Alexander Neckam, De naturis rerum – Presentazione

Sezione: Studi


Alexander Neckam o Alexander de Sancto Albano, erudito e scienziato inglese vissuto tra il 1157 ed il 1217, può considerarsi uno degli autori più fecondi del Medioevo: scrisse di liturgia e di scolastica, di grammatica e di storia biblica, compose fabulae e trattò di virtù morali come della nomenclatura di strumenti di ogni genere. Tuttavia la sua opera capitale, che lo rese celebre presso i contemporanei e i posteri, fu senz’altro il De naturis rerum, un grande compendio scientifico in prosa.

Innanzi tutto merita attenzione il singolare richiamo che un testo di questo genere porta con sé, ossia l’invito a guardare e pensare l’universo come un meraviglioso tappeto tramato di innumerevoli nomi e figure simbolici, secondo un ordine che coniuga mistero e bellezza, vanità mortale e arcani misticismi, creature ordinarie con monstra e mirabilia. Le cose tutte, dalle stelle ai colori, dalle pietre ai sogni, agli stessi avvenimenti storici o mitici, divengono qui cifre di qualcos’altro, una sorta di poliedrico lessico rischiarato da una mirabile unità: omnia in unum tendunt scrive Agostino nel De ordine. È un mare di creature che, nel rispetto e nei limiti della gerarchia delle cose, pensata neoplatonicamente, costituisce il concento del Creatore e il veicolo attraverso cui l’uomo, aurea medietà tra Dio e i regni naturali, può conoscere se stesso e il senso di ogni cosa nella mirabile cornice redentiva del messaggio cristiano: per visibilia ad invisibilia.

L’uomo medievale si sente il colpevole epigono di Adamo nel perduto Paradiso: come questo dava allora i nomi alle creature, quello, ormai allontanato dal Giardino, prova ora a ritrovarli, perché ne ha dimenticati i suoni e la pronuncia, ignora il senso delle parole e delle immagini edeniche, e le cerca in un pellegrinaggio altrove che coinvolge l’anima e il corpo.

Una volta Adamo conosceva il linguaggio divino, dove il nome e la cosa nominata coincidono sostanzialmente, adesso la sua errante progenie tenta di imitarlo, in ben minor grado e con ben più fatica. Qui, come vuole il dettato paolino, il senso delle cose (dei verba e delle imagines), della creazione e del divino, si può cogliere soltanto “per speculum in aenigmate”, e non più direttamente, “faccia a faccia”.

Ne consegue che, per l’uomo decaduto, l’unica possibile via per accedere alla Sapienza sia quella di una lettura simbolica del fenomeno mondano: tale da trasmutare gli “oscuri riflessi”, che ci appaiono dinanzi, in signa dell’invisibile. L’imperfezione diviene pertanto un umile gradino sulla strada della perfezione, ed il signum o symbolum può coniugare il caduco all’eterno. Così quest’uomo crede di imitare – analogicamente s’intende – la sapiente parola del primo Adamo, il suo colloquio con la natura divina delle cose, come può immaginare di volare di nuovo su quel mare di creature fino ai più alti cieli. In quest’ottica sta la genesi dell’enciclopedismo medievale. Ma non solo. Infatti l’uomo medievale si sente anche l’erede ed il continuatore della cultura antica, dell’idea di una classificazione dello scibile umano secondo dati cosmologici, cronologici ed etimologici, ovvero di una catalogazione della totalità di conoscenze relative ad un determinato campo. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo enciclopedia, termine ignoto al Medioevo e che inizierà a circolare in Europa soltanto agli inizi del XVI secolo. Le Antiquitates di Varrone (116-27 a.C.), oggi perdute ma note ad Agostino, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79), il De lingua latina ancora di Varrone, sono i modelli classici di una simile concezione. È Agostino (354-430) a sottolineare, nel De doctrina Christiana, quanto sarebbe opportuno riunire tutte le conoscenze per interpretare le Scritture: e qui sta il nodo della questione, cioè nella interpretazione e ripresa che il cristianesimo dette del concetto di “enciclopedia” proprio del mondo antico. Difatti mentre nelle opere degli autori classici l’intento è prevalentemente scientifico e documentale, si guarda cioè alla storia del mondo e dei suoi fenomeni rispettandone sia la complessità che le contraddizioni e la molteplicità delle opinioni (naturalistiche, filosofiche, etimologiche o altro che siano), con l’avvento del Cristianesimo tutto ciò si restringe, l’angolo di visuale viene ridotto ad un monocolo: la verità è la dottrina cristiana e ad essa tutto va rapportato e commisurato. Si afferma così, in tempi e modi diversi, con toni più o meno accentuati, quel fenomeno della moralizzazione cristiana del sapere che impregnerà l’intera produzione “enciclopedica” medievale.

Si tratta di un oscillante connubio tra fede e scienza, tra curiositas e accettazione passiva di nozioni bibliche e patristiche, che trova, a seconda di questo o quell’autore, soluzioni discontinue. Tuttavia costante e prevalente rimane per tutti l’intento pedagogico ed evangelico: lo scopo dell’“enciclopedista” o compilatore medievale è soprattutto quello di edificare spiritualmente il lettore, relegando in secondo piano, e talvolta ignorandolo, quell’intento storico-critico ed ermeneutico, alieno da pregiudizi, comune a un Varrone o ad un Plinio il Vecchio. Il fine infatti è di accostare il fedele ad una giusta condotta morale secondo gli insegnamenti cristiani, di favorirne la conoscenza del mondo così come l’ha creato Dio e l’hanno spiegato le Sacre Scritture. Allora nelle pagine degli “enciclopedisti” è comune trovare, accanto a dati scientifici, talvolta di grande interesse, ‘autorevoli’ affermazioni che ‘moralizzano’ cristianamente tali dati, secondo un meccanismo analogico che ne garantisce la veridicità in maniera apodittica. Alcuni esempi: l’astro lunare allude alla Chiesa, perché esso è illuminato dal sole proprio come la Chiesa lo è dal Cristo; la balena “è il pesce che ricevette Giona nel ventre suo”; le candide perle significano la dottrina evangelica o la speranza del regno dei cieli; lo stagno è allegoria del discorso sofistico e della simulazione degli eretici, mentre il ferro della tribolazione e della sofferenza; lo smeraldo reprime la lussuria e protegge dalle illusioni diaboliche.

Dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) al De rerum natura di Beda (673-753), dal De universo di Rabano Mauro (784-856) all’opera di Neckam o al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, composto verso il 1250, fino all’immensa compilazione, lo Speculum mundi, di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), o a Li Livres dou Tresor di Brunetto Latini (1240-1294), il significato delle parole e delle immagini, del tempo e dello spazio verranno trasmessi, mutatis mutandis, sotto l’egida dei dottori cristiani e delle Scritture, in un orizzonte sempre e comunque cristocentrico.

Esemplare testimonianza sono alcune parole del dottissimo Isidoro di Siviglia, il capostipite di questa tradizione, a proposito del suo De natura rerum. Si legge nella dedica: “Quae omnia secundum id quod a veteribus viris ac maxime sicut in litteris catholicorum virorum scripta sunt, proferentes brevi tabella notamus. Neque enim earum rerum naturam noscere superstitiosae scientiae est, si tantum sana sobriaque doctrina considerentur” (“Esponendo tutte queste cose secondo quanto è stato scritto dagli antichi e massimamente come ne hanno trattato gli autori cattolici, ci siamo comportati con grande concisione. Infatti la conoscenza di questi fenomeni naturali non è propria di una scienza superstiziosa, se soltanto vengano esaminati con dottrina incorrotta e giudiziosa”). La non velata distinzione tra autori pagani e quelli cattolici, come il parallelismo tra superstizione e dottrina incorrotta riflette in breve il tema della moralizzazione di cui sopra. Non a caso il De natura rerum è una compilazione musiva di notizie cosmografiche e meteorologiche, inerenti gli anni, la notte e il giorno, le stagioni, la corsa dei pianeti, le stelle, lo zodiaco, i venti, i mari, i fiumi, il fulmine, e così via. Ebbene nel testo, seppure non manchino prelievi, non sempre diretti, da autori come Quintiliano, Marziano Capella, Servio, Igino, Lucano, Lucrezio, Solino o Virgilio, le auctoritates vere e proprie che garantiscono le sue parole, di scienziato e di credente, sono soprattutto Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e Cassiodoro, oltre ovviamente ai Vangeli e all’ Antico Testamento.

Non molto diversamente, circa due secoli dopo, Rabano, altro magister di questa vision du monde, comporrà con il suo De universo una vasta glossa allegorica o mistica alle Etymologiae dello stesso Isidoro. Analogamente, circa cinque secoli dopo, Neckam coniugherà scienza e allegorismo morale, fantasiose etimologie e simbolismi edificanti, avvertendo che la sua opera vuole soprattutto innalzare lo spirito del lettore a Dio attraverso Cristo, citando ancora come indiscutibili autorità i Padri della Chiesa e la verità biblica, senza per altro dimenticare Virgilio, considerato un negromante, Ovidio, Claudiano e altri “antichi”.

Di notevole interesse, per l’intelligenza del pensiero “enciclopedico” medievale, è lo studio dell’organizzazione interna di questi trattati, che non è alfabetica né cronologica tout court, bensì segue di solito una divisione gerarchica o tematica delle cose naturali o artificiali, della storia sacra o di quella profana, delle virtù e dei vizi. In particolare nell’età d’oro dell’“enciclopedismo”, cioè tra il XII ed il XIII secolo, questo tipo di struttura interna risente dello schematismo gerarchico dionisiano. Infatti, la fortunata opera di Dionigi Areopagita, approdata in Europa nel IX secolo con la traduzione dello Scoto Eriugena, propone un modello gerarchico, di conio neoplatonico, per cui l’universo intero è realmente una scala, una catena di creature tra loro interconnesse e disposte gerarchicamente. A partire dall’alto il risultato della causalità divina ha prodotto angeli, uomini, animali, piante ed esseri inanimati. Al di sopra di tutti stanno i nomi divini, che giustificano ontologicamente quella stessa trama gerarchica e costituiscono il vero oggetto di conoscenza per l’uomo. L’artificio dionisiano viene esplicitamente preso come guida tematica da Bartolomeo Anglico per il suo De proprietatibus rerum e Tommaso di Cantimpré, nel Liber de natura rerum composto verso il 1240, suddivide l’opera parlando prima dell’uomo poi degli animali (seguendo naturalmente una processualità che va dai quadrupedi fino ai vermi), successivamente delle piante e infine al mondo minerale.

Un simile tessuto di nozioni se da un lato trova il fondamento della storia e della natura nei fatti biblici e nella parola di Dio, dall’altro individua, come si diceva sopra, nel linguaggio allegorico o simbolico lo strumento più adatto per decifrare e descrivere quella storia e quella natura. La ragione di ciò ha il suo crogiuolo concettuale nella convinzione dei maggiori Padri della Chiesa, da Girolamo a Gregorio, da Origene ad Agostino (ma fondante è Paolo nella Lettera ai Galati, IV,24: “Queste cose sono dette in senso allegorico”), che la Scrittura, “creata” da Dio come il mondo, in quanto rivelazione dell’unico Altissimo e Verbum Redemptionis, costituisca una “infinita sensuum silva”, contenga allegoricamente un oceano di significati e di misteri, la cui profondità benché indecifrabile va scandagliata e meditata dal credente. Infatti interpretare le allegorie ed i simboli delle Scritture permette di decrittare appunto la “scrittura” di Dio e dunque la sua volontà. Similmente spiegarne il senso morale permette di esaltare quei parametri virtuosi che edificano la fede, così come accogliendone il messaggio profetico ed escatologico si risolve il senso della storia e della salvezza.

Il libro della “natura delle cose” si dispiega e scorre dinanzi agli occhi di Neckam e degli altri compilatori enciclopedici allo stesso modo in cui si leggono le pagine della Bibbia: l’analogica e l’allegorica li coniugano, il simbolismo misterico li salda. Ne nasce quello straordinario e mirabolante vocabolario di nuove combinazioni iconologiche, di sincretismi figurativi e verbali, di azzardate e talvolta sconclusionate etimologie, che forse costituisce ancora oggi uno dei contributi più affascinanti del Medioevo. Epoca in cui il simbolo e il traslato non si sovrappongono alla realtà, ma l’accompagnano fino a fondersi con essa, fino all’invenzione di una vera e propria realtà fantastica, ma non fantasiosa.

Il trionfo di tanto “enciclopedico” linguaggio verrà poi concretato nell’arte dei chiostri, dei capitelli, sulle pareti o sui portali delle chiese, nelle miniature e sulle stoffe: ovunque i bestiari e i florari, la Biblia pauperum o il cielo e gli elementi verranno materiati da scalpellini, muratori, pittori e tessitori. Le sillabe e le parole scritte nel libro di Neckam, come quelle che corrono nelle altre opere consimili, si trasferiscono così nell’arte e una chiesa istoriata diviene un libro, le cui pagine sono le pareti e le superfici dei più svariati membri architettonici. Un simile insegnamento per figure permette al fedele di guardare e contemplare la scala della “natura delle cose”, e di incamminarsi, viandante, sul monte sofianico dell’universo: ne può ammirare l’ordine, la misura, la musicale gerarchia. In questo il Medio Evo appare il degno e nobile erede delle fabulae e dell’harmonia di una più antica e arcana sapienza, che spetterà poi al Rinascimento, come ai secoli successivi, riconoscere, studiare e ricollocare degnamente nella storia e nel mito precristiani, quando Thoth e Orfeo, Prometeo e Atena, Aglaofamo e Pitagora educavano gli uomini sulla secreta “natura delle cose”.

AutoreMino Gabriele
PubblicazioneAlexander Neckam: De naturis rerum libri duo
CuratoreThomas Wright 
EditoreLa Finestra (Archivio medievale)
LuogoLavis (TN)
Anno2003 
PagineIII-XII

Il Paradiso

Sezione: Studi


Fra i temi suscettibili di conferire la loro profondità ai simbolismi fondamentali, uno dei più importanti è quello del Paradiso. Ci interessa per più di un motivo: innanzitutto, perché da quasi tutte le tradizioni è avvicinato alla Montagna Sacra; poi perché corrisponde ad alcune espressioni plastiche ben definite proprie dell’iconografia religiosa.

La Montagna Sacra è un luogo di benedizioni; riceve più di ogni altro posto le piogge, simbolo del favore celeste; le distribuisce ai quattro angoli dell’universo attraverso la rete dei fiumi che scendono da essa; dà così la fecondità alla terra circostante; è l’ombelico primordiale e il centro vitale. E proprio questa ad essere emersa per prima dalle acque al tempo della cosmogonia originaria ed è su di essa che è apparso il primo uomo, da essa è disceso per andare a popolare l’universo e dargli vita con la sua attività. Inversamente, questa montagna è il luogo verso il quale gli uomini convergono e dove si riuniscono, in cerca del paradiso che hanno lasciato o dal quale sono stati cacciati. L’avventura umana è un ritorno difficile verso la Montagna Sacra delle origini, proiettata nell’avvenire della pienezza dei tempi.

La localizzazione del Paradiso ossessiona l’uomo da quando ne ha perso la strada. Miti e leggende si aprono un passaggio nella giungla dei simboli, alla ricerca del luogo sognato. Due sono i sistemi principali che si confrontano o si completano, poiché la simbologia si ride delle apparenti incoerenze: per alcuni, il paradiso è localizzato nell’estremo nord, là dove s’innalza la Montagna Sacra, soggiorno degli dei e perno del cielo; cosa che viene attestata, per esempio, dal Libro di Enoch. «Se si ricorda che gli scritti di Enoch erano assiduamente letti e copiati nel monastero di Qumrân allo stesso titolo di altre opere considerate ispirate e canoniche, è verosimile che, alla domanda che tormenta l’uomo da cinquemila anni: “Dov’è il paradiso?”, gli esseni rispondessero prontamente e fermamente: “Al nord, com’è scritto nei libri di Enoch, lo scriba di giustizia!”».

Carta mitica del Libro di Enoch (da P. Grelot)

I morti, che attendono il giorno della resurrezione, giacciono con la testa verso sud, contemplano la patria futura nel sogno di un sonno passeggero. Svegliati, si alzeranno con il viso rivolto verso il nord e s’incammineranno verso il Paradiso, la Montagna Sacra della Gerusalemme celeste. Nessuno, a quanto ci risulta, ha mai tentato di spiegare l’orientamento sud-nord di centoundici tombe essene di Qumrân. La soluzione che proporremo pare l’unica possibile. Gli altri ebrei e i cristiani giustificavano la disposizione est-ovest dei loro morti con la collocazione orientale che davano al paradiso (cf. J.T. Milik, Rivista Biblica, 1958, pag. 77). Paradiso a nord, Paradiso ad est… Fino all’epoca romanica il mondo, così com’era rappresentato dalle carte simboliche, prende la forma di una pera diritta; ritorna alla memoria la bella formula di Platone: «La terra, nostra nutrice, schiacciata strettamente intorno all’asse che attraversa il tutto…» (Timeo, 40 b). Sulla punta della pera è situato il Paradiso dell’est. Quando l’est cartografico, dopo molte esitazioni, ruoterà per occupare la destra, il Paradiso resterà più spesso in alto, tanto forte è la necessità simbolica che ne fa il luogo più alto della terra, legato alla verticale sud-nord e all’asse del mondo.

I progressi della cartografia e la sua evoluzione verso il rigore delle ricerche scientifiche si scontrarono per lungo tempo con l’incoercibile resistenza del simbolo. La carta del mondo di Gérard Kremer, detto Mercator (1512-1594), pone già i grandi insiemi continentali nei luoghi dei quali i planisferi più moderni non dovranno far altro che precisare contorni e distanze.

Carta di Mercatore

Tuttavia si constata, non senza sorpresa, che il polo artico è qui ancora concepito secondo l’antico simbolismo del Paradiso terrestre settentrionale occupato dalla Montagna assiale (Rupes nigra et altissima) che s’innalza al di sotto della Polare: questa Roccia s’eleva in mezzo ad un mare circolare ambrato e limitato da un largo anello di terra circondato da montagne; le acque di questo mare primordiale scorrono negli oceani conosciuti attraverso quattro bracci fluviali orientati verso i quattro punti cardinali. Cinque secoli prima, le carte del mondo avevano imposto questo taglio della terra, grazie ai mari concepiti come larghi fiumi, in quattro parti simboliche (o, qualche volta, nelle tre grandi parti del mondo conosciuto: Europa, Asia, Africa); il Paradiso originale e il mondo che ne era scaturito si corrispondevano attraverso il tempo e lo spazio.

Carta del mondo divisa in quattro parti (epoca romanica)

La carta di Mercator attesta la sopravvivenza di uno solo di questi due omologhi, il polo-Paradiso quadripartito, in un’epoca in cui si è dovuto rinunciare all’altro a causa di una migliore conoscenza delle grandi vie della terra e del mare.

Ma il problema non fu accantonato, e la scoperta del mondo che, allora, proseguiva ad un ritmo accelerato, relegando il Paradiso in regioni inaccessibili, non mise fine all’antica nostalgia. La mentalità di un Cristoforo Colombo che, un secolo prima (ottobre 1492), scopriva un nuovo continente e, risalendo il corso dell’Orinoco, s’aspettava ogni momento di veder sorgere, infine, la terra felice ove comincia il Paradiso… resta, e resterà per lungo tempo inalterata. A misura che le contrade inviolate del globo si aprono davanti a viaggiatori ed esploratori, si assiste ad una frenesia di ricerca in cui si mescolano le discipline e le preoccupazioni più diverse, il meglio e il peggio. Ci basti trascrivere il testo della Cosmografia universale di Sébastien Munster (edita nel 1559, e quindi contemporanea alla carta di Mercator), la quale fa il punto delle tesi più scientifiche dell’epoca: «Poiché il nostro proposito è quello di descrivere in questo libro tutto il cerchio della terra, il suo aspetto fisico e le regioni abitate, e poiché, d’altra parte, il Paradiso è un luogo determinato della terra, non è senza motivo che, all’inizio della nostra opera, ne faremo menzione, per domandarci dove dunque si trovava questo giardino di delizie al tempo dei nostri progenitori e se esiste ancora nel mondo attuale. Invero, i sapienti hanno su questo punto diverse opinioni, e non c’è quindi nessuno che non proponga una convinzione personale. In effetti, alcuni pretendono che il Paradiso sia situato verso l’Oriente, al di fuori del tropico del Capricorno e di quello del Cancro. Altri vogliono porlo nella zona equinoziale, in un luogo temperato. Altri ancora lo immaginano in un posto molto alto, separato dal nostro globo da una lunga distanza e che s’avvicina al cerchio della luna, al riparo da ogni evento atmosferico, dove non possono arrivare né il vento né le nuvole; affermano che è proprio là che Enoch ed Elia vivono col loro corpo. Una quarta categoria scrive che questo giardino, prima del diluvio, ha occupato qualche regione molto fertile dell’Oriente, come la Siria, Damasco, l’Arabia, l’Egitto…».

Sotto il regno di Luigi XIV (1638-1715) viene ordinato che l’Accademia Francese porti avanti un’inchiesta destinata a fare luce sulla situazione geografica di «questo luogo di delizie pieno d’alberi magnifici e di profumi squisiti». Daniel Huet, vescovo di Avranches, eminente membro del saggio consesso, ha l’incarico di occuparsene; di fronte alla proliferazione divergente delle soluzioni attestate, sembra che lo sfortunato sia stato parecchie volte preso dallo scoraggiamento. Il vescovo d’Avranches conclude il rapporto dando il suo parere personale: con saggezza e prudenza, si accontenta di spremere quanto più possibile i dati della Bibbia, interpretandoli alla lettera, secondo l’uso del suo tempo; questo lo portò a situare il Paradiso «sul canale formato dal Tigri e dall’Eufrate congiunti, fra il luogo della loro unione e quello della separazione delle loro acque, prima di gettarsi nel Golfo Persico», dunque, in una specie di isola fluviale stretta fra i due fiumi menzionati nel libro del Genesi.

Note bibliche concernenti il Paradiso

La Bibbia indica che «un fiume usciva dall’Eden per innaffiare il giardino, e di là si divideva per formare quattro bracci»; i nomi sono indicati: Fisone, Gione, Tigri ed Eufrate. Questa disposizione è quella dei fiumi che scendono dalla montagna, ma non bisogna vedervi un fatto di geografia generale! Questi fiumi, mentre partono dalla montagna per simboleggiare il movimento di emanazione e vivificazione, vi ritornano per simboleggiare il ritorno al Paradiso e il compimento di ogni cosa da parte del creatore. Su questo tema dell’exitus-reditus, emanazione-ritorno, si elaborerà una riflessione teologica. L’opera della creazione materiale, avendo la sua origine nel Paradiso terrestre, è l’immagine perfetta dell’opera della creazione spirituale e di quella della ricreazione universale richiesta dalle distruzioni del peccato e più ancora dalla vocazione trascendente di tutto il cosmo purificato per essere assunto nel mistero totale del Cristo. Intorno a queste riflessioni s’è sviluppata tutta un’iconografia. La loro origine comune dev’essere cercata nella stessa Bibbia.

Giovanni di Paolo: Cacciata dal Paradiso

Il capitolo 24 del libro dell’Ecclesiastico, a questo proposito, costituisce una chiave. E un grande discorso della Sapienza divina, che parla in prima persona. Appare nello stesso tempo presente in Dio da tutta l’eternità e parte attiva, con Lui, nell’opera di creazione. Dietro a questo personaggio misterioso si profila già la rivelazione della Sapienza incarnata e Verbo di Dio, nel quale e attraverso il quale tutto è stato realizzato; il Cristo Pantocratore, Figlio di Dio. Bisogna citare il passaggio: ci introdurrà nell’ambiente da cui dipendono le opere che spiegheremo poi. È la Sapienza che parla: «Sono derivata dalla bocca dell’Altissimo, e ho coperto la terra come un vapore (allusione a Genesi I, 2: la Sapienza è identificata con lo Spirito di Dio che plana sulle acque della creazione primordiale). Ho abitato nei cieli e il mio trono era su una colonna di nuvole. Ho fatto da sola il giro del cerchio dei cieli, ho percorso la profondità degli abissi (prerogative divine applicate al potere di creare)… Il creatore dell’universo mi ha dato un ordine, colui che mi ha creato mi ha fatto alzare la tenda. Mi ha detto: “Installati in Giacobbe” (la Sapienza scende dal cielo e va a stabilire la sua dimora fra i discendenti del patriarca che fu gratificato della visione di Béthel). Prima dei secoli, fin dalle origini, mi ha creato, e vivrò eternamente. Ho officiato alla sua presenza, nella tenda sacra: è così che mi sono stabilita a Sion e ho trovato riposo nella beneamara città, è così che esercito il mio potere in Gerusalemme» (XIVV, 3 segg.).

Terminato il discorso della Sapienza, l’autore comincia un parallelo fra la Sapienza e la Legge, che ci porta al centro del nostro tema. Per comprendere pienamenre la portata di questo passaggio, si può contemplare la scena evangelica della Trasfigurazione, in cui Cristo appare sulla Montagna della salvezza, in compagnia di Mosè: si presenta come il nuovo Mosè che dà al mondo la Legge definitiva, nella sua qualità di Sapienza incarnata. Il testo spiega che la Legge, come la Sapienza, dà esistenza e vita al mondo: è una specie di rilettura del racconto della prima creazione, nella quale si scopre il simbolo della nuova creazione trasfigurata. Innanzitutto, la Legge viene mostrata come l’unica origine del Paradiso, da dove scorre il fiotto vivificante delle qualità-virtù principali: «Tutto questo non è altro che il libro dell’Alleanza dell’Altissimo Dio e della Legge (ricevuta sul Sinai) promulgata da Mosè, lasciata in eredità alle assemblee di Giacobbe. È questa che ha fatto si che la Sapienza abbondasse come le acque del Fisone, come il Tigri nella stagione dei frutti (fecondità), che fa abbondare l’intelligenza come l’Eufrate…; che fa scorrere la scienza… come il Gione nel giorno della vendemmia… I suoi pensieri sono più vasti del mare, i suoi disegni più grandi dell’abisso. Ed io (qui è il saggio, portavoce della Sapienza, che parla) sono come un canale nato da un fiume, come un corso d’acqua sono uscito verso il Paradiso (reditus, ritorno al Paradiso, senza dubbio per prendervi l’acqua da spandere dopo, exitus)… Ed ecco che il mio canale è diventato fiume e il fiume è diventato mare». Le prospettive s’allargano sempre più, si lascia intravvedere l’era del compimento; quest’era è concepita come una vasta creazione nella luce e attraverso essa: «Farò splendere la scienza dell’aurora, porterò lontano la sua luce». Il tema della Sapienza Fiume delle acque della Vita e Luce viene dal Paradiso originale; tenderà all’Agnello che troneggia al centro della Gerusalemme celeste, nuovo santuario del nuovo Paradiso. Tuttavia, la Sapienza s’è svelata agli occhi degli uomini… E apparsa fra noi nel mistero di colui che ha rivelato di essere il nuovo Tempio, il Cristo Pantocratore.

Sotto l’antica Alleanza, tutto era già pronto. Il Tempio di Gerusalemme s’innalzava sul monte Moriah, una delle alture del monte Sion. La più probabile etimologia del termine Sion è seja, di origine hurrita, che significa: acqua, fiume; si adatta bene al motivo della fontana di Gihon che zampilla ai piedi della collina sud-est di Gerusalemme. «Dal Moriah provenivano quattro ruscelli sacri che si pensava uscissero, per comunicazione sotterranea, dalla sorgente d’acqua viva che zampillava sotto il Tempio. Uno di questi, scorrendo verso nord, si chiamava Gihon; era il nome di uno dei quattro fiumi dell’Eden. In questo modo si ritrova sul monte Sion la configurazione della Montagna primordiale che porta il Paradiso e i suoi quattro fiumi» (Hani 132).

Riguardo a ciò, l’Apocalisse ci fa contemplare la grandiosa visione degli eletti «davanti al trono di Dio, servendolo giorno e notte nel suo tempio; e colui che siede sul Trono stenderà su di essi la sua Tenda» (cap. VII). L’Agnello che siede sul trono (versetto 17) «sta sul monte Sion» (XIV, 1) e «dal suo trono zampilla il fiume di vita, limpido come cristallo. Al centro del luogo, da una parte e dall’altra del fiume, ci sono degli alberi della Vita» (XXII, 1-2), così come al centro del giardino dell’Eden si vedevano l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male (Genesi II, 9 e III, 3, ripreso in Ezechiele XLVII, 12).

L’iconografia del Paradiso

Tutti questi elementi sono radunati nell’affresco che orna la volta del vestibolo della chiesa di San Pietro al Monte a Civate, databile alla prima metà del sec. XII.

Civate, San Pietro al Monte – Affresco: Paradiso

Al centro, il Cristo Pantocratore troneggia sul globo del mondo. Davanti a lui, il suo emblema: l’agnello. Nella sinistra, il Libro sul quale si legge l’iscrizione abbreviata: «SI QUIS SITIS VENIAT, se qualcuno ha sete, venga a me (e beva)» (Gv. VII). Da una parte e dall’altra, i due alberi del Paradiso. Cristo siede in mezzo alla Gerusalemme celeste, quadrata, con tre porte su ogni lato; all’interno di ogni porta appare un personaggio, poiché queste porte sono in relazione con le dodici tribù di Israele e, nello stesso tempo, con i dodici Apostoli (Apocalisse XXI, 10-14). Il fiume della vita che scorre dal trono ha permesso di non rappresentare i quattro fiumi paradisiaci, che ne sono i quattro rami; essi sono stati dipinti un po’ più lontano, su di una volta laterale.

Si potrebbero citare numerosissime varianti; ognuna mette l’accento su un punto piuttosto che su un altro. Illustrano preferibilmente il fatto che i fiumi che si dirigono verso i quattro punti cardinali riempiono tutto l’universo. È il caso della rilegatura in cuoio dorato conservata al Museo di Cluny (arte mosana della metà del sec. XII).

Parigi, Museo di Cluny – Tavola di legatura in cuoio dorato: Paradiso

Nell’anello centrale si vede l’Agnus Dei con lo stendardo la cui asta è sormontata dalla croce. Il piano è diviso, come il mondo, in quattro settori occupati dai fiumi: sulle bordure inferiore e superiore si leggono i loro nomi. I fiumi sono seduti su un arco coperto da scaglie (è uno dei simboli iconografici della montagna). Gli steli vegetali che escono dai loro berretti o da dietro simboleggiano la fecondità che portano dovunque scorrono. Il resto dell’iscrizione si legge a sinistra e poi a destra: FONS PARADISIACUS PER FLUMINA QUATOR EXI(T), la fontana del Paradiso si ramifica in quattro fiumi -H(A)EC QUADRIGA LEVIS TE XTE PER OMNIA VEXIT, questa quadriga (antico carro trainato da quattro cavalli), o Cristo, ti porta leggera dappertutto. L’iscrizione che circonda il medaglione centrale indica che, attraverso l’irradiamento del suo sacrificio, l’Agnello è fonte di vita per il mondo: CARNALES ACTUS TULIT AGNOS HIC HOSTIA FACTU, quest’agnello ha portato i peccati, si è fatto vittima. Si noti la doppia allusione, da una parte ai poemi del Servitore (languores nostros ipse tulit, sono le nostre sofferenze che ha preso su di lui, Isaia LIII, 4), e dall’altra all’Agnus Dei qui tollis peccata mundi (Agnello di Dio che togli – o porti- i peccati del mondo, espressione con cui il Battista designa Cristo, nel cap. I del Vangelo secondo Giovanni). Ai secoli seguenti piacerà rappresentare l’Agnus tamquam occisus, l’Agnello sgozzato, dall’Apocalisse (cap. V), che spande il suo sangue in quattro fiumi che andranno a bagnare l’universo: di qui, si passerà al tema del Frantoio mistico, che mostra Cristo come un grappolo sotto il frantoio il cui succo eucaristico cola sul mondo per purificarlo e riscattarlo. Il sec. XII è più sobrio.

Nell’iscrizione precedente, il termine importante è l’HIC rimanda innanzitutto all’Agnello disegnato e, in questo senso, si potrebbe tradurre con «l’Agnello che è qui». Ma ha anche un’altra profondità: un po’ come le icone, le rappresentazioni medievali di questo tipo sono concepite quasi per rendere presenti gli uni agli altri gli aspetti complementari del mistero che rappresentano: permettono ai simboli di giocare il loro ruolo di solidarizzazione di realtà molto diverse. HIC designa allora il luogo sacro, situato sulla montagna centrale dalla quale scendono i fiumi, al centro del Paradiso, ma in quanto luogo del sacrificio redentore dell’Agnello. Nell’ordine locale, corrisponde all’in illo tempore (in quel tempo) dell’ordine temporale. La porta del Paradiso, chiusa con il peccato, è stata riaperta dal Cristo che ha dato la sua vita sulla croce, quando ha detto al buon ladrone: «Oggi sarai con me in Paradiso». Il motivo è dato dal fatto che la croce redentrice è posta sull’altura del Golgota, la montagna della salvezza definitiva e perfetta, localizzata al centro del mondo, e quindi al centro del Paradiso: è l’albero della vita recuperato. Da molto tempo le tradizioni rabbiniche riportavano che l’uomo era stato creato in Paradiso, chiamato «ombelico del mondo»; era là che era morto per il suo peccato; si sapeva che Adamo era seppellito là, sotto la roccia del Tempio di Gerusalemme. Le apocalissi ebraiche e il midrash precisano volentieri che Adamo è stato forgiato con del fango proprio a Gerusalemme; è là che dev’essere di nuovo bagnato con il sangue del Cristo redentore che cola su di lui dall’alto della croce. Così, in questo luogo unico e totalizzante, appare il nuovo Adamo, la nuova umanità salvata da un diluvio abolito per sempre, e che riprende a vivere sul monte Sion della Gerusalemme degli ultimi tempi, al centro del nuovo mondo.

Il Libro di Adamo fa eco a queste tradizioni. Adamo ordina al figlio Seth di seppellire il suo corpo dopo il diluvio che sta per arrivare. Poiché «il luogo dove riposa il mio corpo è il centro della terra, e Dio andrà là per salvare tutta la nostra razza». Poi, dopo il diluvio, quando la bara del primo uomo sarà uscita dall’arca, si fa sentire di nuovo la voce di Adamo: «Il Verbo di Dio andrà nel paese dove noi andiamo; là egli vivrà, e sarà crocefisso sul punto dove riposa il mio corpo, in modo tale che la mia testa sarà innaffiata dal suo sangue».

La carta del mondo assume allora il suo vero significato. Il disco terrestre è perfettamente rotondo: è limitato all’esterno dal bordo dell’oceano, come nelle antiche cosmografie; in quesre acque fluttuano medaglioni che rappresentano le principali isole conosciute all’epoca, pittoreschi battelli, sirene, mostri marini, piovre, pesci grandi e piccoli. Una rappresentazione schematica tradizionale dispone i paesi, i fiumi e le montagne: realtà e finzione si mescolano liberamente. Il posto lasciato, nella parte inferiore, alla Spagna e alla Francia rivela che il miniatore abitava in queste regioni. Gli altri paesi menzionati sono quelli delle strade di pellegrinaggio verso la Terra santa, quelli segnalati nel Nuovo Testamento e nelle leggende che da esso discendono. Gerusalemme è posta poco al di sopra del centro del mondo; Adamo ed Eva sono ancora più in alto, in un cartiglio divisorio; vicino a loro, l’albero del Paradiso, intorno al quale s’arrotola il serpente: il Paradiso e la caduta originale.

Parigi, Bibliothèque Nationale – NAL 2290 (Beatus), f. 13v-14r: Carta del mondo

Gerusalemme non è esattamente al centro del mondo: la città santa degli ebrei ha fatto posto al nuovo centro del mondo cristiano, Roma, che vediamo occupare, in rapporto al centro del disco, un luogo simmetrico a quello di Gerusalemme: l’antica Gerusalemme prefigurava quella nuova di fronte alla quale, alla fine dei tempi, Roma scomparirà. In questo modo, vediamo Gerusalemme e Roma trasportate ambedue nel luogo e nel tempo sacro, e le vediamo beneficiare simultaneamente del privilegio di occupare il centro assoluto del mondo religioso, il punto in cui si opera la salvezza degli uomini: HIC. Lo sviluppo cristiano della Storia non è altro che la storia di queste tappe: il Paradiso terrestre e la caduta dei nostri progenitori, la Gerusalemme dell’Antico Testamento, depositaria delle Promesse e dell’Alleanza, Roma, la città santa della Chiesa fondata da Gesù Cristo per essere il centro della nuova Alleanza, infine la Gerusalemme celeste, che dalla fine dei tempi attira ogni cosa verso il suo definitivo compimento.

Un mosaico dell’abside delia basilica del Laterano, a Roma, offre una notevole sintesi delle concezioni simboliche incontrate nelle pagine precedenti. Risale al sec. XIII, ma riproduce un’opera della Chiesa primitiva. La croce della salvezza è piantata sulla Montagna del paradiso; ai suoi piedi zampilla in un piccolo lago la sorgente di vita, da dove l’acqua scorre attraverso i quattro fiumi con il nome inscritto: vi si abbeverano dei cervi, simbolo tradizionale delle anime assetate di Dio, secondo un versetto del Salmo 41: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima anela a te mio Dio»; queste acque vivificano alcune piante ed animali che rappresentano tutta la creazione. Nelle profondità della montagna, il cherubino (rappresentato da san Michele) posto da Dio alla porta del Paradiso per impedirne l’accesso, brandisce la spada e veglia davanti ad una città circondata da mura: la Gerusalemme dell’Antico Testamento (immagine del limbo); al di sopra delle mura, si scorgono le anime dei giusti con l’aureola, che aspettano che il sangue redentore, colando su di loro, le purifichi e apra loro le porte del nuovo Paradiso, la Gerusalemme celeste. Sopra la città, si innalza il fogliame rigoglioso dell’albero della vita, nel quale è posta la fenice, tradizionale simbolo paleocristiano della resurrezione. Sopra la grande croce gemmata – che corrisponde all’albero della vita – corrispondente a sua volta alla fenice, appare la colomba dello Spirito Santo ricreatore e vivificatore, mentre plana sulle acque della nuova Genesi che viene operata allora. Le comunicazioni con il cielo sono ristabilite. Le linee discendenti dell’influsso della grazia divina emanate dallo Spirito Santo avviluppano la croce come una pioggia di benedizioni celesti e perfezionano il profilo della montagna che tocca il cielo.

Roma, Basilica Lateranense – Mosaico: Croce della salvezza

Il Pastore di Erma (sec. II d.C.) descrive la Chiesa come una torre che s’innalza nelle acque del battesimo e le cui pietre sono i credenti. Al centro della croce architettonica del mosaico del Laterano, di cui la torre di Erma è una variante simbolica, un medaglione rappresenta il battesimo di nostro Signore nel Giordano.

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx  
PubblicazioneI simboli del medioevo
Editore (Collana) /Numero, fasc.Jaca Book
LuogoMilano
Anno1981
Pagine216-234

Giona

Sezione: Lessico


Fonti

Giona è uno dei dodici profeti «minori» della Bibbia. Il libro che ne porta il nome è il racconto dell’avventura della sua predicazione a Ninive, la grande città pagana. Il profeta riceve da Dio l’ordine di andarvi per annunciare agli abitanti l’imminente castigo. Giona si rifiuta di obbedire e fugge per mare nella direzione opposta. Ma l’Eterno scatena una tempesta che mette in pericolo la nave. A questo punto, Giona confessa di esserne la causa e i marinai lo gettano in mare, dove viene inghiottito da un mostro marino, nel cui ventre passa tre giorni e tre notti. Dopo essersi pentito, viene ributtato dall’animale sulla spiaggia. Finalmente, si decide ad andare a Ninive per annunciare, secondo il comando di Dio, la distruzione della città. Ma gli abitanti si pentono e sono risparmiati. Giona, furioso per essere stato sconfessato, lascia la città e si rifugia all’ombra di un ricino che Dio ha fatto spuntare per proteggere dal sole la sua testa calva. Quando l’Onnipotente fa seccare l’albero, che così non può più fargli ombra, il furore di Giona raddoppia; ma Dio l’invita a chiedersi perché si addolori per la morte di un arbusto, lui che si disinteressa di quella degli abitanti di Ninive… Dio non agisce così!

Le origini del racconto sono antiche e molteplici: in particolare, i Greci hanno conosciuto il mito dell’eroe inghiottito da un mostro e poi restituito alla luce.

La tradizione ha trattenuto soprattutto l’episodio del mostro marino, del quale i popoli del Libro hanno dato un’interpretazione che si pone nel solco di questo tema universale. Per gli Ebrei, Giona incarna il popolo d’Israele divorato dal «drago» babilonese e tornato in libertà per l’intervento divino; per i Cristiani, l’avventura del Profeta prefigura la sepoltura di Cristo, seguita, dopo tre giorni, dalla Risurrezione dai morti. Il parallelo è stato spiegato da Matteo (12,40): «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Iconografia

Nei primi secoli dell’era cristiana, il ciclo di Giona è stato spesso rappresentato. In questo periodo, il profeta appare come un giovane imberbe e nudo. In seguito, nel Medioevo, la tipologia cambia: prima di essere divorato, egli è vestito e ha lunghi capelli. Appare così in una vetrata di Augsburg, in Baviera; ai suoi piedi, si apre la gola del mostro marino.

Augsburg, Cattedrale – Vetrata: il profeta Giona

Una volta risputato, ha perso abiti e capelli. La nudità e la calvizie esprimono, in maniera simbolica, la sua purezza e la ritrovata innocenza. Giona, durante la permanenza nel ventre dell’animale, si è in un certo senso rigenerato.

Fra le opere romaniche in cui è illustrata la storia di Giona, troviamo un medaglione del paliotto smaltato di Klosterneuburg, opera dell’orafo lorenese Nicola di Verdun. Questo medaglione è accanto ad una rappresentazione della Risurrezione di Cristo, il che indica la concordanza simbolica fra i due temi. I bassorilievi della facciata della chiesa di Ripoll, in Catalogna, dedicano molto spazio al libro di Giona. In essi vediamo, in particolare, la mano divina che ordina al profeta di partire per Ninive.

La scena rappresentata più frequentemente è quella in cui l’eroe è vomitato dal mostro. La troviamo, naturalmente, a Ripoll, ma anche in un’iniziale miniata della Bibbia di Admont, dove Giona, calvo, che emerge dalla gola del pesce, ha l’atteggiamento dell’oratore antico che si accinge a parlare. Nel manoscritto della badessa Herrat di Landsberg, l’Hortus Deliciarum, il mostro che vomita il profeta assomiglia ad un’enorme carpa.

Herrat di Landsberg, Hortus DeliciarumGiona vomitato dal mostro

Nella Bibbia di Saint-Bénigne di Digione, un’iniziale miniata presenta una geniale composizione: le due sequenze dell’episodio sono illustrate in due scene separate dalla barra orizzontale della E. Nel registro superiore Giona, caduto in mare tutto vestito, viene inghiottito dal mostro. Dietro di lui, quattro compagni rimasti sull’imbarcazione sono nell’impossibilità di soccorrerlo. Nella parte inferiore il profeta, nudo, esce dalla gola dell’animale e riceve la benedizione dalla mano di Dio. Una straordinaria rappresentazione si trova sul pannello di un pulpito conservato a Sessa Aurunca, in Campania.

Sessa Aurunca, Cattedrale di san Pietro – Pulpito: Giona e il pesce

Il mostro, gigantesco, insegue Giona e comincia a divorarlo dalle vesti; un’immagine simile, sempre su un pulpito, si trova a Ravello.

Nella chiesa alverniate di Saint-Pierre di Mozat vediamo uno dei pochi capitelli romanici con la raffigurazione dei due episodi: su una faccia, Giona è come infilato nella gola del pesce da uno degli uomini della nave.

Mozat, Saint-Pierre – Capitello: Giona inghiottito dal pesce

Contrariamente alla tradizione iconografica, è già nudo, e del suo corpo si vede ormai solo la parte inferiore, poiché la testa e il torso sono già stati divorati. Sull’imbarcazione un marinaio rema, mentre un altro membro dell’equipaggio si copre gli occhi con la mano per non assistere al terribile spettacolo. Su un’altra faccia del capitello, il profeta è rigettato dal pesce. Dietro di lui, si scorgono le mura di Ninive. L’artista ha rappresentato anche un arbusto, che allude certamente al seguito della storia, allorché Giona manifesta il proprio disappunto e Dio lo protegge all’ombra di un albero che cresce in una notte.

Mozat, Saint-Pierre – Capitello: Giona vomitato dal pesce

L’immagine del profeta che si ripara la testa calva all’ombra dell’albero è rarissima nell’arte romanica. Nella versione greca dei Settanta, la pianta protettrice è una cucurbitacea, mentre nella traduzione latina della Vulgata diventa un’edera. Ed è quest’ultima interpretazione che è stata accolta dagli scultori di Ripoll.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 234-236

Altare

Sezione: Lessico


Può destare stupore che non ci si occupi di questo elemento fondamentale del coro nel quadro della disposizione absidale. Ciò è dovuto innanzi tutto al fatto che in generale la ricca decorazione della tavola d’altare, sulla fronte o sul piano superiore, si presenta come il contrario di una vera disposizione absidale: l’altare è originariamente una tomba e implica la presenza di un «sepolcro» per una reliquia. Quando si ha disposizione absidale, vuoi dire che i temi d’insieme si sviluppano in affreschi nella conca dell’abside e in sculture sui capitelli dell’ambulacro, come a Cluny, talvolta sui mosaici del pavimento, come a Sordes, a Lescar, a Ganagobie, nella basilica di Saint-Rémy a Reims, o ancora sui pilastri, nelle navate laterali, in fregi, come ad Ainay. Una ricca decorazione di altare, per esempio in Spagna o nel Roussillon, si oppone sovente a una vera decorazione absidale: è il caso di Saint-Sernin a Tolosa, dove l’ambulacro del coro è la sola parte della chiesa a non possedere capitelli iconici, mentre giustamente celebre è l’altare. Questo altare è appena più recente dell’architrave di Saint-Genis-des-Fontaines, che sembra un po’ essere una proiezione di decorazione d’altare, al pari di molte decorazioni arcaiche di questa regione e di quella, al tempo stesso, di Charlieu, in Borgogna. Senonché, sono proprio questi i primi esempi celebri di portali con decorazione anteriore: è dunque giusto includere l’altare nello studio della disposizione anteriore. Come infatti l’abside nel suo complesso si proietta, nella zona egiziana, nel portale e nel suo aspetto circolare, allo stesso modo nella zona mesopotamica la decorazione dell’altare tende in linea generale a ispirare le grandi linee del portale e del timpano.

I commentari teologici sul tema dell’altare, la parte più sacra della chiesa, sono stati ovviamente numerosi. Ad esso vengono attribuiti, secondo la tradizione, tre aspetti. Un aspetto letterale, in primo luogo, in relazione col rito della messa che viene celebrata lì, al centro del santuario: vi si considera innanzi tutto la tavola sulla quale viene rinnovata la Cena eucaristica, il luogo della presenza reale, dove l’uffizio è celebrato dal Cristo sacerdote. Il senso allegorico consisterà più tardi nel riconoscere nell’altare il corpo stesso di Nostro Signore disceso dalla Croce e deposto nel sepolcro: la tovaglia bianca raffigurerà il suo lenzuolo; le cinque croci della consacrazione saranno le cinque piaghe attraverso le quali è stato versato il suo sangue propiziatorio; i gradini che vi conducono saranno i corpi dei martiri che hanno sofferto per Lui. C’è infine, secondo sant’Agostino, un senso morale: l’altare è il cuore di ciascun uomo, dove brucia come una fiamma eterna il fuoco dell’amore divino e da dove le preghiere salgono al cielo come gli incensi, mentre i gradini sono l’immagine delle virtù. Nel Tempio di Salomone, il Santo dei Santi era costruito, come la Kaaba della Mecca, in forma di cubo perfetto, ogni lato misurante venti cubiti (venti multiplo di cinque), e parimenti cubico era l’altare, in legno di acacia; secondo l’Esodo (XXVII, 1), doveva misurare cinque cubiti di lato. Notiamo a questo proposito che il numero cinque poteva avere anche un precedente, una prefigurazione pagana, nel pentacolo, la forma pentagrammatica che dava, a detta di Pitagora, il numero dell’uomo, la sua perfezione. Nell’altare cristiano sono scalpellate cinque croci.

Zona mesopotamica

È soprattutto nel sud ovest della Francia, in Linguadoca e in Spagna che viene messa in risalto l’importanza dell’altare scolpito, espressione microcosmica del Dio fatto uomo, compendio totale del tempio. L’altare di Tolosa servirà da esempio. Si tratta di una comune lastra di pietra, rettangolare, riccamente scolpita lungo il bordo. Questo bordo disegna un polilobo da un lato, verso l’interno, ed è invece a ugnatura verso l’esterno, con una decorazione a scaglie sulla banda superiore. I tre aspetti del Cristo sono presentati sulle tre facce visibili, quella rivolta verso la navata e le due minori sui lati. Sulla faccia anteriore ci appare come uomo, sotto l’aspetto del pesce (ichtus) portato da un angelo, nella sua Passione sotto il segno della croce astata portata da un altro angelo, nella sua Ascensione entro il nimbo trionfale circolare (imago clypeata) portato da due angeli annunciatori; in tutto, cinque personaggi, come cinque sono le croci sull’altare. Sul lato sinistro, a nord, lo si vede in atto d’inviare gli Apostoli a evangelizzare le Nazioni; è collocato al centro e alla sua destra c’è un uomo che sta segnandone a dito un altro: in tutto, sette personaggi (sette = terra + cielo). Sul lato opposto appare come colui che ha portato a compimento le profezie; di nuovo cinque personaggi: il pagano, nell’atteggiamento de «l’uomo disteso», il grifone, l’ebreo, il Cristo col libro, un evangelista. il Cristo sacerdote del lato nord risponde al significato letterale dell’altare, tavola del sacrificio; il Cristo uomo del lato ovest al significato allegorico dello stesso altare, in quanto custode del corpo del Cristo; il Cristo re del lato sud al suo significato morale. Viceversa, sul lato est si stende un fregio con figure di uccelli affrontati, che attendono come le leonesse di Moissac la fine dei tempi – ed ecco che l’incrocio viene evocato così in una prospettiva apocalittica. Il Cristo non appare agli Animali con i tratti del Cristo come ad Avenas (Rhône) o a Rozier-Côtes d’Aurec (Loire), troneggiante fra l’alfa e l’omega: gli uccelli affrontati del lato est corrispondono sempre al rifiuto di rappresentare la divinità, secondo una tendenza tipica della religiosità biblica e mesopotamica.

L’evocazione veramente divina appare infatti sotto forma di motivi aniconici: le composizioni vegetali realizzate dallo scultore Bernard Gilduin e definite da M.lle Jalabert «palinette a fascio» (palmettes-gerbes); si tratta di una variante del motivo più generale ch’essa chiama «palmette ad ali, montate su un albero». Si vedono inoltre, al di sopra dei fiori, che sono dodici, delle perle, dodici anch’esse; numeri evidentemente simbolici. Quello però che ci sembra importante segnalare è l’incidenza che hanno avuto gli elementi costitutivi e simbolici, iconici o no, di questa tavola di altare sui portali, sugli atri, sui timpani o semplicemente sulle decorazioni di altri altari, come i paliotti di tipo catalano o rossiglionese, o ancora sulle croci scolpite e sulle statue reliquiario. Essendo normalmente le sculture dei timpani una proiezione delle sculture absidali, la straordinaria preziosità della decorazione delle tavole marmoree o delle croci-reliquiario, degli antependi e dei paliotti ispirerà i portali della zona mesopotamica. I paramenti scultorei delle facciate sono limitati inizialmente ai timpani, ai pilastri mediani dei portali e alle cornici delle finestre, e sono perciò complessi di dimensioni ridotte; col tempo si estenderanno ai pennacchi fra gli estradossi degli archi e ai piedritti, fino a rivestire di decorazioni, con l’avanzare verso l’ovest della Francia, l’intera facciata; però allora scompaiono i timpani propriamente detti. Ecco perché gli architravi di Saint-Genis-des-Fontaines e di Sorède, con le loro teorie di Apostoli sotto arcature e fregi vegetali, fanno pensare al trasferimento sulla facciata della decorazione scultorea di un altare. I paliotti di questo tipo sono numerosi nel Roussillon e nella Catalogna.

Particolarmente ben visibile è il processo di cui parliamo nel piccolo timpano di Carennac (Lor), sul quale le due file sovrapposte di Apostoli seduti, collocati attorno alla mandorla del Cristo, ricalcano ancora meglio che a Saint-Genis e a Sorède la composizione di un paliotto; lo scultore è arrivato a imitare perfino i chiodi da orefice che servivano per fissare le preziose placche alla fronte dell’altare.

Bisogna inoltre raffrontare la composizione dell’altare di Tolosa e le sue sculture o rilievi di vario genere con la tomba di san Giuniano conservata nella chiesa madre della città che porta lo stesso nome del santo: Saint-Junien (Haute-Vienne). Le scene variano, come a Tolosa, secondo le facce del sarcofago. Ma il successo del tema dell’imago clypeata dell’altare di Tolosa si palesa anche in svariate decorazioni absidali, su un capitello del coro di Agen, su un abaco di Moissac, ecc. La croce con gli Animali e i chiodi intermedi di Arles-sur-Tech prova a sua volta la trasposizione della forma e della ornamentazione di un altro tipico arredo absidale: la croce-reliquiario. L’immagine della Vergine, che fa la sua apparizione abbastanza presto a Corneilla-de-Confluent (Roussillon), a Valbona e a Manresa (Catalogna), si ispira, come l’architrave di Mozat, alle vergini-reliquiario. La composizione dei grandi timpani di Moissac e Beaulieu è ancora sempre quella del Cristo di grande statura circondato da diverse file di personaggi assai più piccoli. I fioroni degli architravi ricalcano anch’essi la decorazione di un altare.

Ma in special modo, tutti gli elementi costitutivi dell’altare di Saint-Sernin a Tolosa, compresi quelli apparentemente decorativi, si ritrovano, semplicemente trasposti, sui portali a protiro di Moissac, di Beaulieu, di Souillac. Il motivo, per esempio, del polilobo a rilievo lungo il bordo si trasforma in incavi sovrapposti che danno vita al caratteristico ritmo delle mezze lune che incorniciano il trumeau o i piedritti delle strombature. Il lobo in quanto tale, specie se messo in risalto attraverso la squama celeste dei lobi a incrocio sulla faccia interna del trumeau, simboleggia l’arco della volta celeste; ripetuto, rappresenta lo scorrere del tempo, la curva giornaliera e annuale del sole. Ai piedi del Cristo trionfante o Giudice, oppure della Vergine mediatrice, incavi o fiori di cardo evocano pur essi le ricorrenze d’ogni genere che segnano per volere di Dio l’esistenza del creato, e che saranno abolite alla fine dei tempi. Tali incavi fanno dei portali in questione altrettante «porte del Cielo».

Zona Egiziana

Alla tavola rettangolare di Tolosa fa riscontro la tavola circolare di Besançon. A dite il vero, mentre le tavole a bordo scolpito del tipo tolosano sono innumerevoli in tutto il Mezzogiorno della Francia, nell’Aude, nell’Hérault, e perfino nel Forez, questa di Besançon è, per quanto ne sappiamo, unica nel suo genere. Aspetto caratteristico, mentre la prima era interessante pei suoi lati scolpiti con raffigurazioni simboliche, qui le raffigurazioni significative sono sulla faccia superiore, celeste, visibile dal solo prete officiante; questa differenza contraddistingue le due zone. I tre aspetti del Verbo incarnato sono richiamati dalla figura dell’Agnello, dalla colomba del Sacerdote e del crisma del Re; il polilobo diventa un tracciato a Otto lobi (Otto = vita futura) dal quale è inquadrato il tutto.

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Un tipo di altare di questa fatta non poteva dar luogo a imitazioni né sui portali né sulla restante decorazione scultorea della facciata; il portale sud orientale si ispira infatti all’arco trionfale e alla decorazione dipinta della conca dell’abside.

L’altare di Avenas, nel dipartimento del Rhône, è un caso raro di decorazione scolpita su tre lati. Le dimensioni inconsuete di questo altare fanno sì che basti esso, da solo, a decorare l’intera abside, che oltre tutto è piuttosto piccola. L’anomalia si spiega col fatto che si tratta di un dono del re Luigi VII: fra le scene che compaiono sui lati, il re si è fatto rappresentare in atto di offrire la chiesa (1166). L’opera appartiene perciò alla scuola borgognona della seconda metà del secolo XII.

L’associazione del Cristo al Tetramorfo rappresentato sulla fronte principale in mezzo agli Apostoli disposti su due file, con quattro scene della vita della Vergine ai lati, si iscrive, in certa e non trascurabile misura, nel quadro di una corrente iconografica tipicamente lionese, in relazione con l’influenza copta. Nondimeno, un particolare lascia esterrefatti, nonostante i tratti evidenti dell’appartenenza alla zona egiziana (grandezza del Cristo seduto in trono, rappresentazione della terra sotto forma di un seggio con i braccioli terminanti in volute vegetali, Apostoli seduti «su dodici troni», in veste di consiglieri), ed è il fatto che, pur con tutta la superiorità della scuola della Linguadoca in questo campo, si siano importate una composizione e una fattura in tutto e per tutto mesopotamiche. Per quel che riguarda la composizione, viene in mente subito Carennac, osservando la doppia fila di Apostoli che circonda il Salvatore e le ridotte dimensioni degli animali evangelici, anche se qui la mandorla del Cristo è un po’ più larga. Abbiamo già detto che il timpano di Carennac imita un paliotto di altare, con i chiodi da orefice e la lavorazione che ricorda da vicino quella del metallo. Certo, non vediamo qui, altrettanto marcata, la posizione a gambe incrociate degli Apostoli: conformemente alla tendenza diffusa nel sud est della Francia, essi sono molto più statici e assisi con maestà. Tuttavia, un giuoco sottile di contrapposizioni ci riporta alla iconografia della Linguadoca. TI fatto che l’idea centrale sia il Giudizio è quanto mai significativo; san Pietro con la sua chiave gigantesca è alla destra del Cristo. Si scorgono inoltre, come a Compostella, come nelle lastre scolpite dell’ambulacro del coro di Tolosa, degli Apostoli che ne indicano altri col dito.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 48-51

Arco e arciere

Sezione: Lessico


L’ermetismo medievale ha attribuito un valore particolare all’arco, che ha delle singolari corrispondenze nel greco e nell’ebraico: in greco, infatti, i concetti di vita e di arco sono resi dalla stessa parola, bios, (fatto salvo un cambiamento di accento); a sua volta, la lettera ebraica caph, che ha la forma di una C, deriva il suo nome dalla parola che significa «impulso di vita». La freccia rappresenta il membro fecondatore e il raggio solare il rinnovamento, la fecondità. La stessa cosa succede, a un livello superiore, per il tema della lancia, che appartiene alle figure di Virtù in abiti e pose militari con cui si solevano illustrare la Psychomachia di Prudenzio o i combattimenti delle chansons de geste: la lancia è anch’essa un simbolo di vita, solare, ed è altresì lo strumento della giustizia divina.

Zona mesopotamica

I riferimenti riguardanti l’arco e l’arciere spiegano il carattere lussurioso che a questi si attribuisce. Nel sud ovest francese, a Tolosa, a Oloron, a León, l’uomo che tende l’arco è da interpretare in termini triviali (erezione del fallo): a Moissac, è vittima dei diavoli. Un arciere si trova anche sulla porta degli Orafi a Santiago de Compostella, sotto i piedi del personaggio che rappresenta la seconda tappa; gli fa da riscontro, sotto la Donna col leoncino, un personaggio a cavallo di un gallo, che ha grosso modo lo stesso significato. L’insieme di questo programma, essenzialmente centrato sulle tappe, insiste con tutta evidenza sul tema della fecondità: allusione all’adultera nella Donna col cranio, ciclo della Genesi tutto intorno simboli chiaramente erotici come il pesce, il cuore trafitto da una freccia, la sirena toccata dal centauro, ecc.

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Nella basilica di Saint-Sernin a Tolosa, l’arciere che sta tendendo il suo arco contro un uomo ignudo è l’unico soggetto iconico della navata, mentre è fatto posto ai temi cristologici nei bracci del transetto e l’immagine di Daniele fra i leoni, prefigurazione del Cristo, trova spazio nel coro.

Zona egiziana

A partire dal Roussillon fino alla Svizzera e alla Turenna, l’arciere è quasi sempre il centauro-sagittario, il cui significato complesso deve essere evocato nel suo rapporto col Cervo. Può addirittura capitare che l’arciere e la sua vittima si riferiscano direttamente ai testi biblici e che in siffatto contesto l’arciere rappresenti Dio stesso come nelle Lamentazioni di Geremia (III, 12-13):

Egli tese l’arco e mi prese di mira
quale bersaglio delle sue saette.
M’infisse le sue frecce nei reni,
gli strali pungenti della sua faretra.

O in Zaccaria (IX, 13-14):

Tenderò Giuda come mio arco
e prenderò Efraim come saetta…
Il Signore comparirà sopra di loro,
come folgore guizzeranno le sue saette.

Altre formule dello stesso genere nei Salmi VII, XIV, XVIII. E infine, nell’Apocalisse (VI, 2): «Ed ecco: apparve un cavallo bianco. E colui che ci stava sopra aveva un arco. Gli fu donata una corona e partì vincitore, per vincere ancora».

Un’omelia di Origene riprende il tema di Dio come arciere. A loro volta, le miniature del secolo XII trattano di frequente questo tema, in particolare un manoscritto italiano, nel quale Dio scaccia Adamo ed Eva a colpi di freccia, come l’Apollo dell’Iliade in collera coi Greci. Sui pennacchi dell’arco aperto nel muro occidentale del coro di Brinay, l’arciere, purtroppo assai mal ridotto, ha come compagno dall’altra parte un uomo nudo, disteso – la vittima da lui trafitta –, la cui anatomia, studiata con ricercatezza, sembra imitata dalla scultura antica. Tale scena, secondo Renè Crozet, illustra il testo di Geremia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 63-64

Bue

Sezione: Lessico


Si è veduta, nella giovenca rossa (Num., XIX, 1-15) o nel vitello grasso immolato dal Padre al ritorno del Figliuol prodigo, la prefigurazione del Cristo in croce trafitto dalla lancia del centurione (cfr. i copiosi commentari di Filone, di Rabano Mauro, di Bruno di Asti, di Gubernatis). Quest’ultimo ha visto inoltre nella giovenca rossa l’immagine dell’aurora, della vita, in contrapposizione alla giovenca nera che rappresenta la sera e la morte. L’assimilazione al sacrificio supremo del Signore è conforme a ciò che ci dice lo stesso Rabano Mauro circa il valore del vitello sacrificale, nel suo commentario alla Visione di Ezechiele che è all’origine del Tetramorfo.

Come si sa, nel cristianesimo antico, l’insegnamento relativo ai quattro Animali veniva impartito ai catecumeni durante la quarta settimana di quaresima. Quest’uso si è senza dubbio protratto fino all’epoca romanica, fino cioè alla scomparsa del battesimo per immersione. Si insegnava loro, in particolare, che il vitello era l’attributo di san Luca, perché il suo vangelo comincia col racconto del sacrificio di Zaccaria. In relazione alle tappe della vita del Cristo, il Vitello, vittima tradizionale ai tempi dell’Antica Legge, fa pensare al sacrificio della propria vita che il Redentore ha accettato di fare a beneficio di tutta l’umanità. A sua volta anche il cristiano, nel cammino della propria esistenza, deve essere immagine del vitello: vero cristiano è infatti colui che domina le voluttà del mondo e s’immola esso stesso.

L’idea di castità poteva accordarsi con l’usanza di castrare il bue, ma non con l’accezione corrente del toro stallone né coi valori di fecondità che in linea generale si attribuivano ai bovini. Ecco perché, pur lasciando al Bue il suo posto nel Tetramorfo – un posto inferiore, comunque, in basso e a destra, quale punto di arrivo della linea discendente –, gli si preferì l’Agnello, per evocare le virtù cristiane – perché l’agnello richiamava anche il concetto di sacrificio e al tempo stesso, grazie alla sua bianchezza, la purità verginale –, oppure il cervo, immagine del battezzato, collegantesi al rituale della caccia coi cani. Va ad ogni modo riconosciuto che il paragone del Cristo col toro fecondatore, principio di vita, fatto da taluni Padri, non poteva incontrare molto favore, non più, di certo, del tentativo fatto da ceni teologi di assimilare il Cristo a Giove che s’era tramutato in toro per rapire Europa: il Cristo-toro si era infatti fatto carico dei peccati del mondo nel suo sacrificio!

Vitello, giovenca e toro hanno dunque generalmente conservato nell’arte romanica il loro significato pagano, quello di un vizio: ingordigia e violenza, nel caso del toro infuriato. La Bibbia, d’altro canto, fornisce delle prefigurazioni: il vitello era presso i Moabiti l’immagine del dio Beelfegor e i Cananei ne avevano fatto un idolo; non solo, ma anche gli Ebrei, come si sa, durante il soggiorno di Mosè sul Sinai avevano fuso un vitello d’oro per adorarlo.

È proprio questo episodio che è stato illustrato in maniera superba a Vézelay, dove vediamo Mosè, appena ridisceso con le tavole della Legge, che si accinge a distruggere l’idolo a colpi di bastoni; un demonio tutto irto di peli – non mancano davvero i demoni a Vézelay – fugge via dalla bocca del vitello atterrito, mentre a destra un Ebreo si avvicina portando una capra per il sacrificio.

Gli antichi sacrifici del toro, che un uomo tiene per le corna, del vitello, dell’ariete e della capra compaiono sull’architrave del piccolo portale di Charlieu, in contrapposizione al miracolo delle Nozze di Cana, preannuncio della istituzione dell’eucaristia. Come si sa, l’Agnello è raffigurato in alto, entro la lunetta del portale maggiore. Secondo E. Mâle, ci troveremmo qui di fronte a una illustrazione del trattato di Pietro il Venerabile contro Pietro di Bruys: «Il bue, il vitello, l’ariete, la capra, irroravano del loro sangue gli altari degli Ebrei; solo l’Agnello di Dio che toglie i peccati del monto giace sull’altare dei Cristiani».

Troviamo un’ulteriore illustrazione del medesimo tema sul portale dell’Agnello a León: vi s’incontrano riuniti tutti gli animali sacrificali, mentre l’Agnello occupa la sommità del timpano: pecora e agnello a far da mensole, l’ariete del sacrificio di Abramo sull’architrave fra l’ebreo e il gentile vestiti da cavalieri, e infine i tori sotto i piedi dei due santi che impersonano la fede e la speranza: sant’Isidoro e san Vincenzo; questi ultimi inquadrano il timpano, entro i due pennacchi, alla maniera del san Pietro e del san Giacomo sulla porta Miégeville a Tolosa. Le figure di tori di cui sopra sono al tempo stesso l’immagine del paganesimo di un tempo, sconfitto proprio da questi santi: i tauroboli, eseguiti al servizio della Grande Dea, svolgevano infatti un ruolo di prim’ordine all’epoca gallo-romana, come dimostra in particolare il bassorilievo che si trovava una volta nella cattedrale della stessa Tolosa e che rappresentava il martirio di san Semino. Di questo bassorilievo non resta altro che l’aries-leo.

A giudizio del Thioller, il «cornute» (= toro infuriato) e la svastica del fregio esterno di Saint-Roman-le-Puy sono le prove della imitazione delle monete marsigliesi, raffiguranti questi stessi motivi, che son tornate alla luce in abbondanza nella medesima regione, soprattutto nell’oppidum di Essalois, presso Saint-Rambert (Loire). La maschera di bue non infrequente sui fregi di modiglione o sui capitelli, nel Velay, commista a delle rotelle o a delle S rovesciate, del tipo celtico, è un ricordo del paganesimo anteriore.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 76-77

Lottatori

Sezione: Lessico


Il gusto per la simmetria, o piuttosto per l’antitesi, è un aspetto che capita di osservare spesso nell’arte romanica; esso corrisponde a una caratteristica peculiare del simbolo, e cioè alla sua possibilità di significare una certa idea e al tempo stesso il suo contrario. Vai la pena perciò di chiedersi se si debba veramente stabilire una netta contrapposizione fra la lotta e l’abbraccio, almeno in un certo numero non insignificante di casi, e se non ci sia un partito preso nell’analogia degli atteggiamenti fra i personaggi che lottano e i personaggi che si abbracciano.

Prima di precisare il senso di questi temi ambigui, è opportuno prendere in esame il tema, apparentemente più semplice, dei lottatori propriamente detti. A tal proposito, è difficile distinguere fra zona mesopotamica e zona egiziana, giacché esso appartiene indifferentemente all’una e all’altra. È impresa ardua, perciò, cercare di mettere a punto una carta di ripartizione geografica. Tutto quello che si può dire è che il primo tema fa capo più sicuramente alla tendenza mesopotamica, imperniata sull’idea del Giudizio, e il secondo alla tendenza egiziana, ossessionata dall’idea della salvezza. Possiamo tutt’al più precisare che i semplici lottatori, così come il deciso contrasto fra personaggi in lotta e personaggi abbracciati che si vede ad Aulnay, sono stati attinti alla prima fonte, mentre un terzo genere, diverso dai due precedenti, che si è affermato in special modo nei disegni di Villard de Honnecourt e ad Anzy-le-Duc, obbedisce alla tendenza egiziana.

Come molti temi apocalittici, il sistema di equivalenze fra uomini che lottano e uomini che si abbracciano non è che una manifestazione, o una variante, del tracciato a X dell’incrocio. Quest’ultimo intende sottolineare l’ordine ben regolato dell’universo; dal canto loro, l’amore e l’odio sono evidentemente i più imperiosi fra gli stimoli che ci spingono ad agire. Vengono automaticamente alla memoria le parole di Rodolfo il Glabro: «Questi incontestabili rapporti fra le cose ci parlano di Dio in maniera ad un tempo silenziosa, bella ed evidente. Giacché, mentre con un movimento incessante ogni cosa presenta l’altra in se stessa, esse, proclamando il principio primo da cui tutte procedono, chiedono in realtà soltanto di riacquistare di nuovo la loro quiete».

a) Lottatori. Tendenza mesopotamica

Esaminiamo prima di tutto il tema dei lottatori isolati. Si tratta, nelle linee generali, di una variante del tema degli acrobati. In effetti loro compito era stato da sempre quello di divertire la gente. Se ne vedono già negli affreschi delle mastabe egiziane. Tutti conoscono la voga delle loro esibizioni nell’antica Roma, nel jiu-jitsu giapponese e nel catch moderno. I lottatori che si afferrano curiosamente per la barba a Saint-Hilaire di Poitiers, sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande, ad Anzy-le-Duc, a Saiut-Benoît-sur-Loire, oppure per i capelli, su un rilievo esterno di La Celle-Bruère, nel Berry, firmato Frotoardus, e sulla tavola di Villard de Honnecourt, sono evidentemente legati da rapporti fra loro

: sui primi tre e su quest’ultimo, le braccia dei due avversari sembrano intersecarsi fra loro e incapestrarsi, così da formare appunto un incrocio. I sistemi piliferi, barba e capelli, sono sviluppati al massimo, in segno di virilità. Altri invece sono piuttosto calvi: li vediamo su un capitello proveniente da Saint-Hilaire, custodito presso il Musée des Antiquaires de l’Ouest, e anche su una miniatura dell’Apocalisse di Saint-Sever, che a parere di È. Mâle ne sarebbe stata l’ispiratrice, però la calvizie è anche indice di una vita ben vissuta. Eccezion fatta per i lottatori di V. de Honnecourt, che sono palesemente schematizzati e la cui lotta è trasformata in una sorta di balletto, hanno tutti un aspetto massiccio da professionisti, da autentici campioni di judo; a Poitiers, inquadrati da figure di donne, sono due volte più grandi di queste (o quasi). Altra caratteristica comune: la cornice rettilinea, quadrata, nella quale essi sono iscritti sia su un secondo rilievo di La Celle-Bruére, sia nella tavola di Honnecourt, sia sulla facciata principale di Anzy, e che però diventa rettangolare nel già citato rilievo di Frotoardus e nell’Apocalisse di Saint-Sever. Alla cornice quadrata degli uomini che lottano, si contrappone, poi nella stessa tavola di Honnecourt, il semicerchio di quella che avvolge i due personaggi abbracciati. I loro lineamenti, infine, tipici degli Orientali, e i loro abiti alquanto singolari, a pieghe multiple concentriche, fanno suppone che s’abbia a che fare coi membri di una corporazione a sé stante, ritratti più o meno dal vero.

Che cosa dobbiamo pensarne? Le poche indicazioni che abbiamo fornito provano già che queste immagini non si propongono semplicemente di presentare una categoria di intrattenitori pubblici, ma che in esse è insito un significato più colto, più raffinato. Un testo relativo al capitello proveniente da Saint-Hilaire contribuisce a chiarire il perché delle loro fronti pelate, e altrettanto significativo è nell’Apocalisse di Saint-Sever il personaggio della donna raffigurata accanto a essi che sembra farsi beffe della loro lotta: «Essendo attristate le loro fronti, è giocoforza che si afferrino per la barba»; così si legge. Associati come sono alla cornice quadrata che rappresenta la terra, è evidente che si tratta di violenti trascinati dai loro istinti, e come tali decisi a servirsi di qualunque mezzo per riuscire a superarsi. Ma quello che a noi pare soprattutto chiarire il loro significato è il tozzo hom, o albero a Y, che li separa sul capitello di Saint-Hilaire. Non siamo di fronte a un soggetto faceto messo lì solo per concedere una pausa di distensione a chi legge l’Apocalisse, bensì di un simbolo tipologico del giudizio, di un duello giudiziario in piena regola che farà pendere la bilancia a favore dell’uno o dell’altro, secondo il parere e il volere di Dio. Anche il giuoco dei dadi era chiamato «giuoco di Dio» nel medioevo; come si sa, le vesti del Figlio di Dio erano state giocate ai dadi dai soldati romani – e la scena sarebbe riapparsa di frequente nelle Crocefissioni dei secoli XIV e XV. Alcuni di questi energumeni impugnano coltellacci assai simili a quello dell’Ezechiele di Royat (Puy-de-Dôme) e quindi bisogna ammettere una certa vicinanza fra quelli e questo; barbuto anche lui, intento a fare tre mucchi coi peli della propria barba, Ezechiele è in questo caso la prefigurazione tipologica del giudizio e dei flagelli che, a detta dei passi apocalittici dei libri veterotestamentari, si abbatteranno sul mondo alla vigilia della sua fine. Ma non basta. Un’analoga vicinanza va vista anche con le figurazioni di galli in combattimento, tema di origine gallo-romana, che s’incontra, imitato chiaramente da un bassorilievo antico, sia a Beaune che ad Autun, associato in quest’ultimo esempio al motivo del fregio a zig-zag sull’abaco del capitello e alla contrapposizione fra un povero infelice che si stringe la testa fra le mani in atto di smarrimento e di sconforto e un uomo trionfante che non si sa se stia esultando o ingraziando il cielo: evocazione evidente della contrapposizione fra il dannato e l’eletto.

Questa idea del giudizio alla maniera dei riti dell’Antichità è avvalorata dalla interpretazione che deve essere data al secondo dei due bassorilievi di La Celle-Bruère prima citati.

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Due fanciulli dai lineamenti di futuri giganti che indossano gonnelle a pieghe percorse da ricami a zig-zag sembra stiano accapigliandosi fra di loro. Uno dei due, a testa alta, ha afferrato l’altro per la chioma e gli sta piegando il capo in avanti. Questi, a sua volta, inarca le spalle per il dolore e sta tentando, a quanto pare, di respingere l’avversario. Attorno a essi si distinguono svariati motivi; in particolare, delle nuvole in alto a sinistra, un animale fra le gambe del combattente di destra e un oggetto bizzarro, a forma di padellino, sotto i piedi di quello soccombente, dirimpetto al primo. Pur senza averne la rigorosa simmetria, il rilievo in questione contiene in germe il tema romanico dei lottatori: il fanciullo di destra che tiene l’altro pei capelli non è molto lontano dai vecchi che si stanno strappando le barbe a Poitiers o ad Anzy-le-Duc. Dovrebbe trattarsi di un episodio della fondazione di Roma: la lotta fra Romolo e Remo; il bizzarro strumento che sta per terra non è altro che la verga degli àuguri, mentre l’animale è evidentemente la vittima di un sacrificio. Ci si sarebbe ispirati, in proposito, a uno scritto del canonico Flodoardo di Reims (896-966). Ma la cosa che più colpisce è il constatare come tu un tema del genere non sia stato dimenticato il significato profondo degli antichi costumi; d’altronde, Io stesso Clodoveo non aveva forse compiuto un vero e proprio rito di aruspicina, quando aveva eseguito un sacrificio espressamente per poter leggere l’avvenire nelle viscere dell’animale sacrificato? I sacrifici antichi sono rappresentati con fedeltà sconcertante a Charlieu.

Anche ammettendo che i lottatori che si afferrano per la barba siano un’immagine del giudizio di Dio, una interpretazione del genere non esclude il significato indicato prima che ne fa piuttosto dei lussuriosi. Nel caso citato del capitello di Saint-Hilaire di Poitiers, l’analogia della composizione con quelle degli uomini col leone salta palesemente agli occhi il comportamento delle donne che sembrano trattenerli, oppure spingerli – le mani sembrano infatti volte in due direzioni diverse –, rafforza questa convinzione. Com’è noto, gli uomini col leone sono l’immagine dell’incarnazione sul piano umano, e il leone come tale una immagine della carne. Esso è la bestia più degna di rappresentare il corpo umano, perché è il re degli animali, come l’uomo è il re della creazione. Cavalcare il leone è un po’ come sposare la donna. Le donne sono qui, al pari dei leoni, complementari all’uomo e in pari tempo evocano le figurazioni dei geni, nudi o vestiti, simboleggianti il male o il bene, che talvolta spingono, tal’altra trattengono l’uomo che s’è messo a cavalcare le fiere. Va fatto comunque osservare che altri testi biblici possono giustificare o spiegare, in certa misura, le scene di lotta. Benché paia essere loro connesso un senso negativo, nell’ottica del Giudizio, le figure di lottatori si ispirano senza dubbio anche alle parole del Vangelo relative ai violenti che riescono a ottenere il regno di Dio.

b) Uomini in lotta e uomini abbracciati

Ai lottatori isolati, puramente apocalittici, tipici del sud ovest della Francia, si contrappongono i lottatori integrati a dei programmi più vasti.

Sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande, il leone rampante nell’ultimo pennacchio a destra, che tiene fra le zampe anteriori un albero a Y ricurvo, come se lo spingesse innanzi a sé o lo portasse in trionfo, ha alle spalle una coppia di figure umane abbracciate, di significato ambivalente in un programma d’insieme uniformemente incentrato sulla Madonna. Vi si scorgono infatti i misteri della Profezia e dell’Incarnazione, la Parola dei Profeti con Jesse e la Vergine che riscatta la colpa di Eva, così come il Cristo riscatta quella di Adamo – e il complesso si legge da sinistra a destra. L’abbraccio ha quindi un significato apocalittico perché, collocato in quel punto, precede direttamente gli Apostoli e i Santi sotto gli archi inquadrati dalla vigna eucaristica, del paramento scultoreo mediano, e il Cristo col Tetramorfo, inquadrato a sua volta dal sole e dalla luna, nella mandorla del paramento superiore del frontone, dove compaiono anche dei rivestimenti simbolici: dapprima il cerchio e poi l’incrocio.

Un particolare è bene notare a questo riguardo: il programma iconografico della facciata in questione, con il Cristo circondato dal Tetramorfo solare, tema associato a quello degli Apostoli e della Vergine immagine della Chiesa, si presenta in maniera esatta e inequivocabile come un gigantesco tema doppio, non dissimile dal tema copto di Bourg-Argental e di Cluny. Nondimeno, pur costituendo un preludio, una transizione ai temi apocalittici, non si può dire, contrariamente al precedente tema di Anzy, che i due personaggi allacciati o in lotta (?) siano volti verso l’alto. Qui non solamente le braccia sono incrociate, ma lo sono anche le gambe, per una ragione di contrasto espressamente voluta, che richiama alla mente i racemi delle Porte del Cielo e le complesse posture delle allegorie dell’aries-leo: la gamba destra del personaggio di destra si trova infatti sulla gamba sinistra dell’altro, mentre il braccio destro di questo è sovrapposto al braccio sinistro del primo. Inoltre uno di essi ha la testa in posizione di «contrasto», palesemente girata verso sinistra, così come tutta a sinistra è drizzata la coda del vicino leone, simbolo di resurrezione. L’importanza attribuita all’incrocio su questa facciata di Poitiers è fuori discussione. Di fatto, sul lato destro – lo stesso in cui si trovano il leone e i lottatori appena visti –, si scorge un motivo incrociato, chiara allusione al Cristo e alla sua nascita carnale, che sovrasta la scena della Natività, e parimenti formata da due triangoli uniti pei vertici è la vasca a calice in cui il Bambino viene lavato. Sul lato opposto, invece, non si rilevano che motivi a forma di W o di omega – Nabucodonosor in preghiera, i rami che spuntano dalla testa di Jesse, il doppio corpo di pesce della sirena –, oppure motivi a spirali che sbucano fuori da maschere. Tutti questi elementi dimostrano che il tema, come la maggior parte dei soggetti di questo apparato scultoreo, contiene in sé un insegnamento tipologico: esso rappresenta, come vedremo fra poco, una figurazione, desunta dall’Antico Testamento, dell’abbraccio finale che avrà luogo quando «i tempi saranno compiuti».

Non per nulla questi falsi lottatori sono stati collocati al di sotto della scena della Natività. Posti così, a un livello inferiore, essi ci illustrano l’azione della grazia che si esercita nell’Incarnazione, mercé la quale è stato ripristinato, in senso buono, il «mondo della dissomiglianza».

Mme Labande-Mailfert ha visto bene quando ha affermato che non si tratta di lottatori, come si era sempre ripetuto, ma di una coppia in atto di abbracciarsi, e basta. Sono, del resto, gli stessi testi biblici che intervengono ad avallare l’ipotesi. Ci troveremmo, cioè, di fronte all’abbraccio dei figli di Giacobbe, Giuseppe e Beniamino (Gen., VL, 14). E non è da escludere che sia da scorgervi anche un profondo pensiero tipologico, con questo Giuseppe dell’Antica Legge rappresentato giusto ai piedi del padre putativo del Fanciullo Dio che porta lo stesso nome. Anche nel Salmo 85 (versetti 11 e 12) si parla di un abbraccio simbolico:

«La bontà e la fedeltà si rincontrano,

la giustizia e la pace si abbracciano;

la fedeltà germina dalla tetra

e la giustizia contempla dall’alto dei cieli».

Anzi, proprio questi versi, associati a un abbraccio simile fra due figure femminili, si trovano scritti su un indumento liturgico forse del secolo XI. La stessa Mme Labande-Mailfert pensa inoltre al passo di Geremia relativo alla venuta al mondo della Sapienza («così ella apparve sopra la terra e abitò in mezzo agli uomini», Bar., III, 38), che si trovava scritto, non certo a caso, sul filatterio da lui tenuto in mano nel rilievo che lo rappresenta sulla stessa facciata, sopra l’estradosso del falso portale di sinistra (purtroppo ormai cancellato), e nel quale si legge sul finire questa esortazione: «Ritorna a lei, Giacobbe, e abbracciala, cammina nello splendore della sua luce» (Bar., IV, 2). Dal canto suo, Riccardo da San Vittore, commentando l’abbraccio fra Giuseppe e Beniamino, dice testualmente: «In questo abbraccio la ragione umana plaude alla Rivelazione divina».

Lotta e abbraccio, fra loro nettamente separati, compaiono ad Anzy-le-Duc su un capitello dell’arco trionfale che precede la crociera, associati al tema, apocalittico a suo modo, dei fiumi del Paradiso e alla Vergine Regina col Bambino, nella chiave di volta, difesa dai leoni, come sulla tavola di destra del Libro di architettura (parte Geometria) di Villard de Honnecourt. Due monaci tonsurati che si abbracciano precedono i due lottatori che si afferrano reciprocamente per la barba – motivo classico, come sappiamo –, inquadrati da maschere di fiumi, barbute anch’esse a cui spunta fuori dalla bocca una lingua smisurata: lingua e barba ondulata simboleggiano l’acqua. Infine, girato verso l’alto, un minuscolo personaggio, un nano si direbbe, con la testa enorme, come e cosa comune in questi poveretti, alza gli occhi al cielo, in direzione della Madonna; come uno storpio, o come l’orante di Rozier, ha le gambe ridotte a dei moncherini. Un sistema, questo, per far notare che non tocca terra. Si tratta pertanto della personificazione di un amore che non avrà limiti, legata all’idea della Città celeste, che vedrà risplendere la carità che mai non muore, e all’idea del Sole di giustizia, che brillerà eternamente.

Per spiegare il significato di questi monaci abbracciati e di questi lottatori di Anzy-le-Duc un’altra cosa da fare è avvicinarli a quanto dice Rodolfo il Glabro all’inizio delle sue Storie a proposito dei fiumi assimilati alle quattro virtù cardinali. Come già si è detto, infatti, fra le due coppie di personaggi sono intercalate delle maschere di fiumi. Il terzo fiume, dice il monaco cluniacense, è il Tigri, «lungo le cui rive abitano gli Assiri, il nome dei quali significa ‘coloro che comandano’» e che «simboleggia la Forza»: l’accostamento ai lottatori è quasi automatico. Il quarto, «l’Eufrate, ovverosia l’‘abbondanza’, designa evidentemente la Giustizia che nutre e conforta tutte le anime che la desiderano ardentemente» – e sembra chiaro che l’accostamento vada fatto qui con l’abbraccio. Se si accetta questa interpretazione, i due fiumi rappresentati con i lineamenti dell’Acquario che si vedono su uno dei capitelli meridionali, dovrebbero essere la Temperanza e la Prudenza (?).

Il parallelo delle due scene con immagini acquatiche, e in particolare con le maschere fluviali vomitanti onde vorticose, può suggerire altresì alcune osservazioni fatte già dalle genti medievali, intorno ai misteri della natura e ai fenomeni che le avevano più profondamente impressionate. Sulle orme di Macrobio, diversi scrittori, fra cui Paolo Diacono (720-799?), Adelardo di Bath, Guglielmo di Conches, ecc. avevano forgiato delle ipotesi sul fenomeno delle maree, arrivando a supporre che in fondo all’oceano esistesse un gorgo, o più di uno magari, dal quale aveva origine questo movimento alternativo della superficie marina. Alcuni, come lo stesso Paolo Diacono, pensarono al Maëlstrom, in Norvegia, o più correntemente alla luna. Ci si poteva chiedere perciò se le azioni contrastanti degli uomini non fossero da avvicinare ai contrastanti saliscendi di questa corrente naturale. La cosa non ha nulla d’inverosimile, giacché questo poteva anche essere uno dei molteplici significati della X o comunque dell’incrocio. Tenendo presente una più ampia conoscenza dell’universo, si può benissimo immaginare che ci si sia limitati a confinare i fiumi del Paradiso nel Medio Oriente, secondo la tradizione biblica.

A Saint-Benoît-sur-Loire, nel portico dove il programma apocalittico era contemporaneamente sviluppato sui capitelli e sugli affreschi che lo rivestivano in origine, la rappresentazione dell’abbraccio appare nella «rosetta» di uno di questi capitelli, nel quale un ipotetico Daniele si presenta circondato da quattro leoni, uno dietro all’altro, in gruppi di due, e da quattro atlanti con addosso bande incrociate, o pallium, immagine dell’intercessione della Chiesa (quattro = terra) Tutti sono girati verso l’alto; il braccio di quello di sinistra disegna un motivo a V, e la sua faccia, più marcatamente rivolta verso l’alto, sembra angosciata; il personaggio di destra, più tranquillo, ha invece l’aria di volersi svincolare. Dobbiamo interpretare la scena nel suo insieme come illustrazione della promessa del Cielo e della sua Vittoria: la V nitidamente visibile è infatti l’iniziale di questa parola.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 190-194

Nastri: ellisse o mandorla

Sezione: Lessico


I nastri incrociati, tipo quelli di Ainay, possono in determinate circostanze assumere un aspetto più ricercato, quello dell’ellisse o della mandorla. Comune alle due zone, ma più sviluppato nella zona egiziana, il motivo ci offre la prova evidente del genio creativo romanico e al tempo stesso dello spirito di rinascita che lo anima. Se mai qualcuno dubitasse di questa sete di sapere, gli sarebbe sufficiente leggere gli scritti di Bernardo Silvestre, il quale, descrivendo l’opera dei sei giorni sulla falsariga di sant’Agostino, attribuisce una parte quasi esagerata all’intelligenza creatrice, alla ragione, fino addirittura a minimizzare le conseguenze del peccato originale.

Sugli stipiti del portale ovest di Andlau, in Alsazia, insieme con la scena della Traditio legis-Donatio clavis nella lunetta e con le immagini della Genesi sull’architrave, compaiono due festoni frondosi che avviluppandosi fra loro disegnano una serie di sette riquadri sovrapposti, uno per lato, a forma di ellisse (o di mandorla), dentro i quali sono inseriti altrettanti animali; entrambi terminano in alto con un motivo vegetale, però diverso l’uno dall’altro. Alla base, due atlanti con le braccia levate, simboleggianti l’attesa del Giudizio, tengono le estremità inferiori dei due nastri come se reggessero i cordoni di un drappo mortuario durante un seppellimento. Al pari dei fregi verticali di Ainay, se alla sfilata dei sette animali su ciascuno stipite si aggiungono le tre scene della Genesi – Creazione di Eva, Tentazione del serpente e Cacciata dall’Eden – effigiate sull’architrave, ci accorgiamo di essere davanti a dieci distinti livelli di figure (il Dieci, notoriamente, è il numero della totalità), mentre l’Agnello ad Ainay e il Cristo nella stessa Andlau stanno al di sopra di tutto. Ciascun fregio comprende, alternativamente, figure di mammiferi e di uccelli, di significato opposto, che richiamano alla mente i sette giorni della creazione, l’ordine celeste obbediente ai voleri di Dio. Questi festoni si possono paragonare a quelli a doppio intreccio delle contemporanee stele di Bonampak (Messico), i quali disegnano anch’essi delle ellissi successive evocanti periodi di cinque, dieci o venti anni. Il modo, poi, in cui i due atlanti tengono i festoni non è identico: quello di destra li annoda con un doppio avvolgimento – e questo vuol dire che esso sta annullando le reiterazioni (o ricorrenze, ritorni, cicli che dir si voglia); infatti si trova dal lato del bene, dell’accesso al Paradiso, della pianta a forma di cuore e dell’albero di Vita –, mentre dall’altra parte, quella cioè della Cacciata dal Paradiso e della colpa, i nastri appaiono attorti normalmente – ed è questo infatti il lato del male e dei ritorni. Grazie a siffatta analisi, non è difficile riconoscere in questa composizione una variante del cosiddetto Due in Uno ovverosia dei nastri che si separano allontanandosi l’un dall’altro, laddove il loro riavvicinamento corrisponderà alla fine dei tempi, all’Agnello (ad Ainay) e al Cristo Giudice fra san Pietro e san Paolo (ad Andlau).

Il numero dieci ricompare ad Andlau nelle dieci coppie di figure umane, incorniciate da altrettanti archi e sorrette anch’esse da due atlanti che le presentano a Dio, disposte, cinque per parte, sui due pilastri che completano la fronte del portale, affiancandosi rispettivamente alla destra e alla sinistra degli stipiti veri e propri appena illustrati.

Il timpano di Rheinau è una specie di replica del portale di Basilea o dell’abside di Ainay. Troviamo qui dieci avvolgimenti, ma più vegetali che nastriformi; anch’essi assumono la forma della mandorla e racchiudono, quelli del primo ripiano, due coppie di dragoni addossati l’un l’altro, quelli del secondo ripiano i cervi, simboli del battesimo e vittime del lupo; sul terzo ripiano compare invece la lepre, ossia il vizio, con gli eletti rappresentati dagli uccelli che si fronteggiano, divisi da un grappolo d’uva: questi ultimi a loro volta fanno ala su un lato all’Agnello, isolato dentro un cerchio, mentre dall’altro si trova la lepre. Le dieci rappresentazioni di animali in coppia o isolati formanti figure diverse riassumono in ogni caso la totalità del creato destinata ad affrontare il giudizio finale, con il bene da una parte e il male dall’altra; la composizione nel suo insieme si rifà all’idea di apocatastasi sostenuta da Origene, il quale, come si sa, non escludeva dal verdetto finale di Dio gli ordini diversi da quello umano. Sia come sia, appare chiaro che si fa ricorso ad animali e mostri incorniciati da nastri proprio per dare espressione al pensiero del Giudizio.

Nella Gallus-Pforte di Basilea, è la vite a disegnare sui piedritti, ancora più chiaramente di quanto non facciano i festoni vegetali di Andlau, dei meandri che ricordano sempre la linea dell’ellisse o della mandorla; il numero sei era espresso attraverso le opere di misericordia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 205-206

Maschera della Terra

Sezione: Lessico


Zona mesopotamica

Non esiste probabilmente nell’arte romanica maschera più singolare di questa: il suo aspetto suggerisce i più strani raffronti con tutte le regioni della terra. Né di certo esiste altro elemento scultoreo che più di questo dia adito a riflessioni e sollevi problemi filosofici. Le sue accezioni tuttavia, così come la sua genesi, sembrano chiare. In ogni caso, esso dimostra quale fosse il potere di immaginazione e quale il genio creatore dei maestri romanici. Decisamente fondamentale è, a questo proposito, studiarne attentamente la collocazione negli edifici. Il de Chasseloup-Laubat, che l’ha analizzata per la Saintonge, ha dimostrato che salvo un’unica eccezione, situata per altro a Petit-Palais, nel dipartimento della Gironde, queste maschere che egli chiama «grand’goules» rifacendosi al folklore locale, sono collocate tutte quante a nord, quando si trovano all’interno della chiesa (che è poi, in effetti, il caso più frequente). A volte decorano il calato di un capitello, come se volessero «ingoiare» la colonna sottostante, ed è questo in particolare il caso di Échillais, dove la maschera ha molta somiglianza con i T’ao t’ie cinesi, specialmente con quelli dell’epoca Han: stessi occhi sporgenti, stesse orecchie a punta di lancia, stesso labbro cascante, inciso da quattro crepe, e soprattutto, particolare importante, stessa mancanza di mascella.

È stato senza dubbio un passo della Bibbia a ispirare gli artisti; ci riferiamo alla descrizione del leviatano, o coccodrillo mostruoso, contenuta nel libro di Giobbe (XL, 25-32 e XLI, 1-26): «Puoi tu prendere con l’amo il coccodrillo e con funi legarne la lingua? Metterai forse un giunco nelle sue narici e con un uncino bucherai la sua mascella?… Le porte della sua bocca chi mai le aperse? Nelle sue zanne abita il terrore. Il suo dorso è di lamine di scudi, saldate con forte sigillo… I suoi starnuti fanno risplendere la luce. Gli occhi suoi sono come le ciglia dell’aurora. Dalla sua bocca escono faci, schizzano fuori scintille di fuoco. Dalle sue nari viene fuori fumo, come da caldaia che bolle sul fuoco; il suo respiro accenderebbe carboni e una fiamma gli esce dalla bocca… ecc.». Sono le stesse parole alle quali si rifà É. Mâle a proposito del «drago d’inferno», ma, come al solito, egli affronta il tema solo nell’arte gotica, dove esso corrisponde alla «bocca d’inferno». La maschera va accostata alla Grande Goule che veniva portata in processione a Poitiers, alla Tarasque di Tarascona, vinta da santa Marta, al Graouilly di Metz, alla Garguille di Rouen, alla Lézarde di Provins, ecc.: il miglior mezzo per ricondurla alla ragione consiste nell’aspergerla di acqua benedetta e nell’avvolgerle una stola intorno al collo, dopo di che la si può tenere al guinzaglio come un cane. Essa è al tempo stesso, nella Bibbia, il mostro sconfitto da san Michele e dalle sue legioni di angeli, lo stesso mostro che minaccia la Donna in procinto di partorire; è il dragone, o il basilisco, schiacciato dal piedi della Vergine o del Cristo (il Beau Dieu di Amiens). Come si sa, nelle rappresentazioni dei «misteri» alla fine del medioevo, si vedeva questo stesso mostro raffigurato come una smisurata bocca, accompagnata da una caldaia, con la quale venivano richiamate alla mente le fiamme che essa doveva vomitare. Ed era dentro questa bocca che venivano scaraventati i dannati, costretti a passare fra i denti acuminati della maschera mostruosa.

L’amo del libro di Giobbe (XL, 25) ha avuto anch’esso grande fortuna: una miniatura dell’Hortus deliciarum di Herrade di Landsberg rappresentava il Cristo che prendeva all’amo il famoso mostro, con l’aiuto di una fila di Profeti, effigiati entro una serie di medaglioni. L’illustrazione non faceva che tradurre in immagini l’interpretazione data da san Gregorio Magno al versetto corrispondente: colui che doveva prendere all’amo il Leviatano era il Cristo, grazie alla sua vittoria su Satana. I più famosi esegeti del libro di Giobbe, Odone di Cluny e Bruno di Asti, trasmisero questa dottrina a Onorio di Autun, il quale a sua volta la sviluppò ulteriormente e l’approfondì scrivendo: «Leviatano, il mostro che naviga per il mare del mondo, è Satana. Dio ha lanciato la sua lenza in questo mare. Il filo di questa lenza è la generazione umana del Cristo; il ferro dell’amo è la divinità del Cristo; l’esca è la sua umanità. Attirato dall’odore della carne, Leviatano vuole acchiapparla, ma l’amo gli lacera la mascella».

Nonostante ciò, le maschere della terra romaniche oltrepassano, e di molto, questo significato ristretto. In linea generale, esse sono assai più numerose nel sud ovest della Francia, dove il tema del Giudizio è, come si sa, appena abbozzato. Naturalmente, in certi casi, come nelle grand’goules di Aulnay, situate a sinistra della facciata e quindi al nord, è proprio questo mostro dalla gran bocca spalancata che si è voluto raffigurare, per ben due volte. Dal canto loro, le sculture che rivestono gli archivolti dei portali, secondo la moda tipica della Saintonge, presentano, nel primo di questi, un programma di significato apocalittico, con l’Agnello circondato dagli angeli; nel secondo, le Virtù – Pazienza, Castità, Umiltà, Generosità, Fede, Concordia – che permettono di accedere alla salvezza; nel terzo si fa allusione al Giudizio, con le Vergini sagge e le Vergini folli e il Cristo accanto alla porta chiusa (cfr. Mt., XXV, 10); nel quarto, infine, i Lavori dei mesi e i segni dello zodiaco. Si tratta di un ordine perfettamente logico: infatti, «non sapendo né il giorno nè l’ora» (Mt., XXV, 13), noi dobbiamo portare pazientemente a termine la nostra opera nel mondo; le maschere, figurazioni dell’Inferno, minacciano coloro che rimangono inattivi, ed è per questo che si è dato loro un aspetto terrificante: una di esse sembra ricalcata pari pari sulla maschera della Gorgone greca o di Medusa, quale poteva essere vista sulle anse del famoso vaso di Vix: si direbbe che essa sia come vomitata e suscitata da due orrendi mostri a coda fronzuta. L’altra ha la bocca aperta ancora di più e somiglia piuttosto al ben noto T’ao t’ie di cui si è già parlato.

Queste maschere sono collocate all’esterno della chiesa per difenderne ed esorcizzarne l’ingresso. Hanno perciò un valore profilattico o scaramantico; il battesimo stesso non veniva forse impartito sotto l’arco dell’entrata occidentale? Bene: questa collocazione del rito rispondeva esattamente al medesimo spirito; col battesimo, infatti, si libera il nuovo cristiano dal giogo del demonio e lo si difende contro le sue seduzioni. Ma vi sono altre maschere sui capitelli all’interno della chiesa, con significati diversi, nelle quali è meno marcata la somiglianza col modello cinese. Due di esse si trovano sul lato sud; per comprenderne il probabile significato bisogna analizzarle con la massima diligenza e considerarle nel contesto dei restanti capitelli che a quelli si affiancano.

Quattro maschere decorano dunque alcuni capitelli della navata centrale: il n° 14 sul terzo pilastro sud, il n° 19 del quinto pilastro sud, e soprattutto quello a nord ovest del quadrato della crociera. Qui le maschere espongono, con le loro varianti, con i motivi che le accompagnano sugli abachi, con la loro collocazione stessa nell’edificio, un pensiero diverso e più ricco. Senza dubbio si tratta sempre della maschera mostruosa che ci ingoia, alla quale fanno riscontro sul lato nord: l’acrobata avvoltolato su se stesso con la testa fra le gambe, che richiama alla mente quello di Anzy evocante la morte; una variante dell’androfago; degli uccelli a testa indietro che stanno divorando un essere deforme, del quale si vede soltanto la parte posteriore; e infine il tema degli uccelli con la barca, frequente in questa chiesa, tema che ha sempre, di certo, un senso funerario, in quanto la barca della vita contiene un’allusione ben chiara, in una regione marittima come la Saintonge, ai pericoli che minacciano l’uomo. Se è vero che le quattro arcate dei portali esterni ci mettono di fronte alle realtà terrestri e quotidiane, altrettanto vero è che queste quattro maschere (comprendendo nel numero la maschera esterna) contengono un riferimento ai quattro elementi della materia e che ognuna di esse richiama a suo modo le forze della natura. La prima, all’esterno, col suo aspetto massiccio e le sue fauci spalancate, rappresenta il regno sotterraneo, la terra. Quella collocata allo stesso livello dell’acrobata, di forma circolare, con due orecchie appuntite che evocano le fasi della luna, col suo naso appuntito, triangolare, con le dodici ondulazioni dei capelli che le fanno corona (il dodici è il numero delle relazioni col mondo), è ad un tempo lunare e terrestre: essa corrisponde all’elemento acqua.

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È il simbolo della passività e della femminilità. Particolare importante, inoltre: i suoi occhi sporgenti sono ciechi; le pupille non sono indicate in alcun modo. La si vede, come tutte le cose di questo mondo, sottoposta alla dualità, alla divisione, giacché sull’abaco due dischi emisferici simboleggiano la terra e il cielo: l’acqua, nella cosmologia del medioevo, era contemporaneamente sospesa nell’aria, al di sopra del cielo, e sotto terra. Corrispondendo infine all’acrobata, che esalta con la sua posa la potenza del corpo, è quindi l’immagine della carne che con essa viene condannata, della carne che non si sente responsabile e che aspetta la propria sorte tremando di paura. Corrisponde cioè alla giovinezza che non sa prendere decisioni.

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Per contro la terza maschera, molto diversa, di lineamenti maschili, abbondantemente baffuta e barbuta, molto più regolare, con le orecchie da gatto meglio formate, è sormontata, sull’abaco, dallo stesso motivo che adorna, all’esterno della chiesa, l’intradosso dell’arco con la parabola della Vergini folli e delle Vergini sagge: foglie di lauro, decorate con una rosa al centro dell’ovale (motivo preso in prestito dal mondo antico), alternativamente girate verso destra e verso sinistra, in modo da formare un fregio a zig-zag; le sta accanto un groviglio di serpenti e di fiordalisi, simbolo maschile; e si trova, per di più, non lontana dalle figure di Adamo ed Eva. In contrapposizione alla giovinezza indecisa, questa maschera corrisponde alla virilità, allo spirito forte e volitivo. Qui le pupille sono segnate e le si vede distintamente. E posta inoltre in presenza dell’alternativa del giudizio, della Y, indicata dalle foglie, ed è con questo che si spiega la sua aria angosciata. La virilità infatti, con la possibilità di scelta che ci pone davanti, ci conferisce la piena responsabilità delle nostre azioni, le stesse che faranno poi pendere i piatti della bilancia o da una parte o dall’altra. Tale maschera corrisponde perciò alla terza arcata esterna, quella in cui è evocato il Giudizio finale. Il tema simboleggia l’ordine intermedio e il cielo visibile, l’elemento aria. Infine la quarta maschera, solare, dai capelli fiammeggianti, con la barba a sei ciocche (Sei = potenza), con gli occhi bene aperti ma di grandezza normale, si trova nei pressi dell’abside, accanto al Sansone vittorioso sul leone, eroe anch’egli di natura solare. Essa corrisponde all’elemento fuoco, all’ordine della carità, della salvezza, alla senilità, all’etere invisibile, alla vittoria del cervello, dell’intelletto. Delle quattro, è questa indubbiamente la testa più armoniosa e, possiamo dire, divina. Sullo stesso lato nord, la lotta di san Giorgio col drago è sovrastata da un abaco con una sola fila di semicerchi, ma si tratta dell’ordine superiore, celeste. Questa maschera corrisponde essa pure all’arcata del primo portale, quello dell’Agnello.

L’analisi serrata della disposizione consente di cogliere quello che può essere, più o meno, il senso di queste maschere. Esse evocano la trasformazione dell’essere divino sotto forme diverse, in relazione con gli elementi del creato, con la natura molteplice e una al tempo stesso. Aulnay è importante perché è in questa regione che si giunge alla creazione di una maschera identica al T’ao t’ie cinese. E impossibile, del resto, non accostare queste quattro maschere al suddetto T’ao t’ie, i cui occhi erano quelli del gufo, animale notturno, a sua volta ritratto più volte in questa chiesa-museo, le cui orecchie, così come la dentatura e le sopracciglia, erano quelle della tigre o del leone, animale quest’ultimo non meno frequentemente ritratto, mentre le corna e il muso erano quelli del bufalo, in questo caso del bue, animale «inferiore» del Tetramorfo; il suo corpo infine aveva la linea sinuosa del serpente, raffigurato anch’esso ad Aulnay con frequenza pari alle precedenti. Questi quattro animali, che venivano a formare un Tetramorfo capovolto, dovevano proprio per questa ragione piacere parecchio alla immaginazione romanica. Sul timpano di Girolles (Loiret), due maschere evocano, rispettivamente, quella di destra in basso la terra, per via della sua forma rotonda, e al tempo stesso l’aria, per via delle sue gote rigonfie con le quali sembra soffiare sulle onde, che rendono col loro agitarsi l’idea del mare; l’altra, a sinistra in alto, il fuoco.

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Sempre a sinistra, in modo da formare con le due maschere il tracciato di un triangolo, un dragone sembra sbucare fuori dal movimento rotatorio: si tratta senz’altro dell’immagine della totalità, giacché esso, essendo contemporaneamente serpente, pesce, mammifero e uccello, partecipa a tutte e quattro le nature – terra, acqua, aria e fuoco – indicate dalle stesse due maschere. Di queste, quella con le gote rigonfie separa, nella rappresentazione della genesi, l’elemento solido dall’elemento acquoso e assicura con lo stesso la crescita della vegetazione. A tale riguardo, bisogna fare riferimento all’interpretazione della stessa Genesi data da Thierry di Chartres (1121-1155) nel suo Opusculum de opere sex dierum. Quanto alle due maschere del secondo architrave di Beaulieu, la prima, quella girata verso l’alto che sta ingoiando una greca, sembra evocare l’etere, a cui fa ritorno lo spirito – ci troviamo, nella fattispecie, dal lato dell’uomo vestito –, mentre l’altra, fatta di foglie e adagiata orizzontalmente, dal lato dell’uomo nudo, rappresenterebbe la terra, alla quale fa ritorno la carne. In questo caso, la fonte va cercata negli scritti di Bernardo Silvestre. A Moissac poi, nella serie di maschere adagiate anch’esse orizzontalmente, l’una sull’altra, in modo da formare un fregio verticale sul pilastro cubico dei piedritti, vanno viste altrettante «maschere della terra», in rapporto con altri cinque fregi, anch’essi verticali, formati da elementi vegetali, da mammiferi, da pesci e da uccelli, ovverosia dai quattro elementi costitutivi della bestia, con la sola variante del motivo vegetale a forma di bastone ricurvo al posto del serpente. Due ulteriori maschere (l’aria e l’acqua?) inquadrano il fregio a fioroni dell’architrave. Dalle bocche, infine, delle maschere del fuoco e dell’etere, l’una orizzontale, l’altra diritta, viene vomitata, o ingoiata, la greca, simbolo del fuoco celeste, che avvolge la composizione del timpano. Al di sopra della maschera diritta, questa greca disegna la croce luminosa, la croce cioè del Giudizio, alla quale fa palesemente cenno uno dei vegliardi. Ci troviamo insomma di fronte a sei maschere diverse, tante quanti sono i giorni della creazione, e sei fregi verticali, il terzo dei quali corrisponde alla maschera della terra come nella A di Carlo il Calvo. Tale numero indica in pari tempo l’onnipotenza divina, magistralmente espressa dal Cristo del timpano.

Di tutte le trasformazioni successive dello Spirito, sorto forma di maschere, la più suggestiva è senza dubbio quella che troviamo raffigurata nella chiesa del Saint-Saveur di Dinan. La maschera divina, rappresentata da una bella testa barbuta si trova dalla parte dell’albero della Genesi, mentre la maschera della conoscenza ha la forma del cuore o del triangolo capovolto, in evidente contrasto con la forma data alle teste dei demoni. Entrambe queste maschere si trovano a destra del portale. Una maschera animale, e più esattamente bovina, accompagna invece le immagini della Guerra e del Pellegrinaggio. Segue una maschera cilindrica (la torte d’avorio?), vicina alla figura dell’Alchimista o del Mago. E infine una maschera rettangolare, spigolosa, a bocca quadrata (la terra?), che è associata alla figurazione dei Vizi maschili e all’androfago con cui termina il programma. Il motivo conduttore è sempre quello della carne che ritorna alla terra.

Il tema pone in risalto, con particolare pertinenza, l’adattamento profondo, tale da sembrare in larga misura eretico, che si è fatto del pensiero pagano antico. Ed è per questo che si giustificano le analisi dettagliate che noi gli dedichiamo. Non ne esiste probabilmente nessun altro che possa essere giustificato in maniera più sicura, a dispetto della bizzarria che lo contraddistingue, con l’ausilio di un’infinità di testi. La sconcertante omonimia che vi riscontra in particolare F. de Chasseloup-Laubat può essere in certa misura spiegata, giacché si è mostrato come gli elementi più mostruosi tendano, su un piano universale, a somigliarsi tutti fra loro. Tuttavia lo sbalordivo accostamento con la maschera cinese costituisce un fenomeno alquanto singolare, al quale non abbiamo dato ancora una spiegazione. Fra tutte, la più semplice è che le vicende degli scambi commerciali, specialmente sulla via della seta, abbiano potuto far giungere in Occidente un qualche prodotto artistico proveniente dall’Asia estremo-orientale e che esso sia stato imitato, in quanto i testi tratti da dottrine filosofiche, eretiche o scientifiche, che abbiamo già citato, consentivano di capirlo; è significativo, infatti, che l’analogia con la Cina si manifesti essenzialmente in una regione marittima come la Saintonge, avente rapporti col Vicino Oriente. Quanto poi alla gestazione del tema su un piano più generale, occorre far ricorso a tutta una serie di rappresentazioni, in primo luogo alla maschera della Medusa, così come si vede sul cratere di Vix, imitata ad Aulnay e ad Anzy-le-Duc. Maschere, inoltre, che ricordano quelle dei fiumi antichi sono tutt’altro che sconosciute nell’iconografia bizantina; se ne possono vedere per esempio sui manoscritti di provenienza costantinopolitana conservati nella Biblioteca di Lione. A loro volta, secondo il Parrot, un ruolo non secondario nella trasmissione di una forma che era ben nota all’antica Mesopotamia debbono averlo svolto, senza dubbio, anche le maschere vomitanti nastri e festoni, entro i cui cerchi appaiono avvinghiate figure di animali, notoriamente diffuse nei tessuti sassanidi. E tuttavia, tutti questi motivi di ispirazione vicino o estremo orientale, tutti i testi della scienza e della filosofia, antichi o contemporanei, non riuscirebbero mai a spiegare compiutamente l’identità delle maschere romaniche con la maschera cinese, col makara indiano, con le teste dei defunti issate sui pali delle capanne nelle isole dell’Oceania o presso i Bamun dell’Africa centrale, o addirittura con la maschera del Tlatoc azteco. Queste corrispondenze, fra loro così lontane, non possono avere altro che un substrato naturale; abbiamo parlato di regioni marittime o in relazione col mare; ora, basta esaminare le meduse che si arenano sulle spiagge della Saintonge per constatare, specie quando sono capovolte, la loro stupefacente somiglianza con le maschere dell’arte romanica: sorprendono in particolare le due larghe cavità che spiegano il perché degli occhi sporgenti delle maschere in questione, i cui capelli irti hanno l’aspetto di una cresta perfettamente simile a quella formata dai tentacoli delle stesse meduse. Inoltre, la maschera circolare che queste disegnano non ha più mento di quanto ne abbia il «ghiottone» cinese. Per contro – ed è questo un fatto di fondamentale rilevanza, che non poteva non far riflettere –, le meduse, quando galleggiano sull’acqua, soprattutto se se ne osserva la parte superiore, la cosiddetta ombrella, hanno gli stessi lineamenti di quel simbolo cosmico che è la croce entro un cerchio. Questi due modi di mostrarsi delle meduse, complementari e insieme contraddittori, ne avevano si di motivi per attrarre l’attenzione.

Zona egiziana

La maschera non è sconosciuta in questa zona, né diverse sono le idee che essa vi evoca; però da un lato è spesso più vicina a dei modelli antichi autonomi che non a quelli dell’Estremo Oriente, e dall’altro la si vede confusa talvolta con la cosiddetta bocca d’Inferno dell’arte gotica, in relazione col Giudizio, che come si sa è il tema tipico della zona. Un esempio ci è dato dal timpano di Anzy-le-Duc, dove, insieme con le contrapposizioni Eva-Maria, Peccato originale-Adorazione dei Magi, Inferno-Paradiso, troviamo una maschera capovolta, in tutto simile a un’autentica bocca d’Inferno, verso la quale si dirige il dragone che porta con sé i dannati accolti al loro arrivo dai demoni. Viceversa il leone, contro cui si scaglia san Michele sul quarto capitello del lato nord, ha una maschera di Medusa o di Gorgone, pressoché identica a quella del Vizio, con la sola eccezione della lingua, che non è pendula, come di norma nelle personificazioni di quest’ultimo. J. Carcopino afferma che fino al secolo V, due secoli dopo l’affermazione decisiva del cristianesimo, questa maschera conservava ancora per i soldati il suo significato apotropaico. Ad Ainay, la maschera che per la sua collocazione in basso rappresenta un’indubbia maschera della terra è priva di mento, come quelle della Cina e della Saintonge, particolare, questo, che sta a indicare l’atto dell’ingoiare, del divorare, del deglutire.

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Essa si trova esattamente nella parte inferiore del fregio centrale, sotto il fregio degli animali – quello più caratteristico –, del quale fanno parte un altro «ghiottone» e l’orsacchiotto che addenta le sbarre della sua gabbia. Da questa maschera fuoriescono dei nastri doppi che incorniciano i suddetti fregi con figurazioni animali. La sua collocazione ricalca alla lettera le parole di Macrobio, riprese da Thierry di Chartres: «Di tal genere sono i legami con i quali la natura ha incatenato la Terra. E verso di essa, infatti, che tutti i corpi s’indirizzano, in quanto, essendo al centro del mondo, essa non si muove. Non si muove, perché di tutti i corpi essa è quello collocato più in basso; e il corpo verso il quale s’indirizzano tutti gli altri non poteva non essere il più basso».

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 197-202

Incrocio: sirene

Sezione: Lessico


Ci sembra indispensabile legare a questo tema dell’incrocio un gruppo di soggetti che, apparentemente, hanno con esso un rapporto molto lontano: si tratta del mondo delle sirene (e delle arpie), esseri doppi, in possesso di due nature, frequentissimi nell’arte romanica, che li ha ereditati dalla mitologia greca: prova ulteriore dell’influenza esercitata dal mondo antico.

Ma quali sono le ragioni che ci spingono a collegare questo repertorio al tema dell’incrocio?

La prima è che le sirene, più che qualsiasi altra figura creata dalla fantasia, per loro essenza, potremmo dire, rappresentano un tema ambiguo; un tema che non trovava alcun riscontro nella Bibbia e che solo i testi classici potevano spiegare: era da qui che esse passavano poi nei bestiari, dopo essere state oggetto di analisi da parte dei commentatori. Ora, i bestiari erano merce corrente, all’epoca. In altre parole, quello delle sirene non è un tema chiaro e coerente: per la sua variabilità s’apparenta all’Incrocio.

In secondo luogo, quando si parla della sirena, si insiste di solito, traendo spunto dalla leggenda di Ulisse, sul suo aspetto di maliarda e di essere libidinoso. Né molto diversamente stanno le cose con l’arpia: come dice un Padre della Chiesa, «essa possiede ali ed artigli, perché l’amore vola e ferisce». I bestiari, a loro volta, occupandosi di creature del genere, calcano la mano, su quanto può essere in esse di avarizia, di menzogna e di lussuria:

La lussuria, il piacere del corpo,
E la golosità e l’ubriachezza,
Il piacere del mondo e la ricchezza…

D’altra parte, secondo una traduzione di Isaia (XIII, 22) che correva per le mani nel medioevo, si diceva a proposito di Babilonia: «I gufi urleranno a volontà, nelle sue magioni superbe, e le crudeli sirene abiteranno nei suoi palazzi di delizie» (nelle versioni odierne si parla invece di «cani selvaggi» o di iene, e di «sciacalli»); la stessa Babilonia è chiamata nell’Apocalisse «la grande prostituta». Di fatto, si deve osservare che i due aspetti importanti sotto cui vengono presentate le varie forme di scaglie – penne e squame di pesce – sono due degli attributi del mostro dalla doppia natura (arpia o sirena), che può ancora avere una coda di foglie, simbolo di resurrezione. Nelle tradizioni sia mesopotamiche che egiziane sembra che la sirena e il tritone rappresentino le anime dei defunti.

Se la sirena accoglie in sé i simbolismi delle squame e della pianta, e più in generale dell’Incrocio, è perché essa richiama alla mente, al pari dell’Incrocio stesso, l’inconoscibile, il mondo dell’aldilà. D’altra parte, le diverse accezioni della sirena o del tritone si accordano con l’immagine della lussuriosa o del lussurioso: la sirena è l’anima dopo la morte, in attesa del Giudizio. Essa corrisponde alla trasformazione in animale dell’uomo peccatore, divenuto, dice san Bernardo, quasi bestia. Le sue forme sono quelle che il peccato ha impresso sulla sua persona, sul suo aspetto generale specialmente, deformità più o meno apparenti che faranno pendere la bilancia in un senso o nell’altro. Molto più terrestre, il centauro, egualmente lussurioso, è anch’esso, in quanto iniziato e iniziatore, un agente delle potenze superiori, e lo vediamo di frequente scagliare il suo dardo sia contro la sirena che contro il cervo.

La varietà dei testi e la ricchezza dei valori obbligano a prestare la maggiore attenzione alla disposizione. Il serpente, per esempio, con cui termina la coda della sirena-uccello (o arpia) ad Aulnay, nell’archivolto superiore del portale meridionale, significa la resurrezione in senso positivo. I tritoni a doppia coda di serpente di Chaspuzac e di Saint-Rémy (Haute-Loire) simboleggiano le tentazioni e i peccati della carne. Le arpie barbute di Chauvigny con la loro coda di foglie, che si fronteggiano associate a un albero a Y sdoppiato e a un mostro che si nasconde la testa, simboleggiano la vecchiaia e la morte in senso negativo, collocate come sono accanto a un insieme lunare. I tritoni a coda di foglie disegnanti l’incrocio (= la fine dei tempi) alla sommità del «pilastro apocalittico» di Brioude (dove gli affreschi evocano il mare che si muta in sangue, i cavalli a coda di serpente, il dragone apocalittico e le coppie dei Vegliardi) rappresentano gli eletti in attesa ai piedi dell’altare; ma non basta: lo stesso tema è rappresentato alla lettera, e non più simbolicamente, nella stessa chiesa, nell’absidiola sud, a lato dei quattro cavalieri dell’Apocalisse e sotto il Cristo col Tetramorfo. La chiesa di Brioude è interessantissima, inoltre, per gli affreschi simbolici che decorano i pilastri della terza campata: i soggetti che vi sono dipinti concordano col significato che va attribuito a quelli scolpiti sui capitelli. Noi stessi, per altro nella nostra tesi sostenuta nel 1955, avevamo proposto per tali capitelli un significato d’insieme; la successiva scoperta degli affreschi sui pilastri non ha fatto che confermare ciò che avevamo allora avanzato.

Ultima ragione, infine, per giustificare lo studio delle sirene nell’ambito della trattazione sull’incrocio, è che questi esseri – senza alcun giuoco di parole – rappresentano un «incrocio» sia in senso reale che in senso figurato: si tratta di due specie unite insieme, ed è proprio la loro fusione quella che ha dato origine al mistero di cui le si circonda, in relazione diretta col significato della parola greca symbolon, unione di due termini differenti; è ciò che vuol dire l’iscrizione che accompagna i centauri e le sirene sulla porta dei Conti a Tolosa: Iuncta simul faciunt unum corpus corpora duo. Pars prior est hominis altera constat equo (il centauro). Corpus avis, facies hominis volucri manent isti.

Riepilogando, sembra che si sia stabilita fra le diverse specie di «sirene» tutta una complessa gerarchia. Le sirene-uccello, le arpie, per esempio, avevano un valore superiore. Per quanto concerne le squame, tema estremamente importante nella zona mesopotamica, si vede chiaramente che questo simbolo è quello che avvicina le arpie alle sirene vere e proprie, mentre, in realtà, c’è una profonda opposizione fra i due tipi di mostri. L’iconografia romanica mette in mostra, così facendo, il suo gusto per i simboli ambivalenti, per la reversibilità di una stessa forma d’incrocio.

Questa gerarchia delle sirene o dei tritoni, che corrisponde in certa misura, sul piano inferiore, a quella degli angeli sul piano superiore, non ha comunque niente d’intangibile. Si direbbe che nella zona egiziana, dove la tentatrice femmina è così spesso stigmatizzata nella figura della donna divorata dai serpenti, dai rospi e perfino da un coccodrillo (BIesle, Brioude), la sirena-pesce sia considerata malefica (leggenda di Melusina) né più né meno della sirena-pesce, così importante nelle regioni situate lungo il corso della Loira. In compenso, pare che possa avere un significato benefico il tritone con la coda di foglie, soprattutto quando le code dei tritoni posti negli angoli del capitello, come a Brioude.

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A Dore-l’Église (Puy-de-Dôme), oltre all’incrocio, è fra l’altro possibile verificare l’interpretazione che abbiamo dato a proposito dei tritoni di foglie. Sul «pilastro apocalittico» di Brioude: nella navata, infatti, associate a maschere di foglie o a serpenti, si possono vedere sia sirene-serpenti che sirene-pesci. Ad esse bisogna contrapporre la figura dell’eletto, rappresentato con i tratti di Daniele fra i suoi leoni, nel coro, insieme con immagini mitologiche aventi il medesimo significato. La scultura di Dore-l’Église è piuttosto mal ridotta, ma i tritoni di Brioude hanno un aspetto idealizzato che ben si adatta agli eletti e che li avvicina in particolare ai personaggi con la pigna che stanno accovacciati su un capitello staccato proveniente dall’abside di Mozat.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 167-169