Antonio

Sezione: Lessico


Fonti

La vita di sant’Antonio Abate ci è nota attraverso i racconti dei Padri della Chiesa sant’Atanasio e san Gerolamo. Antonio visse in Egitto nel III secolo della nostra era. Giovanissimo, scelse la solitudine del deserto della Tebaide. Nel suo eremo è assalito più volte dalla tentazione: è tormentato da alcuni demoni che gli mandano delle donne che scoprono i seni. Verso la fine dei suoi giorni, Antonio va a trovare san Paolo Eremita, il più vecchio degli anacoreti d’Egitto, che un corvo nutre nel deserto; il giorno della sua visita l’uccello, che ha presentito miracolosamente la sua presenza, porta doppia razione di pane. Sulla via del ritorno, il Santo incontra due Angeli che portano in cielo l’anima di Paolo; ritorna sui propri passi, e trova l’eremita morto, ancora inginocchiato in atteggiamento di preghiera, e lo seppellisce con l’aiuto di due leoni, miracolosamente usciti dal deserto per scavare la tomba.

A partire dal IV secolo, sant’Antonio è stato venerato in uno dei monasteri copti d’Egitto. Secondo la tradizione, il suo corpo sarebbe stato in seguito portato in un’abbazia del Delfinato, Saint-Antoine-en-Viennois. Nell’XI secolo, questa abbazia fondò l’ordine degli Antonini, che si diffuse ben presto in tutta la Cristianità.

Iconografia

Sant’Antonio Abate è rappresentato come un vegliardo barbuto, vestito dell’abito a cappuccio degli Antonini.

Suoi attributi sono la croce potenziata, simbolo egiziano della vita futura, e la campanella, usata dagli eremiti per allontanare i demoni. Tre sono le scene della sua vita solitamente rappresentate.

1. La tentazione

Gli artisti mostrano l’eremita assalito dai demoni. In un capitello della basilica di Sainte Madeleine a Vézelay, due diavoli lo tirano per la barba, lo colpiscono coi pugni e lo minacciano con un martello. La smorfia dei demoni contrasta col volto impassibile del santo.

Vézelay, Basilica di Sainte-Madeleine – Capitello: La tentazione di Sant’Antonio

2. La visita a san Paolo Eremita

In un capitello del nartece di Vézelay, i due uomini stanno uno di fronte all’altro; al centro della scena è un enorme pane rotondo che nessuno dei due vuole aver l’onore di spezzare: Paolo, per umiltà, desidera lasciare tale privilegio ad Antonio, che è suo ospite, ma quest’ultimo vuole riservarlo a Paolo, più vecchio di lui. La modesta mensa è apparecchiata solo con due vasi e due coppe di terra cotta.

La scena è ripresa anche in un capitello della navata e compare anche nel timpano della chiesa di Saint-Paul a Varax.

Vézelay, Basilica di Sainte-Madeleine – Nartece, Capitello: Incontro fra Sant’Antonio e San Paolo Eremita

3. La sepoltura di san Paolo Eremita

Sempre a Vézelay, sant’Antonio prega sul corpo avvolto in bende; la tomba è scavata da due leoni dalla testa mostruosa; malgrado il loro aspetto diabolico, i due animali sono gli artefici di una nobile impresa. La scena illustra la potenza della santità che mette le forze del male al servizio di Dio.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 41-42

Il simbolismo dell’albero

Sezione: Studi


In un certo senso, la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe è la storia della conquista della Terra santa. Essi l’hanno sacralizzata con la ripetizione quasi monotona di atti compiuti attorno ai tre elementi di culto più arcaici: steli (come quella di Giacobbe), altari eretti un po’ dappertutto nel paese, alberi rimasti celebri per sempre come la quercia di Mambre così spesso al centro di questioni… Questi tre elementi riuniti rappresentano l’essenza della forma più antica di luogo sacro. In effetti, «il tempio primitivo e naturale, prima che l’uomo conoscesse l’arte di costruire, fu il mondo, semplicemente; il mondo come dimora della Divinità, poiché è scritto: “Il cielo e la terra sono pieni della Tua Gloria” (Isaia, VI, 3). Ma dal momento che il mondo è troppo vasto per essere scelto come luogo di un atto rituale, l’uomo riduce l’universo a un paesaggio familiare e significativo. Lo schema generale e naturale del tempio è il paesaggio elementare costituito dalla collina (o dal tumulo) con la sua grotta, le pietre, l’albero e la sorgente, il tutto circondato e protetto da un recinto che indica il carattere sacro del luogo. Tali furono, in origine, i boschi sacri, il lucus dei Romani, l’alsos dei Greci. Quando più tardi nacque l’architettura, il tempio diventò una casa e le sue componenti minerali e vegetali si trasposero per costituire gli elementi stessi dell’edificio. Mentre il recinto naturale o rudimentale diventava la muratura, la grotta diventava la nicchia dell’abside e il soffitto veniva assimilato al cielo. Così il tempio appare come un paesaggio pietrificato» (Jean Hani, Le symbolisme du temple chrétien, 1962, p. 81).

Abbiamo visto come la stele unita all’altare costituisca il punto focale del tempio, centro di santificazione e di ricreazione. Ciò che il nostro discorso aveva ancora, per la forza delle parole e delle cose, di troppo geometrico nell’espressione, di troppo naturalistico nelle immagini cosmiche, deve a questo punto essere sfumato, umanizzato, interiorizzato e cristianizzato. Lo faremo considerando il simbolismo naturale dell’albero: perfetto simbolo di Vita, piantata nel Paradiso, in elevazione verso i cieli, vivificatore di tutto l’universo prima di pervenire alla sua dimensione totale nel mistero della croce cosmica di Cristo. Secondo il metodo già utilizzato, è indispensabile partire dallo studio delle immagini evocate spontaneamente dall’albero in ogni uomo. Sono queste sensazioni profonde che recano la dinamica del messaggio di cui successivamente le si può caricare.

L’albero è insieme il mistero della verticalizzazione, della crescita prodigiosa verso il cielo, della perpetua rigenerazione; rappresenta non solo l’espansione della vita ma anche la costante vittoria sulla morte; è l’espressione perfetta del mistero della vita che costituisce la realtà sacrale del cosmo.

Non esiste concezione più estesa di quella del cosmo vivente simboleggiato da un albero. L’arte più antica, le leggende, i miti dei popoli più disparati lo dimostrano con sufficiente profusione.

Il simbolo di Quetzalcóatl rappresenta il mondo come un cubo aperto, dalle superfici distese sulle quali figurano degli alberi cosmici, di cui uno (in alto), diventa l’asse del mondo. Una volta ricostituito il cubo, i quattro alberi si sovrappongono e si fondono accumulando i loro rispettivi simbolismi, in un albero centrale che è l’asse verticale del cubo cosmico. Alla sommità di questi alberi, le aquile dì cui abbiamo già citato la frequenza sopra agli assi del mondo per simboleggiare uno stato spiritualizzato o trascendente o la sovranità.

Liverpool, Museo del mondo – Codice Féjerváry-Mayer, prima pagina: Quetzalcoatl signore dell’aurora, al centro dell’universo

Nella rappresentazione cinese di un albero, tratta da un rilievo della Camera delle Offerte di Wou Yong (168 d. C), un personaggio sceso dal suo cocchio, al termine di un viaggio mitico, Jo tocca con la mano; fra le foglie e svolazzanti tutt’attorno si vedono uccelli e diversi animali. E un microcosmo completo.

Wou-Yong, Camera delle offerte – Rilievo: Albero dell’Universo e carro cosmico

L’albero è un asse verticale attorno al quale si avvolgono e da cui si dipartono radici e rami: è l’immagine del mondo in espansione in unità e in ascensione. Si celebrano le sue tre zone cosmiche: sotterranea (radici che si allungano verso il basso), terrena e umana (tronco, pura verticalità), superiore e celeste (ramificazione, espansione). Tale albero spesso viene caricato di uccelli e di vari animali.

Nelle tradizioni orientali, così capaci di esprimere il mistero delle cose, molto spesso l’albero sacro appare rovesciato: ha la radice nel cielo e cresce in direzione della terra, al fine di invaderla e di sacralizzarla per assimilazione: mistero della creazione e delle ricreazioni della grazia venute dall’alto. «I rami si allungano verso il basso, in alto, invece, si trova la radice; che i rami discendano su di noi», dice il Rig-Veda. Gli Upanishad precisano la sua costituzione cosmica che è quella degli elementi: «I suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra»; la stessa tradizione appartiene alla dottrina esoterica ebraica: «L’albero della vita si stende dall’alto verso il basso e il sole l’illumina interamente». La tradizione islamica afferma lo stesso a proposito dell’albero della felicità. Nel Paradiso di Dante le sfere celesti formano la ramificazione di un albero che si erge secondo natura, ma del «quinto ramo», quello del pianeta Giove, si dice che «l’albero che vive dalla cima» è un albero rovesciato. Lungi dal voler attuare giochi letterari, numerosi popoli ne fanno la materia di una liturgia che rivela il valore immaginario di questo simbolismo. Gli uni pongono accanto all’altare un albero con le radici all’aria; altri lo piantano secondo un rito e sempre rovesciato. In certe iniziazioni esso è utilizzato nel cerimoniale che simula il passaggio dalla morte alla vita.

La Bibbia cita gli alberi sacri che all’epoca erano conosciuti presso i popoli circostanti, e che occupavano nelle loro religioni un posto fondamentale: il cedro del Libano, gigantesco e prestigioso, che implica un universo intero che vive per millenni; l’olivo per le stesse ragioni e per il prodotto che dona, l’olio. Nell’ordine dei simboli ascensionali, si celebrano ugualmente due alberi che sembrano due netti colpi di pennello verticali: il pioppo e il cipresso, quest’ultimo avvantaggiato per di più da un fogliame sempreverde che ne fa il simbolo della Vita eterna.

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 70v: San Giovanni e l’angelo

Con l’immagine di un albero che invade l’universo, Dio predica al suo popolo il ritorno a tempi di prosperità e l’era in cui si realizzerà la sua vocazione di essere una fonte di benedizione divina per tutta la terra.

Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici,
Israele fiorirà e germoglierà,
e riempirà dei suoi frutti il mondo intero
(Isaia, xxvii, 6)

La conquista del mondo, le rivendicazioni di egemonia utilizzano volentieri questo simbolismo. È il caso del famoso sogno di Nabucodònosor, re di Babilonia riferito al capitolo IV dal profeta Daniele (vv. 7-9): «Tali erano le visioni del mio spirito, nel mio letto; io vedevo in mezzo alla terra un albero altissimo. Esso cresceva; era vigoroso. La cima toccava il cielo; lo si scorgeva fin dall’estremo della terra. Le sue foglie erano belle e i suoi frutti abbondanti fornivano a tutti di che mangiare».

Daniele rivela al monarca la chiave del sogno: «L’albero che hai visto crescere ed abbellirsi, la cui cima toccava il cielo e che si scorgeva dall’estremo della terra, quell’albero dalle belle foglie, dai frutti abbondanti che consentivano a tutti di mangiare, sotto il quale pascolavano tutte le bestie terrestri e fra i rami del quale albergavano gli uccelli del cielo, quell’albero sei tu, sire, che sei diventato grande e potente, la cui altezza ha raggiunto gli astri e la cui dominazione si stende fino ai confini della terra» (vv. 17-19).

Parigi, Bibliothèque Nationale – Ms. Lat. 6 (Bibbia di Roda): Il sogno di Nabucodonosor

La figura rappresenta una miniatura della Bibbia di Roda (Parigi, Biblioteca Nazionale) che illustra questo episodio. Nella parte inferiore, a destra, Nabucodonosor consulta i saggi di Babilonia che si rivelano incapaci di interpretare il sogno. A sinistra, Daniele glielo spiega. Sopra, l’albero, che si è elevato «nel centro della terra, molto grande»; gli uccelli che vi si raccolgono, gli animali che vi trovano asilo, rappresentano tutti i popoli del globo. Nel centro, in un’aureola, la mano divina per rappresentare la voce venuta dal cielo di cui al versetto 10. Le radici sono ben visibili e particolarmente sviluppate e ornate per illustrare il versetto 12.

L’albero cosmico si riconosce generalmente dalla sublime pienezza del suo disegno; la forma pura è una sfera ideale al di sopra di un tronco che è pura verticalità. Una sensazione di sicurezza ne ha fatto un attributo della Prostituta Famosa descritta ai capitoli XVII e XVIII dell’Apocalisse di san Giovanni.

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 64: La donna sulla Bestia

Il personaggio simboleggia Babilonia-la-Grande, nome convenzionale di Roma in quanto tipo della città del diavolo che ha sottomesso tutta la terra. La prostituzione designa l’idolatria che, in effetti, è un’infedeltà spirituale di carattere coniugale nei confronti del vero Dio, sposo del suo popolo. «Questa donna è la grande città, che regna sui re della terra… Dell’ebbrezza delle sue prostituzioni hanno goduto tutte le nazioni e i re della terra hanno brindato con lei». Di questo vino è piena la coppa che essa tiene in mano e che offre a chiunque si avvicini. Il mondo è il suo potere; quando sopraggiunge l’ora del regno di Dio, allora una voce annuncia la sua condanna: «Vai, o mio popolo, abbandonala, affinché, complici dei suoi errori, voi non abbiate a patire le stesse sue piaghe. Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo… In misura del suo fasto e dei suoi lussi le saranno dati tormenti e disgrazie… Ecco perché in un solo giorno molte piaghe si abbatteranno su di lei: peste, lutto, e fame; ella sarà consumata dal fuoco. Perché è potente il Signore Dio che l’ha condannata». Il suo impero crollerà col fracasso dei grandi alberi recisi.

La Bibbia aveva reso tradizionale il confronto con l’albero magnifico per significare le pretese orgogliose degli imperi pagani e spiegare i loro rovesci di fortuna col giudizio di Dio onnipotente (è la versione vegetale del tema dell’ascesa orgogliosa descritta nella satira sulla morte di un tiranno al capitolo XIV di Isaia). Il testo più bello si trova al cap. 31 del profeta Ezechiele. Questo poema descrive «l’Egitto sotto forma di un albero sacro… un albero del Paradiso di Dio… La dimensione di questo pino gigante è quella di un albero sacro che domina il mondo. Ci si ricorderà degli alberi venerati negli altipiani semitici. Nella speculazione buddista si ritrova il mito dell’albero cosmico. Quello descritto da Ezechiele sorpassa i cedri del Libano… Le radici dell’albero raggiungono l’abisso originale ove attingono la linfa e alla sua ombra abitano numerose nazioni» (Ezechiele, Desclé de Brouwer, 1961, Commentario, p. 73 e 75). Ecco il testo:

«L’undicesimo anno, al terzo mese, il primo del mese, la parola di Iahvè mi raggiunse dicendo: Figlio d’uomo, parla a Faraone, re d’Egitto e alla sua gente:

A che cosa ti paragonerò, nella tua maestà?

A un pino dalla fronda rigogliosa!

Dal folto fogliame, dal tronco slanciato!

In mezzo alle nubi emerge la sua cima!

Le acque l’hanno fatto crescere, l’abisso lo ha ingrandito,

irrigando con le sue correnti le culture circostanti,

dirigendo i suoi ruscelli verso ogni terreno.

Così si slanciava al di sopra di tutti gli alberi della campagna.

I suoi rami si erano moltiplicati, le sue fronde si allargavano.

Tra i suoi rami nidificavano tutti gli uccelli del cielo,

Sotto le sue fronde si riparavano tutte le bestie della campagna,

Alla sua ombra abitavano numerose nazioni.

Era bello nella sua maestà per il numero dei rami,

Le sue radici si estendevano in acque abbondanti.

1 cedri non lo superavano nel giardino di Dio,

I cipressi non erano paragonabili ai suoi rami,

I platani non competevano con le sue fronde.

Nessun albero del Paradiso di Dio l’uguagliava in bellezza,

Faceva invidia agli alberi dell’Eden, che sono nel Paradiso di Dio».

Ma questa grandezza è indebita, frutto e simbolo di orgoglio; e Iahvè interviene per riportarla al nulla: «Per questo Iahvè parla così: Poiché esso si è erto in tutta la sua altezza, poiché ha elevato la sua cima fino alle nuvole e poiché si è illuso riguardo alla sua grandezza, io l’ho abbandonato in balia dell’ariete delle nazioni. Stranieri, popoli barbari l’hanno tagliato e adagiato sulle montagne. I suoi rami sono caduti per tutte le valli; le sue fronde si sono disperse per tutti i torrenti della terra. Tutti i popoli della terra hanno abbandonato la sua ombra». Ed ecco la morale: nessuna potenza terrena tenti di sollevarsi fino alle nubi, poiché ogni uomo è destinato ai paesi sotterranei.

Tentare di rendersi pari a Dio è come, ripetendo il peccato dei nostri progenitori, andare verso la morte: « Così dunque, nessun albero si elevi nel suo orgoglio sulla riva delle acque e nessuno innalzi la sua cima fra le nubi e non insuperbisca se è ben irrigato. Perché essi sono tutti destinati alla morte, al paese sotterraneo, fra gli uomini comuni che scendono nella fossa». Il seguito del testo annuncia che l’Egitto, alla sua ora, discenderà nel paese delle ombre e sarà inghiottito nell’abisso precedente la creazione. I testimoni della sua caduta saranno atterrati; gli alti alberi dell’Eden che il Faraone aveva posto in ombra, pieni di gioia, si prenderanno beffe della potenza decaduta mentre scenderanno nello shéol per condividere la loro sorte. Nulla sfugge alla sorte comune e ancor meno alle mani di Dio. «Così parla Iahvè: Il giorno della sua discesa allo shéol, io ho richiuso su di lui l’abisso, ho immobilizzato i fiumi, e le acque sconfinate si sono arrestate. Per causa sua, ho oscurato il Libano e tutti gli alberi della terra si sono seccati. Al rumore della sua caduta, ho fatto tremare le nazioni, quando l’ho fatto precipitare nello shéol con coloro che sono scesi nella fossa. Nel paese sotterraneo, tutti gli alberi dell’Eden, le magnificenze del Libano, tutti bene irrigati, sono stati consolati, e anch’essi sono scesi con lui nello shéol verso quelli recisi dalla spada; essi sono stati abbattuti, essi che abitavano alla sua ombra, nel centro delle nazioni. “Chi era tuo pari in gloria e grandezza fra gli alberi dell’Eden? Tu sei stato precipitato, con tutti gli alberi dell’Eden, nel paese sotterraneo. Eccoti giacente fra gli incirconcisi, con le ferite per la spada!” Così avverrà di Faraone e di tutta la sua stirpe! Oracolo di Iahvè».

Il confronto dell’albero della Prostituta Famosa illumina l’iconografia del serpente che avvolge l’albero del giardino dell’Eden.

El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial – Codex Vigilanus, fol. 17r: Il peccato originale

In origine, lungi dal rappresentare solamente un artificio d’artista – come invece avverrà in seguito, almeno in molti casi -, questa attitudine è la sola che convenga in assoluto al Principe degli Angeli, creato da Dio in tale splendore e con tale potenza sul cosmo da meritare a buon diritto la definizione di Principe di questo mondo. Dio ha voluto che egli, una volta caduto, conservasse ugualmente la sua potenza e il suo titolo. Così l’universo trascorre la propria esistenza in possesso del Maligno: fare cadere a sua volta la coppia originale nel peccato, significava, secondo il suo pensiero, consolidare definitivamente il proprio dominio eliminando gli ultimi possibili importuni. Il mezzo che concretizzò la tentazione fu il frutto dell’albero… L’iscrizione che funge da inquadratura reca le parole… UBI INTER LIGNA PARADISI AD POMU EVA MANUM PORREXERAT SUMENSQ(VE) ID DE SERPENTIS ORO PERNICITER ADE CONTULERAT ecc., cioè: «Qui, fra gli alberi del paradiso, Eva aveva teso la mano verso il frutto ed avendolo preso dalla gola del serpente l’aveva per disgrazia offerto ad Adamo, ecc.». Sulla pagina di fronte una visione di Cristo in gloria: la sua scelta è dovuta probabilmente alla volontà di contrapporre la caduta e la rigenerazione.

C’è una relazione tra la piccola mela rotonda – il frutto dell’albero – che il serpente tiene nella gola, che Eva prende in mano e che Adamo presenta tra due dita da una parte, e la piccola boccia che il Cristo, nuovo Adamo, tiene delicatamente fra tre dita della mano destra dall’altra. L’importanza del gesto è sottolineata dall’iscrizione: DOMINUS IN TRIBUS DIGITIS DEXTERAE MOLEM ARBAE LIBRAVIT FERENSQUE CODICEM IN LEBA VITAE OM’A ENIM IN COELO ET IN TERRA ET SUBTUS TERRA EQUANIMITER PER IPSUM DOMINATA SUNT, cioè «Il Signore ha tenuto tra tre dita della sua destra la massa della terra e ha portato nella sinistra il libro della vita. Infatti ogni cosa nel cielo, sulla terra e sotto terra sta ugualmente in suo potere». L’iscrizione allude al poema che canta l’incomparabile grandezza di Dio e del suo dominio sull’universo, al capitolo XI di Isaia; essa attinge liberamente al testo sacro, che suona così:

Quis mensus est pugillo aquas
et caelos palmo ponderavit?
quis appendif tribus digitis molem terrae?

Che significa: «Chi dunque, come Dio, ha mai misurato nella sua mano le acque (del mare) e pesato i cieli nel suo palmo e soppesato fra le dita la massa della terra?» Mare, cielo, terra: le tre componenti del mondo, interpretate dalla seconda parte dell’iscrizione: «Ogni cosa, in effetti, in cielo, sulla terra e sottoterra sta ugualmente in suo potere». Il Cristo ha ricondotto il potere del mondo, che Satana aveva usurpato nel giardino dell’Eden, e viene rappresentato nel Signore dell’Apocalisse; un alfa e un omega giganteschi sono disegnati sopra il suo capo e sotto i suoi piedi, mentre una banda trasversale reca scritto INITIUM ET FINIS: «Io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine (di ogni cosa), dice il Signore Dio, Egli è, Egli era, Egli viene, il maestro di tutto» (Apocalisse i).

Nel Codex Vigìlanus, datato al 976, come nel Codex Aemilianus (992), suo gemello, la mandorla a forma di losanga di Cristo è inquadrata da un cherubino, un serafino, Michele e Gabriele: eminenti rappresentanti della corte celeste (la losanga è disseminata di stelle).

El Escorial, Real Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial – Codex Vigilanus, fol. 16r: Il Cristo in Gloria

Nell’Aemilianus, un’altra iscrizione spiega come Cristo abbia potuto soppiantare il Principe di questo mondo: DS et HOMO; Gesù è insieme Dio e uomo. Un’analoga composizione, arricchita dei quattro Viventi del tetramorfo si trova nel Beatus di Girona. Il Cristo tiene fra le dita la posta del dramma della creazione, la piccola boccia dietro la quale si distingue una sola parola: mundus, il mondo. «Ed ogni creatura, nel cielo e sulla terra e sottoterra e nel mare, l’universo intero io sento gridare: “A colui che siede sul trono, così come all’Agnello, lode, gloria, potenza nei secoli dei secoli!”» (Apocalisse V).

Girona, Tesoro della Cattedrale – Apocalisse del Beato di Liébana, fol. 2: Cristo in gloria, Tetramorfo e Angeli

L’albero implica spesso il tema dell’albero della vita che dà o rende l’immortalità; dell’albero paradisiaco piantato alle origini e atteso alla fine dei tempi. La sua espressione ultima è quella dell’albero divino che divinizza, o il cui frutto è esclusivamente riservato al rappresentante degli dei sulla terra. Forse l’esempio più splendido da citare è l’affresco egiziano, di grossolana fattura, dell’ipogeo di Thoutmes III a Tebe (metà del II millennio a.C); il re, identificabile per l’uraeus della capigliatura, prende con le mani infantili il braccio della dea-sicomoro, assimilata a Iside, e succhia avidamente dal suo grosso seno che emerge fra le foglie.

Tebe, Ipogeo di Thoutmès III – Affresco: L’albero divino

È una variante dell’albero del latte, dell’albero da cui scorre la rugiada, dell’albero fontana. Iahvè spesso si è paragonato ad un albero: «Io sono come il cipresso verdeggiante, è da me che viene il tuo frutto» (Osea, XIV). Il fogliame persistente del cipresso ne ha fatto l’albero sacro di numerosi popoli; essi chiamano il cipresso-tuia, l’albero della vita. Nel testo citato, Iahvè si rivolge al suo popolo e gli spiega che egli è la sorgente della fecondità, in maniera del resto totalmente simbolica, poiché i frutti del cipresso non sono commestibili. Nella Bibbia il serpente tenta Adamo ed Eva con queste parole: «Se mangerete il frutto dell’albero, sarete come gli dei».

Per ricondurci all’albero del Paradiso, propriamente detto, citiamo un bel poema relativo ad un punto dei più celebri alberi, l’Yg drasil dei popoli scandinavi; esso si adatterebbe altrettanto bene all’Hom iraniano e ad altri.

Io mi ricordo dei giganti nati all’alba dei tempi,

di quelli che un tempo mi hanno fatto nascere.

Io conosco nuovi mondi, nuovi domini coperti dall’albero del mondo,

quell’albero saggiamente edificato che affonda le radici fin nelle viscere della terra.

Io so che esiste un frassino che chiamano Yggdrasil.

La cima dell’albero è bagnata nei bianchi vapori delle acque,

di là scorrono gocce di rugiada che cadono nella valle.

Esso si innalza eternamente verde al di sopra della fontana d’Urd.

La descrizione potrebbe riferirsi altrettanto bene alla montagna del mondo. Notiamo il riferimento ai tempi primordiali, i piani mitici del mondo ordinati dopo i cieli fino nelle profondità della terra, all’albero della saggezza (albero della conoscenza) che s’identifica al mondo di cui rappresenta l’estensione; albero che riceve le benedizioni dall’alto (cima bagnata da bianchi vapori d’acqua) e da cui scorre la rugiada fecondante, albero-fontana le cui acque irrigano la valle del mondo. L’immagine ricopre a suo modo il mosaico del Laterano: per altro verso essa ci introduce ad una maggior comprensione dell’asse che attraversa la montagna sacra e della croce piantata sul Golgota.

L’Hom della tradizione iraniana è contemporaneamente vegetale e sorgente. Piantato alle origini da Ahura Mazda sul Monte Araiti, ha il suo prototipo nel cielo, l’hom bianco, pianta dell’immortalità che rigenererà l’universo. Le sue radici affondano in un lago dove si nasconde una lucertola che cerca di nuocere all’albero, replica del serpente Midhuigg che tenta, invece, di danneggiare le radici dell’Yggdrasil. L’hom iraniano è passato nell’iconografia occidentale sotto numerose forme più o meno riconoscibili, derivate per lo più dal tronco a doppia voluta.

Iran, epoca sassanide (VI-VII sec.):
Sciamito decorato da rotae o orbicoli contenenti due cavalieri che affrontati cacciano con l’arco

AutoreGerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx 
PubblicazioneI simboli del medioevo
EditoreJaca Book 
LuogoMilano 
Anno1981 
Pagine307-324 

Disposizione anteriore: i portali e l’idea di interdizione, caratteri generali

Sezione: Lessico


La porta è una componente essenziale della chiesa romanica. Quello che essa svolge è un ruolo capitale. È dalla porta infatti che prende il via la cerimonia della dedicatio o consacrazione dell’edificio: la chiesa comincia a esistere solo quando il vescovo ha consacrato la porta. Una simile importanza si spiega agevolmente con i testi biblici, con quelli in particolare pei quali il Cristo s’identifica con la porta.

In virtù di tale ruota, il portale comporta, come regola generale, una decorazione d’insieme particolarmente ricca, che arriva di frequente ben al di là dei contorni del portale propriamente detto. Ciò si verifica soprattutto nella zona mesopotamica – per esempio a León, a Tolosa (porta Miégeville), a Santiago de Compostella (porta degli Orafi) –, dove la decorazione dei pennacchi ai lati degli archivolti appare più ricca e più significativa di quella dei timpani. Succede anche che la decorazione si estenda ai piedritti, sotto forma di statue, annunciando in questo modo la formula gotica. Succede addirittura – è il caso di Angoulême e di Poitiers – che un programma d’insieme, che potrebbe benissimo essere concentrato su un portale – il Cristo dell’Ascensione e la Chiesa rappresentata dalla Vergine e dagli Apostoli (più altri Santi, a Poitiers), scene della Natività con la loro tipologia (figure di Profeti, ad Angoulême), Missione degli Apostoli, ecc. –, si sviluppi sull’intera facciata. Prova ne è il portale-portico di Vézelay, per esempio, che se vi comprendiamo i capitelli del nartece e i timpani laterali esprime da solo, e con più ricchezza ancora, tutto il pensiero contenuto sulla facciata di Angoulême. In effetti la distanza delle raffigurazioni, ad Angoulême, non permette, viste le dimensioni dell’edificio, tutte le sfumature della Missione degli Apostoli di Vézelay; vi mancano perfino alcuni dettagli, anzi, come la rappresentazione dei Popoli sconosciuti.

Come si sa, la soglia ha di per sé un valore sacro. Già questo giustifica l’importanza della decorazione anteriore nella chiesa romanica e soprattutto quella del portale. Da parte nostra, tenuto conto dell’ampiezza che può raggiungere la decorazione di questi portali e della varietà delle soluzioni adottate, abbiamo preferito dedicare loro una voce specifica e intitolarla «disposizione anteriore». Ad onor del vero, ci occuperemo soprattutto dei portali, giacché le facciate e i capitelli dei narteci, benché parte integrante di tale disposizione anteriore, sono diffusamente trattati sotto altre voci. In più, di tutte le componenti dell’edificio romanico, i portali sono certamente quelli che contengono la massa più considerevole di significati, su una superficie relativamente ristretta.

Si noterà, ad ogni modo, che non abbiamo scelto come voce o titolo di questa trattazione la parola «timpano». Si ha infatti l’abitudine di attribuire un’importanza estrema a questa parte del portale: e a buon diritto, se vogliamo essere sinceri, giacché proprio il timpano è l’elemento spesso più significativo della chiesa romanica. Però non bisogna dimenticare che questo è un fenomeno specifico della Francia: il timpano, per esempio, è sconosciuto in Italia, salvo casi di importazioni francesi – il che tuttavia non inficia la ricchezza di pensiero di un complesso architrave – archivolto tipo quello di Modena, con l’idea del Giudizio espressa mediante favole e temi cavallereschi (il Calcio dell’asino, la Volpe e la cicogna, l’Attacco al castello), per non parlare dell’interesse dedicato nella penisola ai battenti delle porte. Se si sopravvaluta l’importanza del timpano, è sempre perché non si fa abbastanza caso all’insegnamento espresso dai mostri, dagli animali e dai motivi vegetali che, come nel caso di Saint-Ursin a Bourges, possono inserirsi con un significato quanto mai corposo sul timpano stesso, mentre si accorda un valore eccessivo ai temi religiosi istoriati. I fioroni di Moissac, per esempio, hanno un significato che trova piena spiegazione a Beaulieu, dove gli stessi fioroni appaiono divorati dalle maschere o dai mostri: sono il simbolo dei ritorni solari, della vegetazione del mondo sottomesso al Signore. Se ne deduce automaticamente che l’architrave, in questi due complessi, completa senza ombra di dubbio il timpano propriamente detto: è addirittura indispensabile alla sua comprensione, né più né meno dei piedritti laterali e del pilastro mediano (o trumeau).

Il portale, ovverosia la disposizione anteriore scolpita, è in linea di massima, soprattutto quando la decorazione investe la facciata – giacché la cappella-nartece, il Westwerk o il campanile-portico sono più antichi –, un fatto nuovo, specificamente romanico.

Il nostro proposito qui non è quello di passare in rivista la straordinaria varietà, in Francia specialmente, dei temi dei timpani, che vanno dai soggetti romanzeschi o desunti dalle favole antiche ai soggetti propriamente religiosi, tanto sentita e tanto ferma era la volontà di istruire. E neppure è nostro intento sottoporre ad analisi la non meno grande varietà delle formule architettoniche adottate nella parte anteriore della chiesa, che possono essere grosso modo rapportate alle due fonti fondamentali, egiziana e mesopotamica. Il punto su cui insisteremo è l’idea di divieto, di interdizione, che caratterizza i portali in entrambe le zone: idea essenzialmente primitiva, che basta in buona misura a spiegare le analogie col lontano passato. Il valore della soglia è una realtà indiscutibile che ha riscontri dappertutto; una realtà che sopravvive ancora nelle abitazioni contadine, con le croci e gli amuleti di vario genere collocati sopra le porte, con le bestie e i ferri di cavallo contro il malocchio, ecc. L’altare all’interno della facciata, dove veniva celebrata una messa speciale, particolare comune alle chiese cluniacensi (vedi Semur-en-Brionnais), non è che un ricordo del valore profilattico che caratterizzava l’entrata delle chiese carolinge, con le sue porte dedicate agli arcangeli incaricati di difenderle. Le cappelle di San Michele, frequenti nei locali sovrastanti i portali d’ingresso, venivano edificate generalmente nei pressi di grotte o di precipizi; così a Rocamadour, non lontano da Padirac, così a Le Puy e in svariate località dell’Alvernia, non distanti da zone di attività vulcanica, così sul Gargano. Nella maggioranza dei casi, il loro compito era quello di scongiurare le manifestazioni infernali, di cui antri, vulcani, rupi, ecc. erano agli occhi delle genti medievali il sito predestinato. Il Varagnac ha studiato con molta cura la genesi del tema asiatico dell’arco o dell’arcata, che rappresenta, così com’è, una difesa, una barriera, parimenti utilizzabile per la gloria del vincitore e per la vergogna del vinto costretto a passarci sotto.

Fra i temi principali che «vietano» l’ingresso, citeremo naturalmente i Ieoni, che negli antichi templi-montagna mesopotamici compaiono stilla soglia, da una parte e dall’altra dell’entrata, sostituiti all’epoca assira dai Kerub, prototipi del Tetramorfo, con la loro natura multipla. E citeremo anche le sfingi egiziane, disposte su due filari, all’entrata dei santuari. I leoni posti a difesa della soglia sono una realtà romanica, siano essi i leoni cosiddetti lombardi che reggono sulla schiena le colonne del protiro oppure quelli che arrivano a essere presenti perfino sul timpano, secondo una forma mesopotamica che attesta l’importanza di questo simbolo animale nella sua zona d’influenza. Pensiamo ai leoni che si fronteggiano ai due lati del crisma di Jaca, o anche ai personaggi accompagnati dal leone, Daniele o Gilgamesh, sui timpani del portale di Oloron. Talvolta s’incontra Sansone in lotta col mostro: a Mauriac (Cantal), per esempio. Gérard de Champeaux (I simboli del medioevo, p. 194 e sgg.) ha messo bene in risalto come questi leoni dinanzi alle entrate fossero generalmente asimmetrici e associati all’ariete e all’uomo, così da implicare l’idea di un giudizio. Un preciso documento, pubblicato dal Déonna, mostra che in Svizzera i leoni posti all’ingresso delle chiese erano effettivamente adoperati dal priore «sedentem inter leones», quando rendeva giustizia. I leoni si moltiplicarono davanti alle porte della zona mesopotamica, specialmente sotto forma di allegorie imperniate sulla figura del leone (porta Miégeville a Tolosa Compostella, ecc.).

Ai temi mesopotamici corrispondono nella zona egiziana i serpenti. Tuttavia, un fatto alquanto significativo è questo; pur nascendo i temi della Lussuria, o piuttosto quello della Donna coi serpenti, aggredita da rospi e rettili che le mordono le parti genitali – tema notissimo, fra l’altro –, sul portale di Moissac, in definitiva è nella Francia sud orientale che esso incontra la sua diffusione maggiore: la Donna coi serpenti di Charlieu (d’una grazia tutta ellenica), l’orribile bertuccia di Bourg-Argental, la Donna di Dunières che ne è l’imitazione vista a mezzo busto, ecc. Nondimeno, a differenza delle coppie di leoni, simbolo del Cristo «buono con i buoni e tremendo con i malvagi», come dice san Girolamo, i serpenti non hanno alcuna possibilità di comparire sui timpani col medesimo significato, salvo che a Compostella, e ogni volta che uno di essi vi appare è solo come personificazione del demonio, nella scena della Tentazione.

Una figura mostruosa con funzioni di guardiano, somigliante contemporaneamente al leone e al drago e di significato ambiguo, è la ghul della mitologia araba, detta anche bocca d’Inferno, analoga al t’ao t’ie cinese. La troviamo indifferentemente nell’una e nell’altra zona. In quella egiziana è presente, per esempio, ad Anzy-le-Duc, alla base del timpano, insieme con l’Adorazione dei Magi e con Adamo ed Eva; tuttavia ha più importanza in quella mesopotamica. Gli studi del de Chasseloup-Laubat hanno chiaramente attestato il suo valore profilattico, negli ingressi, giacché la si colloca sempre a nord, dal lato del demonio, sui portali. La si deve raffrontare, secondo il Burckhard, al makara indiano, che veniva posto all’esterno dei santuari, entro delle nicchie, affiancato dal leone di difesa. Però la si potrebbe accostare anche alle maschere lunari, immagini dei defunti che s’accingono a entrare nel cielo, poste in cima ai pali nei villaggi dell’Oceania: le somiglianze di aspetto, infatti, se non addirittura le somiglianze di significato, sono stupefacenti. La loro collocazione all’entrata della capanna ha lo scopo di proteggere questa e i suoi abitanti contro il ritorno del morto. Non siamo molto lontani dalle chiese romaniche che debbono essere difese dalle iniziative del demonio. Quanto al mostro di cui ci stiamo occupando, la posizione che gli viene assegnata nella Saintonge, in facciata, sul lato nord, è un fatto pressoché esclusivo di questa regione: il de Chasseloup-Laubat non cita che un’unica eccezione nella Gironda. Sempre nella Saintonge, alle maschere del demonio poste sulla facciata debbono essere contrapposti i parati decorativi della parte absidale che insistono particolarmente, in funzione dell’orientamento, sull’idea dell’eletto che entra nel Cielo. Basta osservare ad Aulnay i personaggi inseriti fra le volute a S ai lati della finestra assiale, più o meno vicini al Cielo, in corrispondenza con la bilancia di san Michele su un modiglione del lato sud, mentre a nord, per un meccanismo d’inversione, è sviluppata l’idea della salvezza.

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Aulnay-de-Saintonge (Charente-Maritime). Veduta esterna della finestra assiale dell’abside.

La stessa disposizione la troviamo a Varaize, dove le ghul che divorano i rei sono raffigurate sui modiglioni sud del coro e la vittoria dell’eroe san Giorgio sul drago viceversa a nord. Analogamente, vero è che la celebre maschera profilattica di Echillais (cfr. La Civiltà… cit., tav. 129), in cima alla colonna, si trova dal lato nord, ma altrettanto vero è che dall’altro lato una maschera più piccola, intenta a ingoiare una testa, si integra al programma d’insieme di questa facciata, implicando l’idea del Giudizio.

Le maschere lunari e solari si presentano nella medesima situazione, diversamente associate alla greca solare, sul timpano di Moissac, oppure l’una adorna di foglie, l’altra in atto d’ingoiare la greca, sul secondo architrave di Beaulieu, e in quest’ultimo caso associate rispettivamente all’uomo nudo che sta per essere divorato, immagine dei Vizi della carne, e all’uomo vestito egualmente vittima di una belva, immagine dei Vizi dello spirito. Queste maschere sono collocate ai piedi del Cristo ed evocano secondo l’Apocalisse il sole e la luna che scompariranno, quando la loro luce si sarà spenta dinanzi all’Agnello che illuminerà da solo la Città celeste. Esiste inoltre una relazione sicura fra la carne minacciata, la luna e il fogliame, da un lato, e lo spirito e il sole, dall’altro. Però le maschere in questione sono pure prototipi delle future bocche d’inferno della iconografia gotica. Tutti sanno, del resto, che è stato il giudizio di Beaulieu a ispirare quello di Saint-Denis. Accanto a maschere simili a quelle della zona mesopotamica, per esempio sui portali provenzali o a Dinan, la zona egiziana nelle sue già più elaborate rappresentazioni del Giudizio conoscerà un altro genere di maschera, tipo, per esempio, il san Michele con in mano la bilancia, messo anche lui lì per difendere l’entrata. La presenza di quest’ultimo, vincitore del mostro, da solo, su un timpano che ricorda i portali d’ingresso sormontati da una cappella al piano superiore, è un fatto piuttosto eccezionale: ricordiamo ad ogni buon conto l’esempio magnifico di Saint-Michel di Entraygues, presso Angoulême, posto alla base di una cappella rotonda o per meglio dire poligonale. Ma non sono soltanto le sembianze diverse dei mostri a differenziare le due zone: bisogna anche tener conto dell’importanza relativa attribuita all’arcata mesopotamica o al timpano egiziano, delle Ascensioni con angeli annunciatori o con angeli anch’essi ascendenti delle varianti del tema delle tappe, dello sviluppo sul timpano del tema della Donatio Clavis e della Traditio legis a Pietro e Paolo, caratteristico della Zona egiziana.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 124-126

Bue

Sezione: Lessico


Si è veduta, nella giovenca rossa (Num., XIX, 1-15) o nel vitello grasso immolato dal Padre al ritorno del Figliuol prodigo, la prefigurazione del Cristo in croce trafitto dalla lancia del centurione (cfr. i copiosi commentari di Filone, di Rabano Mauro, di Bruno di Asti, di Gubernatis). Quest’ultimo ha visto inoltre nella giovenca rossa l’immagine dell’aurora, della vita, in contrapposizione alla giovenca nera che rappresenta la sera e la morte. L’assimilazione al sacrificio supremo del Signore è conforme a ciò che ci dice lo stesso Rabano Mauro circa il valore del vitello sacrificale, nel suo commentario alla Visione di Ezechiele che è all’origine del Tetramorfo.

Come si sa, nel cristianesimo antico, l’insegnamento relativo ai quattro Animali veniva impartito ai catecumeni durante la quarta settimana di quaresima. Quest’uso si è senza dubbio protratto fino all’epoca romanica, fino cioè alla scomparsa del battesimo per immersione. Si insegnava loro, in particolare, che il vitello era l’attributo di san Luca, perché il suo vangelo comincia col racconto del sacrificio di Zaccaria. In relazione alle tappe della vita del Cristo, il Vitello, vittima tradizionale ai tempi dell’Antica Legge, fa pensare al sacrificio della propria vita che il Redentore ha accettato di fare a beneficio di tutta l’umanità. A sua volta anche il cristiano, nel cammino della propria esistenza, deve essere immagine del vitello: vero cristiano è infatti colui che domina le voluttà del mondo e s’immola esso stesso.

L’idea di castità poteva accordarsi con l’usanza di castrare il bue, ma non con l’accezione corrente del toro stallone né coi valori di fecondità che in linea generale si attribuivano ai bovini. Ecco perché, pur lasciando al Bue il suo posto nel Tetramorfo – un posto inferiore, comunque, in basso e a destra, quale punto di arrivo della linea discendente –, gli si preferì l’Agnello, per evocare le virtù cristiane – perché l’agnello richiamava anche il concetto di sacrificio e al tempo stesso, grazie alla sua bianchezza, la purità verginale –, oppure il cervo, immagine del battezzato, collegantesi al rituale della caccia coi cani. Va ad ogni modo riconosciuto che il paragone del Cristo col toro fecondatore, principio di vita, fatto da taluni Padri, non poteva incontrare molto favore, non più, di certo, del tentativo fatto da ceni teologi di assimilare il Cristo a Giove che s’era tramutato in toro per rapire Europa: il Cristo-toro si era infatti fatto carico dei peccati del mondo nel suo sacrificio!

Vitello, giovenca e toro hanno dunque generalmente conservato nell’arte romanica il loro significato pagano, quello di un vizio: ingordigia e violenza, nel caso del toro infuriato. La Bibbia, d’altro canto, fornisce delle prefigurazioni: il vitello era presso i Moabiti l’immagine del dio Beelfegor e i Cananei ne avevano fatto un idolo; non solo, ma anche gli Ebrei, come si sa, durante il soggiorno di Mosè sul Sinai avevano fuso un vitello d’oro per adorarlo.

È proprio questo episodio che è stato illustrato in maniera superba a Vézelay, dove vediamo Mosè, appena ridisceso con le tavole della Legge, che si accinge a distruggere l’idolo a colpi di bastoni; un demonio tutto irto di peli – non mancano davvero i demoni a Vézelay – fugge via dalla bocca del vitello atterrito, mentre a destra un Ebreo si avvicina portando una capra per il sacrificio.

Gli antichi sacrifici del toro, che un uomo tiene per le corna, del vitello, dell’ariete e della capra compaiono sull’architrave del piccolo portale di Charlieu, in contrapposizione al miracolo delle Nozze di Cana, preannuncio della istituzione dell’eucaristia. Come si sa, l’Agnello è raffigurato in alto, entro la lunetta del portale maggiore. Secondo E. Mâle, ci troveremmo qui di fronte a una illustrazione del trattato di Pietro il Venerabile contro Pietro di Bruys: «Il bue, il vitello, l’ariete, la capra, irroravano del loro sangue gli altari degli Ebrei; solo l’Agnello di Dio che toglie i peccati del monto giace sull’altare dei Cristiani».

Troviamo un’ulteriore illustrazione del medesimo tema sul portale dell’Agnello a León: vi s’incontrano riuniti tutti gli animali sacrificali, mentre l’Agnello occupa la sommità del timpano: pecora e agnello a far da mensole, l’ariete del sacrificio di Abramo sull’architrave fra l’ebreo e il gentile vestiti da cavalieri, e infine i tori sotto i piedi dei due santi che impersonano la fede e la speranza: sant’Isidoro e san Vincenzo; questi ultimi inquadrano il timpano, entro i due pennacchi, alla maniera del san Pietro e del san Giacomo sulla porta Miégeville a Tolosa. Le figure di tori di cui sopra sono al tempo stesso l’immagine del paganesimo di un tempo, sconfitto proprio da questi santi: i tauroboli, eseguiti al servizio della Grande Dea, svolgevano infatti un ruolo di prim’ordine all’epoca gallo-romana, come dimostra in particolare il bassorilievo che si trovava una volta nella cattedrale della stessa Tolosa e che rappresentava il martirio di san Semino. Di questo bassorilievo non resta altro che l’aries-leo.

A giudizio del Thioller, il «cornute» (= toro infuriato) e la svastica del fregio esterno di Saint-Roman-le-Puy sono le prove della imitazione delle monete marsigliesi, raffiguranti questi stessi motivi, che son tornate alla luce in abbondanza nella medesima regione, soprattutto nell’oppidum di Essalois, presso Saint-Rambert (Loire). La maschera di bue non infrequente sui fregi di modiglione o sui capitelli, nel Velay, commista a delle rotelle o a delle S rovesciate, del tipo celtico, è un ricordo del paganesimo anteriore.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 76-77

Leone: il leone e il drago

Sezione: Lessico


Un’associazione o una opposizione costante fra questo animale e questo mostro caratterizza il simbolismo romanico, ispirato dall’Apocalisse. Alla radice del contrasto instauratosi fra i due sembra essere, fra l’altro, una frase di san Cesario di Arles: «È meglio essere vittima del leone che vittima del serpente». Leggendo fra le righe, bisogna interpretarla come un’affermazione della natura androfaga del leone, nel senso che questi ha solamente il potere di divorare la carne al momento della morte, come molti testi e molte figurazioni ci confermano. La carne infatti il leone la dovrà restituire nel giorno del giudizio, mentre invece il demonio, gola dell’inferno, i peccatori li ingoia e li rinserra per l’eternità. Dice del resto san Matteo (X, 28): «Non temete coloro che uccidono il corpo, ma che non possono uccidere l’anima; temere piuttosto colui (Dio) che può mandare l’anima e il corpo nella geenna del fuoco!» Nel primo consiglio, l’allusione al mostro divoratore sembra abbastanza chiara, Se Dio ci abbandona, è evidentemente al potere del drago infernale che ci consegna.

W. Déonna ritiene, dal canto suo, che gli uomini alle prese con i mostri di Daniele sul secondo architrave di Beaulieu siano ispirati al testo apocalittico (XX, 13): «Il mare rese i morti che conteneva, mentre la morte e il mondo dei morti restituirono i loro, e furono giudicati ciascuno secondo le loro opere». A me sembra invece che i veri leoni romanici di Beaulieu, così come i draghi d’altronde, siano piuttosto da ravvisare nei mostri del primo architrave; sono questi i prescelti a rappresentare gli animali distruggitori, gli stessi di Ap. XI, 17-19: cavalli che «avevano teste simili a quelle dei leoni e dalla cui bocca usciva fuoco, fumo e zolfo», che seminavano morte fra gli uomini; «infatti», precisa l’evangelista, «il potere dei cavalli sta nelle loro bocche e nelle loro code, giacché le loro code sono simili a serpenti con teste umane ed è per mezzo di queste che fanno del male». Ma anche locuste che, «a vederle, parevano cavalli preparati per la guerra…, e le loro facce erano come volti umani. Esse avevano capelli simili a quelli delle donne e i denti come i leoni… Avevano le code come quelle degli scorpioni, irte di pungiglioni, e nelle code il potere di nuocere agli uomini per cinque mesi» (Ap. IX, 7-10). Animali del genere non erano facili a rappresentarsi, in particolare la bestia a sette teste di Ap. XII, 3, ma sembra evidente che era soprattutto il leone a costituire per queste figurazioni un denominatore comune, tanto più che s’avevano a disposizione innumerevoli passi dei salmi, qualcuno dei quali lo abbiamo citato anche noi, che parlavano apertamente dei leoni come di nemici spaventosi. Ad ogni buon conto, i cavalli con testa di leone compaiono negli affreschi di Brioude, le locuste a Vézelay e il mostro con sette teste a Beaulieu. Una caratteristica, inoltre, accomuna questi animali e giustifica la ripugnanza per essi da parte di san Cesario: il ruolo più terrificante assegnato alla coda di serpente che alla testa di leone.

L’associazione leone-drago con significato nefasto ha un altro punto di partenza nel salmo 90,13:

Tu camminerai sull’aspide e sulla vipera,
e schiaccerai sotto i tuoi piedi
il leoncello e il drago.

Proprio questo versetto ha ispirato un affresco delle catacombe di Alessandria (sec. IV), nel quale si vede il Cristo vincitore di questi mostri, affiancato dal dio Horos alle prese con dei coccodrilli e nella medesima positura. È arcinota, in ogni caso, la rappresentazione famosa sul trumeau della cattedrale di Amiens, dove il «Beau Dieu» calpesta i quarto mostri.

a) Programmi storici

L’associazione di questi due mostri, collegata ai testi sopra citati, può entrare anche in programmi di carattere storico, quando vi domina l’idea apocalittica. Per esempio quando contrappone la sconfitta finale del serpente, simbolo della morte, alla sua iniziale vittoria in occasione della colpa dei nostri progenitori narrata dalla Genesi, o ancora quando si contrappone la lotta contro il serpente all’accostamento dei due animali, o meglio del leone maschio al grifone femmina, che, come la coppia del «dragone azzurro» e della «tigre bianca» alla quale è affidata in Cina la direzione dell’universo sembra esprimere l’idea della ierogamia, delle reiterazioni.

Il contrasto invece lo troviamo ad Ainay. Come si sa, sui due pilastri della campata del coro è rappresentata una sene di temi in cui si mescolano Antico Testamento e Apocalisse, ma che nell’insieme sembra una variante del tema doppio, tipico dell’area copta. Un particolare, fra l’altro, conferma tale sorgente: tre fregi, tutti e tre posti entro delle cornici formate da animali messi in fila, in coppia o isolati, esprimono l’idea delle tappe, delle virtù teologali. Il leone, incantato da Orfeo o da Davide, si trova dallo stesso lato della speranza, insieme con l’ancora. il drago invece precede il cervo e il pesce, ed è seguito dal battesimo per immersione; l’insieme vuoi porre l’accento sull’elemento acqua, sui valori umani, e si trova dalla parte del fregio che addita l’ordine della fede. Se poi ci si riferisce ai temi dei pilastri, ci si accorge che il leone e la speranza sono messi in relazione, sul lato dell’epistola, a destra, con la Vergine dell’Annunciazione, simbolo anch’essa della speranza; la Vergine, infatti, come ricordano i timpani di Neuilly-en-Donjon (Allier) e di Anzy-le-Duc (Saône-et-Loire), riscatta la colpa di Eva, ed è per questo che le scene della Genesi si trovano sulla faccia laterale. Essa prepara in pari tempo la venuta del Cristo del Ritorno finale sotto forma di Tetramorfo, e il significato del tema doppio sta proprio in questo ritorno. Drago e Battesimo si presentano, non meno logicamente, dalla parte del vangelo, sul lato nord, associate ad alcune allusioni più precise all’Apocalisse (san Michele vittorioso sul drago), all’Antica Alleanza (ciclo di Caino e Abele che mette in mostra il contrasto fra l’eletto e il dannato) e all’ultimo dei Profeti, il Battista. È noto, del resto, che secondo le regole liturgiche il battistero o la cappella del fonte battesimale dovevano essere collocati sul fianco nord della chiesa, perché il nord è la regione delle tenebre, nelle quali sono ancora immersi i catecumeni, coloro che non si sono ancora purificati col battesimo. Il programma risulta così d’una magnifica coerenza, in asse, da un lato, col dragone del peccato, della morte del corpo perituro, e dall’altro col leone della resurrezione, della speranza, della vita eterna, ecc. Benché la loro lotta non sia rappresentata, è facile indovinare la vittoria finale del secondo.

Un pensiero analogo governa l’insieme dei capitelli della crociera e delle due absidiole di Aulnay-de Saintonge (Charente-Maritime), dove questo contrasto appare ancora più significativo per il fatto che ad esso corrisponde l’altro contrasto, quello degli eletti e dei dannati, esposto sulla finestra assiale esterna dai personaggi inseriti fra le spirali delle quattro S, ma anche sui modiglioni, e soprattutto sull’intero paramento scultoreo della porta meridionale: si è ottenuta così una stretta coerenza fra l’interno e l’esterno dell’edificio. Gli uomini col leone stanno a nord e sono: Sansone col leone di Thimna (?), Daniele coi suoi leoni, Sansone e Dalila; ad essi si contrappongono Adamo ed Eva col loro serpente. Sono loro a preparare l’avvento della Città celeste, sintetizzato dai quattro Animali, dai due uomini abbracciati nei quali si riconoscono gli apostoli Pietro e Paolo, e infine dalla vittoria di san Giorgio sul drago. Vi si scorgono anche i quattro temperamenti umani, dei quali l’uomo col leone rappresenta quello più nobile. A sud c’è poi la porta famosa, con il capitello degli elefanti, che completa l’opposizione fra eletti e dannati, fra Abele e Caino, e con le sue maschere lunari, con i suoi uccelli in barca, con i dannati, coi demoni che si stanno portando via quattro dannati, ecc. E qui che dominano i serpenti: draghi avvinghiati fra loro, asini alle prese col semente, e così via. All’esterno, nella zona absidale, le cose s’invertono di nuovo; i personaggi sugli stipiti della finestra assiale sono incastrati in vario modo entro una serie di anelli formati da volute di racemi, e quelli che corrispondono all’ordine della terra, sulla sinistra, si trovano dalla parte di san Michele che pesa le anime degli eroi biblici, Sansone e Daniele, alle prese coi rispettivi leoni: cioè a sud. A destra, viceversa, ovverosia sul lato nord, compaiono degli uomini portati al cielo da aquile, o comunque da uccelli, e un’altra volta la vittoria di san Giorgio contro il drago. La stessa contrapposizione si rincontra a Varaize, nelle mensole del coro.

b) Programmi morali

I programmi precedenti iscrivono leone e drago in una prospettiva storica, in quanto evocano sia la continuità del tempo, sia la fine di tutti i tempi. Nonostante ciò, gli animali non hanno solo un significato apocalittico o cosmico in relazione con le costellazioni; hanno anche un significato morale. Ci restano perciò da vedere dei programmi iconografici che mettano in risalto le relazioni fra questi due mostri nel significato di contrasto, al quale abbiamo già accennato con l’aiuto di san Cesario e di san Matteo: in funzione, cioè, di un discorso morale.

Già nei programmi precedenti, tuttavia, si poteva intravvedere, ad Ainay per esempio, come il discorso morale facesse capolino, presentandosi sotto forma di riflessione aggiuntiva ternaria che inevitabilmente veniva a complicare la semplice contrapposizione binaria fra i due animali: come riflessione, vogliamo dire, sulle tappe dell’esistenza. Tale differenziazione distingueva da tutti gli altri un programma tipicamente appartenente alla zona egiziana. In questi programmi morali, Rozier-Côtes d’Auree, che non è meno caratteristica di questa zona, mostra l’incidenza esercitata dalla medesima riflessione.

Ciascun programma, infatti, ha qui ancora la propria specificità. In contrasto col ritmo ternario delle immagini dell’abside, i temi vanno a gruppi di quattro, nella navata di Anzy-le-Duc, e i numeri Tre e Quattro sono in accordo con le proporzioni scelte per la struttura architettonica dell’edificio. I rapporti dell’uomo col leone sono raffigurati, da soli, sul lato sud: si tratta del combattimento di Eracle, immagine dell’incarnazione o della Giovinezza, scolpito su un capitello a soggetto storico e cosmico che intende mettere in mostra anche i popoli della terra, e dei leoni con teste umane, che rappresentano la morte (cfr. LEONI DISTRUTTORI E ANDROFAGI), ecc. Il vero programma morale si presenta invece sul lato nord; due capitelli nei pressi dell’entrata, da mettere in rapporto con quello appena citato perché collocati allo stesso livello, contrappongono, sotto le sembianze degli eroi cristiani o biblici, il falso Daniele e Sansone-Daniele nudo e in atteggiamento meditativo accoccolato fra i suoi leoni, Sansone, per contro, vestito e in atto di attaccare il leone alle spalle per vincerlo meglio –, all’eroe pagano che sembra, a sua volta, dominato dalla bestia.

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Sempre in parallelo col capitello meridionale della morte, la speranza cristiana è sintetizzata da altri due capitelli: uno, da una parte, sul quale si vede il cristiano che come un acrobata sopraffatto dal doppio dragone accetta la morte della carne, l’altro, dalla parte opposta, sul quale il dragone è finalmente sconfitto l’ultimo giorno per l’intervento dell’arcangelo Michele. I quattro capitelli suddetti illustrano quindi, letteralmente, la frase di san Cesario: affrontate il leone, se non volete essere abbandonati alle spire del drago, cioè all’inferno.

Un’idea non dissimile si trova espressa a Rozier-d’Aurec secondo un ritmo ternario; ad Anzy si poteva pensare a un rapporto con le quattro virtù cardinali, qui bisogna invece vedere le virtù teologali, o le tappe della vita, come ad Ainay. L’uomo vittima della belva appare in una rappresentazione dell’androfago, cioè della morte secondo la concezione celtica: il leone è rimpiazzato dal lupo, animale tipico di tale tradizione. La testa dell’uomo fra il lupo ululante e il personaggio ignudo del secondo capitello vuole esprimere l’idea della testa che sopravvive alla decomposizione del corpo, collegata all’esaltazione della maschera umana, caratteristica anch’essa della civiltà celtica. L’uomo vestito, infine, che sale al cielo, circondato dal disco gallico e dal triangolo pitagorico, reggendo in mano la borsa, è l’uomo che ha preso su di sé la nuova carne della vita eterna. In altra pane di questo libro è detto ben chiaro, del resto, che tutti i numeri pitagorici possono essere espressi in modi diversi, soprattutto con l’ausilio di simboli vegetali. Qui inoltre non è più la fiera ad accompagnare il defunto alla sua dimora eterna, bensì il serpente gallico, dotato d’ali e di corna, simbolo anch’esso della resurrezione. E se anche l’alternativa posta da san Cesario rimane sempre valida, giacché l’uomo in preghiera dà la sensazione di volere sfuggire al dragone, in realtà lo spirito del contrasto leone-drago è quanto meno profondamente modificato, in relazione col significato diverso che viene dato al serpente nella zona egiziana. L’uomo non è più come ad Ainay la vittima del doppio serpente: ne è diventato l’alleato, si potrebbe dire. Il ritmo ternario deve comunque essere collegato ai tre giorni trascorsi da Cristo nel sepolcro, alla triplice immersione del battesimo primitivo o alla triplice aspersione del battesimo attuale nel nome della Santissima Trinità: il battesimo non è infatti che una morte simbolica, e una resurrezione altrettanto simbolica, non molto dissimile dalle iniziazioni primitive. Esso però si ispira pure all’importanza estrema che i Celti attribuivano al numero Tre.

Nella cripta di Hagetmau, il ritmo dualistico è tipico della zona mesopotamica e s’inserisce in un contesto apocalittico che ricorda i due architravi sovrapposti di Beaulieu – però è anche evidente la presenza di una riflessione morale; l’uomo alle prese col leone rappresenta anche qui i vizi della carne come tutti gli uomini col leone. Due uomini infatti, stanno scaraventando le vittime ignude entro le fauci dei mostri; per contro, sull’altra faccia del capitello, un personaggio vestito ne tira fuori altri due da altrettante fauci, afferrandoli pei capelli: esso incarna la speranza cristiana, la vittoria dell’asceta sui peccati corporali. Sul capitello accanto, poi, più vicino al fondo della cripta, degli uomini che indossano tuniche folte di panneggi lottano a colpi di spada contro degli uccelli orrendi, con teste di drago, assai simili a basilischi: la loro è la vittoria sui peccati dello spirito, secondo le norme di un leitmotiv insito nel pensiero romanico.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 186-189

Leone: leoni distruttori e androfagi

Sezione: Lessico


Abbiamo citato nelle pagine precedenti il testo dell’epistola di san Pietro in cui è mostrato l’aspetto satanico del leone. Il leone che divora l’uomo, altro aspetto della coppia uomo-leone presente nei capitelli spagnoli che abbiamo studiato all’inizio del paragrafo precedente, ha la sua origine nell’androfago celtico, che di fatto era un lupo, come si può vedere nel rilievo di Noves al Museo di Avignone. Altri testi biblici però hanno giustificato la frequente rappresentazione di animali distruttori da parte della scultura romanica: un esempio è dato dalla visione, che venne offerta a Daniele (cap. 7), di quattro animali simboleggianti le quattro grandi monarchie destinate a essere distrutte prima della venuta del regno eterno del Messia, e facenti al tempo stesso opera di distruzione: «Il primo era un leone con ali d’aquila», il secondo era «simile a un orso» al quale si ordinava di «divorare molta carne», il terzo un leopardo a quattro teste, animale che il bestiario faceva discendere dal leone; del quarto animale l’aspetto non è precisato, ma è detto ch’esso «mangiava, stritolava e poi calpestava coi piedi tutto ciò che restava». È stata questa visione a ispirare l’aspetto conferito agli animali del secondo architrave di Beaulieu, i quali, al contrario di quelli del primo architrave, si scagliano contro gli uomini per sbranarli. Sia pur con teste differenti, tre di essi per lo meno hanno corpi leonini, in perfetto accordo col testo biblico. Ma i leoni mangiatori di uomini possono altresì ispirarsi a un passo dell’Apocalisse che parla di «cavalli con testa di leone e coda di serpente, i quali era proprio con questa coda che facevano del male». I Salmi, inoltre fanno spesso riferimento ai leoni distruggitori; per esempio, nel Salmo 17, il malvagio è paragonato al «leone avido di dilaniare», al leoncello che sta in agguato dentro il suo nascondiglio», mentre nel Salmo 10 esso «s’imbosca in luogo nascosto, come un leone nella sua tana»; e si potrebbe continuare.

Tuttavia il leone androfago appare talvolta nell’arte romanica in maniera singolare. Esso trae origine dall’idea della dualità che si fonde nell’unità: capita addirittura che esso si presenti come un mostro con due corpi ma con una sola testa. il problema è stato studiato da W. Déonna nel suo importante lavoro sulla chiesa di Saint-Pierre di Ginevra: egli si è basato come noi sulla disposizione delle sculture, ma senza occuparsi del simbolismo vegetale che fa la sua comparsa essenzialmente nei due rosoni del coro. Lo stesso tema insolito si rincontra nelle chiese del Poitou.

Viceversa, gli scultori di Anzy-le-Duc e di Charlieu, innamorati dell’Antichità classica come lo erano tutti in Borgogna, hanno rifiutato queste formule più o meno barbare: i leoni, separati, si fronteggiano all’angolo del capitello, pestando con le zampe una maschera umana, per esprimere in fin dei conti la medesima idea.

Effettivamente il nostro tema si presta benissimo per fondere due teste in una sola, all’angolo del capitello, però bisogna francamente ammettere che il risultato è piuttosto ripugnante. Per questo si sono adottate diverse altre soluzioni. Per esempio, il «leone ascendente» di Cunault, figurazione del Cristo, fra l’alfa e l’omega, con una triplice palmetta tra le fauci: la sua testa è doppia – nel senso che è perfettamente riconoscibile su entrambe le facce del capitello –, perché sono i due aspetti del Cristo «terribile e dolce» che essa deve evocare; il leone inoltre si trova sotto un arco delineato da un fregio a zig-zag con dodici dentelli che significano la Chiesa. Un programma particolareggiato fa il giro del coro sui capitelli di Carsac (Dordogna): al primo posto una belva in posa di «contrasto» (con la testa cioè volta in senso contrario al corpo) ricorda i mostri fronzuti, asimmetrici, della cripta di Saint-Roman-le-Puy. E da qui che prende il via il programma suddetto. Suo scopo, sul lato nord, è quello di richiamare alla mente il Giudizio; la coda termina con un motivo vegetale a tre nervature, simboleggiante il Cielo, il quale le avvolge il ventre, stagliandosi giusto al centro del corpo – molto simile alla coda del lupo androfago di Rozier, che passa invece dietro il corpo della bestia per finite in una sorta di trifoglio –; con le fauci, infine, addenta la zampa destra della belva ad essa perfettamente uguale che le sta alle spalle, sullo spigolo del calato.

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Come si sa, la foglia di per sé è simbolo di resurrezione; i leoni con parti del corpo formate da foglie sono perciò, in tutti i casi indicati, da considerare sotto due aspetti: per la loro androfagia e per l’essere simboli di rinascita alla vita divina.

Fra i «leoni di foglie» è giusto citare anche il leone ascendente di Saint-Eutrope, a Saintes, nonché i due leoni simmetrici all’ingresso della cappella di Doña Sancha, dipendente dalla cappella dei re di León: questi ultimi sono ridotti a delle semplici maschere, e appaiono differentemente associati a dei motivi vegetali. Le due formule – leoni con due corpi e una sola testa e «leoni di foglie» – possono a volte combinarsi fra loro e perfino con figure di uomini col leone: lo vediamo per esempio a Bagés (Spagna), dove il leone s’identifica con la palmetta per via delle due code terminanti a foglia e per le altre due foglie che gli spuntano da dietro il dorso, tutte e quattro intagliate da nove striature, numero notoriamente simbolico, e dove non è da escludere che nello stesso leone (o leonessa piuttosto) sia da vedere la maschera della terra, data la tipica testa di gorgone che gli è stata affibbiata. Sull’importante portale di Nuaillé, una delle piccole chiese della Saintonge, insieme con Saint-Mandé, il cui ingresso ricalca la famosa porta meridionale di Aulnay, si trovano tutti gli elementi di Bagés trattati in maniera meno inquietante, più pittoresca e narrativa. Il tema è sviluppato su una colonna assai larga, a sinistra dell’entrata, ornata al centro da una sorta di triglifo. Ad essa fa capo l’archivolto esterno del portale, sul quale sono in particolare rappresentate l’Adorazione dei Magi e la storia di san Giorgio (tema frequente nella Saintonge), e a cui corrispondono, sull’abaco, dei leoni accostati l’uno all’altro, e sulla colonna delle striature volte, com’è logico, a destra. La prolissità dello scultore, ligio alla moda delle regione, ha dell’incredibile. Due uomini, con altrettanti leoni che volgono la testa a tergo, sono scolpiti sulla faccia del capitello; uno è disteso quasi in orizzontale, come quello di Echillais, sulla schiena della belva, tutto proteso all’indietro, e cerca di aprirle la bocca con le mani e coi piedi; più su, un altro leone si morde la coda: è questo, senza dubbio, il lato della giovinezza. Il secondo, seduto in modo più normale, sembra ritrarsi di fronte alla minaccia della fiera, tanto più che sopra di lui compaiono contemporaneamente la ripugnante maschera della terra e un uccello non meno orrido, temi abituali nelle figurazioni dell’uomo col leone: si tratta evidentemente della vecchiaia. Una terza coppia, infine, nella strombatura del portale, mostra l’uomo che viene ormai divorato – e questa è la morte. Però è sull’abaco, alto quanto il càlato sottostante, che si presenta il tema che ci interessa, al quale, per altro abbiamo già fatto cenno, ma senza sottolinearlo; ci riferiamo ai due magnifici leoni congiunti da un’unica testa, dalle cui fauci, come da quelle del leone di Cunault, esce uno stelo con tre foglie; uno di essi, per giunta, quello ritratto sulla faccia principale del manufatto, è ulteriormente ravvolto in un magnifico motivo vegetale costituito anch’esso da tre grandi foglie. Fa loro riscontro, sulla destra del portale, la lotta contro dei mostri metà uccelli e metà serpenti, sul tipo di quella di Hagetmau, a cui si aggiungono delle scene di androfagia, nelle quali si vedono degli uomini vittime di maschere impressionanti.

Siamo indubbiamente di fronte a temi particolarmente difficili. Ma, se non altro, essi mettono in evidenza l’inesauribile fecondità degli scultori romanici e molti dati (soprattutto numerici, com’è ovvio) mostrano che la variazione delle formule adottate risponde comunque a dei canoni precisi e che certi elementi fissi sono stati volutamente mescolati in combinazioni perfino dissomiglianti.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 180-181

Leone: leoni doppi simbolici

Se il leone è simbolo di resurrezione, segno di vita rinnovellata, è perché esso si presenta anzitutto come simbolo della forza. Però l’amore ha il potere di portare questa forza agli estremi. Per questo lo si rappresenterà in coppie. L’istinto familiare è vivissimo in lui. La fame, se si tratta di una leonessa, oppure una minaccia per i suoi piccoli, oppure ancora la loro sparizione, scatenano immediatamente i suoi impulsi alla violenza. Il maschio giuoca volentieri con loro e si comporta galantemente con la sua compagna. Simboli di giustizia, i leoni in coppia indicano anche l’ambiguità del Cristo «benigno coi buoni, implacabile coi malvagi», secondo san Girolamo. Queste molteplici accezioni, apparentemente contraddittorie, sono evidentemente presenti all’uomo romanico che ha moltiplicato i leoni sui capitelli, dinanzi agli ingressi, per lo più come supporti delle colonne dei protiri, nei timpani, ecc. Il valore del simbolo è messo fuor di dubbio dal fatto che l’animale era, come si può intuire, assolutamente estraneo alla fauna locale e perciò copiato, con maggiore o minore abilità o disinvoltura, dai tessuti orientali. All’origine dei leoni a coppia e del doppio significato del leone è la stessa Bibbia. Troviamo il leone terribile e simbolo di giustizia nel Deuteronomio (XXXIII, 20-21):

Benedetto colui che ha reso prospero Gad!
Egli ora si posa come fiero leone,
Ha sbranato braccia e teste.
Ha scelto per sé le primizie del paese conquistato,
Giacché era la parte del principe
Che qui gli era stata riservata.
Ha marciato alla testa del popolo
E ha eseguito di concerto con Israele
La giustizia e le sentenze dell’Eterno.

I leoni a coppia, simboli di forza e custodi della potenza reale, come nell’Egitto dei Faraoni, compaiono nella descrizione del trono di Salomone (1Re, X, 18-20): «Il re fece anche costruire un trono d’avorio e lo rivestì d’oro fino; questo trono aveva sei gradini, delle teste di toro alla spalliera e due bracci, uno di qua e uno di là, ai lati della sedia; un leone stava accanto a ciascuno dei due bracci altri dodici leoni stavano sui gradini; sei da questo lato e sei dal lato opposto…». Ricordiamo anche la benedizione impartita a Giuda da suo padre Giacobbe (Genesi, IL, 9-10): «Tu sei un leone, o Giuda. Soprattutto quando ritorni con la tua preda, figlio mio… Egli si piega, si sdraia come un leone; come una leonessa anzi. Chi oserà farlo alzare? Lo scettro non sarà mai strappato a Giuda né mai il bastone del comando sfuggirà ai suoi discendenti…». In opposizione a questi aspetti forti del leone, la sua debolezza dinanzi al servo di Dio risulta evidente nell’episodio del leone di Thimna, con il quale si trova alle prese Sansone (Giudici, XIV, 5-6): «… Era appena arrivato alle vigne della città, quand’ecco un giovane leone gli si fece incontro ruggendo. Sansone, investito allora dallo Spirito del Signore, senza aver nulla in mano lo squartò come si squarta un capretto». All’estremo opposto del leone difensore della potenza reale, appare, nella Prima Epistola di san Pietro (V, 8), il leone satanico: «Siate sobri e state in guardia! Il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone ruggente, in cerca di chi divorare». Infine, il leone simbolo di resurrezione non è soltanto inserito nella visione tetramorfica; lo si ritrova anche al centro della rivelazione apocalittica, unico degno di aprire il libro, come l’Agnello; uno dei Vegliardi dice a Giovanni (Apocalisse, V, 5): «Non Piangere! Ecco che ha vinto il leone della tribù di Giuda, il rampollo di Davide: ha conquistato il potere di aprire il libro e di rompere i sette sigilli». L’aspetto «cristico» del leone è messo qui in pieno risalto, al contrario del testo di san Pietro che ne fa invece l’immagine di Satana.

L’ambiguità delle due componenti del leone si trova puntualizzata in numerosi testi di sant’Ireneo, di Valeriano e di tutti i Padri. Le sue parti anteriori lo collegano al cielo, le parti posteriori alla terra, e questo lo avvicina molto ai grifoni. Come dice Filippo di Thaon:

La forza della divinità di Gesù Cristo
Alberga nel suo ampio petto.
Nella sua parte di dietro
Fatta in modo meschino
Dimora l’umanità.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 176-177

Nastri: nastri doppi

Sezione: Lessico


Variante complessa degli uomini col leone (gli uomini asserviti ai desideri della carne) e delle cacce all’orso con picche e schidioni, non sono rari gli uomini alle prese con delle sirene inseriti entro una doppia maglia di nastri intrecciati disegnanti dei cerchi concentrici: coloro che vivono sottomessi con tutto il loro essere alla fatalità sono completamente rinchiusi entro questi cerchi; quelli che rappresentano il bene riescono invece a districarsene meglio. Ci troviamo perciò di fronte a una forma grafica di significato opposto a quello che il cerchio ha, generalmente, nella zona egiziana, dove esso fa da cornice alle immagini degli eletti. Questo significato mesopotamico del cerchio può essere verificato su uno dei doppi capitelli della Daurade al Musée des Augustins di Tolosa: vediamo infatti, su uno dei lati minori, un ampio cerchio privo di ornamenti che inquadra Satana mentre fa crollare la casa di Giobbe; seguono, su una delle facce principali, due nastri circolari, legati con del fogliame, che contengono il seguito delle disgrazie dello stesso Giobbe, mentre su quella opposta, nella quale è effigiato Giobbe che respinge i consigli degli amici e riceve la visita dell’angelo, i cerchi sono riuniti con degli avvolgimenti di motivi vegetali che disegnano per due volte il tracciato dell’incrocio e annunciano la fine dei tormenti. Sull’ultimo lato, infine, Giobbe reintegrato nei suoi beni viene ricompensato pei meriti che ha acquisito, e il cerchio è scomparso. Nella zona egiziana la progressione delle incorniciature si sarebbe sviluppata nella direzione contraria. I personaggi della Daurade dentro il doppio cerchio sono da accostare ai personaggi inseriti nelle volute a forma di S della finestra assiale di Aulnay-de-Saintonge.

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Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 209-210

Incrocio: uccelli o esseri alati in posizione di «contrasto»

Sezione: Lessico


La serie di uccelli con la testa volta all’indietro che compare sul rovescio dell’altare di Tolosa evoca l’ignoto, ciò che verrà «dopo» – mentre gli altri temi ricorrendo all’aiuto di personaggi, evocano i tre aspetti dell’Incarnazione: il Cristo sacerdote, profeta e re. clip_image002Tali uccelli hanno grosso modo lo stesso significato delle squame che appaiono sul rovescio del trumeau di Moissac, squame che d’altro canto ornano la parte superiore del medesimo altare per evocare il Cielo.

È del tutto naturale che gli uccelli, gli esseri alati in genere, come i grifoni, che vengono spesso raffigurati in atto di mordersi l’ala, al fine di simboleggiare la pigrizia, la passività femminile, oppure la dannazione, oppure ancora l’aspirazione all’assoluto, appaiano in posizione di «contrasto». Le sovrapposizioni di grifoni con la testa all’indietro che si vedono a Cuxa stanno, diciamo così, in parallelo, con quella loro sfumatura di femminilità, con le leonesse incrociate del trumeau di Moissac.

È ovvio, però, che temi così ambigui possono essere spiegati solo in un contesto perfettamente determinato. A Chauvigny, per esempio, le sfingi coi fantasiosi berretti calcati in testa – quattro in tutto –, associate alla spirale, evocano con ogni evidenza le fasi lunari. Ciò che le rende significative è proprio il fatto di essere in quattro, un numero che è anche il numero di Satana (chiaramente segnato sulla lastra quadrata che questi tiene in mano); si tratta perciò di una immagine dell’inferno, dell’eternità delle ripetizioni, confermata dai punti posti al centro dei rombi disegnati dall’incrociarsi delle linee sui loro colli cilindrici e ripetuti in pratica all’infinito. Più avanti esse ricompaiono accanto alle personificazioni della Vecchiaia e della Giovinezza, destinate dalla loro comune fragilità a rotare intorno a Satana. E infine, eccole ancora accanto all’uomo di profilo, immagine della debolezza, e ai tritoni barbuti con la bestia che si nasconde la testa – accanto, cioè, alla malattia e alla morte. A queste sfingi femminili debbono essere contrapposte le sfingi maschili, solari, che si trovano dalla parte dell’uomo visto di fronte, simbolo della forza virile, associato al leone-cuore con dodici ciocche, la cifra della Chiesa. Lo stesso concetto è riconoscibile ad Aulnay: l’uomo di forte tempra accetta coscientemente la storia e la determina, pronto in ogni momento ad affrontare la morte. Ci troviamo di fronte, insomma, a un programma svolto in senso rotatorio, straordinariamente denso di significati, tutti gli elementi del quale hanno un preciso senso, come ad Aulnay.

Uccelli con la testa volta all’indietro particolarmente significativi sono la colomba (?) posta nel pennacchio fra le due arcate della Evasione di san Pietro ad Hagetmau, le altre due colombe inserite fra i cacciatori e l’orso sul capitello detto appunto della Caccia all’orso, già alla Daurade, l’aquila nel pennacchio superiore fra i due medaglioni della Caccia al cervo di Saint-Gilles-du-Gard, gli uccelli che si mescolano all’altra Caccia al cervo sul capitello di Salnt-Aignan-sur-Cher, ecc. L’uccello che si presenta come immagine dell’anima è, in tutti questi casi, uno strumento per illustrare in modo diverso la vittoria dello spirito, dell’anima, sul corpo e sulla carne.

In rari casi, anche personaggi demoniaci possono essere raffigurati in posizione di «contrasto». Lo vediamo sul primo capitello di Chauvigny, nel caso dei due demoni uno con piume di gallo che tira su la figura ignuda della Giovinezza, l’altro nudo lui stesso e d’aspetto cavallino, funereo, che minaccia la Vecchiaia reticente. Le loro teste sono disarticolate rispetto al corpo: ciò per dimostrare il potere malefico di Lucifero, verso il quale essi trascinano le loro vittime.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, p. 170

Scimmia

Sezione: Lessico


Zona mesopotamica

Secondo la spiegazione comunemente accettata fino a questo momento, il tema della scimmia è stato reso popolare all’epoca romanica da saltimbanchi e giocolieri, e la cosa sembra in molti casi abbastanza verosimile: basta pensare allo stemma scolpito nella navata della cattedrale di Bayeux, sul quale si vede l’ammaestratore di animali che tiene al guinzaglio una scimmia accoccolata su una colonnina. L’abbigliamento dell’uomo è chiaramente orientale. La stessa scena è frequente nel Cantal, dove capita d’incontrare l’animale seduto di profilo in una posizione simmetrica rispetto a un acrobata o a delle danzatrici. A Dienne è una donna a stringere il collo dell’animale con una specie di laccio, senza sforzo e senza lotta; nell’altra tiene un flauto e un tamburello.

A parte ciò la scimmia, com’era ovvio, è stata trattata anche sotto l’aspetto emblematico come immagine dei vizi. Nelle regioni del sud est è stata soprattutto la rappresentazione dei suoi appetiti sensuali che sembra avere colpito l’immaginazione: è il caso della bertuccia che reca al collo un monile di fine oreficeria su un capitello di Saint-Gaudens; il suo atteggiamento è suggestivo: due figure alla sua destra sembrano gustare lo spettacolo delle sue attrattive un po’ speciali. La bertuccia in questione si inserisce in un programma di tipo meridionale, abituale nel sud ovest, nel quale appaiono delle figure umane asimmetriche alle prese con degli orsi, che nel caso specifico hanno rimpiazzato i leoni. Sul portale di Oloron-Sainte-Marie, un uomo ignudo, per metà trasformato in animale, con le zampe munite di artigli e col muso di scimmia, è la manifestazione degli effetti prodotti dagli allettamenti che la cortigiana, novella Circe, una donna dai lunghi capelli nella stessa posizione accovacciata, ha esercitato su di lui. Nel timpano della Tentazione a Compostella, certi demoni hanno teste di scimmie.

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Sulla facciata di Saint-Jouin-de-Marnes, delle scimmie che si danno le spalle nella parte frontale del capitello campeggiano alla sommità della colonna doppia che sovrasta il rilievo rappresentante Sansone e Dalila e lo stesso Sansone in lotta col leone.

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Accanto a esse, la Vergine dell’Annunciazione. Tale associazione è perfettamente coerente: l’atteggiamento delle scimmie concorda con la perdita della virilità da parte dell’eroe, mentre il combattimento con il mostro sta a indicare la vittoria sulla fecondità ed è in armonia con la maternità virginale.

Una successione analoga si può rilevare a Saint-Gilles-du-Gard. Delle scimmie incatenate, accucciate l’una di seguito all’altra, sono raffigurate alla base del piedritto di sinistra, sul quale sono stati evocati insieme i vizi, la dannazione e la morte sotto i tratti della belva androfaga. Sul basamento dirimpetto, le scene inserite nei cerchi – centauro e cervo, Balaam, Sansone (?) e leonessa con i suoi cuccioli –, facenti riscontro ai soggetti precedenti, con Davide che ammansisce le fiere alla maniera di Orfeo, richiamano i temi dei temperamenti umani (Quaternità, Quattro), che si contrappongono a quello del Tetramorfo. In questo modo, l’evasione dalla condizione animale rappresentata dai temperamenti suddetti è messa in contrasto col precipitare in essa rappresentato dalle scimmie.

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Ma se la trasformazione del peccatore in animale è spesso raffigurata facendo ricorso ai lineamenti della scimmia, sono i demoni quelli che più spesso ne assumono i tratti del volto. In effetti, è stata notata la somiglianza di questo animale con l’uomo. Si sa che i pitagorici attribuivano un significato del tutto particolare agli animali che ci rassomigliano, per esempio al pappagallo che è capace di parlare: il tema si ritrova, in scultura, a Saint-Restitut e ad Anzy-le-Duc, posto al di sopra dell’hom paradisiaco, e, in pittura, a Brioude, su un affresco, in relazione con l’accesso al Paradiso dell’anima di sant’Egidio o di san Giuliano. Pare tuttavia che in questo contesto la scimmia evochi piuttosto la dannazione. Con i lineamenti caricaturali del suo muso, con la sua andatura bestiale, il suo pelo e la sua nudità, essa rappresenta la congiunzione dei peccati della carne con quelli dello spirito, autentico Leitmotiv dell’iconografia romanica. Espressione di questa accumulazione, le scimmie sono assai spesso, come hanno dimostrato gli esempi precedenti, raffigurate in coppia.

Zona egiziana

In questo senso succedeva di rado che le scimmie fossero tenute eccessivamente lontano da san Michele vittorioso sul dragone. Era così a Brioude e a Saint-Gilles. E così ancora a Serrabone, dove la scimmia ha visibilmente un significato erotico. D’aspetto assai bello, in una positura non meno triviale di quella riscontrata nei complessi precedentemente analizzati, essa contempla con aria divertita le distruzioni apocalittiche che si stanno verificando sul capitello vicino. Sull’altra faccia del capitello, infatti, san Michele, che indossa lo stesso abito sacerdotale del Cristo di Cuxa, muove all’attacco del serpente brandendo la sua croce astata.

Nelle zone dell’alta Loira ci s’imbatte in scimmie atlanti imparentate coi cinocefali dell’antico Egitto: al pari dell’uomo accovacciato sorridente e sconcio di Le Monastier, che sta vicino alla bilancia di san Michele, la scimmia accovacciata, che richiama alla mente il coccim caccans gallico (Déchelette), doveva avere valore di amuleto, non diversamente dal «babbuino» di Chazay d’Azerguez (babet, babouin, o anche bobe sono termini rimasti nel dialetto locale; in essi sono condensati – come nel caso della statua di Vienne – i ricordi delle più diverse divinità antiche, oggetto di idolatria o di superstizione). E questa accezione che sembra spiegare il tema della «scimmia accordellata» della Bassa Alvernia, tema che si trova associato molto logicamente ad altri soggetti provenienti dall’Antichità pagana, dal. l’ermetismo: uomo con l’albero a Y, uomo con l’agnello, ecc.; la sua localizzazione corrisponde alle chiese della Francia centrale, nella regione intorno a Clermont-Ferrand, da Brioude a Lanobre, fino a Biozat, nella Limagna borbonese, e a Droiturier, nell’Allier.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 247-248