Sezione: Lessico
Zona mesopotamica
Non esiste probabilmente nell’arte romanica maschera più singolare di questa: il suo aspetto suggerisce i più strani raffronti con tutte le regioni della terra. Né di certo esiste altro elemento scultoreo che più di questo dia adito a riflessioni e sollevi problemi filosofici. Le sue accezioni tuttavia, così come la sua genesi, sembrano chiare. In ogni caso, esso dimostra quale fosse il potere di immaginazione e quale il genio creatore dei maestri romanici. Decisamente fondamentale è, a questo proposito, studiarne attentamente la collocazione negli edifici. Il de Chasseloup-Laubat, che l’ha analizzata per la Saintonge, ha dimostrato che salvo un’unica eccezione, situata per altro a Petit-Palais, nel dipartimento della Gironde, queste maschere che egli chiama «grand’goules» rifacendosi al folklore locale, sono collocate tutte quante a nord, quando si trovano all’interno della chiesa (che è poi, in effetti, il caso più frequente). A volte decorano il calato di un capitello, come se volessero «ingoiare» la colonna sottostante, ed è questo in particolare il caso di Échillais, dove la maschera ha molta somiglianza con i T’ao t’ie cinesi, specialmente con quelli dell’epoca Han: stessi occhi sporgenti, stesse orecchie a punta di lancia, stesso labbro cascante, inciso da quattro crepe, e soprattutto, particolare importante, stessa mancanza di mascella.
È stato senza dubbio un passo della Bibbia a ispirare gli artisti; ci riferiamo alla descrizione del leviatano, o coccodrillo mostruoso, contenuta nel libro di Giobbe (XL, 25-32 e XLI, 1-26): «Puoi tu prendere con l’amo il coccodrillo e con funi legarne la lingua? Metterai forse un giunco nelle sue narici e con un uncino bucherai la sua mascella?… Le porte della sua bocca chi mai le aperse? Nelle sue zanne abita il terrore. Il suo dorso è di lamine di scudi, saldate con forte sigillo… I suoi starnuti fanno risplendere la luce. Gli occhi suoi sono come le ciglia dell’aurora. Dalla sua bocca escono faci, schizzano fuori scintille di fuoco. Dalle sue nari viene fuori fumo, come da caldaia che bolle sul fuoco; il suo respiro accenderebbe carboni e una fiamma gli esce dalla bocca… ecc.». Sono le stesse parole alle quali si rifà É. Mâle a proposito del «drago d’inferno», ma, come al solito, egli affronta il tema solo nell’arte gotica, dove esso corrisponde alla «bocca d’inferno». La maschera va accostata alla Grande Goule che veniva portata in processione a Poitiers, alla Tarasque di Tarascona, vinta da santa Marta, al Graouilly di Metz, alla Garguille di Rouen, alla Lézarde di Provins, ecc.: il miglior mezzo per ricondurla alla ragione consiste nell’aspergerla di acqua benedetta e nell’avvolgerle una stola intorno al collo, dopo di che la si può tenere al guinzaglio come un cane. Essa è al tempo stesso, nella Bibbia, il mostro sconfitto da san Michele e dalle sue legioni di angeli, lo stesso mostro che minaccia la Donna in procinto di partorire; è il dragone, o il basilisco, schiacciato dal piedi della Vergine o del Cristo (il Beau Dieu di Amiens). Come si sa, nelle rappresentazioni dei «misteri» alla fine del medioevo, si vedeva questo stesso mostro raffigurato come una smisurata bocca, accompagnata da una caldaia, con la quale venivano richiamate alla mente le fiamme che essa doveva vomitare. Ed era dentro questa bocca che venivano scaraventati i dannati, costretti a passare fra i denti acuminati della maschera mostruosa.
L’amo del libro di Giobbe (XL, 25) ha avuto anch’esso grande fortuna: una miniatura dell’Hortus deliciarum di Herrade di Landsberg rappresentava il Cristo che prendeva all’amo il famoso mostro, con l’aiuto di una fila di Profeti, effigiati entro una serie di medaglioni. L’illustrazione non faceva che tradurre in immagini l’interpretazione data da san Gregorio Magno al versetto corrispondente: colui che doveva prendere all’amo il Leviatano era il Cristo, grazie alla sua vittoria su Satana. I più famosi esegeti del libro di Giobbe, Odone di Cluny e Bruno di Asti, trasmisero questa dottrina a Onorio di Autun, il quale a sua volta la sviluppò ulteriormente e l’approfondì scrivendo: «Leviatano, il mostro che naviga per il mare del mondo, è Satana. Dio ha lanciato la sua lenza in questo mare. Il filo di questa lenza è la generazione umana del Cristo; il ferro dell’amo è la divinità del Cristo; l’esca è la sua umanità. Attirato dall’odore della carne, Leviatano vuole acchiapparla, ma l’amo gli lacera la mascella».
Nonostante ciò, le maschere della terra romaniche oltrepassano, e di molto, questo significato ristretto. In linea generale, esse sono assai più numerose nel sud ovest della Francia, dove il tema del Giudizio è, come si sa, appena abbozzato. Naturalmente, in certi casi, come nelle grand’goules di Aulnay, situate a sinistra della facciata e quindi al nord, è proprio questo mostro dalla gran bocca spalancata che si è voluto raffigurare, per ben due volte. Dal canto loro, le sculture che rivestono gli archivolti dei portali, secondo la moda tipica della Saintonge, presentano, nel primo di questi, un programma di significato apocalittico, con l’Agnello circondato dagli angeli; nel secondo, le Virtù – Pazienza, Castità, Umiltà, Generosità, Fede, Concordia – che permettono di accedere alla salvezza; nel terzo si fa allusione al Giudizio, con le Vergini sagge e le Vergini folli e il Cristo accanto alla porta chiusa (cfr. Mt., XXV, 10); nel quarto, infine, i Lavori dei mesi e i segni dello zodiaco. Si tratta di un ordine perfettamente logico: infatti, «non sapendo né il giorno nè l’ora» (Mt., XXV, 13), noi dobbiamo portare pazientemente a termine la nostra opera nel mondo; le maschere, figurazioni dell’Inferno, minacciano coloro che rimangono inattivi, ed è per questo che si è dato loro un aspetto terrificante: una di esse sembra ricalcata pari pari sulla maschera della Gorgone greca o di Medusa, quale poteva essere vista sulle anse del famoso vaso di Vix: si direbbe che essa sia come vomitata e suscitata da due orrendi mostri a coda fronzuta. L’altra ha la bocca aperta ancora di più e somiglia piuttosto al ben noto T’ao t’ie di cui si è già parlato.
Queste maschere sono collocate all’esterno della chiesa per difenderne ed esorcizzarne l’ingresso. Hanno perciò un valore profilattico o scaramantico; il battesimo stesso non veniva forse impartito sotto l’arco dell’entrata occidentale? Bene: questa collocazione del rito rispondeva esattamente al medesimo spirito; col battesimo, infatti, si libera il nuovo cristiano dal giogo del demonio e lo si difende contro le sue seduzioni. Ma vi sono altre maschere sui capitelli all’interno della chiesa, con significati diversi, nelle quali è meno marcata la somiglianza col modello cinese. Due di esse si trovano sul lato sud; per comprenderne il probabile significato bisogna analizzarle con la massima diligenza e considerarle nel contesto dei restanti capitelli che a quelli si affiancano.
Quattro maschere decorano dunque alcuni capitelli della navata centrale: il n° 14 sul terzo pilastro sud, il n° 19 del quinto pilastro sud, e soprattutto quello a nord ovest del quadrato della crociera. Qui le maschere espongono, con le loro varianti, con i motivi che le accompagnano sugli abachi, con la loro collocazione stessa nell’edificio, un pensiero diverso e più ricco. Senza dubbio si tratta sempre della maschera mostruosa che ci ingoia, alla quale fanno riscontro sul lato nord: l’acrobata avvoltolato su se stesso con la testa fra le gambe, che richiama alla mente quello di Anzy evocante la morte; una variante dell’androfago; degli uccelli a testa indietro che stanno divorando un essere deforme, del quale si vede soltanto la parte posteriore; e infine il tema degli uccelli con la barca, frequente in questa chiesa, tema che ha sempre, di certo, un senso funerario, in quanto la barca della vita contiene un’allusione ben chiara, in una regione marittima come la Saintonge, ai pericoli che minacciano l’uomo. Se è vero che le quattro arcate dei portali esterni ci mettono di fronte alle realtà terrestri e quotidiane, altrettanto vero è che queste quattro maschere (comprendendo nel numero la maschera esterna) contengono un riferimento ai quattro elementi della materia e che ognuna di esse richiama a suo modo le forze della natura. La prima, all’esterno, col suo aspetto massiccio e le sue fauci spalancate, rappresenta il regno sotterraneo, la terra. Quella collocata allo stesso livello dell’acrobata, di forma circolare, con due orecchie appuntite che evocano le fasi della luna, col suo naso appuntito, triangolare, con le dodici ondulazioni dei capelli che le fanno corona (il dodici è il numero delle relazioni col mondo), è ad un tempo lunare e terrestre: essa corrisponde all’elemento acqua.

È il simbolo della passività e della femminilità. Particolare importante, inoltre: i suoi occhi sporgenti sono ciechi; le pupille non sono indicate in alcun modo. La si vede, come tutte le cose di questo mondo, sottoposta alla dualità, alla divisione, giacché sull’abaco due dischi emisferici simboleggiano la terra e il cielo: l’acqua, nella cosmologia del medioevo, era contemporaneamente sospesa nell’aria, al di sopra del cielo, e sotto terra. Corrispondendo infine all’acrobata, che esalta con la sua posa la potenza del corpo, è quindi l’immagine della carne che con essa viene condannata, della carne che non si sente responsabile e che aspetta la propria sorte tremando di paura. Corrisponde cioè alla giovinezza che non sa prendere decisioni.

Per contro la terza maschera, molto diversa, di lineamenti maschili, abbondantemente baffuta e barbuta, molto più regolare, con le orecchie da gatto meglio formate, è sormontata, sull’abaco, dallo stesso motivo che adorna, all’esterno della chiesa, l’intradosso dell’arco con la parabola della Vergini folli e delle Vergini sagge: foglie di lauro, decorate con una rosa al centro dell’ovale (motivo preso in prestito dal mondo antico), alternativamente girate verso destra e verso sinistra, in modo da formare un fregio a zig-zag; le sta accanto un groviglio di serpenti e di fiordalisi, simbolo maschile; e si trova, per di più, non lontana dalle figure di Adamo ed Eva. In contrapposizione alla giovinezza indecisa, questa maschera corrisponde alla virilità, allo spirito forte e volitivo. Qui le pupille sono segnate e le si vede distintamente. E posta inoltre in presenza dell’alternativa del giudizio, della Y, indicata dalle foglie, ed è con questo che si spiega la sua aria angosciata. La virilità infatti, con la possibilità di scelta che ci pone davanti, ci conferisce la piena responsabilità delle nostre azioni, le stesse che faranno poi pendere i piatti della bilancia o da una parte o dall’altra. Tale maschera corrisponde perciò alla terza arcata esterna, quella in cui è evocato il Giudizio finale. Il tema simboleggia l’ordine intermedio e il cielo visibile, l’elemento aria. Infine la quarta maschera, solare, dai capelli fiammeggianti, con la barba a sei ciocche (Sei = potenza), con gli occhi bene aperti ma di grandezza normale, si trova nei pressi dell’abside, accanto al Sansone vittorioso sul leone, eroe anch’egli di natura solare. Essa corrisponde all’elemento fuoco, all’ordine della carità, della salvezza, alla senilità, all’etere invisibile, alla vittoria del cervello, dell’intelletto. Delle quattro, è questa indubbiamente la testa più armoniosa e, possiamo dire, divina. Sullo stesso lato nord, la lotta di san Giorgio col drago è sovrastata da un abaco con una sola fila di semicerchi, ma si tratta dell’ordine superiore, celeste. Questa maschera corrisponde essa pure all’arcata del primo portale, quello dell’Agnello.
L’analisi serrata della disposizione consente di cogliere quello che può essere, più o meno, il senso di queste maschere. Esse evocano la trasformazione dell’essere divino sotto forme diverse, in relazione con gli elementi del creato, con la natura molteplice e una al tempo stesso. Aulnay è importante perché è in questa regione che si giunge alla creazione di una maschera identica al T’ao t’ie cinese. E impossibile, del resto, non accostare queste quattro maschere al suddetto T’ao t’ie, i cui occhi erano quelli del gufo, animale notturno, a sua volta ritratto più volte in questa chiesa-museo, le cui orecchie, così come la dentatura e le sopracciglia, erano quelle della tigre o del leone, animale quest’ultimo non meno frequentemente ritratto, mentre le corna e il muso erano quelli del bufalo, in questo caso del bue, animale «inferiore» del Tetramorfo; il suo corpo infine aveva la linea sinuosa del serpente, raffigurato anch’esso ad Aulnay con frequenza pari alle precedenti. Questi quattro animali, che venivano a formare un Tetramorfo capovolto, dovevano proprio per questa ragione piacere parecchio alla immaginazione romanica. Sul timpano di Girolles (Loiret), due maschere evocano, rispettivamente, quella di destra in basso la terra, per via della sua forma rotonda, e al tempo stesso l’aria, per via delle sue gote rigonfie con le quali sembra soffiare sulle onde, che rendono col loro agitarsi l’idea del mare; l’altra, a sinistra in alto, il fuoco.
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Sempre a sinistra, in modo da formare con le due maschere il tracciato di un triangolo, un dragone sembra sbucare fuori dal movimento rotatorio: si tratta senz’altro dell’immagine della totalità, giacché esso, essendo contemporaneamente serpente, pesce, mammifero e uccello, partecipa a tutte e quattro le nature – terra, acqua, aria e fuoco – indicate dalle stesse due maschere. Di queste, quella con le gote rigonfie separa, nella rappresentazione della genesi, l’elemento solido dall’elemento acquoso e assicura con lo stesso la crescita della vegetazione. A tale riguardo, bisogna fare riferimento all’interpretazione della stessa Genesi data da Thierry di Chartres (1121-1155) nel suo Opusculum de opere sex dierum. Quanto alle due maschere del secondo architrave di Beaulieu, la prima, quella girata verso l’alto che sta ingoiando una greca, sembra evocare l’etere, a cui fa ritorno lo spirito – ci troviamo, nella fattispecie, dal lato dell’uomo vestito –, mentre l’altra, fatta di foglie e adagiata orizzontalmente, dal lato dell’uomo nudo, rappresenterebbe la terra, alla quale fa ritorno la carne. In questo caso, la fonte va cercata negli scritti di Bernardo Silvestre. A Moissac poi, nella serie di maschere adagiate anch’esse orizzontalmente, l’una sull’altra, in modo da formare un fregio verticale sul pilastro cubico dei piedritti, vanno viste altrettante «maschere della terra», in rapporto con altri cinque fregi, anch’essi verticali, formati da elementi vegetali, da mammiferi, da pesci e da uccelli, ovverosia dai quattro elementi costitutivi della bestia, con la sola variante del motivo vegetale a forma di bastone ricurvo al posto del serpente. Due ulteriori maschere (l’aria e l’acqua?) inquadrano il fregio a fioroni dell’architrave. Dalle bocche, infine, delle maschere del fuoco e dell’etere, l’una orizzontale, l’altra diritta, viene vomitata, o ingoiata, la greca, simbolo del fuoco celeste, che avvolge la composizione del timpano. Al di sopra della maschera diritta, questa greca disegna la croce luminosa, la croce cioè del Giudizio, alla quale fa palesemente cenno uno dei vegliardi. Ci troviamo insomma di fronte a sei maschere diverse, tante quanti sono i giorni della creazione, e sei fregi verticali, il terzo dei quali corrisponde alla maschera della terra come nella A di Carlo il Calvo. Tale numero indica in pari tempo l’onnipotenza divina, magistralmente espressa dal Cristo del timpano.
Di tutte le trasformazioni successive dello Spirito, sorto forma di maschere, la più suggestiva è senza dubbio quella che troviamo raffigurata nella chiesa del Saint-Saveur di Dinan. La maschera divina, rappresentata da una bella testa barbuta si trova dalla parte dell’albero della Genesi, mentre la maschera della conoscenza ha la forma del cuore o del triangolo capovolto, in evidente contrasto con la forma data alle teste dei demoni. Entrambe queste maschere si trovano a destra del portale. Una maschera animale, e più esattamente bovina, accompagna invece le immagini della Guerra e del Pellegrinaggio. Segue una maschera cilindrica (la torte d’avorio?), vicina alla figura dell’Alchimista o del Mago. E infine una maschera rettangolare, spigolosa, a bocca quadrata (la terra?), che è associata alla figurazione dei Vizi maschili e all’androfago con cui termina il programma. Il motivo conduttore è sempre quello della carne che ritorna alla terra.
Il tema pone in risalto, con particolare pertinenza, l’adattamento profondo, tale da sembrare in larga misura eretico, che si è fatto del pensiero pagano antico. Ed è per questo che si giustificano le analisi dettagliate che noi gli dedichiamo. Non ne esiste probabilmente nessun altro che possa essere giustificato in maniera più sicura, a dispetto della bizzarria che lo contraddistingue, con l’ausilio di un’infinità di testi. La sconcertante omonimia che vi riscontra in particolare F. de Chasseloup-Laubat può essere in certa misura spiegata, giacché si è mostrato come gli elementi più mostruosi tendano, su un piano universale, a somigliarsi tutti fra loro. Tuttavia lo sbalordivo accostamento con la maschera cinese costituisce un fenomeno alquanto singolare, al quale non abbiamo dato ancora una spiegazione. Fra tutte, la più semplice è che le vicende degli scambi commerciali, specialmente sulla via della seta, abbiano potuto far giungere in Occidente un qualche prodotto artistico proveniente dall’Asia estremo-orientale e che esso sia stato imitato, in quanto i testi tratti da dottrine filosofiche, eretiche o scientifiche, che abbiamo già citato, consentivano di capirlo; è significativo, infatti, che l’analogia con la Cina si manifesti essenzialmente in una regione marittima come la Saintonge, avente rapporti col Vicino Oriente. Quanto poi alla gestazione del tema su un piano più generale, occorre far ricorso a tutta una serie di rappresentazioni, in primo luogo alla maschera della Medusa, così come si vede sul cratere di Vix, imitata ad Aulnay e ad Anzy-le-Duc. Maschere, inoltre, che ricordano quelle dei fiumi antichi sono tutt’altro che sconosciute nell’iconografia bizantina; se ne possono vedere per esempio sui manoscritti di provenienza costantinopolitana conservati nella Biblioteca di Lione. A loro volta, secondo il Parrot, un ruolo non secondario nella trasmissione di una forma che era ben nota all’antica Mesopotamia debbono averlo svolto, senza dubbio, anche le maschere vomitanti nastri e festoni, entro i cui cerchi appaiono avvinghiate figure di animali, notoriamente diffuse nei tessuti sassanidi. E tuttavia, tutti questi motivi di ispirazione vicino o estremo orientale, tutti i testi della scienza e della filosofia, antichi o contemporanei, non riuscirebbero mai a spiegare compiutamente l’identità delle maschere romaniche con la maschera cinese, col makara indiano, con le teste dei defunti issate sui pali delle capanne nelle isole dell’Oceania o presso i Bamun dell’Africa centrale, o addirittura con la maschera del Tlatoc azteco. Queste corrispondenze, fra loro così lontane, non possono avere altro che un substrato naturale; abbiamo parlato di regioni marittime o in relazione col mare; ora, basta esaminare le meduse che si arenano sulle spiagge della Saintonge per constatare, specie quando sono capovolte, la loro stupefacente somiglianza con le maschere dell’arte romanica: sorprendono in particolare le due larghe cavità che spiegano il perché degli occhi sporgenti delle maschere in questione, i cui capelli irti hanno l’aspetto di una cresta perfettamente simile a quella formata dai tentacoli delle stesse meduse. Inoltre, la maschera circolare che queste disegnano non ha più mento di quanto ne abbia il «ghiottone» cinese. Per contro – ed è questo un fatto di fondamentale rilevanza, che non poteva non far riflettere –, le meduse, quando galleggiano sull’acqua, soprattutto se se ne osserva la parte superiore, la cosiddetta ombrella, hanno gli stessi lineamenti di quel simbolo cosmico che è la croce entro un cerchio. Questi due modi di mostrarsi delle meduse, complementari e insieme contraddittori, ne avevano si di motivi per attrarre l’attenzione.
Zona egiziana
La maschera non è sconosciuta in questa zona, né diverse sono le idee che essa vi evoca; però da un lato è spesso più vicina a dei modelli antichi autonomi che non a quelli dell’Estremo Oriente, e dall’altro la si vede confusa talvolta con la cosiddetta bocca d’Inferno dell’arte gotica, in relazione col Giudizio, che come si sa è il tema tipico della zona. Un esempio ci è dato dal timpano di Anzy-le-Duc, dove, insieme con le contrapposizioni Eva-Maria, Peccato originale-Adorazione dei Magi, Inferno-Paradiso, troviamo una maschera capovolta, in tutto simile a un’autentica bocca d’Inferno, verso la quale si dirige il dragone che porta con sé i dannati accolti al loro arrivo dai demoni. Viceversa il leone, contro cui si scaglia san Michele sul quarto capitello del lato nord, ha una maschera di Medusa o di Gorgone, pressoché identica a quella del Vizio, con la sola eccezione della lingua, che non è pendula, come di norma nelle personificazioni di quest’ultimo. J. Carcopino afferma che fino al secolo V, due secoli dopo l’affermazione decisiva del cristianesimo, questa maschera conservava ancora per i soldati il suo significato apotropaico. Ad Ainay, la maschera che per la sua collocazione in basso rappresenta un’indubbia maschera della terra è priva di mento, come quelle della Cina e della Saintonge, particolare, questo, che sta a indicare l’atto dell’ingoiare, del divorare, del deglutire.

Essa si trova esattamente nella parte inferiore del fregio centrale, sotto il fregio degli animali – quello più caratteristico –, del quale fanno parte un altro «ghiottone» e l’orsacchiotto che addenta le sbarre della sua gabbia. Da questa maschera fuoriescono dei nastri doppi che incorniciano i suddetti fregi con figurazioni animali. La sua collocazione ricalca alla lettera le parole di Macrobio, riprese da Thierry di Chartres: «Di tal genere sono i legami con i quali la natura ha incatenato la Terra. E verso di essa, infatti, che tutti i corpi s’indirizzano, in quanto, essendo al centro del mondo, essa non si muove. Non si muove, perché di tutti i corpi essa è quello collocato più in basso; e il corpo verso il quale s’indirizzano tutti gli altri non poteva non essere il più basso».
Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 197-202
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