciò faceva di quell’immagine concentrica un vero e proprio polo d’attrazione delle sue possibilità d’immaginazione.

Questa immagine affascinante acquista tutto il suo valore e la sua forza solo in seno ad un’esperienza umana, totale, eccezionalmente intensa. E un fatto che simile esperienza rimanga la via principale che conduce alla riscoperta dei grandi segreti del passato. La fotografia in questione rappresenta la cupola celeste ripresa per più ore con un apparecchio ben sistemato e puntato in direzione del Polo. La corsa delle stelle ha disegnato sulla lastra sensibile delle curve concentriche come tante aureole che accerchiano la Polare. Innanzi tutto, si nota, nel centro, una zona in cui le curve tracciano dei piccoli cerchi completi; sono le tracce delle stelle che non tramontano mai, le circumpolari;
ma è solo la luminosità del lungo giorno che impedisce di vederle compiere la loro ronda quotidiana poiché si spengono quando il sole si leva.

Esse continuano il percorso durante la giornata ma restano invisibili. Basterebbe un’eclissi di sole per verificare che sono là, fedeli alla legge che il Creatore ha loro assegnato.

Le stelle brillano dalle loro vette

e gioiscono;

egli le chiama e rispondono: «Eccoci»

e brillano di gioia per colui che le ha create.

Egli è il nostro Dio

e nessun altro può essergli paragonato.

(Baruc, 3)

Sono proprio queste orbite circumpolari che richiamano subito l’attenzione sulla stella Polare, rilevandone il carattere privilegiato: mentre tutto l’insieme ruota, essa sola resta immobile, quasi cardine del firmamento. Le altre stelle fanno costantemente riferimento a questa. La distanza che le separa, o meglio, il legame invisibile che le unisce è immutabile e caratteristico di ciascuna. I Tartari affermano crudamente che «i sette animali dell’Orsa Maggiore sono legati al palo del cielo. Se le funi cedono, nel cielo si producono grandi rivolgimenti». (Harva 34).

Con ciò si esprimeva, secondo il realismo figurato della mentalità primitiva, la convinzione che la Polare segna il centro organico del cielo. Vedremo che ciò significa che il polo celeste simboleggia contemporaneamente il Centro cui tutto si riferisce, il Principio da cui tutto emana, il Motore che tutto muove e il Capo attorno al quale gravitano gli astri come una corte attorno al suo re. In Cina, si dice che «il Kiun-tseu (l’Essere Principesco, il Nobile, il Saggio) è come una stella Polare fissa verso la quale tutte le altre stelle si volgono, nell’atto di un saluto cosmico» (Louen-yu II, 1). Egli agisce come il Cielo, silenziosamente comanda il succedersi delle stagioni ed è come il sacerdote di un culto che officia silenziosamente (Do-Dinb 93). L’essere divino che le religioni primitive collocano d’istinto nelle regioni superiori e inaccessibili ed al quale attribuiscono – con una felicità d’intuizione filosofica e teologica – la creazione, la conservazione e la guida dell’universo, ha il suo trono in quel punto.

La Polare è per eccellenza il trono di Dio. Di lassù Egli vede tutto, sovrintende a tutto, governa tutto, interviene, ricompensa o punisce conferendo la legge e il destino al mondo celeste di cui quello terrestre costituisce solo la pallida copia.

«Per governare, servirsi della virtù, imitare la stella Polare che brilla nel cielo aperto, circondata da tutte le stelle», diceva Confucio. Il Giulio Cesare di Shakespeare non s’esprime diversamente allorché dichiara (atto III, scena 1): I
am constant as northern star!…

Immutabile sono come la stella del settentrione,

che per la sua fissità non ha rivali nel firmamento.

Vediamo i cieli, costellati di scintille innumerevoli;

tutte sono fuoco, e ognuna brilla di luce sua:

ma una sola è ferma a un punto.

Così nel nostro mondo: brulica di uomini

fatti di carne e sangue, e d’intelletto;

ma nel loro numero infinito non ne conosco che uno

saldo e inespugnabile, fermo, inflessibile,

e quest’uno sono io.

Più umilmente san Gregorio Magno nella costellazione dell’Orsa Maggiore che ruota attorno alla Polare senza mai allontanarsene, vedeva il simbolo della Chiesa molteplice nella «manifestazione della verità», invincibile e inscindibile da Dio. «La costellazione dell’Orsa non tramonta mai; brilla nell’oscurità della notte e per le sue continue rotazioni attorno al polo rappresenta l’immagine della Chiesa che sopporta grandi sofferenze senza lasciarsi abbattere… Come la costellazione dell’Orsa che ruota senza posa, essa sa diversificare la predicazione della Verità» (Moralia in Job,
XXX, 19)


La Grande Orsa, la Piccola Orsa e il Drago che fanno perno intorno alla Polare.
Poeticon astronomicon, fine del XV secolo

 


Macrobius, Commentarii in Somnium Scipionis, f. 92v: carta del cielo
Burgo de Osma, Archivi della Cattedrale

Tale concezione ha attraversato epoche, conquistato religioni e civiltà e sovente ha influenzato i sistemi sociali. E una chiave che apre alla comprensione di segreti vecchi come il mondo ma purtroppo preclusi all’uomo moderno estraneo al cosmo. Noi ne prenderemo meglio coscienza continuando ad osservare gli altri aspetti del mondo celeste.

Tutto avviene come se il cielo fosse l’immensa campana di un grande ombrello aperto. Infatti vedremo che per suscitarne l’immagine spesso si utilizza un simbolo di questo genere. Sulla stoffa dell’ombrello, le stelle sono fissate in maniera immutabile. La rotazione della terra su se stessa dà l’impressione che questo ombrello ruoti sulle nostre teste, facendo perno sul suo asse. Alle nostre latitudini il manico sembra inclinato e la stella Polare risulta piuttosto alta sull’orizzonte senza essere tuttavia allo zenith come nelle regioni polari dove cade a piombo sulla verticale.


L’inclinazione dell’asse di rotazione della terra
e il percorso a spirale del sole nel corso dell’anno, marcato dai segni dello Zodiaco
Cosmografia Universale, 1599

Più si scende verso l’equatore, più la stella Polare si avvicina all’orizzonte. Gli abitanti della zona polare vedranno sempre le stesse costellazioni e le vedranno volgersi in cerchi situati orizzontalmente al di sopra di se stessi, senza che mai appaiano o scompaiano. Essi hanno così una percezione diretta e globale, di privilegio dell’atlante celeste, del loro emisfero e delle sue rivoluzioni.

Alle nostre latitudini tutto va diversamente. Ma, se da una parte la cosa è più complicata, dall’altra ci offre lo spettacolo quotidiano di un dramma nel quale l’uomo ha sempre riconosciuto l’immagine e il modello della propria esistenza: quello del sorgere degli astri al crepuscolo, del loro itinerario imperturbabile da un lato del cielo all’altro ed infine del loro tramonto.


Fotografia del cielo, di notte, in direzione sud-est

La nascita, la vita, la morte. L’origine, il durante, la fine in seno al destino. La successione ciclica della fine e dell’inizio, della resurrezione, del rinnovarsi. Altrettanti «misteri» che esistono prima di tutto a livello del Reale assoluto rivelato dal cielo. Il superamento drammatico della linea dell’orizzonte vale di per sé: esso determina sempre lo stesso complesso immaginario sia relativo alle stelle durante la notte, sia relativo al sole durante il giorno.

La prima foto vista (cf. supra) materializza la storia di una notte così come il mezzo fotografico ci permette di ricostruirla. Le curve intercettate dall’orizzonte conferiscono l’immagine spaziale della permanenza di istanti la cui successione costituisce il tempo storico con ciò che comporta in fatto di episodi tipici. Le stelle che hanno tracciato quelle curve sulla piastra sono sorte a Oriente, tramonteranno a ovest nascondendosi dietro le colline oppure tuffandosi nelle onde. Riappariranno l’indomani, ancora a est, dopo aver compiuto un misterioso periplo sotterraneo. Notte dopo notte, si verifica un leggero abbassamento dovuto all’avanzamento della terra sulla sua orbita annuale attorno al sole. Così, dopo un periodo durante il quale esse sono visibili per tutta la notte, queste costellazioni escono a poco a poco dal campo notturno verso occidente per rientrare ad oriente sei mesi più tardi.

Quando il nomade che per tutta la notte ha spiato il firmamento scintillante sente avvicinarsi l’alba, cerca con lo sguardo all’orizzonte il punto preciso in cui apparirà il disco solare. Le irregolarità del terreno gli forniscono riparo. Egli attende il sorgere dell’astro nello stesso punto del giorno prima; tuttavia constata un leggero abbassamento quotidiano dovuto allo stesso spostamento del sole sulla sua eclittica.


La terra al centro della sfera celeste; la banda zodiacale entro cui si pone il sole
Poeticon astronomicon, fine del XV secolo

Ma gli spostamenti della sua vita nomade gli impediscono di utilizzare quei punti di riferimento terreni: ogni giorno egli pianta la sua tenda in un luogo diverso. Del resto i riferimenti terreni rimangono legati a quel determinato luogo e per questo non sono adatti a costituire un patrimonio comune a gruppi umani cospicui e disseminati.

E anche il cielo che egli interroga e più precisamente la costellazione che sorge all’orizzonte insieme al sole e nella quale quest’astro fa irruzione, per spegnerla insieme a tutte le altre stelle fino al crepuscolo, quando brilleranno di nuovo. Egli constata così che giorno dopo giorno il sole sorge su una serie di costellazioni che formano sulla volta celeste una banda circolare continua. Come le stelle che la compongono, questa banda è stabile e fissa sulla tela dell’ombrello. È la banda zodiacale e le costellazioni sono quelle dello zodiaco.


Le costellazioni ruotanti intorno al polo celeste
Poeticon astronomicon, fine del XV secolo

Nel corso dei secoli alle più riconoscibili che si erano imposte da subito, se ne sono aggiunte altre meno spettacolari, più o meno plausibili, al fine di raggiungere il numero perfetto di dodici che doveva permettere una facile divisione del cerchio.


Universo geocentrico. Al centro, i quattro elementi; intorno, il cielo
Grant Kalendrier des Bergiers, XVI secolo

Il sole serve così da cursore mobile segnando questo o quel punto della linea dell’orizzonte. Del resto egli si profila sulla fascia zodiacale della sfera celeste graduata dalle dodici costellazioni. Questo duplice riferimento consente di seguire l’avvicendarsi delle stagioni. Quattro in particolare, di queste costellazioni dello zodiaco, rivestono così un’importanza capitale: il Leone, il Toro, l’Acquario, lo Scorpione. Sono, effettivamente, quelle corrispondenti agli equinozi e ai solstizi, cioè i mutamenti assunti periodicamente dal moto del sole: i solstizi (21 giugno e 21 dicembre) s’impongono di più all’attenzione. Non c’è affatto bisogno di dormire sotto una tenda per notare quelle epoche dell’anno in cui i giorni sono più lunghi o al contrario più corti. Ma, indubbiamente, sono gli equinozi (21 marzo e 21 settembre) che esercitano maggiore influenza sulla natura e sui cicli biologici e psicologici. Questi quattro tempi importanti dell’anno scandiscono le stagioni: si indovina già il ruolo essenziale che devono rivestire nella simbologia le quattro costellazioni che le annunciano, le iniziano, le concludono ed eternamente si succedono con lo stesso ordine e gli stessi effetti. Esse dividono il cerchio dello zodiaco in quattro parti uguali di 90° ciascuna. I due meridiani della sfera celeste che passano per il polo e per queste costellazioni si chiamano coluri; essi determinano nello spazio due piani verticali che si intersecano ad angolo retto. Tutto ciò, agli occhi delle nostre generazioni cittadine più abituate alla facciata dei propri immobili che agli spazi interstellari, ricorda la disposizione delle porte girevoli aperte a 90°, che ruotano verticalmente all’ingresso di alcuni grandi alberghi, il perno centrale non essendo altro che il manico del nostro ombrello celeste.

Le quattro costellazioni che girano senza fine attorno all’asse della sfera del mondo evocano la disposizione di un tiro a quattro cavalli di legno.


Particolare di reliquiario: una borchia semisferica
La disposizione dei quattro motivi intorno al centro si ricollega allo zodiaco
Boher, Irlanda

Il firmamento con la stella Polare al centro del tiro crociforme con il carosello delle stelle che lo racchiudono nelle loro onde concentriche avrebbe come schema più semplice ed espressivo, proiettando tutto su di un piano, il disegno del tiro a segno delle nostre fiere. Non c’è nulla di sbalorditivo nel fatto che il cielo abbia costituito un continuo richiamo per innumerevoli generazioni umane e la stella Polare sia stata il punto di riferimento d’innumerevoli civiltà. Questa attrattiva senza uguali è stata cantata da Dante per esempio ed il poeta che intendeva rappresentare in sé l’umanità intera poteva giustamente narrare il suo viaggio in questi termini: «Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo, pur là dove le stelle son più tarde, sì come rota più presso allo stelo».

Non meraviglia neanche il fatto che questo schema così semplice e suscettibile, come vedremo, di essere ulteriormente semplificato, abbia costituito l’espressiva sintesi delle più alte conoscenze mitiche, mistiche, cosmologiche e religiose dell’umanità.

Noi vi troviamo riuniti alcuni dei simboli fondamentali della psiche umana e se fossimo riusciti a mettere nella nostra osservazione del cielo qualche cosa dell’intensità religiosa propria ai popoli che cercano l’Essere supremo nella natura – e che ve lo trovano – saremmo prossimi ad entrare a poco a poco nella loro visione simbolica dell’universo e quindi a riallacciarci con un passato multimillenario. Tali simboli si riconducono a quattro figure: il centro, il cerchio, la croce, il quadrato.

Autore: Gerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx
Pubblicazione:
I simboli del medioevo
Editore
: Jaca Book
Luogo: Milano
Anno: 1988
Pagine: 18-24
Vedi anche: