Sezione: Lessico
Testi
Nella Bibbia il numero Cinque sembra avere un significato iniziatico; ne consegue un certo nesso con la dottrina pitagorica che, ponendolo in relazione col pentacolo o pentagramma, ne fa un simbolo esoterico per eccellenza, la figura perfetta che riassume l’uomo microcosmo. Ma esso è al tempo stesso un’allusione alla stella pentagrammatica della Cabala; un simbolo, quest’ultimo, che può diventare malefico, se due punte della stella sono rivolte verso l’alto: allora vi s’inserisce il caprone demoniaco (Charbonneau-Lassay).
Il Cinque corrisponde ai cinque libri di Mosè che contengono in particolare le rivelazioni ricevute da Dio sul monte Sinai, e alle cinque pietre che Davide raccattò nel letto del torrente per potere abbattere Golia. E sant’Agostino a spiegarci il perché dell’utilizzazione di questo numero in due episodi così differenti, ai quali egli ricollega anche l’Uno e il Dieci, numeri non meno sacri per Pitagora: «Fratelli», dice, «voi vedete qui alle prese da un lato il demonio, impersonato da Golia, e dall’altro Gesù Cristo, impersonato da Davide. Davide prese cinque pietre nel letto del torrente, le mise nel recipiente che gli serviva per raccogliere il latte delle pecore e così armato marciò contro il suo nemico. Le cinque pietre di Davide rappresentano i cinque libri della Legge di Mosè. La Legge, a sua volta, contiene i dieci precetti salutari, dai quali derivano tutti gli altri. La Legge è perciò rappresentata contemporaneamente dal numero Cinque e dal numero Dieci. Ecco perché Davide combatte con cinque pietre e canta, com’egli dice, con uno strumento a dieci corde. E notate bene ch’egli scaglia non già tutt’e cinque le pietre, ma una sola: quest’unica pietra è l’Unità che porta a compimento la Legge, ovverosia la Carità. E notate ancora che egli prende le cinque pietre nel letto di un corso d’acqua. Che cosa rappresenta il corso d’acqua se non il popolo leggero incostante che la violenza delle passioni trascina nel mare del secolo? Tale era infatti il popolo ebraico. Aveva ricevuto la Legge, ma ci passava sopra, come il corso d’acqua passa al di sopra delle pietre. Il Signore prese quindi la Legge per elevarlo fino alla Grazia, come Davide prese le pietre nel letto del corso d’acqua e le mise nel recipiente del latte. E quale immagine della Grazia può essere più giusta dell’abbondante dolcezza del latte?». Se citiamo in tutta la sua lunghezza un brano come questo, è perché esso fa toccare con mano quanto debbano gli aspetti estremi del simbolismo romanico dei numeri alla sottigliezza della patristica.
Da notare che un accordo discreto fra il Cinque e il Dieci è realizzato anche sull’altare, dove le cinque croci di consacrazione, allusione alle piaghe del Cristo, sono disposte in modo da formare un incrocio e dunque secondo un X romano.
Ricordiamo, ad ogni buon conto, che sebbene sant’Agostino, fedele in ciò al pitagorismo, annetta un valore eminente al Cinque, il numero dispari per eccellenza, non sarà tuttavia prima dell’epoca gotica (sec. XIII-XIV) che si ammetterà correntemente l’esistenza fra gli elementi di una quinta essenza, giacché essa deriva da una concezione pagana contraria per troppi aspetti alla Bibbia. Vedremo tuttavia più avanti, già nei monumenti romanici, una sovrabbondanza di accenni al Cinque esoterico; è una prova fra mille altre che il simbolo romanico si afferma da sé, indipendentemente dai testi, ai quali non di rado va perfino oltre.
Per tornare al rapporto fra il Cinque e l’uomo, faremo riferimento a Idegarda di Bingen. Iscritto nel quadrato, l’uomo si divide, nel senso dell’altezza, dalla sommità della testa fino ai piedi, in cinque parti uguali; nel senso della larghezza, ottenuta con le braccia distese, dall’estremità di una mano all’altra, in cinque parti, uguali anch’esse: si possono perciò tracciare cinque quadrati nel senso dell’altezza e cinque quadrati nel senso della larghezza – cosa, questa, che ci riporta a Dio. Se l’uomo è retto dal numero Cinque, è perché egli possiede cinque sensi e cinque estremità: la testa, le braccia e le gambe. Nel senso positivo, l’uomo-microcosmo per eccellenza, il Cristo, è trafitto da cinque piaghe, proprio per potere metter in mostra la sua umanità: sull’altare, immagine del corpo stesso del Signore, si incidono, come si è visto, cinque croci di consacrazione. Nel senso negativo, invece, i cinque sensi diventano i fratelli del Ricco epulone nella parabola di Lazzaro. Plutarco, da parte sua, si serve di questo numero per designare la propagazione della specie. La cifra in questione esprime quindi il mondo sensibile, e infatti è detto nella Genesi che i volatili e i pesci furono creati il quinto giorno. Inoltre, il numero cinque è il risultato dell’addizione del primo numero dispari e del primo numero pari. Sempre secondo Ildegarda di Bingen, «il numero pari significa la matrice, e perciò è femminile; il numero dispari viceversa è maschile; l’associazione dell’uno e dell’altro è androgina, così come è androgina la Divinità. Il pentagramma è pertanto l’emblema del microcosmo».
Opere
Le due sfingi di Chauvigny, con due corpi leonini e un’unica testa, evocanti l’idea stessa di Dio, della Divinità, del Sole della resurrezione portata a compimento nel mondo a venire (in contrapposizione alle sfingi lunari, simboli delle ripetizioni) illustrano con le forme delle loro bocche il passaggio dal Quattro al Cinque esoterico – il che s’accorda col significato proprio della sfinge esoterica consultata da Edipo, simbolo iniziatico, ed è in accordo altresì con la rappresentazione dell’Uomo squartato del capitello vicino, che significa la morte. L’una, infatti, ha la barba doppia, a forma di corno dell’abbondanza, e questo è un richiamo alle fecondità terrestri, ma anche la bocca a losanga, che con le sue quattro punte si rapporta al simbolismo del Quattro.
L’altra ha la barba a una sola punta e la bocca aperta in modo da formare col labbro superiore e con la linea a doppio spiovente dei baffi la figura del pentagramma.
Due sfingi analoghe stanno divorando eletti o dannati due capitelli più in là.
Alla base del portale di Moissac il passaggio dal Quattro terrestre al Cinque celeste ed esoterico è riconoscibile nel fatto che sui piedritti gli incavi lobati sono quattro, mentre il trumeau propriamente detto, con le leonesse incrociate che formano il seggio di Dio e disegnano tre incroci (Tre = Cielo), di incavi lobati ne contiene cinque; ma, particolare quanto mai sintomatico, per vedere bene questi incavi – e qui compare il simbolo delle squame – bisogna guardare il trumeau dalla parte opposta, dall’interno.
A Saint-Gilles-du-Gard due fiori a cinque petali, piegati in direzione opposta agli steli, ornano i doppi racemi a S rovesciata che sovrastano le figure di san Giacomo e di san Paolo e il piedritto su cui è raffigurata la Caccia al cervo: il fiore di sinistra, visto di fronte, si presenta girato a destra, dal lato di san Paolo. Quest’ultimo reca sul suo filatterio l’espressione, attribuita da Émile Mâle all’abate Suger, relativa all’Apostolo che «macina il grano dei Profeti», e i due fiori volti in direzione opposta hanno palesemente un significato esoterico che s’intona con tale concetto. Il tutto si riconnette alle parole di sant’Agostino sui numeri Cinque e Dieci. Lo stesso motivo del fiore a cinque petali ripiegati lo ritroviamo sul portale nord di Bourges, nei frammenti di Souvigny, su un capitello di Mozat, ecc.
Anche a Serrabone compaiono dei fiori, cinque, e ognuno con quattro petali, nell’abaco sovrastante il capitello della Caccia al cervo. In quest’ultimo caso, come nel precedente, la presenza dei numeri Quattro e Cinque vicino alla Caccia al cervo si spiega facilmente: l’uomo infatti si afferma come uomo allorché accetta la morte iniziatica.
Nelle famose tavole di triangolazione dell’album di Villard de Flonnecoon, mentre le maschere della coppia sono incorniciate da un quadrato per la donna e da un cerchio per l’uomo, è invece in un pentacolo diritto che s’iscrive il volto dell’Eterno Padre.
Il più celebre e il più notevole dei fiori ripiegati a cinque petali è quello collocato dietro la scena della Natività ad Autun. Denise Jalabert ha dato di questa insolita rappresentazione la spiegazione più precisa e più convincente; essa si trova in un brano di san Bernardo, già rilevato da Émile Màle, riguardante la nascita di Gesù: «Il fiore (Gesù) ha voluto essere concepito da un fiore (la Vergine), in un fiore (Nazareth in ebraico significa fiore), al tempo dei fiori (la festa dell’Annunciazione si celebra a primavera)». Questo brano spiega anche il numero dei fiori sull’abaco: sei, uno di fila all’altro. Ma si deve altresì pensare al fiore che germoglierà da Jesse, secondo Ezechiele. A parere di Raoul Ardent, se esso è ripiegato, vuoi dire che fiorirà soltanto nella sua patria.
Il quinto Vegliardo della fila inferiore, sul timpano di Moissac, ha le gambe nude ed eccessivamente deformate, al punto da disegnare con esse un incrocio; si tratta di un ulteriore riferimento ai rapporti iniziatici fra il Cinque e il Dieci che abbiamo già visto in sant’Agostino.
Nella chiave di volta del portale meridionale di Aulnay – quello della Missione degli Apostoli –, dove si vedono degli atlanti simili ai deva e agli asura indiani, l’archivolto esterno presenta uno Specchio del mondo. Cinque incroci corrispondono qui alle dieci sovrapposizioni di animali dei fregi verticali di Saint Martin d’Ainay a Lione, con gli stessi animali eucaristici: è il tema delle ripetizioni all’infinito, della regolazione dell’universo. Stando a Rodolfo il Glabro, dobbiamo vedervi i cinque sensi, e diversi atteggiamenti o forme dell’amore.
Ad Ainay, la maschera della Terra ha cinque foglie sulla testa. E per finire, è la portata esoterica del numero Cinque che si è voluta mettere in evidenza nella mano destra dell’orante di Rozier-Côtes d’Aurec, dandole da stringere la sfera dell’Uno della conoscenza: perciò il disegno delle cinque dita non ha nessuna verosimiglianza: esso vuoi essere un segno e nient’altro. In questa scultura compaiono, come si è già visto, i primi dieci numeri pitagorici.
Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 218-221