Alexander Neckam, De naturis rerum – Presentazione

Sezione: Studi


Alexander Neckam o Alexander de Sancto Albano, erudito e scienziato inglese vissuto tra il 1157 ed il 1217, può considerarsi uno degli autori più fecondi del Medioevo: scrisse di liturgia e di scolastica, di grammatica e di storia biblica, compose fabulae e trattò di virtù morali come della nomenclatura di strumenti di ogni genere. Tuttavia la sua opera capitale, che lo rese celebre presso i contemporanei e i posteri, fu senz’altro il De naturis rerum, un grande compendio scientifico in prosa.

Innanzi tutto merita attenzione il singolare richiamo che un testo di questo genere porta con sé, ossia l’invito a guardare e pensare l’universo come un meraviglioso tappeto tramato di innumerevoli nomi e figure simbolici, secondo un ordine che coniuga mistero e bellezza, vanità mortale e arcani misticismi, creature ordinarie con monstra e mirabilia. Le cose tutte, dalle stelle ai colori, dalle pietre ai sogni, agli stessi avvenimenti storici o mitici, divengono qui cifre di qualcos’altro, una sorta di poliedrico lessico rischiarato da una mirabile unità: omnia in unum tendunt scrive Agostino nel De ordine. È un mare di creature che, nel rispetto e nei limiti della gerarchia delle cose, pensata neoplatonicamente, costituisce il concento del Creatore e il veicolo attraverso cui l’uomo, aurea medietà tra Dio e i regni naturali, può conoscere se stesso e il senso di ogni cosa nella mirabile cornice redentiva del messaggio cristiano: per visibilia ad invisibilia.

L’uomo medievale si sente il colpevole epigono di Adamo nel perduto Paradiso: come questo dava allora i nomi alle creature, quello, ormai allontanato dal Giardino, prova ora a ritrovarli, perché ne ha dimenticati i suoni e la pronuncia, ignora il senso delle parole e delle immagini edeniche, e le cerca in un pellegrinaggio altrove che coinvolge l’anima e il corpo.

Una volta Adamo conosceva il linguaggio divino, dove il nome e la cosa nominata coincidono sostanzialmente, adesso la sua errante progenie tenta di imitarlo, in ben minor grado e con ben più fatica. Qui, come vuole il dettato paolino, il senso delle cose (dei verba e delle imagines), della creazione e del divino, si può cogliere soltanto “per speculum in aenigmate”, e non più direttamente, “faccia a faccia”.

Ne consegue che, per l’uomo decaduto, l’unica possibile via per accedere alla Sapienza sia quella di una lettura simbolica del fenomeno mondano: tale da trasmutare gli “oscuri riflessi”, che ci appaiono dinanzi, in signa dell’invisibile. L’imperfezione diviene pertanto un umile gradino sulla strada della perfezione, ed il signum o symbolum può coniugare il caduco all’eterno. Così quest’uomo crede di imitare – analogicamente s’intende – la sapiente parola del primo Adamo, il suo colloquio con la natura divina delle cose, come può immaginare di volare di nuovo su quel mare di creature fino ai più alti cieli. In quest’ottica sta la genesi dell’enciclopedismo medievale. Ma non solo. Infatti l’uomo medievale si sente anche l’erede ed il continuatore della cultura antica, dell’idea di una classificazione dello scibile umano secondo dati cosmologici, cronologici ed etimologici, ovvero di una catalogazione della totalità di conoscenze relative ad un determinato campo. Si tratta di ciò che oggi chiamiamo enciclopedia, termine ignoto al Medioevo e che inizierà a circolare in Europa soltanto agli inizi del XVI secolo. Le Antiquitates di Varrone (116-27 a.C.), oggi perdute ma note ad Agostino, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23/24-79), il De lingua latina ancora di Varrone, sono i modelli classici di una simile concezione. È Agostino (354-430) a sottolineare, nel De doctrina Christiana, quanto sarebbe opportuno riunire tutte le conoscenze per interpretare le Scritture: e qui sta il nodo della questione, cioè nella interpretazione e ripresa che il cristianesimo dette del concetto di “enciclopedia” proprio del mondo antico. Difatti mentre nelle opere degli autori classici l’intento è prevalentemente scientifico e documentale, si guarda cioè alla storia del mondo e dei suoi fenomeni rispettandone sia la complessità che le contraddizioni e la molteplicità delle opinioni (naturalistiche, filosofiche, etimologiche o altro che siano), con l’avvento del Cristianesimo tutto ciò si restringe, l’angolo di visuale viene ridotto ad un monocolo: la verità è la dottrina cristiana e ad essa tutto va rapportato e commisurato. Si afferma così, in tempi e modi diversi, con toni più o meno accentuati, quel fenomeno della moralizzazione cristiana del sapere che impregnerà l’intera produzione “enciclopedica” medievale.

Si tratta di un oscillante connubio tra fede e scienza, tra curiositas e accettazione passiva di nozioni bibliche e patristiche, che trova, a seconda di questo o quell’autore, soluzioni discontinue. Tuttavia costante e prevalente rimane per tutti l’intento pedagogico ed evangelico: lo scopo dell’“enciclopedista” o compilatore medievale è soprattutto quello di edificare spiritualmente il lettore, relegando in secondo piano, e talvolta ignorandolo, quell’intento storico-critico ed ermeneutico, alieno da pregiudizi, comune a un Varrone o ad un Plinio il Vecchio. Il fine infatti è di accostare il fedele ad una giusta condotta morale secondo gli insegnamenti cristiani, di favorirne la conoscenza del mondo così come l’ha creato Dio e l’hanno spiegato le Sacre Scritture. Allora nelle pagine degli “enciclopedisti” è comune trovare, accanto a dati scientifici, talvolta di grande interesse, ‘autorevoli’ affermazioni che ‘moralizzano’ cristianamente tali dati, secondo un meccanismo analogico che ne garantisce la veridicità in maniera apodittica. Alcuni esempi: l’astro lunare allude alla Chiesa, perché esso è illuminato dal sole proprio come la Chiesa lo è dal Cristo; la balena “è il pesce che ricevette Giona nel ventre suo”; le candide perle significano la dottrina evangelica o la speranza del regno dei cieli; lo stagno è allegoria del discorso sofistico e della simulazione degli eretici, mentre il ferro della tribolazione e della sofferenza; lo smeraldo reprime la lussuria e protegge dalle illusioni diaboliche.

Dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (ca. 560-636) al De rerum natura di Beda (673-753), dal De universo di Rabano Mauro (784-856) all’opera di Neckam o al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, composto verso il 1250, fino all’immensa compilazione, lo Speculum mundi, di Vincenzo di Beauvais (morto nel 1264), o a Li Livres dou Tresor di Brunetto Latini (1240-1294), il significato delle parole e delle immagini, del tempo e dello spazio verranno trasmessi, mutatis mutandis, sotto l’egida dei dottori cristiani e delle Scritture, in un orizzonte sempre e comunque cristocentrico.

Esemplare testimonianza sono alcune parole del dottissimo Isidoro di Siviglia, il capostipite di questa tradizione, a proposito del suo De natura rerum. Si legge nella dedica: “Quae omnia secundum id quod a veteribus viris ac maxime sicut in litteris catholicorum virorum scripta sunt, proferentes brevi tabella notamus. Neque enim earum rerum naturam noscere superstitiosae scientiae est, si tantum sana sobriaque doctrina considerentur” (“Esponendo tutte queste cose secondo quanto è stato scritto dagli antichi e massimamente come ne hanno trattato gli autori cattolici, ci siamo comportati con grande concisione. Infatti la conoscenza di questi fenomeni naturali non è propria di una scienza superstiziosa, se soltanto vengano esaminati con dottrina incorrotta e giudiziosa”). La non velata distinzione tra autori pagani e quelli cattolici, come il parallelismo tra superstizione e dottrina incorrotta riflette in breve il tema della moralizzazione di cui sopra. Non a caso il De natura rerum è una compilazione musiva di notizie cosmografiche e meteorologiche, inerenti gli anni, la notte e il giorno, le stagioni, la corsa dei pianeti, le stelle, lo zodiaco, i venti, i mari, i fiumi, il fulmine, e così via. Ebbene nel testo, seppure non manchino prelievi, non sempre diretti, da autori come Quintiliano, Marziano Capella, Servio, Igino, Lucano, Lucrezio, Solino o Virgilio, le auctoritates vere e proprie che garantiscono le sue parole, di scienziato e di credente, sono soprattutto Girolamo, Ambrogio, Agostino, Gregorio Magno e Cassiodoro, oltre ovviamente ai Vangeli e all’ Antico Testamento.

Non molto diversamente, circa due secoli dopo, Rabano, altro magister di questa vision du monde, comporrà con il suo De universo una vasta glossa allegorica o mistica alle Etymologiae dello stesso Isidoro. Analogamente, circa cinque secoli dopo, Neckam coniugherà scienza e allegorismo morale, fantasiose etimologie e simbolismi edificanti, avvertendo che la sua opera vuole soprattutto innalzare lo spirito del lettore a Dio attraverso Cristo, citando ancora come indiscutibili autorità i Padri della Chiesa e la verità biblica, senza per altro dimenticare Virgilio, considerato un negromante, Ovidio, Claudiano e altri “antichi”.

Di notevole interesse, per l’intelligenza del pensiero “enciclopedico” medievale, è lo studio dell’organizzazione interna di questi trattati, che non è alfabetica né cronologica tout court, bensì segue di solito una divisione gerarchica o tematica delle cose naturali o artificiali, della storia sacra o di quella profana, delle virtù e dei vizi. In particolare nell’età d’oro dell’“enciclopedismo”, cioè tra il XII ed il XIII secolo, questo tipo di struttura interna risente dello schematismo gerarchico dionisiano. Infatti, la fortunata opera di Dionigi Areopagita, approdata in Europa nel IX secolo con la traduzione dello Scoto Eriugena, propone un modello gerarchico, di conio neoplatonico, per cui l’universo intero è realmente una scala, una catena di creature tra loro interconnesse e disposte gerarchicamente. A partire dall’alto il risultato della causalità divina ha prodotto angeli, uomini, animali, piante ed esseri inanimati. Al di sopra di tutti stanno i nomi divini, che giustificano ontologicamente quella stessa trama gerarchica e costituiscono il vero oggetto di conoscenza per l’uomo. L’artificio dionisiano viene esplicitamente preso come guida tematica da Bartolomeo Anglico per il suo De proprietatibus rerum e Tommaso di Cantimpré, nel Liber de natura rerum composto verso il 1240, suddivide l’opera parlando prima dell’uomo poi degli animali (seguendo naturalmente una processualità che va dai quadrupedi fino ai vermi), successivamente delle piante e infine al mondo minerale.

Un simile tessuto di nozioni se da un lato trova il fondamento della storia e della natura nei fatti biblici e nella parola di Dio, dall’altro individua, come si diceva sopra, nel linguaggio allegorico o simbolico lo strumento più adatto per decifrare e descrivere quella storia e quella natura. La ragione di ciò ha il suo crogiuolo concettuale nella convinzione dei maggiori Padri della Chiesa, da Girolamo a Gregorio, da Origene ad Agostino (ma fondante è Paolo nella Lettera ai Galati, IV,24: “Queste cose sono dette in senso allegorico”), che la Scrittura, “creata” da Dio come il mondo, in quanto rivelazione dell’unico Altissimo e Verbum Redemptionis, costituisca una “infinita sensuum silva”, contenga allegoricamente un oceano di significati e di misteri, la cui profondità benché indecifrabile va scandagliata e meditata dal credente. Infatti interpretare le allegorie ed i simboli delle Scritture permette di decrittare appunto la “scrittura” di Dio e dunque la sua volontà. Similmente spiegarne il senso morale permette di esaltare quei parametri virtuosi che edificano la fede, così come accogliendone il messaggio profetico ed escatologico si risolve il senso della storia e della salvezza.

Il libro della “natura delle cose” si dispiega e scorre dinanzi agli occhi di Neckam e degli altri compilatori enciclopedici allo stesso modo in cui si leggono le pagine della Bibbia: l’analogica e l’allegorica li coniugano, il simbolismo misterico li salda. Ne nasce quello straordinario e mirabolante vocabolario di nuove combinazioni iconologiche, di sincretismi figurativi e verbali, di azzardate e talvolta sconclusionate etimologie, che forse costituisce ancora oggi uno dei contributi più affascinanti del Medioevo. Epoca in cui il simbolo e il traslato non si sovrappongono alla realtà, ma l’accompagnano fino a fondersi con essa, fino all’invenzione di una vera e propria realtà fantastica, ma non fantasiosa.

Il trionfo di tanto “enciclopedico” linguaggio verrà poi concretato nell’arte dei chiostri, dei capitelli, sulle pareti o sui portali delle chiese, nelle miniature e sulle stoffe: ovunque i bestiari e i florari, la Biblia pauperum o il cielo e gli elementi verranno materiati da scalpellini, muratori, pittori e tessitori. Le sillabe e le parole scritte nel libro di Neckam, come quelle che corrono nelle altre opere consimili, si trasferiscono così nell’arte e una chiesa istoriata diviene un libro, le cui pagine sono le pareti e le superfici dei più svariati membri architettonici. Un simile insegnamento per figure permette al fedele di guardare e contemplare la scala della “natura delle cose”, e di incamminarsi, viandante, sul monte sofianico dell’universo: ne può ammirare l’ordine, la misura, la musicale gerarchia. In questo il Medio Evo appare il degno e nobile erede delle fabulae e dell’harmonia di una più antica e arcana sapienza, che spetterà poi al Rinascimento, come ai secoli successivi, riconoscere, studiare e ricollocare degnamente nella storia e nel mito precristiani, quando Thoth e Orfeo, Prometeo e Atena, Aglaofamo e Pitagora educavano gli uomini sulla secreta “natura delle cose”.

AutoreMino Gabriele
PubblicazioneAlexander Neckam: De naturis rerum libri duo
CuratoreThomas Wright 
EditoreLa Finestra (Archivio medievale)
LuogoLavis (TN)
Anno2003 
PagineIII-XII

Paolo di Tarso

Sezione: Lessico


Fonti

Paolo di Tarso, principale artefice della dif­fusione del Cristianesimo nel mondo roma­no, non ha mai conosciuto Gesù di Nazaret e non fa parte del collegio dei Dodici. È un giudeo ellenizzato della diaspora, cittadino romano, del quale conosciamo la vita attra­verso gli Atti degli Apostoli e le sue stesse Lettere.

Inizialmente, Paolo si distingue per l’o­dio nei confronti dei discepoli di Cristo; prende parte alla lapidazione di santo Stefa­no, il primo martire, custodendo vesti dei suoi carnefici (At 7). Ma il suo destino si ca­povolge: sulla via che va da Gerusalemme a Damasco, è colpito e interpellato dal Signo­re: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Questo incontro sconvolgente lo spinge a convertirsi a Cristo, diventandone uno dei più ardenti predicatori. Dopo un lungo pe­riodo di ritiro e di studio, predica a Dama­sco, provocando l’ira dei Giudei, tanto che è costretto a fuggire dalla città calandosi dall’alto delle mura dentro una cesta, fissata ad una corda. In seguito, sale a Gerusalemme per essere confermato nella sua missione da­gli Apostoli più importanti, in particolare Pietro e Giacomo. S’imbarca poi per tre viaggi missionari attraverso l’Asia Minore e fino in Grecia. Tornato a Gerusalemme, è arrestato dai Romani su denuncia dei Giu­dei. Condotto a Cesarea davanti al governa­tore romano, si appella all’imperatore ed è quindi portato prigioniero a Roma. La nave sulla quale è imbarcato fa naufragio al largo di Malta; accolto sull’isola, scampa miraco­losamente al morso di una vipera. Infine ar­riva nella capitale dell’Impero dove resta prigioniero, ma con una deroga particolare che gli consente di incontrare la comunità giudaica della Città con la quale discute, un’ultima volta, sulla verità del Vangelo di Gesù, Cristo e Signore.

Secondo la tradizione, fu martirizzato a Roma nell’anno 64, sotto l’impero di Nero­ne. Come cittadino romano, ebbe il privile­gio di essere decapitato, mentre il suo compagno Pietro subì la sorte degli schiavi, la crocifissione.

Iconografia

L’iconografia di Paolo riprende i temi prin­cipali tratti dagli Atti degli Apostoli e dai suoi stessi scritti; tuttavia è meno ricca di quella di Pietro, più popolare di lui presso i Cristiani.

1. Le figure isolate

Gli artisti hanno fissato le caratteristiche del ritratto di Paolo fin dall’alto Medioevo. Il Santo è calvo, barbuto, con la fronte bomba­ta. Per esaltarlo, lo si rappresenta general­mente come un uomo di statura imponente. A volte porta dei sandali che ne ricordano la vocazione apostolica; e spesso ha in mano il libro delle sue Lettere. E ritratto così sul­l’ambone della cattedrale di Cagliari.

Cagliari, Cattedrale di Santa Maria Assunta – Ambone: San Paolo

A partire dal XIII secolo, è rappresen­tato di solito con la spada, strumento della decollazione.

Un bassorilievo della chiesa di Mague­lonne, nella Linguadoca, ce ne dà un’immagine originale: il suo volto è forte­mente caratterizzato, quasi asiatico, con oc­chi leggermente a mandorla, una barba a due punte e lunghi baffi spioventi.

Maguelonne, Cattedrale – Bassorilievo: San Paolo

Ha le gi­nocchia leggermente flesse e i piedi nudi. Sotto il portico della chiesa di Saint-Pierre a Moissac, la sua statua mostra uno sguardo illuminato dalla fede. Paolo appare come un visionario impetuoso e un mistico appassionato.

Moissac, Chiesa di Saint-Pierre – Portico, pilastro mediano: San Paolo

Lo scultore della facciata di Saint-Gilles-du-Gard ha insistito sulla sua vocazione apostolica: come Giacomo Mino­re, rappresentato accanto a lui, Paolo calpe­sta un leone che sbrana un ariete; è l’immagine del discepolo intransigente che com­batte i pagani e gli idolatri.

Nelle miniature dei manoscritti, lo vedia­mo spesso nell’atteggiamento dello scriba seduto al suo tavolo, come nel Lezionario di Echternach (tav. 126), nella cattedrale di Treviri.

Brema, Staats- und Universitätsbibliothek – Ms. b 21 (Evangelistario di Enrico III): San Paolo scrivente

2. Il ciclo della leggenda

Un grandioso ciclo narrativo dedicato a san Paolo si trova sulla facciata della chiesa di Ripoll, in Catalogna, ma alcuni episodi della sua storia sono raffigurati anche singolar­mente in varie opere del periodo romanico.

2.1. La conversione sulla via di Damasco

È la scena più celebre del ciclo. Nel mano­scritto della badessa Herrat di Landsberg, l’Hortus Deliciarum, una miniatura ce la pre­senta in maniera simbolica: Saulo è a terra fra un lupo e un agnello, che rappresentano rispettivamente il suo passato e il suo avve­nire, mentre Cristo gli appare entro un alone di luce e lo minaccia con la spada per spin­gerlo a convertirsi.

2.2. Il battesimo

Saulo è accecato dalla visione di Cristo; i suoi compagni di viaggio lo portano a Da­masco dove è battezzato. A questo punto, dai suoi occhi cadono miracolosamente del­le scaglie ed egli recupera la vista. Questo episodio è rappresentato a Ripoll.

2.3. I miracoli

Un affresco della cattedrale di Canterbury illustra molti miracoli del Santo, alcuni dei quali sono poco conosciuti: Paolo acceca l’empio mago Elima; guarisce un paralitico a Listra; sbarca sull’isola di Malta e scampa al morso di una vipera: mentre si pre­para ad attizzare un fuoco, la serpe gli si attac­ca alla mano e Paolo la scuote sulla fiamma.

Canterbury, Cattedrale – Affresco: San Paolo e la vipera

2.4. Il martirio

La decollazione di Paolo è raffigurata a Ri­poll, mentre su un capitello del chiostro di Moissac compare il Santo mentre viene con­dotto al supplizio, accompagnato da un An­gelo. Sullo stesso capitello, è rappresentata anche la crocifissione di Pietro. La stessa scena si trova in un affresco della chiesa di Petersberg, in Germania.

2.5. Il mulino mistico

L’immagine del mulino mistico non ha rap­porto diretto con la leggenda di san Paolo; si tratta di un tema simbolico, che risale certa­mente al grande abate di Saint-Denis, Sugero. Il mulino che trasforma il grano in farina, o l’uva in vino, è qui un’immagine di Cristo che, col suo Vangelo, porta a compimento l’antica Legge di Mosè. Il tema compare in un celebre capitello della basilica di Sainte- Madeleine a Vézelay. Isaia, che personifica l’Antico Testamento, versa il grano, mentre san Paolo, che rappresenta la Nuova Allean­za, raccoglie la farina. Notiamo che il Profe­ta biblico è calzato, mentre il discepolo di Cristo è a piedi nudi.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 297-299

Isacco

Sezione: Lessico


Fonti

Isacco fa parte della grande schiera dei Patriarchi della Bibbia. La sua nascita ha del miracoloso poiché i suoi genitori, Abramo e Sara, erano quasi centenari quando l’Angelo di Dio annunciò loro la prossima nascita di un figlio. Nel racconto della Genesi, il ruolo di Isacco è messo un po’ in ombra da quelli di suo padre e di suo figlio Giacobbe. Egli è il protagonista della celebre scena del Sacrificio: l’Eterno mette alla prova suo padre, Abramo, chiedendogli di sacrificare «tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco» (Gn 22,2). Nella sua grande fede, Abramo si prepara a obbedire, ma l’Angelo del Signore ferma il suo braccio già alzato. Abramo allora sostituisce ad Isacco un montone che sacrifica al posto del ragazzo.

Una volta adulto, Isacco sposa Rebecca, la donna che Eliezer, servo di suo padre, va a prendere per lui tra il suo parentado in Mesopotamia, la terra dei suoi padri. Il vecchio servo incontra presso un pozzo Rebecca, che gli offre dell’acqua. A questo segno Eliezer riconosce in lei la donna che il Signore, Dio suo, ha destinato a Isacco (Gn 24,18-22).

Rebecca, dapprima sterile, genera allo sposo due gemelli: Giacobbe ed Esaù. Quando i figli sono ormai adulti, ella inganna Isacco, vecchio e cieco, facendogli benedire Giacobbe, il figlio da lei preferito, al posto di Esaù, quello designato per diritto di anzianità e prediletto dal padre.

La Bibbia assegna dunque a Isacco un ruolo piuttosto passivo; infatti, nei due momenti più noti della sua vita, egli appare come condotto da altri, in ultima analisi, da qualcuno più grande di lui: nell’episodio del Sacrificio, egli è il simbolo dell’obbedienza della fede; nella benedizione usurpata, è chiamato a essere Padre delle tribù di Israele.

Il parallelismo che la tradizione cristiana ha istituito fra il sacrificio di Isacco e quello di Cristo spiega la grande popolarità della scena.

Iconografia

Nell’iconografia romanica, Isacco compare solo nei due momenti ricordati.

Le rappresentazioni ruotano sempre attorno agli stessi protagonisti: Abramo che alza il coltello sul figlio, Isacco che attende la morte sull’altare, l’Angelo del Signore disceso dal cielo per impedire l’olocausto, senza dimenticare, naturalmente, il montone (o l’agnello) che prende il posto della vittima designata. Partendo da questi elementi, gli artisti hanno escogitato varie soluzioni, a volte molto ingegnose e sempre ricche di implicazioni simboliche.

Nella chiesa di San Isidoro di León, un’intera lunetta è dedicata alla scena, il che è del tutto eccezionale. Abramo, posto sotto il medaglione dell’agnello cristico, è al centro della composizione; alza il coltello verso la gola di Isacco vestito solo di un panno intorno ai fianchi e con le mani legate dietro la schiena. A sinistra del Patriarca, il ragazzo si sfila i calzari prima del sacrificio, un gesto di rispetto che fa pensare a quello di Mosè che sul Monte Sinai, in presenza dell’Eterno, si toglie i sandali. A destra, un Angelo con le ali spiegate porta il montone. La mano di Dio benedice l’animale che sta per essere sacrificato; le sue dimensioni, sproporzionate rispetto agli altri elementi della composizione, indicano la potenza del Creatore.

I diversi momenti del sacrificio sono rappresentati anche in un capitello del chiostro di Moissac. Prima di tutto si vede Abramo che avanza su un asino guidato per la briglia da Isacco; i due uomini portano la legna per l’olocausto. Sulla faccia seguente, Isacco è disteso sulla pira; il padre lo afferra per i capelli e si appresta a sgozzarlo. Nell’ultima parte del capitello, infine, compare l’Angelo che porta un montone.

Una composizione molto più sintetica si trova su un capitello della chiesa di Sainte-Foy a Conques, dove Abramo e l’Angelo sembrano contendersi Isacco, seduto fra loro, non su di un rogo, ma su di un altare. In questo caso la dimensione simbolica del sacrificio è considerata più importante di una rappresentazione realistica. Il montone, dietro al Patriarca e non dietro l’inviato di Dio, è impigliato in un cespuglio di spine. Dobbiamo vedere in quest’ultimo elemento un’allusione alla corona di spine di Cristo? Lo scultore, senza dubbio amante del simbolico, non ha però rinunciato del tutto al pittoresco: Abramo indossa una tunica corta e un mantello a pieghe, abiti caratteristici della fine del XII secolo.

Si potrebbe continuare nella citazione di capitelli romanici col Sacrificio d’Isacco, tanto è vero che la loro stretta cornice si prestava alla rappresentazione di una scena con pochi personaggi; abbiamo un bell’esempio di composizione a San Pedro de la Nave, sempre nel León.

San Pedro de la Nave, Chiesa – Capitello: sacrificio di Isacco

Citiamo ancora tre saggi di combinazioni originali: in un capitello della porta Miégeville della chiesa di Saint-Sernin a Tolosa, al centro della scena sta Abramo, seduto sul montone. Posa la mano sul capo di Isacco e alza il coltello su di lui; dall’altro lato, l’Angelo ferma col dito l’arma del sacrificio. Nella cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, l’Angelo con una mano blocca la spada brandita dal Patriarca, mentre con l’altra indica il montone; Isacco, spaventato dal gesto minaccioso del padre, alza le mani implorando pietà. Infine a Souillac, nel Quercy, lo scultore è riuscito a radunare tutti i personaggi, che sembrano accatastarsi gli uni sugli altri, su un pilastro, oggi reimpiegato. Come ad Autun, l’Angelo con una mano ferma Abramo e con l’altra indica il montone per il sacrificio. La composizione, molto delimitata, è di una straordinaria armonia.

Souillac, chiesa abbaziale di Sainte-Marie – Pilastro: sacrificio di Isacco

La pittura e la miniatura non sono state da meno nell’illustrare questa importante scena. Un esempio è offerto da un bell’affresco della chiesa di Berghausen, in Westfalia, nel quale Abramo, come Isacco, ha gli occhi rivolti verso Dio che lo chiama.

Berghausen, chiesa di San Ciriaco – Affresco: sacrificio di Isacco

Un altro esempio si ha in una miniatura della Bibbia di San Isidoro nella quale, come nella lunetta della chiesa, è messo in primo piano il montone, impigliato nel cespuglio di spine.

León, Museo di San Isidoro – Bibbia di San Isidoro: sacrificio di Isacco

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 257-259

Aronne

Sezione: Lessico


Fonti

Aronne il Levita, fratello e portavoce di Mosè presso gli Ebrei e gli Egiziani, compare nei libri dell’Esodo (4,14-31) e dei Numeri (17,6-26). É il Sommo Sacerdote per eccellenza, colui che Dio sceglie facendo fiorire il suo bastone fra tutti quelli dei capi delle dodici tribù d’Israele. Per questo, è considerato dalla tradizione cristiana come un lontano predecessore dei papi e dei vescovi. Aronne si mette in evidenza aiutando Mosè a convincere il faraone a lasciar partire gli Ebrei, col miracolo del bastone trasformato in serpente.

Iconografia

Viene quasi sempre rappresentato in abito vescovile, per indicare la continuità fra l’Antico e il Nuovo Testamento e sottolineare la perpetuità della Chiesa. Il suo bastone fiorito è all’origine del pastorale degli abati e dei vescovi.

In un manoscritto del XII secolo, ha in capo la mitra episcopale e sacrifica un agnello. Accanto a lui Mosè, riconoscibile per le corna sulla fronte, riceve da Dio le tavole della Legge. Aronne indossa lo stesso abbigliamento sulle porte bronzee di San Zeno a Verona, dove sta a destra dell’altare.

Verona, Basilica di San Zeno – Porta bronzea, formella: Mosè riceve da Dio le tavole della legge (IIa metà XII sec.)

Sul portale, oggi distrutto, della chiesa di Saint-Bénigne di Digione, di fianco a Mosè, e di fronte a san Pietro e san Paolo, era scolpito un vescovo. Secondo Émile Mâle, si trattava di Aronne che, assieme al fratello, rappresentava l’Antica Legge, di fronte ai due santi che incarnavano la Nuova Alleanza.

Aronne era anche il protagonista di un dramma liturgico scritto in francese nel XII secolo, il celebre Dramma di Adamo, nel quale appariva in abito episcopale.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 57-58

Giona

Sezione: Lessico


Fonti

Giona è uno dei dodici profeti «minori» della Bibbia. Il libro che ne porta il nome è il racconto dell’avventura della sua predicazione a Ninive, la grande città pagana. Il profeta riceve da Dio l’ordine di andarvi per annunciare agli abitanti l’imminente castigo. Giona si rifiuta di obbedire e fugge per mare nella direzione opposta. Ma l’Eterno scatena una tempesta che mette in pericolo la nave. A questo punto, Giona confessa di esserne la causa e i marinai lo gettano in mare, dove viene inghiottito da un mostro marino, nel cui ventre passa tre giorni e tre notti. Dopo essersi pentito, viene ributtato dall’animale sulla spiaggia. Finalmente, si decide ad andare a Ninive per annunciare, secondo il comando di Dio, la distruzione della città. Ma gli abitanti si pentono e sono risparmiati. Giona, furioso per essere stato sconfessato, lascia la città e si rifugia all’ombra di un ricino che Dio ha fatto spuntare per proteggere dal sole la sua testa calva. Quando l’Onnipotente fa seccare l’albero, che così non può più fargli ombra, il furore di Giona raddoppia; ma Dio l’invita a chiedersi perché si addolori per la morte di un arbusto, lui che si disinteressa di quella degli abitanti di Ninive… Dio non agisce così!

Le origini del racconto sono antiche e molteplici: in particolare, i Greci hanno conosciuto il mito dell’eroe inghiottito da un mostro e poi restituito alla luce.

La tradizione ha trattenuto soprattutto l’episodio del mostro marino, del quale i popoli del Libro hanno dato un’interpretazione che si pone nel solco di questo tema universale. Per gli Ebrei, Giona incarna il popolo d’Israele divorato dal «drago» babilonese e tornato in libertà per l’intervento divino; per i Cristiani, l’avventura del Profeta prefigura la sepoltura di Cristo, seguita, dopo tre giorni, dalla Risurrezione dai morti. Il parallelo è stato spiegato da Matteo (12,40): «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Iconografia

Nei primi secoli dell’era cristiana, il ciclo di Giona è stato spesso rappresentato. In questo periodo, il profeta appare come un giovane imberbe e nudo. In seguito, nel Medioevo, la tipologia cambia: prima di essere divorato, egli è vestito e ha lunghi capelli. Appare così in una vetrata di Augsburg, in Baviera; ai suoi piedi, si apre la gola del mostro marino.

Augsburg, Cattedrale – Vetrata: il profeta Giona

Una volta risputato, ha perso abiti e capelli. La nudità e la calvizie esprimono, in maniera simbolica, la sua purezza e la ritrovata innocenza. Giona, durante la permanenza nel ventre dell’animale, si è in un certo senso rigenerato.

Fra le opere romaniche in cui è illustrata la storia di Giona, troviamo un medaglione del paliotto smaltato di Klosterneuburg, opera dell’orafo lorenese Nicola di Verdun. Questo medaglione è accanto ad una rappresentazione della Risurrezione di Cristo, il che indica la concordanza simbolica fra i due temi. I bassorilievi della facciata della chiesa di Ripoll, in Catalogna, dedicano molto spazio al libro di Giona. In essi vediamo, in particolare, la mano divina che ordina al profeta di partire per Ninive.

La scena rappresentata più frequentemente è quella in cui l’eroe è vomitato dal mostro. La troviamo, naturalmente, a Ripoll, ma anche in un’iniziale miniata della Bibbia di Admont, dove Giona, calvo, che emerge dalla gola del pesce, ha l’atteggiamento dell’oratore antico che si accinge a parlare. Nel manoscritto della badessa Herrat di Landsberg, l’Hortus Deliciarum, il mostro che vomita il profeta assomiglia ad un’enorme carpa.

Herrat di Landsberg, Hortus DeliciarumGiona vomitato dal mostro

Nella Bibbia di Saint-Bénigne di Digione, un’iniziale miniata presenta una geniale composizione: le due sequenze dell’episodio sono illustrate in due scene separate dalla barra orizzontale della E. Nel registro superiore Giona, caduto in mare tutto vestito, viene inghiottito dal mostro. Dietro di lui, quattro compagni rimasti sull’imbarcazione sono nell’impossibilità di soccorrerlo. Nella parte inferiore il profeta, nudo, esce dalla gola dell’animale e riceve la benedizione dalla mano di Dio. Una straordinaria rappresentazione si trova sul pannello di un pulpito conservato a Sessa Aurunca, in Campania.

Sessa Aurunca, Cattedrale di san Pietro – Pulpito: Giona e il pesce

Il mostro, gigantesco, insegue Giona e comincia a divorarlo dalle vesti; un’immagine simile, sempre su un pulpito, si trova a Ravello.

Nella chiesa alverniate di Saint-Pierre di Mozat vediamo uno dei pochi capitelli romanici con la raffigurazione dei due episodi: su una faccia, Giona è come infilato nella gola del pesce da uno degli uomini della nave.

Mozat, Saint-Pierre – Capitello: Giona inghiottito dal pesce

Contrariamente alla tradizione iconografica, è già nudo, e del suo corpo si vede ormai solo la parte inferiore, poiché la testa e il torso sono già stati divorati. Sull’imbarcazione un marinaio rema, mentre un altro membro dell’equipaggio si copre gli occhi con la mano per non assistere al terribile spettacolo. Su un’altra faccia del capitello, il profeta è rigettato dal pesce. Dietro di lui, si scorgono le mura di Ninive. L’artista ha rappresentato anche un arbusto, che allude certamente al seguito della storia, allorché Giona manifesta il proprio disappunto e Dio lo protegge all’ombra di un albero che cresce in una notte.

Mozat, Saint-Pierre – Capitello: Giona vomitato dal pesce

L’immagine del profeta che si ripara la testa calva all’ombra dell’albero è rarissima nell’arte romanica. Nella versione greca dei Settanta, la pianta protettrice è una cucurbitacea, mentre nella traduzione latina della Vulgata diventa un’edera. Ed è quest’ultima interpretazione che è stata accolta dagli scultori di Ripoll.

Dizionario di iconografia romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 234-236

Disposizione anteriore: i portali e l’idea di interdizione, arcata o timpano

Sezione: Lessico


Émile Mâle ha ravvisato l’origine dei portali romanici e soprattutto borgognoni, e contemporaneamente dell’insieme dei portali gotici, nel Tetramorfo di Moissac, nell’Ascensione della porta Miégeville o più precisamente di Cahors e nel Giudizio infine di Beaulieu. Non c’è alcun dubbio che la porta in quanto tale e la sua funzione essenziale risaltino in maniera più netta nella zona mesopotamica che nella zona egiziana, e che per tanto il ruolo di tali portali sia stato grande. Priorato di Cluny, Moissac è la prima a collocare all’entrata della chiesa il Cristo circondato dal Tetramorfo e da Vegliardi con una sistemazione assolutamente originale; il tema si propaga immediatamente, con rapidità incredibile, a Chartres, a Cluny, a Bourg-Argental, ecc. Quelli che in esso appaiono più nuovi e stupefacenti sono i Vegliardi, tema ispirato più precisamente dalle Apocalissi di Beato di Liebana, le stesse appunto che hanno fornito il modello al motivo circolare di Moissac, giacché il Tetramorfo di per sé non è un tema inusitato. Gli «angeli annunciatori» di Cahors si ritrovano a Chartres, così come a Saint-Denis si ritrovano la croce e la posa del Cristo di Beaulieu; sono tutte opere, d’altronde, di maestranze provenienti dalla Linguadoca.

A nostro avviso, però, un’analisi siffatta non tiene conto della realtà nella sua interezza. Quantunque il tema del timpano sia spessissimo d’una estrema chiarezza, non bisogna confondere il timpano con la porta o col portale presi nell’insieme. Si può infatti parlare di «timpani» a proposito del sud ovest francese, ovverosia della zona mesopotamica? Le rappresentazioni dei timpani sono qui movimentate e non statiche, quando esse esistono: esistenza che comunque non riguarda assolutamente la zona Charente-Poitou, nella quale solo gli archivolti presentano una ornamentazione tematica, mentre invece la funzione di un timpano è quella di esibire una immagine stabile, permanente, che dia l’idea dell’eternità. Nelle «porte» autentiche, tipo quelle di León, di Ripoll, di Tolosa (porta Miégeville), le rappresentazioni «ascendenti» poste esternamente ad esse, nei pennacchi, sono più importanti di quelle del timpano propriamente detto. L’arcata spoglia e la cornice riccamente ornata al rovescio rendono più sensibile l’analogia con l’arco di trionfo romano. Anche nei veri e propri timpani di Moissac, Beaulieu e Souillac le rappresentazioni ascendenti dei muri laterali, dei piedritti e dei pilastri mediani sono quasi più importanti di quelle dei timpani. Si tratta, ogni volta, di riportare l’attenzione sulla forma quadrata, verso la terra, nella stessa misura almeno che può essere riservata alla visione circolare. I timpani sono per contro fondamentali nel sud est, dove la decorazione dei pennacchi è limitata a casi eccezionali; la visione circolare costituisce infatti il centro verso cui convergono le raffigurazioni dei piedritti, delle statue-colonne, per esempio in Provenza, e soprattutto quelle degli archivolti, ornati sovente con oggetti iconografici, della Borgogna. Nel caso di una insistenza sull’idea della Chiesa militante, sull’immagine della terra, concetti che impongono la concentrazione dei parati decorativi sulla cornice quadrata della porta, il tema del timpano – come quello della Consegna delle chiavi a san Pietro e del libro a san Paolo che vediamo ad Andlau (Bas-Rhin) e a Basilea – è frequentemente un tema glorioso, trionfale e simmetrico, che si ritrova anche nelle absidi, come molti dei temi rappresentati sul portali di questa zona: ecco perché il cerchio ha un ruolo superiore a quello del quadrato.

Certo, non si può mettere in dubbio che la formula della porta guardata dai leoni, dell’arcata di difesa o dell’arco di trionfo che rappresentano una minaccia per il vinto, e più in generale della porta sic et simpliciter, che, è vero, sta aperta, ma che in tempi d’insicurezza si chiude di fronte agli assalitori, sia molto più significativa dell’idea di interdizione espressa dal portale propriamente detto, interamente imperniato sulla rappresentazione del timpano, offerta a tutti gli sguardi, quando invece la si sarebbe dovuta occultare nell’oscurità del santuario o addirittura della cripta.

Il fatto è che, al contrario degli antichi templi, la chiesa cristiana è per principio ostile all’essoterismo e come tale accessibile a chicchessia. La formula iconografica del portale è quindi conforme all’insegnamento che ci viene impartito dal Cristo: con essa vengono proiettati in facciata i temi confinati nelle absidi. Se si considera la disposizione dei soggetti sui portali della Linguadoca, ci si accorge facilmente che questi sono innanzi tutto dei portici, più che dei portali, e che temi importanti, ripetiamolo un’altra volta, sono in essi anche, e forse più ancora, quelli che ornano i piedritti e i muri laterali del portico; attraverso tali temi, attraverso la loro disposizione sotto un portico, si è posto con più forza l’accento sull’idea di interdizione, tradizionale ma non specificamente cristiana, destinata comunque a sparire nella disposizione gotica.

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Il moltiplicarsi dei leoni di difesa anche sui timpani, come a Jaca, oltre che dinanzi ai portali, il diffondersi delle rappresentazioni allegoriche imperniate sulla figura del leone, come alla porta Miégeville e a Compostella, che arrivano ad invadere perfino i capitelli con il tema ambiguo dell’uomo col leone, e al tempo stesso l’importanza accordata alla parte anteriore della chiesa – basta pensare ad Oviedo o alla famosa cappella dei re a León –, sono tutti segni distintivi della formula mesopotamica che mirano in certa misura a vietare l’accesso alla chiesa. È ben noto, d’altronde, quanto disparata e non di rado poco raccomandabile fosse la provenienza dei pellegrini, quanto numerosi fossero i pericoli che essi affrontavano da parte dei briganti lungo le vie su cui sorgevano tali portali, e soprattutto quanto incombente fosse la minaccia dell’eresia: ce ne è a iosa per spiegarsi i motivi di questa preoccupazione difensiva. Il principio del timpano, intorno al quale tutti i temi – sugli architravi sugli archivolti, sulle strombature, sui piedritti, sui pilastri mediani delle porte – si concatenano e si ravvolgono, alla maniera di un’immagine tradizionale, è un derivato dall’arte copta e non siriana: il complesso di Charlieu non è isolato nel sud est e nella zona egiziana. Le iscrizioni aggiunte sui portali borgognoni dimostrano che al Cristo in maestà che in essi troneggia si accoppia un’idea di accoglimento e di benedizione ma anche un’idea di rispetto per la maestà divina che è, senza alcun dubbio, un’idea di messa in guardia, di interdizione. A Condeyssiat (Ain) si poteva, per esempio, leggere: «E così che tu troneggi in Cielo, o Cristo, e che ci benedici». A Vandeins, nella stessa regione, accanto a un portale del tipo eucaristico, con un Cristo simile a quello dell’antico portale di Charlieu, dominante la rappresentazione di un’Ultima Cena associata alla Lavanda dei piedi, si legge: «Benedite il Signore, ecco la maestà di Dio». E più in basso: «Che la volontà onnipotente esaudisca coloro che entrano e che l’angelo di Dio protegga coloro che escono». Sono, come si vede, iscrizioni significative, proprio perché implicano un invito al fedele che penetra nella chiesa a rispettare la maestà dell’Altissimo, simboleggiata dal Cristo assiso in trono – il che ci richiama automaticamente alla memoria i timpani copti. Ma l’iscrizione che compare inserita insieme con la Cena e con la Lavanda dei piedi sull’architrave di numerosi portali, tipo Saint-Julien-de-Jonzy, Savigny, Bellenaves, Saint-Pons, Saint-Gilles, non è certo meno significativa. É. Mâle traduce: «Quando il peccatore si accosta alla mensa del Signore, bisogna ch’egli chieda con tutto il cuore il perdono del Signore». Non solamente il fedele che entrava nella chiesa doveva considerare con reverenziale timore il fatto di avvicinarsi al Signore, ma era soprattutto l’idea di rispetto a imporglisi con forza nella imprescindibile esigenza di sottoporsi al sacramento della penitenza prima di prendere parte al sacramento della eucaristia. San Pietro, a cui il Cristo lava i piedi all’estremità della lastra scolpita, tende al Signore – per esempio, a Saint-Gilles, a Bellenaves e a Clermont-Ferrand (sull’architrave murato di rue des Gras) –, contemporaneamente i piedi e la testa; gesto che palesemente ricorda il testo evangelico di Giovanni, là dove l’Apostolo chiede a Gesù: «Signore, non i piedi soltanto, ma la testa anche». Come il principe degli Apostoli, così il fedele deve abbandonare se stesso, completamente, con tutto il suo essere, alla purificazione richiesta dal Signore.

Un tema del genere, che dà luogo a quello che Mâle chiama «portale eucaristico», proprio perché in esso viene posta in evidenza l’importanza dei sacramenti, corrisponde in pieno alla definizione già accennata a proposito degli ingressi romanici sui quali appaiono fianco a fianco il Cristo eterno e la Chiesa presente. Si tratta, praticamente, di un caso particolare di «tema doppio». Al posto dell’avvertimento dell’angelo che costituisce un tema d’interdizione, in quanto esorta il fedele a riportare il suo sguardo sul Cristo che deve venire piuttosto che su quello che s’innalza alla vista di tutti, è la Presenza reale che qui viene evocata ed è Dio stesso che invita il fedele a rivolgersi a lui con rispetto e ad attendere la sua grazia.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 124-126

Disposizione anteriore: i portali e l’idea di interdizione, caratteri generali

Sezione: Lessico


La porta è una componente essenziale della chiesa romanica. Quello che essa svolge è un ruolo capitale. È dalla porta infatti che prende il via la cerimonia della dedicatio o consacrazione dell’edificio: la chiesa comincia a esistere solo quando il vescovo ha consacrato la porta. Una simile importanza si spiega agevolmente con i testi biblici, con quelli in particolare pei quali il Cristo s’identifica con la porta.

In virtù di tale ruota, il portale comporta, come regola generale, una decorazione d’insieme particolarmente ricca, che arriva di frequente ben al di là dei contorni del portale propriamente detto. Ciò si verifica soprattutto nella zona mesopotamica – per esempio a León, a Tolosa (porta Miégeville), a Santiago de Compostella (porta degli Orafi) –, dove la decorazione dei pennacchi ai lati degli archivolti appare più ricca e più significativa di quella dei timpani. Succede anche che la decorazione si estenda ai piedritti, sotto forma di statue, annunciando in questo modo la formula gotica. Succede addirittura – è il caso di Angoulême e di Poitiers – che un programma d’insieme, che potrebbe benissimo essere concentrato su un portale – il Cristo dell’Ascensione e la Chiesa rappresentata dalla Vergine e dagli Apostoli (più altri Santi, a Poitiers), scene della Natività con la loro tipologia (figure di Profeti, ad Angoulême), Missione degli Apostoli, ecc. –, si sviluppi sull’intera facciata. Prova ne è il portale-portico di Vézelay, per esempio, che se vi comprendiamo i capitelli del nartece e i timpani laterali esprime da solo, e con più ricchezza ancora, tutto il pensiero contenuto sulla facciata di Angoulême. In effetti la distanza delle raffigurazioni, ad Angoulême, non permette, viste le dimensioni dell’edificio, tutte le sfumature della Missione degli Apostoli di Vézelay; vi mancano perfino alcuni dettagli, anzi, come la rappresentazione dei Popoli sconosciuti.

Come si sa, la soglia ha di per sé un valore sacro. Già questo giustifica l’importanza della decorazione anteriore nella chiesa romanica e soprattutto quella del portale. Da parte nostra, tenuto conto dell’ampiezza che può raggiungere la decorazione di questi portali e della varietà delle soluzioni adottate, abbiamo preferito dedicare loro una voce specifica e intitolarla «disposizione anteriore». Ad onor del vero, ci occuperemo soprattutto dei portali, giacché le facciate e i capitelli dei narteci, benché parte integrante di tale disposizione anteriore, sono diffusamente trattati sotto altre voci. In più, di tutte le componenti dell’edificio romanico, i portali sono certamente quelli che contengono la massa più considerevole di significati, su una superficie relativamente ristretta.

Si noterà, ad ogni modo, che non abbiamo scelto come voce o titolo di questa trattazione la parola «timpano». Si ha infatti l’abitudine di attribuire un’importanza estrema a questa parte del portale: e a buon diritto, se vogliamo essere sinceri, giacché proprio il timpano è l’elemento spesso più significativo della chiesa romanica. Però non bisogna dimenticare che questo è un fenomeno specifico della Francia: il timpano, per esempio, è sconosciuto in Italia, salvo casi di importazioni francesi – il che tuttavia non inficia la ricchezza di pensiero di un complesso architrave – archivolto tipo quello di Modena, con l’idea del Giudizio espressa mediante favole e temi cavallereschi (il Calcio dell’asino, la Volpe e la cicogna, l’Attacco al castello), per non parlare dell’interesse dedicato nella penisola ai battenti delle porte. Se si sopravvaluta l’importanza del timpano, è sempre perché non si fa abbastanza caso all’insegnamento espresso dai mostri, dagli animali e dai motivi vegetali che, come nel caso di Saint-Ursin a Bourges, possono inserirsi con un significato quanto mai corposo sul timpano stesso, mentre si accorda un valore eccessivo ai temi religiosi istoriati. I fioroni di Moissac, per esempio, hanno un significato che trova piena spiegazione a Beaulieu, dove gli stessi fioroni appaiono divorati dalle maschere o dai mostri: sono il simbolo dei ritorni solari, della vegetazione del mondo sottomesso al Signore. Se ne deduce automaticamente che l’architrave, in questi due complessi, completa senza ombra di dubbio il timpano propriamente detto: è addirittura indispensabile alla sua comprensione, né più né meno dei piedritti laterali e del pilastro mediano (o trumeau).

Il portale, ovverosia la disposizione anteriore scolpita, è in linea di massima, soprattutto quando la decorazione investe la facciata – giacché la cappella-nartece, il Westwerk o il campanile-portico sono più antichi –, un fatto nuovo, specificamente romanico.

Il nostro proposito qui non è quello di passare in rivista la straordinaria varietà, in Francia specialmente, dei temi dei timpani, che vanno dai soggetti romanzeschi o desunti dalle favole antiche ai soggetti propriamente religiosi, tanto sentita e tanto ferma era la volontà di istruire. E neppure è nostro intento sottoporre ad analisi la non meno grande varietà delle formule architettoniche adottate nella parte anteriore della chiesa, che possono essere grosso modo rapportate alle due fonti fondamentali, egiziana e mesopotamica. Il punto su cui insisteremo è l’idea di divieto, di interdizione, che caratterizza i portali in entrambe le zone: idea essenzialmente primitiva, che basta in buona misura a spiegare le analogie col lontano passato. Il valore della soglia è una realtà indiscutibile che ha riscontri dappertutto; una realtà che sopravvive ancora nelle abitazioni contadine, con le croci e gli amuleti di vario genere collocati sopra le porte, con le bestie e i ferri di cavallo contro il malocchio, ecc. L’altare all’interno della facciata, dove veniva celebrata una messa speciale, particolare comune alle chiese cluniacensi (vedi Semur-en-Brionnais), non è che un ricordo del valore profilattico che caratterizzava l’entrata delle chiese carolinge, con le sue porte dedicate agli arcangeli incaricati di difenderle. Le cappelle di San Michele, frequenti nei locali sovrastanti i portali d’ingresso, venivano edificate generalmente nei pressi di grotte o di precipizi; così a Rocamadour, non lontano da Padirac, così a Le Puy e in svariate località dell’Alvernia, non distanti da zone di attività vulcanica, così sul Gargano. Nella maggioranza dei casi, il loro compito era quello di scongiurare le manifestazioni infernali, di cui antri, vulcani, rupi, ecc. erano agli occhi delle genti medievali il sito predestinato. Il Varagnac ha studiato con molta cura la genesi del tema asiatico dell’arco o dell’arcata, che rappresenta, così com’è, una difesa, una barriera, parimenti utilizzabile per la gloria del vincitore e per la vergogna del vinto costretto a passarci sotto.

Fra i temi principali che «vietano» l’ingresso, citeremo naturalmente i Ieoni, che negli antichi templi-montagna mesopotamici compaiono stilla soglia, da una parte e dall’altra dell’entrata, sostituiti all’epoca assira dai Kerub, prototipi del Tetramorfo, con la loro natura multipla. E citeremo anche le sfingi egiziane, disposte su due filari, all’entrata dei santuari. I leoni posti a difesa della soglia sono una realtà romanica, siano essi i leoni cosiddetti lombardi che reggono sulla schiena le colonne del protiro oppure quelli che arrivano a essere presenti perfino sul timpano, secondo una forma mesopotamica che attesta l’importanza di questo simbolo animale nella sua zona d’influenza. Pensiamo ai leoni che si fronteggiano ai due lati del crisma di Jaca, o anche ai personaggi accompagnati dal leone, Daniele o Gilgamesh, sui timpani del portale di Oloron. Talvolta s’incontra Sansone in lotta col mostro: a Mauriac (Cantal), per esempio. Gérard de Champeaux (I simboli del medioevo, p. 194 e sgg.) ha messo bene in risalto come questi leoni dinanzi alle entrate fossero generalmente asimmetrici e associati all’ariete e all’uomo, così da implicare l’idea di un giudizio. Un preciso documento, pubblicato dal Déonna, mostra che in Svizzera i leoni posti all’ingresso delle chiese erano effettivamente adoperati dal priore «sedentem inter leones», quando rendeva giustizia. I leoni si moltiplicarono davanti alle porte della zona mesopotamica, specialmente sotto forma di allegorie imperniate sulla figura del leone (porta Miégeville a Tolosa Compostella, ecc.).

Ai temi mesopotamici corrispondono nella zona egiziana i serpenti. Tuttavia, un fatto alquanto significativo è questo; pur nascendo i temi della Lussuria, o piuttosto quello della Donna coi serpenti, aggredita da rospi e rettili che le mordono le parti genitali – tema notissimo, fra l’altro –, sul portale di Moissac, in definitiva è nella Francia sud orientale che esso incontra la sua diffusione maggiore: la Donna coi serpenti di Charlieu (d’una grazia tutta ellenica), l’orribile bertuccia di Bourg-Argental, la Donna di Dunières che ne è l’imitazione vista a mezzo busto, ecc. Nondimeno, a differenza delle coppie di leoni, simbolo del Cristo «buono con i buoni e tremendo con i malvagi», come dice san Girolamo, i serpenti non hanno alcuna possibilità di comparire sui timpani col medesimo significato, salvo che a Compostella, e ogni volta che uno di essi vi appare è solo come personificazione del demonio, nella scena della Tentazione.

Una figura mostruosa con funzioni di guardiano, somigliante contemporaneamente al leone e al drago e di significato ambiguo, è la ghul della mitologia araba, detta anche bocca d’Inferno, analoga al t’ao t’ie cinese. La troviamo indifferentemente nell’una e nell’altra zona. In quella egiziana è presente, per esempio, ad Anzy-le-Duc, alla base del timpano, insieme con l’Adorazione dei Magi e con Adamo ed Eva; tuttavia ha più importanza in quella mesopotamica. Gli studi del de Chasseloup-Laubat hanno chiaramente attestato il suo valore profilattico, negli ingressi, giacché la si colloca sempre a nord, dal lato del demonio, sui portali. La si deve raffrontare, secondo il Burckhard, al makara indiano, che veniva posto all’esterno dei santuari, entro delle nicchie, affiancato dal leone di difesa. Però la si potrebbe accostare anche alle maschere lunari, immagini dei defunti che s’accingono a entrare nel cielo, poste in cima ai pali nei villaggi dell’Oceania: le somiglianze di aspetto, infatti, se non addirittura le somiglianze di significato, sono stupefacenti. La loro collocazione all’entrata della capanna ha lo scopo di proteggere questa e i suoi abitanti contro il ritorno del morto. Non siamo molto lontani dalle chiese romaniche che debbono essere difese dalle iniziative del demonio. Quanto al mostro di cui ci stiamo occupando, la posizione che gli viene assegnata nella Saintonge, in facciata, sul lato nord, è un fatto pressoché esclusivo di questa regione: il de Chasseloup-Laubat non cita che un’unica eccezione nella Gironda. Sempre nella Saintonge, alle maschere del demonio poste sulla facciata debbono essere contrapposti i parati decorativi della parte absidale che insistono particolarmente, in funzione dell’orientamento, sull’idea dell’eletto che entra nel Cielo. Basta osservare ad Aulnay i personaggi inseriti fra le volute a S ai lati della finestra assiale, più o meno vicini al Cielo, in corrispondenza con la bilancia di san Michele su un modiglione del lato sud, mentre a nord, per un meccanismo d’inversione, è sviluppata l’idea della salvezza.

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Aulnay-de-Saintonge (Charente-Maritime). Veduta esterna della finestra assiale dell’abside.

La stessa disposizione la troviamo a Varaize, dove le ghul che divorano i rei sono raffigurate sui modiglioni sud del coro e la vittoria dell’eroe san Giorgio sul drago viceversa a nord. Analogamente, vero è che la celebre maschera profilattica di Echillais (cfr. La Civiltà… cit., tav. 129), in cima alla colonna, si trova dal lato nord, ma altrettanto vero è che dall’altro lato una maschera più piccola, intenta a ingoiare una testa, si integra al programma d’insieme di questa facciata, implicando l’idea del Giudizio.

Le maschere lunari e solari si presentano nella medesima situazione, diversamente associate alla greca solare, sul timpano di Moissac, oppure l’una adorna di foglie, l’altra in atto d’ingoiare la greca, sul secondo architrave di Beaulieu, e in quest’ultimo caso associate rispettivamente all’uomo nudo che sta per essere divorato, immagine dei Vizi della carne, e all’uomo vestito egualmente vittima di una belva, immagine dei Vizi dello spirito. Queste maschere sono collocate ai piedi del Cristo ed evocano secondo l’Apocalisse il sole e la luna che scompariranno, quando la loro luce si sarà spenta dinanzi all’Agnello che illuminerà da solo la Città celeste. Esiste inoltre una relazione sicura fra la carne minacciata, la luna e il fogliame, da un lato, e lo spirito e il sole, dall’altro. Però le maschere in questione sono pure prototipi delle future bocche d’inferno della iconografia gotica. Tutti sanno, del resto, che è stato il giudizio di Beaulieu a ispirare quello di Saint-Denis. Accanto a maschere simili a quelle della zona mesopotamica, per esempio sui portali provenzali o a Dinan, la zona egiziana nelle sue già più elaborate rappresentazioni del Giudizio conoscerà un altro genere di maschera, tipo, per esempio, il san Michele con in mano la bilancia, messo anche lui lì per difendere l’entrata. La presenza di quest’ultimo, vincitore del mostro, da solo, su un timpano che ricorda i portali d’ingresso sormontati da una cappella al piano superiore, è un fatto piuttosto eccezionale: ricordiamo ad ogni buon conto l’esempio magnifico di Saint-Michel di Entraygues, presso Angoulême, posto alla base di una cappella rotonda o per meglio dire poligonale. Ma non sono soltanto le sembianze diverse dei mostri a differenziare le due zone: bisogna anche tener conto dell’importanza relativa attribuita all’arcata mesopotamica o al timpano egiziano, delle Ascensioni con angeli annunciatori o con angeli anch’essi ascendenti delle varianti del tema delle tappe, dello sviluppo sul timpano del tema della Donatio Clavis e della Traditio legis a Pietro e Paolo, caratteristico della Zona egiziana.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 124-126

Altare

Sezione: Lessico


Può destare stupore che non ci si occupi di questo elemento fondamentale del coro nel quadro della disposizione absidale. Ciò è dovuto innanzi tutto al fatto che in generale la ricca decorazione della tavola d’altare, sulla fronte o sul piano superiore, si presenta come il contrario di una vera disposizione absidale: l’altare è originariamente una tomba e implica la presenza di un «sepolcro» per una reliquia. Quando si ha disposizione absidale, vuoi dire che i temi d’insieme si sviluppano in affreschi nella conca dell’abside e in sculture sui capitelli dell’ambulacro, come a Cluny, talvolta sui mosaici del pavimento, come a Sordes, a Lescar, a Ganagobie, nella basilica di Saint-Rémy a Reims, o ancora sui pilastri, nelle navate laterali, in fregi, come ad Ainay. Una ricca decorazione di altare, per esempio in Spagna o nel Roussillon, si oppone sovente a una vera decorazione absidale: è il caso di Saint-Sernin a Tolosa, dove l’ambulacro del coro è la sola parte della chiesa a non possedere capitelli iconici, mentre giustamente celebre è l’altare. Questo altare è appena più recente dell’architrave di Saint-Genis-des-Fontaines, che sembra un po’ essere una proiezione di decorazione d’altare, al pari di molte decorazioni arcaiche di questa regione e di quella, al tempo stesso, di Charlieu, in Borgogna. Senonché, sono proprio questi i primi esempi celebri di portali con decorazione anteriore: è dunque giusto includere l’altare nello studio della disposizione anteriore. Come infatti l’abside nel suo complesso si proietta, nella zona egiziana, nel portale e nel suo aspetto circolare, allo stesso modo nella zona mesopotamica la decorazione dell’altare tende in linea generale a ispirare le grandi linee del portale e del timpano.

I commentari teologici sul tema dell’altare, la parte più sacra della chiesa, sono stati ovviamente numerosi. Ad esso vengono attribuiti, secondo la tradizione, tre aspetti. Un aspetto letterale, in primo luogo, in relazione col rito della messa che viene celebrata lì, al centro del santuario: vi si considera innanzi tutto la tavola sulla quale viene rinnovata la Cena eucaristica, il luogo della presenza reale, dove l’uffizio è celebrato dal Cristo sacerdote. Il senso allegorico consisterà più tardi nel riconoscere nell’altare il corpo stesso di Nostro Signore disceso dalla Croce e deposto nel sepolcro: la tovaglia bianca raffigurerà il suo lenzuolo; le cinque croci della consacrazione saranno le cinque piaghe attraverso le quali è stato versato il suo sangue propiziatorio; i gradini che vi conducono saranno i corpi dei martiri che hanno sofferto per Lui. C’è infine, secondo sant’Agostino, un senso morale: l’altare è il cuore di ciascun uomo, dove brucia come una fiamma eterna il fuoco dell’amore divino e da dove le preghiere salgono al cielo come gli incensi, mentre i gradini sono l’immagine delle virtù. Nel Tempio di Salomone, il Santo dei Santi era costruito, come la Kaaba della Mecca, in forma di cubo perfetto, ogni lato misurante venti cubiti (venti multiplo di cinque), e parimenti cubico era l’altare, in legno di acacia; secondo l’Esodo (XXVII, 1), doveva misurare cinque cubiti di lato. Notiamo a questo proposito che il numero cinque poteva avere anche un precedente, una prefigurazione pagana, nel pentacolo, la forma pentagrammatica che dava, a detta di Pitagora, il numero dell’uomo, la sua perfezione. Nell’altare cristiano sono scalpellate cinque croci.

Zona mesopotamica

È soprattutto nel sud ovest della Francia, in Linguadoca e in Spagna che viene messa in risalto l’importanza dell’altare scolpito, espressione microcosmica del Dio fatto uomo, compendio totale del tempio. L’altare di Tolosa servirà da esempio. Si tratta di una comune lastra di pietra, rettangolare, riccamente scolpita lungo il bordo. Questo bordo disegna un polilobo da un lato, verso l’interno, ed è invece a ugnatura verso l’esterno, con una decorazione a scaglie sulla banda superiore. I tre aspetti del Cristo sono presentati sulle tre facce visibili, quella rivolta verso la navata e le due minori sui lati. Sulla faccia anteriore ci appare come uomo, sotto l’aspetto del pesce (ichtus) portato da un angelo, nella sua Passione sotto il segno della croce astata portata da un altro angelo, nella sua Ascensione entro il nimbo trionfale circolare (imago clypeata) portato da due angeli annunciatori; in tutto, cinque personaggi, come cinque sono le croci sull’altare. Sul lato sinistro, a nord, lo si vede in atto d’inviare gli Apostoli a evangelizzare le Nazioni; è collocato al centro e alla sua destra c’è un uomo che sta segnandone a dito un altro: in tutto, sette personaggi (sette = terra + cielo). Sul lato opposto appare come colui che ha portato a compimento le profezie; di nuovo cinque personaggi: il pagano, nell’atteggiamento de «l’uomo disteso», il grifone, l’ebreo, il Cristo col libro, un evangelista. il Cristo sacerdote del lato nord risponde al significato letterale dell’altare, tavola del sacrificio; il Cristo uomo del lato ovest al significato allegorico dello stesso altare, in quanto custode del corpo del Cristo; il Cristo re del lato sud al suo significato morale. Viceversa, sul lato est si stende un fregio con figure di uccelli affrontati, che attendono come le leonesse di Moissac la fine dei tempi – ed ecco che l’incrocio viene evocato così in una prospettiva apocalittica. Il Cristo non appare agli Animali con i tratti del Cristo come ad Avenas (Rhône) o a Rozier-Côtes d’Aurec (Loire), troneggiante fra l’alfa e l’omega: gli uccelli affrontati del lato est corrispondono sempre al rifiuto di rappresentare la divinità, secondo una tendenza tipica della religiosità biblica e mesopotamica.

L’evocazione veramente divina appare infatti sotto forma di motivi aniconici: le composizioni vegetali realizzate dallo scultore Bernard Gilduin e definite da M.lle Jalabert «palinette a fascio» (palmettes-gerbes); si tratta di una variante del motivo più generale ch’essa chiama «palmette ad ali, montate su un albero». Si vedono inoltre, al di sopra dei fiori, che sono dodici, delle perle, dodici anch’esse; numeri evidentemente simbolici. Quello però che ci sembra importante segnalare è l’incidenza che hanno avuto gli elementi costitutivi e simbolici, iconici o no, di questa tavola di altare sui portali, sugli atri, sui timpani o semplicemente sulle decorazioni di altri altari, come i paliotti di tipo catalano o rossiglionese, o ancora sulle croci scolpite e sulle statue reliquiario. Essendo normalmente le sculture dei timpani una proiezione delle sculture absidali, la straordinaria preziosità della decorazione delle tavole marmoree o delle croci-reliquiario, degli antependi e dei paliotti ispirerà i portali della zona mesopotamica. I paramenti scultorei delle facciate sono limitati inizialmente ai timpani, ai pilastri mediani dei portali e alle cornici delle finestre, e sono perciò complessi di dimensioni ridotte; col tempo si estenderanno ai pennacchi fra gli estradossi degli archi e ai piedritti, fino a rivestire di decorazioni, con l’avanzare verso l’ovest della Francia, l’intera facciata; però allora scompaiono i timpani propriamente detti. Ecco perché gli architravi di Saint-Genis-des-Fontaines e di Sorède, con le loro teorie di Apostoli sotto arcature e fregi vegetali, fanno pensare al trasferimento sulla facciata della decorazione scultorea di un altare. I paliotti di questo tipo sono numerosi nel Roussillon e nella Catalogna.

Particolarmente ben visibile è il processo di cui parliamo nel piccolo timpano di Carennac (Lor), sul quale le due file sovrapposte di Apostoli seduti, collocati attorno alla mandorla del Cristo, ricalcano ancora meglio che a Saint-Genis e a Sorède la composizione di un paliotto; lo scultore è arrivato a imitare perfino i chiodi da orefice che servivano per fissare le preziose placche alla fronte dell’altare.

Bisogna inoltre raffrontare la composizione dell’altare di Tolosa e le sue sculture o rilievi di vario genere con la tomba di san Giuniano conservata nella chiesa madre della città che porta lo stesso nome del santo: Saint-Junien (Haute-Vienne). Le scene variano, come a Tolosa, secondo le facce del sarcofago. Ma il successo del tema dell’imago clypeata dell’altare di Tolosa si palesa anche in svariate decorazioni absidali, su un capitello del coro di Agen, su un abaco di Moissac, ecc. La croce con gli Animali e i chiodi intermedi di Arles-sur-Tech prova a sua volta la trasposizione della forma e della ornamentazione di un altro tipico arredo absidale: la croce-reliquiario. L’immagine della Vergine, che fa la sua apparizione abbastanza presto a Corneilla-de-Confluent (Roussillon), a Valbona e a Manresa (Catalogna), si ispira, come l’architrave di Mozat, alle vergini-reliquiario. La composizione dei grandi timpani di Moissac e Beaulieu è ancora sempre quella del Cristo di grande statura circondato da diverse file di personaggi assai più piccoli. I fioroni degli architravi ricalcano anch’essi la decorazione di un altare.

Ma in special modo, tutti gli elementi costitutivi dell’altare di Saint-Sernin a Tolosa, compresi quelli apparentemente decorativi, si ritrovano, semplicemente trasposti, sui portali a protiro di Moissac, di Beaulieu, di Souillac. Il motivo, per esempio, del polilobo a rilievo lungo il bordo si trasforma in incavi sovrapposti che danno vita al caratteristico ritmo delle mezze lune che incorniciano il trumeau o i piedritti delle strombature. Il lobo in quanto tale, specie se messo in risalto attraverso la squama celeste dei lobi a incrocio sulla faccia interna del trumeau, simboleggia l’arco della volta celeste; ripetuto, rappresenta lo scorrere del tempo, la curva giornaliera e annuale del sole. Ai piedi del Cristo trionfante o Giudice, oppure della Vergine mediatrice, incavi o fiori di cardo evocano pur essi le ricorrenze d’ogni genere che segnano per volere di Dio l’esistenza del creato, e che saranno abolite alla fine dei tempi. Tali incavi fanno dei portali in questione altrettante «porte del Cielo».

Zona Egiziana

Alla tavola rettangolare di Tolosa fa riscontro la tavola circolare di Besançon. A dite il vero, mentre le tavole a bordo scolpito del tipo tolosano sono innumerevoli in tutto il Mezzogiorno della Francia, nell’Aude, nell’Hérault, e perfino nel Forez, questa di Besançon è, per quanto ne sappiamo, unica nel suo genere. Aspetto caratteristico, mentre la prima era interessante pei suoi lati scolpiti con raffigurazioni simboliche, qui le raffigurazioni significative sono sulla faccia superiore, celeste, visibile dal solo prete officiante; questa differenza contraddistingue le due zone. I tre aspetti del Verbo incarnato sono richiamati dalla figura dell’Agnello, dalla colomba del Sacerdote e del crisma del Re; il polilobo diventa un tracciato a Otto lobi (Otto = vita futura) dal quale è inquadrato il tutto.

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Un tipo di altare di questa fatta non poteva dar luogo a imitazioni né sui portali né sulla restante decorazione scultorea della facciata; il portale sud orientale si ispira infatti all’arco trionfale e alla decorazione dipinta della conca dell’abside.

L’altare di Avenas, nel dipartimento del Rhône, è un caso raro di decorazione scolpita su tre lati. Le dimensioni inconsuete di questo altare fanno sì che basti esso, da solo, a decorare l’intera abside, che oltre tutto è piuttosto piccola. L’anomalia si spiega col fatto che si tratta di un dono del re Luigi VII: fra le scene che compaiono sui lati, il re si è fatto rappresentare in atto di offrire la chiesa (1166). L’opera appartiene perciò alla scuola borgognona della seconda metà del secolo XII.

L’associazione del Cristo al Tetramorfo rappresentato sulla fronte principale in mezzo agli Apostoli disposti su due file, con quattro scene della vita della Vergine ai lati, si iscrive, in certa e non trascurabile misura, nel quadro di una corrente iconografica tipicamente lionese, in relazione con l’influenza copta. Nondimeno, un particolare lascia esterrefatti, nonostante i tratti evidenti dell’appartenenza alla zona egiziana (grandezza del Cristo seduto in trono, rappresentazione della terra sotto forma di un seggio con i braccioli terminanti in volute vegetali, Apostoli seduti «su dodici troni», in veste di consiglieri), ed è il fatto che, pur con tutta la superiorità della scuola della Linguadoca in questo campo, si siano importate una composizione e una fattura in tutto e per tutto mesopotamiche. Per quel che riguarda la composizione, viene in mente subito Carennac, osservando la doppia fila di Apostoli che circonda il Salvatore e le ridotte dimensioni degli animali evangelici, anche se qui la mandorla del Cristo è un po’ più larga. Abbiamo già detto che il timpano di Carennac imita un paliotto di altare, con i chiodi da orefice e la lavorazione che ricorda da vicino quella del metallo. Certo, non vediamo qui, altrettanto marcata, la posizione a gambe incrociate degli Apostoli: conformemente alla tendenza diffusa nel sud est della Francia, essi sono molto più statici e assisi con maestà. Tuttavia, un giuoco sottile di contrapposizioni ci riporta alla iconografia della Linguadoca. TI fatto che l’idea centrale sia il Giudizio è quanto mai significativo; san Pietro con la sua chiave gigantesca è alla destra del Cristo. Si scorgono inoltre, come a Compostella, come nelle lastre scolpite dell’ambulacro del coro di Tolosa, degli Apostoli che ne indicano altri col dito.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 48-51

Disposizione: l’alto e il basso

Sezione: Lessico


Alla voce DIREZIONI, là dove è trattata la contrapposizione della destra e della sinistra, sono citati soprattutto esempi tratti dalla zona egiziana: le serie di immagini scolpite su degli insiemi di capitelli o nelle strombature dei portali, e così pure i fregi e le teorie di elementi giustapposti sulle cornici, hanno infatti un senso positivo o negativo a seconda della direzione in cui sono volti. Per contro, la ripetizione di uno stesso tema, la doppia composizione sassanide, i temi isolati o gli insiemi complessi concepiti come delle ruote in movimento, che contraddistinguono la zona mesopotamica, molto meno spesso mettono in risalto una chiara contrapposizione fra le direzioni destra e sinistra: esattamente il contrario di ciò che avviene nelle regioni del sud est. La stessa cosa non si verifica, invece, per la contrapposizione fra «alto» e «basso», che s’impone in maniera più netta proprio nella zona mesopotamica.

Questa tendenza verticale è tipica dell’architettura. Tutti sanno che il Périgord è il paese per antonomasia delle chiese a cupole multiple, punto di partenza della progressiva ascesa delle volte che sfocerà nella verticalità del gotico. Mentre il portale del sud est è la proiezione di un’abside, un insieme imperniato sul Cristo del timpano, concepito come una visione unica che lo spettatore può abbracciare d’un solo sguardo, dove i programmi degli archivolti non fanno che irradiare la scena centrale e ad essa irresistibilmente riconducono l’occhio, nei portali a portico del tipo Beaulieu-Moissac-Souillac, al contrario, viene espressa l’idea della supremazia divina: sono come il riassunto di un cosmo totale, con un Cristo che troneggia nella cupola, il cielo tutto intorno, e giù, molto giù, la terra a forma di cubo; tale disposizione verticale, però, doveva culminare naturalmente nelle facciate della cosiddetta scuola dell’ovest.

Troviamo questo movimento verso l’alto negli atlanti del trumeau di Beaulieu, nella sovrapposizione dell’uomo disteso all’uomo «ascensionale» portato dall’uccello nel trumeau di Souillac, nella posizione della testa dei vegliardi di Moissac, rivolta verso l’alto. Se il Cristo dell’Ascensione di Leôn e quello dell’Ascensione di Tolosa stanno realmente compiendo un’ascensione, è sempre in questo spirito.

Un particolare che può sembrare paradossale è che la formula del timpano, pur implicando un significato ascensionale, non interpone un registro fra gli Apostoli e il Cristo gigantesco al centro: il Cristo di Moissac, e lo stesso quello di Beaulieu, sono come inquadrati dalle figure degli Apostoli; né diversa è la disposizione sugli architravi di Sorède e di Saint-Genis-des-Fontaines, dove il Cristo è circondato allo stesso modo dagli Apostoli, o sul timpano di Carennac, con il Tetramorfo entro una cornice quadrata, mentre gli Apostoli e gli Angeli sono disposti su due ripiani entro comici rettangolari. E potremmo aggiungere anche la Crocefissione con i quattro Animali, essa pure a Sorède, evidente trasposizione su pietra di una croce reliquiario. E altri esempi ancora. Un testo prezioso ci mostra, fra l’altro, come questo tipo di decorazione absidale potesse accordarsi con una disposizione ascensionale. Ci riferiamo al testo del monaco Garcia relativo al ciborio che l’abate Oliba fece erigere sopra l’altare di Cuxa, e che richiamava alla mente il sepolcro di Cristo. Di forma quadrata, con quattro colonne che sostenevano un coronamento piramidale, esso non era altro in sostanza che un campanile a piramide di formato ridotto. Bene, il monaco Garcia ci parla in proposito di un simbolismo ascensionale che consiste nel fatto che «le basi robuste sono un’allusione alla fermezza dei dottori nella difesa della fede, le colonne rosse sono l’immagine del sangue versato dai martiri, i capitelli ridondanti di fiori e di foglie debbono evocare i santi altrettanto ricchi di doni spirituali». Col medesimo spirito, il simbolismo verticale comparirà nella regione della Linguadoca sugli abachi parte alta dei capitelli, decorati in maniera pressoché sistematica e assai spesso con un chiaro significato simbolico, per esempio nel chiostro di Moissac, dove il loro linguaggio è a volte importante tanto quanto quello dei capitelli sottostanti e ne completa il senso.

Se il timpano è, in certi casi, nonostante le sue notevoli dimensioni (basta pensare a Cahors e a Moissac), la trasposizione di una decorazione absidale ridotta, altri portali, sui quali è spesso raffigurato il tema dell’Ascensione, non fanno che imitare il principio della porta romana, e le loro rappresentazioni, sempre in uno spinto ascensionale, non si accontentano più del semplice timpano ma invadono l’architettura tutt’intorno, ricoprendo i pennacchi ai lati dell’archivolto e non di rado arrampicandosi addirittura fino a dei fregi posti assai in alto o a delle cornici dotate di significato simbolico. Le indicazioni di dettaglio che ci accingiamo a fornire sui timpani e gli architravi hanno lo scopo di richiamare l’attenzione su questi sviluppi figurativi all’esterno dei timpani stessi e sul fatto che tali sconfinamenti presentano sempre un’implicazione ascensionale.

Così, per esempio, non diversamente dai due personaggi asimmetrici posti alle estremità degli architravi di Sorède e di Saint-Genis-des-Fontaines, raffiguranti rispettivamente il meditativo e l’agitato, siamo convinti che i due Apostoli e i due geni in atteggiamenti contrapposti che vediamo sulla porta Miégeville di Tolosa – l’uno, a sinistra, che si rifiuta di prendere in considerazione l’avvertimento dell’angelo, l’altro, a destra, intento viceversa a leggere con profondo interesse il rotulus svolto che l’angelo gli presenta – si leghino alle rappresentazioni esterne che cercano di attrarre lo sguardo verso l’alto. E ben noto il ruolo degli angeli «avvisatori» nell’Ascensione. Il personaggio che sta leggendo l’avvertimento si trova dal lato di san Pietro, «patrono» della Chiesa, che è a sua volta impegnato a intercedere per i peccati dell’uomo: sia per i peccati dello spirito, rappresentati da Simon Mago, sia per i peccati della carne, rappresentati dal dramma della Genesi. L’altro invece che si rifiuta di leggere l’avvertimento si trova dal lato della via «regia» (rappresentata da Davide col suo trono di leoni incrociati), della verginità e del martirio (impersonati dai Santi Innocenti), delle Vergini con le leonesse contrapposte che rifiutano la carne, di san Giacomo presso la porta di cipresso – il tutto disposto, non a caso, dal basso in alto: in questo modo, le figure del timpano convogliano l’attenzione sulle due sequenze dei pennacchi e, al tempo stesso, sul fregio simbolico della cornice, questo, per la verità, più difficile a capirsi.

Sulla porta dell’Agnello a León appare evidente una duplice gradazione: dapprima dall’architrave al timpano e poi dal timpano alle raffigurazioni ad esso esterne che evocano in questo caso l’idea delle tappe. Il primo legame è indicato dal gesto del cavaliere, l’Ebreo col berretto frigio, che sta per scagliare la sua freccia contro l’Agnello divino; un analogo è prodotto inoltre dalla convergenza delle linee superiori dell’architrave, profilato a doppio spiovente, che concorrono anch’esse a richiamare l’attenzione verso l’alto. Più oltre, come segnaliamo altrove, è l’atteggiamento paradossale e malaccorto degli angeli che s’innalzano sulle squame ad attuare volontariamente lo sguardo non sull’Agnello, ma sull’esterno del timpano. Quelli che essi indicano sono, in primo luogo, i due personaggi esterni: sant’Isidoro accompagnato dal soldato, a sinistra, con i piedi sul toro, simbolo della prima tappa, dell’ordine terrestre, della potestas domini e san Pelagio a destra, benedicente, espressione della seconda tappa, della potestas Dei; poscia, e soprattutto seguendo una linea ascensionale in modo da formare fregio lungo la cornice, gli eletti, Davide e il coro degli angeli, e quindi la terza cornice, una Vergine col Libro: sono tutti rappresentati in Cielo, perché associati ai Segni dello zodiaco.

Sulla porta del Perdono, il Cristo dell’Ascensione, come quello della porta Miégeville, sembra stia salendo su una montagna – il che indica il movimento verso l’alto, ma l’esecuzione è maldestra, visto che sono gli angeli a tirarlo su faticosamente. Le scene della Passione, della Discesa dalla croce e della Resurrezione, associate a quella dell’Ascensione, sono presenti anche sul timpano; dal canto loro, gli Apostoli Pietro e Paolo, entro i pennacchi, sembrano attendere, al riparo di un ampio arco spoglio, il ritorno della Parusia, visione di per sé inconcepibile e che pertanto, secondo la tendenza mesopotamica, non è rappresentata.

Nella porta degli Orafi di Compostella, dove sono riuniti insieme due portali, con sull’uno diverse scene facenti riferimento alla Passione e al Sacrificio del Cristo e sull’altro la Tentazione – evidenti allusioni alla figura del Cristo «terribile e dolce» –, un movimento discendente si contrappone al movimento ascendente. I piedritti rappresentano infatti scene dell’antica Alleanza: la Creazione di Adamo, la Cacciata dal Paradiso terrestre, il Sacrificio di Abramo, Davide. Queste due ultime scene sono prefigurazioni tipologiche del Cristo sacerdote e vittima e del Cristo re; nella parte inferiore presentano il riscatto, a opera del nuovo Adamo, della colpa del primo: in tale prospettiva, il movimento discendente s’accorda con l’idea dell’incarnazione.

I personaggi allegorici di Tolosa, di León, di Compostella, di Souillac, ecc., posano il piede su degli animali con la testa volta all’indietro, su degli arcieri, su un uomo in groppa ad un gallo (Compostella), oppure sono sovrastati da maschere leonine, da mensole simboliche, tutti temi che si armonizzano sempre con la figura stessa a cui sono accostati: il tutto si legge invariabilmente dal basso in alto. Se anche esistono, per esempio a Tolosa, delle figure di atlanti, o altre – a Saint-André-le-Bas di Vienne (tav. 92) – che si richiamano alla terza allegoria, o ancora delle donne che recano attributi vegetali, come quelle, sempre a Vienne, della chiesa di Saint-Maurice, il loro aspetto è però del tutto differente, poiché, al contrario, sono sedute sulla corbeille vegetale e innalzano maschere munite di zampe, la qual cosa indica pur sempre una gradazione dal basso in alto. C’é una legge di causa ed effetto fra gli animali sovrastati così dalle allegorie, legge che diventa ancora più stretta, ovviamente, quando i piedi, l’uno nudo e l’altro coperto, si posano su simboli o su maschere. Per questa ragione non è senza interesse mettere in relazione lo star muso a muso dei due animali sotto i piedi di san Pietro alla porta Miégeville con la posizione invece di contrasto dei due che sono sotto i piedi di san Giacomo, dall’altra parte.

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Queste pose divergenti corrispondono sia all’ordine della terra, della Chiesa, impersonato da san Pietro, sia all’ordine del Cielo, che è evocato invece da san Giacomo. Esse corrispondono altresì l’una alla posizione delle femmine lussuriose che reggono in grembo due teste di leone muso contro muso, l’altra ai leoni incrociati del seggio di Davide o alle leonesse dorso contro dorso cavalcate dalle Vergini di sinistra, ai piedi del san Giacomo. Al di sopra dello stesso san Giacomo, i personaggi accovacciati ai lati del cuore simboleggiano le anime che attendono sotto l’altare la fine dei tempi; al di sopra di San Pietro ci sono invece degli angeli che recano gli attributi del Papato.

Il miracolo di Teofilo del bassorilievo di Souillac è inquadrato da due personaggi, a simiglianza di quelli di León o di Tolosa: a sinistra, san Benedetto col pastorale rivolto verso l’interno – tipico modo per designare un abate –, e a destra di nuovo san Pietro; il primo, che rappresenta la Chiesa fuori del mondo, ha i piedi posati sul drago che sarà definitivamente sconfitto alla fine dei tempi, mentre san Pietro poggia i suoi su dei leoni incrociati, artefici dello sconvolgimento che la dovrà precedere. Un angelo presenta poi un libro chiuso a san Pietro e una pergamena srotolata a san Benedetto, il quale risulta così ammesso alla rivelazione dei nomi degli eletti e dei dannati. La scena concorda con la preferenza accordata all’ordine contemplativo rispetto alla milizia della Chiesa nel mondo, che è abituale nella iconografia romanica. La lettura dei segni si svolge per tanto secondo una gradazione verticale. La stessa cosa vale, come si sa, per il famoso trumeau, o piedritto.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 121-124

Disposizione: introduzione

Sezione: Lessico


Sembra che la rinascita del simbolismo non debba essere attribuita a Suger e alla sua abbaziale di Saint-Denis, ma che piuttosto abbia avuto luogo, all’insegna di uno spirito pregotico, in Linguadoca e in Borgogna. Questo linguaggio di segni, che consente di realizzare delle serie coerenti, si apparenta con i pittogrammi, con i petroglifi, con le antiche scritture, con le immagini e i segni parietali della preistoria …

Ci si potrebbe chiedere per quale ragione, visto che il romanico è un’arte europea e che le opere d’arte romaniche son ben numerose anche al di fuori delle frontiere francesi, la presente ricerca sia invece incentrata sulle regioni della Francia a sud della Loira e su quelle settentrionali della Spagna. Il motivo è semplice: proprio in queste regioni si manifestò la rinascenza della scultura a tutto tondo che per secoli era rimasta esclusa dall’edificio sacro. L’affresco, infatti, e perfino il mosaico, favorivano maggiormente una decorazione continua, un insegnamento da seguire passo passo, una illustrazione coerente fondata principalmente sui testi biblici e su quelli agiografici. Ma la prevalenza di queste forme decorative si spiega anche, senza dubbio, col terrore per l’idolatria che poteva essere facilmente ispirata dai rilievi di cui l’Antichità aveva lasciato tanti esempi, oggetto ancora non di rado di un culto da parte dei contadini, degli abitanti dei pagi (pagani). Se non che, solo la scultura poteva largamente armonizzarsi con le nuove strutture architettoniche. Linguadoca e Borgogna la videro rinascere contemporaneamente: l’architrave di Saint-Genis-des-Fontaines (1096) e il piccolo portale di Charlien (1095) sono, con la differenza di appena un anno, perfettamente contemporanei. Portali e absidi concentrarono su di sé delle partiture iconografiche coerenti, riflesso della disposizione precedente; e tuttavia la caratteristica originale di queste zone, rispetto agli altri paesi d’arte romanica, consistette – anche se, come dice giustamente Francastel, già «si annunciava l’era del discontinuo» – nell’aver saputo qui realizzare una sapiente disposizione di tali partiture su tutte le parti dell’edificio, disposizione destinata a toccare il suo apogeo nella cattedrale gotica, in stretta relazione con i progressi della tecnica edilizia che avrebbero nuovamente permesso una decorazione continua, sia sulla facciata, come nelle chiese dell’ovest francese, sia nell’interno, e questo essenzialmente grazie all’arte vetraria.

Ovviamente, benché nulla vieti di affermare che la scultura romanica è un linguaggio continuo fatto di segni e di rappresentazioni, non si può certo dire che i suoi programmi presentino un significato simbolico in tutte le loro componenti: ci sono anche dei riempitivi. Nessuno potrebbe sostenere, senza manifesta esagerazione, che qualsiasi motivo di acanto su un capitello o qualsiasi elemento palesemente gratuito su un modiglione abbiano un senso recondito. Come fa osservare in modo assai preciso G. de Champeaux (I simboli del Medio Evo, p. 147), l’arte comune ha ancora poco a che vedere, non diversamente dalla contemporanea produzione letteraria, con l’era della grandi summæ teologiche: il caso del portico del Foro a Le Puy è di per sé un fatto eccezionale. Ma non c’è neppure dubbio che la chiesa romanica, avendo di mira, tutte le volte e finché era possibile, una disposizione esaustiva, abbia tentato con mezzi e sistemi diversi secondo i luoghi di narrare comunque delle storie continue, e per ciò stesso di moralizzare, cioè di creare alla propria maniera delle sintesi, più vicine per il loro carattere ellittico e conciso al linguaggio simbolico primordiale.

Sembra infatti che, contrariamente a quanto afferma E. Mâle, la rinascita del simbolismo non debba essere attribuita a Suger e alla sua abbaziale di Saint-Denis, ma che piuttosto abbia avuto luogo, all’insegna di uno spirito pregotico, in Linguadoca e in Borgogna. Questo linguaggio di segni, che consente di realizzare delle serie coerenti, si apparenta con i pittogrammi, con i petroglifi, con le antiche scritture, con le immagini e i segni parietali della preistoria, di cui Leroi-Gourhan ha così bene messo in evidenza la sapiente disposizione entro quei santuari che erano le grotte. È perché discende tanto dalle antiche fonti quanto dalla Grecia che il simbolismo romanico è molto più difficile a penetrarsi, per noi, di quanto non sia il linguaggio gotico, più razionale e più sicuramente agevole da interpretare con l’ausilio dei testi dell’epoca.

La storia di fatto si ripete, ed è alquanto singolare notare come l’atmosfera delle chiese più cariche di significati simbolici in Linguadoca e nel nord della Spagna sia anche quella delle più antiche grotte dipinte, non meno ricche di simbolismo…

L’arte romanica in questa zona ha dunque creato, o tentato di creare, una decorazione continua che l’architettura gotica realizzerà, grazie ai progressi via via acquisiti, soprattutto nell’Ile-de-France. Come infatti ha dimostrato Francastel non esiste in Francia la cesura fra arte romanica e arte gotica che talvolta abusivamente si sostiene. Sotto tutti i punti di vista, il gotico è stato preparato, forgiato, dalle esperienze maturate nel periodo precedente. Ma non è qui compito nostro dimostrarlo.

In realtà occorre distinguere, sul piano architettonico, i grandi edifici in cui si realizzano, grazie alla dimensione dei cantieri e alla ricchezza dei promotori, esperienze nuove, e la massa delle piccole chiese poco o nulla toccate da queste esperienze, e che più o meno si somigliano dappertutto, salvo che nella decorazione e nei temi simbolici. Nei grandi edifici si prepara la volta tramezzata di nervature e costoloni, ma lo si farà nella maniera più efficace e positiva, poiché essa procederà logicamente dal principio dei «punti portanti» e dalla distanza di questi punti d’appoggio, che ridurrà progressivamente l’importanza del muro come struttura di sostegno e consentirà in epoca gotica di svuotarlo decisamente, per inserirvi lo sfavillio delle vetrate.

Ma nonostante la disposizione sistematica, che è una caratteristica peculiare dell’arte gotica, bisognerà pure riconoscere una certa dispersione, una perdita di sostanza. A forza di precisare, di moltiplicare le corrispondenze e le gerarchie, è lo spirito scolastico, messo in evidenza dal Panofski, a prendere il posto dello spirito simbolico, capace solitamente di accontentarsi di un numero limitato di temi e di utilizzarne le possibilità di concatenazione all’infinito. Il gigantismo fa perdere la dimensione umana. I mostri e i motivi vegetali che amava trattare l’arte romanica tradizionale vengono relegati nelle parti inferiori dell’edificio o addirittura nascosti dove occhio non può raggiungerli e messi così nell’impossibilità di nuocere – secondo la mentalità di san Bernardo. È da qui che nascono le gargolle e i doccioni gotici. Altrettanto dicasi per i Vizi, che tanto posto occupavano nell’arte romanica, essenzialmente popolare, e che ora, con ineccepibile logica, figurano solamente sulle «misericordie» degli stalli, fuori dalla vista dei fedeli: l’importante è che, in senso reale e in senso figurato, chierici e canonici ci si siedano sopra!

Con tutti questi punti di vista diversi l’iconografia finirà col perdere proprio quell’aspetto cosmico che oggi torna a esercitare su di noi un fascino così profondo. L’aneddoto, il pittoresco, la virtuosità spinta all’eccesso prenderanno il sopravvento sulla esigenza profonda che sgorga dall’inquietudine personale di fronte al divino.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 112-113