Sezione: Lessico
Il gusto per la simmetria, o piuttosto per l’antitesi, è un aspetto che capita di osservare spesso nell’arte romanica; esso corrisponde a una caratteristica peculiare del simbolo, e cioè alla sua possibilità di significare una certa idea e al tempo stesso il suo contrario. Vai la pena perciò di chiedersi se si debba veramente stabilire una netta contrapposizione fra la lotta e l’abbraccio, almeno in un certo numero non insignificante di casi, e se non ci sia un partito preso nell’analogia degli atteggiamenti fra i personaggi che lottano e i personaggi che si abbracciano.
Prima di precisare il senso di questi temi ambigui, è opportuno prendere in esame il tema, apparentemente più semplice, dei lottatori propriamente detti. A tal proposito, è difficile distinguere fra zona mesopotamica e zona egiziana, giacché esso appartiene indifferentemente all’una e all’altra. È impresa ardua, perciò, cercare di mettere a punto una carta di ripartizione geografica. Tutto quello che si può dire è che il primo tema fa capo più sicuramente alla tendenza mesopotamica, imperniata sull’idea del Giudizio, e il secondo alla tendenza egiziana, ossessionata dall’idea della salvezza. Possiamo tutt’al più precisare che i semplici lottatori, così come il deciso contrasto fra personaggi in lotta e personaggi abbracciati che si vede ad Aulnay, sono stati attinti alla prima fonte, mentre un terzo genere, diverso dai due precedenti, che si è affermato in special modo nei disegni di Villard de Honnecourt e ad Anzy-le-Duc, obbedisce alla tendenza egiziana.
Come molti temi apocalittici, il sistema di equivalenze fra uomini che lottano e uomini che si abbracciano non è che una manifestazione, o una variante, del tracciato a X dell’incrocio. Quest’ultimo intende sottolineare l’ordine ben regolato dell’universo; dal canto loro, l’amore e l’odio sono evidentemente i più imperiosi fra gli stimoli che ci spingono ad agire. Vengono automaticamente alla memoria le parole di Rodolfo il Glabro: «Questi incontestabili rapporti fra le cose ci parlano di Dio in maniera ad un tempo silenziosa, bella ed evidente. Giacché, mentre con un movimento incessante ogni cosa presenta l’altra in se stessa, esse, proclamando il principio primo da cui tutte procedono, chiedono in realtà soltanto di riacquistare di nuovo la loro quiete».
a) Lottatori. Tendenza mesopotamica
Esaminiamo prima di tutto il tema dei lottatori isolati. Si tratta, nelle linee generali, di una variante del tema degli acrobati. In effetti loro compito era stato da sempre quello di divertire la gente. Se ne vedono già negli affreschi delle mastabe egiziane. Tutti conoscono la voga delle loro esibizioni nell’antica Roma, nel jiu-jitsu giapponese e nel catch moderno. I lottatori che si afferrano curiosamente per la barba a Saint-Hilaire di Poitiers, sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande, ad Anzy-le-Duc, a Saiut-Benoît-sur-Loire, oppure per i capelli, su un rilievo esterno di La Celle-Bruère, nel Berry, firmato Frotoardus, e sulla tavola di Villard de Honnecourt, sono evidentemente legati da rapporti fra loro
: sui primi tre e su quest’ultimo, le braccia dei due avversari sembrano intersecarsi fra loro e incapestrarsi, così da formare appunto un incrocio. I sistemi piliferi, barba e capelli, sono sviluppati al massimo, in segno di virilità. Altri invece sono piuttosto calvi: li vediamo su un capitello proveniente da Saint-Hilaire, custodito presso il Musée des Antiquaires de l’Ouest, e anche su una miniatura dell’Apocalisse di Saint-Sever, che a parere di È. Mâle ne sarebbe stata l’ispiratrice, però la calvizie è anche indice di una vita ben vissuta. Eccezion fatta per i lottatori di V. de Honnecourt, che sono palesemente schematizzati e la cui lotta è trasformata in una sorta di balletto, hanno tutti un aspetto massiccio da professionisti, da autentici campioni di judo; a Poitiers, inquadrati da figure di donne, sono due volte più grandi di queste (o quasi). Altra caratteristica comune: la cornice rettilinea, quadrata, nella quale essi sono iscritti sia su un secondo rilievo di La Celle-Bruére, sia nella tavola di Honnecourt, sia sulla facciata principale di Anzy, e che però diventa rettangolare nel già citato rilievo di Frotoardus e nell’Apocalisse di Saint-Sever. Alla cornice quadrata degli uomini che lottano, si contrappone, poi nella stessa tavola di Honnecourt, il semicerchio di quella che avvolge i due personaggi abbracciati. I loro lineamenti, infine, tipici degli Orientali, e i loro abiti alquanto singolari, a pieghe multiple concentriche, fanno suppone che s’abbia a che fare coi membri di una corporazione a sé stante, ritratti più o meno dal vero.
Che cosa dobbiamo pensarne? Le poche indicazioni che abbiamo fornito provano già che queste immagini non si propongono semplicemente di presentare una categoria di intrattenitori pubblici, ma che in esse è insito un significato più colto, più raffinato. Un testo relativo al capitello proveniente da Saint-Hilaire contribuisce a chiarire il perché delle loro fronti pelate, e altrettanto significativo è nell’Apocalisse di Saint-Sever il personaggio della donna raffigurata accanto a essi che sembra farsi beffe della loro lotta: «Essendo attristate le loro fronti, è giocoforza che si afferrino per la barba»; così si legge. Associati come sono alla cornice quadrata che rappresenta la terra, è evidente che si tratta di violenti trascinati dai loro istinti, e come tali decisi a servirsi di qualunque mezzo per riuscire a superarsi. Ma quello che a noi pare soprattutto chiarire il loro significato è il tozzo hom, o albero a Y, che li separa sul capitello di Saint-Hilaire. Non siamo di fronte a un soggetto faceto messo lì solo per concedere una pausa di distensione a chi legge l’Apocalisse, bensì di un simbolo tipologico del giudizio, di un duello giudiziario in piena regola che farà pendere la bilancia a favore dell’uno o dell’altro, secondo il parere e il volere di Dio. Anche il giuoco dei dadi era chiamato «giuoco di Dio» nel medioevo; come si sa, le vesti del Figlio di Dio erano state giocate ai dadi dai soldati romani – e la scena sarebbe riapparsa di frequente nelle Crocefissioni dei secoli XIV e XV. Alcuni di questi energumeni impugnano coltellacci assai simili a quello dell’Ezechiele di Royat (Puy-de-Dôme) e quindi bisogna ammettere una certa vicinanza fra quelli e questo; barbuto anche lui, intento a fare tre mucchi coi peli della propria barba, Ezechiele è in questo caso la prefigurazione tipologica del giudizio e dei flagelli che, a detta dei passi apocalittici dei libri veterotestamentari, si abbatteranno sul mondo alla vigilia della sua fine. Ma non basta. Un’analoga vicinanza va vista anche con le figurazioni di galli in combattimento, tema di origine gallo-romana, che s’incontra, imitato chiaramente da un bassorilievo antico, sia a Beaune che ad Autun, associato in quest’ultimo esempio al motivo del fregio a zig-zag sull’abaco del capitello e alla contrapposizione fra un povero infelice che si stringe la testa fra le mani in atto di smarrimento e di sconforto e un uomo trionfante che non si sa se stia esultando o ingraziando il cielo: evocazione evidente della contrapposizione fra il dannato e l’eletto.
Questa idea del giudizio alla maniera dei riti dell’Antichità è avvalorata dalla interpretazione che deve essere data al secondo dei due bassorilievi di La Celle-Bruère prima citati.

Due fanciulli dai lineamenti di futuri giganti che indossano gonnelle a pieghe percorse da ricami a zig-zag sembra stiano accapigliandosi fra di loro. Uno dei due, a testa alta, ha afferrato l’altro per la chioma e gli sta piegando il capo in avanti. Questi, a sua volta, inarca le spalle per il dolore e sta tentando, a quanto pare, di respingere l’avversario. Attorno a essi si distinguono svariati motivi; in particolare, delle nuvole in alto a sinistra, un animale fra le gambe del combattente di destra e un oggetto bizzarro, a forma di padellino, sotto i piedi di quello soccombente, dirimpetto al primo. Pur senza averne la rigorosa simmetria, il rilievo in questione contiene in germe il tema romanico dei lottatori: il fanciullo di destra che tiene l’altro pei capelli non è molto lontano dai vecchi che si stanno strappando le barbe a Poitiers o ad Anzy-le-Duc. Dovrebbe trattarsi di un episodio della fondazione di Roma: la lotta fra Romolo e Remo; il bizzarro strumento che sta per terra non è altro che la verga degli àuguri, mentre l’animale è evidentemente la vittima di un sacrificio. Ci si sarebbe ispirati, in proposito, a uno scritto del canonico Flodoardo di Reims (896-966). Ma la cosa che più colpisce è il constatare come tu un tema del genere non sia stato dimenticato il significato profondo degli antichi costumi; d’altronde, Io stesso Clodoveo non aveva forse compiuto un vero e proprio rito di aruspicina, quando aveva eseguito un sacrificio espressamente per poter leggere l’avvenire nelle viscere dell’animale sacrificato? I sacrifici antichi sono rappresentati con fedeltà sconcertante a Charlieu.
Anche ammettendo che i lottatori che si afferrano per la barba siano un’immagine del giudizio di Dio, una interpretazione del genere non esclude il significato indicato prima che ne fa piuttosto dei lussuriosi. Nel caso citato del capitello di Saint-Hilaire di Poitiers, l’analogia della composizione con quelle degli uomini col leone salta palesemente agli occhi il comportamento delle donne che sembrano trattenerli, oppure spingerli – le mani sembrano infatti volte in due direzioni diverse –, rafforza questa convinzione. Com’è noto, gli uomini col leone sono l’immagine dell’incarnazione sul piano umano, e il leone come tale una immagine della carne. Esso è la bestia più degna di rappresentare il corpo umano, perché è il re degli animali, come l’uomo è il re della creazione. Cavalcare il leone è un po’ come sposare la donna. Le donne sono qui, al pari dei leoni, complementari all’uomo e in pari tempo evocano le figurazioni dei geni, nudi o vestiti, simboleggianti il male o il bene, che talvolta spingono, tal’altra trattengono l’uomo che s’è messo a cavalcare le fiere. Va fatto comunque osservare che altri testi biblici possono giustificare o spiegare, in certa misura, le scene di lotta. Benché paia essere loro connesso un senso negativo, nell’ottica del Giudizio, le figure di lottatori si ispirano senza dubbio anche alle parole del Vangelo relative ai violenti che riescono a ottenere il regno di Dio.
b) Uomini in lotta e uomini abbracciati
Ai lottatori isolati, puramente apocalittici, tipici del sud ovest della Francia, si contrappongono i lottatori integrati a dei programmi più vasti.
Sulla facciata di Notre-Dame-la-Grande, il leone rampante nell’ultimo pennacchio a destra, che tiene fra le zampe anteriori un albero a Y ricurvo, come se lo spingesse innanzi a sé o lo portasse in trionfo, ha alle spalle una coppia di figure umane abbracciate, di significato ambivalente in un programma d’insieme uniformemente incentrato sulla Madonna. Vi si scorgono infatti i misteri della Profezia e dell’Incarnazione, la Parola dei Profeti con Jesse e la Vergine che riscatta la colpa di Eva, così come il Cristo riscatta quella di Adamo – e il complesso si legge da sinistra a destra. L’abbraccio ha quindi un significato apocalittico perché, collocato in quel punto, precede direttamente gli Apostoli e i Santi sotto gli archi inquadrati dalla vigna eucaristica, del paramento scultoreo mediano, e il Cristo col Tetramorfo, inquadrato a sua volta dal sole e dalla luna, nella mandorla del paramento superiore del frontone, dove compaiono anche dei rivestimenti simbolici: dapprima il cerchio e poi l’incrocio.
Un particolare è bene notare a questo riguardo: il programma iconografico della facciata in questione, con il Cristo circondato dal Tetramorfo solare, tema associato a quello degli Apostoli e della Vergine immagine della Chiesa, si presenta in maniera esatta e inequivocabile come un gigantesco tema doppio, non dissimile dal tema copto di Bourg-Argental e di Cluny. Nondimeno, pur costituendo un preludio, una transizione ai temi apocalittici, non si può dire, contrariamente al precedente tema di Anzy, che i due personaggi allacciati o in lotta (?) siano volti verso l’alto. Qui non solamente le braccia sono incrociate, ma lo sono anche le gambe, per una ragione di contrasto espressamente voluta, che richiama alla mente i racemi delle Porte del Cielo e le complesse posture delle allegorie dell’aries-leo: la gamba destra del personaggio di destra si trova infatti sulla gamba sinistra dell’altro, mentre il braccio destro di questo è sovrapposto al braccio sinistro del primo. Inoltre uno di essi ha la testa in posizione di «contrasto», palesemente girata verso sinistra, così come tutta a sinistra è drizzata la coda del vicino leone, simbolo di resurrezione. L’importanza attribuita all’incrocio su questa facciata di Poitiers è fuori discussione. Di fatto, sul lato destro – lo stesso in cui si trovano il leone e i lottatori appena visti –, si scorge un motivo incrociato, chiara allusione al Cristo e alla sua nascita carnale, che sovrasta la scena della Natività, e parimenti formata da due triangoli uniti pei vertici è la vasca a calice in cui il Bambino viene lavato. Sul lato opposto, invece, non si rilevano che motivi a forma di W o di omega – Nabucodonosor in preghiera, i rami che spuntano dalla testa di Jesse, il doppio corpo di pesce della sirena –, oppure motivi a spirali che sbucano fuori da maschere. Tutti questi elementi dimostrano che il tema, come la maggior parte dei soggetti di questo apparato scultoreo, contiene in sé un insegnamento tipologico: esso rappresenta, come vedremo fra poco, una figurazione, desunta dall’Antico Testamento, dell’abbraccio finale che avrà luogo quando «i tempi saranno compiuti».
Non per nulla questi falsi lottatori sono stati collocati al di sotto della scena della Natività. Posti così, a un livello inferiore, essi ci illustrano l’azione della grazia che si esercita nell’Incarnazione, mercé la quale è stato ripristinato, in senso buono, il «mondo della dissomiglianza».
Mme Labande-Mailfert ha visto bene quando ha affermato che non si tratta di lottatori, come si era sempre ripetuto, ma di una coppia in atto di abbracciarsi, e basta. Sono, del resto, gli stessi testi biblici che intervengono ad avallare l’ipotesi. Ci troveremmo, cioè, di fronte all’abbraccio dei figli di Giacobbe, Giuseppe e Beniamino (Gen., VL, 14). E non è da escludere che sia da scorgervi anche un profondo pensiero tipologico, con questo Giuseppe dell’Antica Legge rappresentato giusto ai piedi del padre putativo del Fanciullo Dio che porta lo stesso nome. Anche nel Salmo 85 (versetti 11 e 12) si parla di un abbraccio simbolico:
«La bontà e la fedeltà si rincontrano,
la giustizia e la pace si abbracciano;
la fedeltà germina dalla tetra
e la giustizia contempla dall’alto dei cieli».
Anzi, proprio questi versi, associati a un abbraccio simile fra due figure femminili, si trovano scritti su un indumento liturgico forse del secolo XI. La stessa Mme Labande-Mailfert pensa inoltre al passo di Geremia relativo alla venuta al mondo della Sapienza («così ella apparve sopra la terra e abitò in mezzo agli uomini», Bar., III, 38), che si trovava scritto, non certo a caso, sul filatterio da lui tenuto in mano nel rilievo che lo rappresenta sulla stessa facciata, sopra l’estradosso del falso portale di sinistra (purtroppo ormai cancellato), e nel quale si legge sul finire questa esortazione: «Ritorna a lei, Giacobbe, e abbracciala, cammina nello splendore della sua luce» (Bar., IV, 2). Dal canto suo, Riccardo da San Vittore, commentando l’abbraccio fra Giuseppe e Beniamino, dice testualmente: «In questo abbraccio la ragione umana plaude alla Rivelazione divina».
Lotta e abbraccio, fra loro nettamente separati, compaiono ad Anzy-le-Duc su un capitello dell’arco trionfale che precede la crociera, associati al tema, apocalittico a suo modo, dei fiumi del Paradiso e alla Vergine Regina col Bambino, nella chiave di volta, difesa dai leoni, come sulla tavola di destra del Libro di architettura (parte Geometria) di Villard de Honnecourt. Due monaci tonsurati che si abbracciano precedono i due lottatori che si afferrano reciprocamente per la barba – motivo classico, come sappiamo –, inquadrati da maschere di fiumi, barbute anch’esse a cui spunta fuori dalla bocca una lingua smisurata: lingua e barba ondulata simboleggiano l’acqua. Infine, girato verso l’alto, un minuscolo personaggio, un nano si direbbe, con la testa enorme, come e cosa comune in questi poveretti, alza gli occhi al cielo, in direzione della Madonna; come uno storpio, o come l’orante di Rozier, ha le gambe ridotte a dei moncherini. Un sistema, questo, per far notare che non tocca terra. Si tratta pertanto della personificazione di un amore che non avrà limiti, legata all’idea della Città celeste, che vedrà risplendere la carità che mai non muore, e all’idea del Sole di giustizia, che brillerà eternamente.
Per spiegare il significato di questi monaci abbracciati e di questi lottatori di Anzy-le-Duc un’altra cosa da fare è avvicinarli a quanto dice Rodolfo il Glabro all’inizio delle sue Storie a proposito dei fiumi assimilati alle quattro virtù cardinali. Come già si è detto, infatti, fra le due coppie di personaggi sono intercalate delle maschere di fiumi. Il terzo fiume, dice il monaco cluniacense, è il Tigri, «lungo le cui rive abitano gli Assiri, il nome dei quali significa ‘coloro che comandano’» e che «simboleggia la Forza»: l’accostamento ai lottatori è quasi automatico. Il quarto, «l’Eufrate, ovverosia l’‘abbondanza’, designa evidentemente la Giustizia che nutre e conforta tutte le anime che la desiderano ardentemente» – e sembra chiaro che l’accostamento vada fatto qui con l’abbraccio. Se si accetta questa interpretazione, i due fiumi rappresentati con i lineamenti dell’Acquario che si vedono su uno dei capitelli meridionali, dovrebbero essere la Temperanza e la Prudenza (?).
Il parallelo delle due scene con immagini acquatiche, e in particolare con le maschere fluviali vomitanti onde vorticose, può suggerire altresì alcune osservazioni fatte già dalle genti medievali, intorno ai misteri della natura e ai fenomeni che le avevano più profondamente impressionate. Sulle orme di Macrobio, diversi scrittori, fra cui Paolo Diacono (720-799?), Adelardo di Bath, Guglielmo di Conches, ecc. avevano forgiato delle ipotesi sul fenomeno delle maree, arrivando a supporre che in fondo all’oceano esistesse un gorgo, o più di uno magari, dal quale aveva origine questo movimento alternativo della superficie marina. Alcuni, come lo stesso Paolo Diacono, pensarono al Maëlstrom, in Norvegia, o più correntemente alla luna. Ci si poteva chiedere perciò se le azioni contrastanti degli uomini non fossero da avvicinare ai contrastanti saliscendi di questa corrente naturale. La cosa non ha nulla d’inverosimile, giacché questo poteva anche essere uno dei molteplici significati della X o comunque dell’incrocio. Tenendo presente una più ampia conoscenza dell’universo, si può benissimo immaginare che ci si sia limitati a confinare i fiumi del Paradiso nel Medio Oriente, secondo la tradizione biblica.
A Saint-Benoît-sur-Loire, nel portico dove il programma apocalittico era contemporaneamente sviluppato sui capitelli e sugli affreschi che lo rivestivano in origine, la rappresentazione dell’abbraccio appare nella «rosetta» di uno di questi capitelli, nel quale un ipotetico Daniele si presenta circondato da quattro leoni, uno dietro all’altro, in gruppi di due, e da quattro atlanti con addosso bande incrociate, o pallium, immagine dell’intercessione della Chiesa (quattro = terra) Tutti sono girati verso l’alto; il braccio di quello di sinistra disegna un motivo a V, e la sua faccia, più marcatamente rivolta verso l’alto, sembra angosciata; il personaggio di destra, più tranquillo, ha invece l’aria di volersi svincolare. Dobbiamo interpretare la scena nel suo insieme come illustrazione della promessa del Cielo e della sua Vittoria: la V nitidamente visibile è infatti l’iniziale di questa parola.
Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 190-194
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