Numeri, cifre e figure geometriche: cinque

Sezione: Lessico


Testi

Nella Bibbia il numero Cinque sembra avere un significato iniziatico; ne consegue un certo nesso con la dottrina pitagorica che, ponendolo in relazione col pentacolo o pentagramma, ne fa un simbolo esoterico per eccellenza, la figura perfetta che riassume l’uomo microcosmo. Ma esso è al tempo stesso un’allusione alla stella pentagrammatica della Cabala; un simbolo, quest’ultimo, che può diventare malefico, se due punte della stella sono rivolte verso l’alto: allora vi s’inserisce il caprone demoniaco (Charbonneau-Lassay).

Il Cinque corrisponde ai cinque libri di Mosè che contengono in particolare le rivelazioni ricevute da Dio sul monte Sinai, e alle cinque pietre che Davide raccattò nel letto del torrente per potere abbattere Golia. E sant’Agostino a spiegarci il perché dell’utilizzazione di questo numero in due episodi così differenti, ai quali egli ricollega anche l’Uno e il Dieci, numeri non meno sacri per Pitagora: «Fratelli», dice, «voi vedete qui alle prese da un lato il demonio, impersonato da Golia, e dall’altro Gesù Cristo, impersonato da Davide. Davide prese cinque pietre nel letto del torrente, le mise nel recipiente che gli serviva per raccogliere il latte delle pecore e così armato marciò contro il suo nemico. Le cinque pietre di Davide rappresentano i cinque libri della Legge di Mosè. La Legge, a sua volta, contiene i dieci precetti salutari, dai quali derivano tutti gli altri. La Legge è perciò rappresentata contemporaneamente dal numero Cinque e dal numero Dieci. Ecco perché Davide combatte con cinque pietre e canta, com’egli dice, con uno strumento a dieci corde. E notate bene ch’egli scaglia non già tutt’e cinque le pietre, ma una sola: quest’unica pietra è l’Unità che porta a compimento la Legge, ovverosia la Carità. E notate ancora che egli prende le cinque pietre nel letto di un corso d’acqua. Che cosa rappresenta il corso d’acqua se non il popolo leggero incostante che la violenza delle passioni trascina nel mare del secolo? Tale era infatti il popolo ebraico. Aveva ricevuto la Legge, ma ci passava sopra, come il corso d’acqua passa al di sopra delle pietre. Il Signore prese quindi la Legge per elevarlo fino alla Grazia, come Davide prese le pietre nel letto del corso d’acqua e le mise nel recipiente del latte. E quale immagine della Grazia può essere più giusta dell’abbondante dolcezza del latte?». Se citiamo in tutta la sua lunghezza un brano come questo, è perché esso fa toccare con mano quanto debbano gli aspetti estremi del simbolismo romanico dei numeri alla sottigliezza della patristica.

Da notare che un accordo discreto fra il Cinque e il Dieci è realizzato anche sull’altare, dove le cinque croci di consacrazione, allusione alle piaghe del Cristo, sono disposte in modo da formare un incrocio e dunque secondo un X romano.

Ricordiamo, ad ogni buon conto, che sebbene sant’Agostino, fedele in ciò al pitagorismo, annetta un valore eminente al Cinque, il numero dispari per eccellenza, non sarà tuttavia prima dell’epoca gotica (sec. XIII-XIV) che si ammetterà correntemente l’esistenza fra gli elementi di una quinta essenza, giacché essa deriva da una concezione pagana contraria per troppi aspetti alla Bibbia. Vedremo tuttavia più avanti, già nei monumenti romanici, una sovrabbondanza di accenni al Cinque esoterico; è una prova fra mille altre che il simbolo romanico si afferma da sé, indipendentemente dai testi, ai quali non di rado va perfino oltre.

Per tornare al rapporto fra il Cinque e l’uomo, faremo riferimento a Idegarda di Bingen. Iscritto nel quadrato, l’uomo si divide, nel senso dell’altezza, dalla sommità della testa fino ai piedi, in cinque parti uguali; nel senso della larghezza, ottenuta con le braccia distese, dall’estremità di una mano all’altra, in cinque parti, uguali anch’esse: si possono perciò tracciare cinque quadrati nel senso dell’altezza e cinque quadrati nel senso della larghezza – cosa, questa, che ci riporta a Dio. Se l’uomo è retto dal numero Cinque, è perché egli possiede cinque sensi e cinque estremità: la testa, le braccia e le gambe. Nel senso positivo, l’uomo-microcosmo per eccellenza, il Cristo, è trafitto da cinque piaghe, proprio per potere metter in mostra la sua umanità: sull’altare, immagine del corpo stesso del Signore, si incidono, come si è visto, cinque croci di consacrazione. Nel senso negativo, invece, i cinque sensi diventano i fratelli del Ricco epulone nella parabola di Lazzaro. Plutarco, da parte sua, si serve di questo numero per designare la propagazione della specie. La cifra in questione esprime quindi il mondo sensibile, e infatti è detto nella Genesi che i volatili e i pesci furono creati il quinto giorno. Inoltre, il numero cinque è il risultato dell’addizione del primo numero dispari e del primo numero pari. Sempre secondo Ildegarda di Bingen, «il numero pari significa la matrice, e perciò è femminile; il numero dispari viceversa è maschile; l’associazione dell’uno e dell’altro è androgina, così come è androgina la Divinità. Il pentagramma è pertanto l’emblema del microcosmo».

Opere

Le due sfingi di Chauvigny, con due corpi leonini e un’unica testa, evocanti l’idea stessa di Dio, della Divinità, del Sole della resurrezione portata a compimento nel mondo a venire (in contrapposizione alle sfingi lunari, simboli delle ripetizioni) illustrano con le forme delle loro bocche il passaggio dal Quattro al Cinque esoterico – il che s’accorda col significato proprio della sfinge esoterica consultata da Edipo, simbolo iniziatico, ed è in accordo altresì con la rappresentazione dell’Uomo squartato del capitello vicino, che significa la morte. L’una, infatti, ha la barba doppia, a forma di corno dell’abbondanza, e questo è un richiamo alle fecondità terrestri, ma anche la bocca a losanga, che con le sue quattro punte si rapporta al simbolismo del Quattro.

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L’altra ha la barba a una sola punta e la bocca aperta in modo da formare col labbro superiore e con la linea a doppio spiovente dei baffi la figura del pentagramma.

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Due sfingi analoghe stanno divorando eletti o dannati due capitelli più in là.

Alla base del portale di Moissac il passaggio dal Quattro terrestre al Cinque celeste ed esoterico è riconoscibile nel fatto che sui piedritti gli incavi lobati sono quattro, mentre il trumeau propriamente detto, con le leonesse incrociate che formano il seggio di Dio e disegnano tre incroci (Tre = Cielo), di incavi lobati ne contiene cinque; ma, particolare quanto mai sintomatico, per vedere bene questi incavi – e qui compare il simbolo delle squame – bisogna guardare il trumeau dalla parte opposta, dall’interno.

A Saint-Gilles-du-Gard due fiori a cinque petali, piegati in direzione opposta agli steli, ornano i doppi racemi a S rovesciata che sovrastano le figure di san Giacomo e di san Paolo e il piedritto su cui è raffigurata la Caccia al cervo: il fiore di sinistra, visto di fronte, si presenta girato a destra, dal lato di san Paolo. Quest’ultimo reca sul suo filatterio l’espressione, attribuita da Émile Mâle all’abate Suger, relativa all’Apostolo che «macina il grano dei Profeti», e i due fiori volti in direzione opposta hanno palesemente un significato esoterico che s’intona con tale concetto. Il tutto si riconnette alle parole di sant’Agostino sui numeri Cinque e Dieci. Lo stesso motivo del fiore a cinque petali ripiegati lo ritroviamo sul portale nord di Bourges, nei frammenti di Souvigny, su un capitello di Mozat, ecc.

Anche a Serrabone compaiono dei fiori, cinque, e ognuno con quattro petali, nell’abaco sovrastante il capitello della Caccia al cervo. In quest’ultimo caso, come nel precedente, la presenza dei numeri Quattro e Cinque vicino alla Caccia al cervo si spiega facilmente: l’uomo infatti si afferma come uomo allorché accetta la morte iniziatica.

Nelle famose tavole di triangolazione dell’album di Villard de Flonnecoon, mentre le maschere della coppia sono incorniciate da un quadrato per la donna e da un cerchio per l’uomo, è invece in un pentacolo diritto che s’iscrive il volto dell’Eterno Padre.

Il più celebre e il più notevole dei fiori ripiegati a cinque petali è quello collocato dietro la scena della Natività ad Autun. Denise Jalabert ha dato di questa insolita rappresentazione la spiegazione più precisa e più convincente; essa si trova in un brano di san Bernardo, già rilevato da Émile Màle, riguardante la nascita di Gesù: «Il fiore (Gesù) ha voluto essere concepito da un fiore (la Vergine), in un fiore (Nazareth in ebraico significa fiore), al tempo dei fiori (la festa dell’Annunciazione si celebra a primavera)». Questo brano spiega anche il numero dei fiori sull’abaco: sei, uno di fila all’altro. Ma si deve altresì pensare al fiore che germoglierà da Jesse, secondo Ezechiele. A parere di Raoul Ardent, se esso è ripiegato, vuoi dire che fiorirà soltanto nella sua patria.

Il quinto Vegliardo della fila inferiore, sul timpano di Moissac, ha le gambe nude ed eccessivamente deformate, al punto da disegnare con esse un incrocio; si tratta di un ulteriore riferimento ai rapporti iniziatici fra il Cinque e il Dieci che abbiamo già visto in sant’Agostino.

Nella chiave di volta del portale meridionale di Aulnay – quello della Missione degli Apostoli –, dove si vedono degli atlanti simili ai deva e agli asura indiani, l’archivolto esterno presenta uno Specchio del mondo. Cinque incroci corrispondono qui alle dieci sovrapposizioni di animali dei fregi verticali di Saint Martin d’Ainay a Lione, con gli stessi animali eucaristici: è il tema delle ripetizioni all’infinito, della regolazione dell’universo. Stando a Rodolfo il Glabro, dobbiamo vedervi i cinque sensi, e diversi atteggiamenti o forme dell’amore.

Ad Ainay, la maschera della Terra ha cinque foglie sulla testa. E per finire, è la portata esoterica del numero Cinque che si è voluta mettere in evidenza nella mano destra dell’orante di Rozier-Côtes d’Aurec, dandole da stringere la sfera dell’Uno della conoscenza: perciò il disegno delle cinque dita non ha nessuna verosimiglianza: esso vuoi essere un segno e nient’altro. In questa scultura compaiono, come si è già visto, i primi dieci numeri pitagorici.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 218-221

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (9)

Non più una cronaca, ma una narratio poetica delle tristi condizioni in cui versa il mondo dell’uomo, tra egoismi e prevaricazioni delle leggi umane e divine, si incontra nella prima parte del Carmen ad Rotbertum regem di Adalberone, vescovo di Laon († 1030). In questo dialogo in versi, scritto in tarda età, l’anziano prelato rappresenta se stesso in un discorso didattico con il sovrano di Francia, quasi una ripresa dei dialoghi scolastici di Alcuino, ma il cui scopo è morale: educare il nobile discepolo a riconoscere il male per contrastarlo con la propria opera illuminata dalla vera fede. In questo caso l’ideale unità armonica dell’universo viene introdotta a fare da contrappeso allo stato depravato della società che il re è chiamato a governare, vero e proprio mondo rovesciato rispetto agli intenti della creazione. È evidente che lo scopo dell’opera è un contributo alla progettata realizzazione della «pace di Dio». Ma particolarmente interessante è il fatto che nella seconda parte del carme il compito di ristabilire le regole del diritto nel mondo raddrizzato sia affidato all’intellectus, la facoltà capace di elevarsi fino a conoscere le verità spirituali e a contemplare l’ordine che regna nella Gerusalemme celeste (il cui nome ebraico significa appunto, secondo i Padri della Chiesa, «visio pacis») e che dovrebbe essere restaurato nella città degli uomini.

Così anche Adalberone affida la chiave per la comprensione e, nel suo caso, per la correzione della realtà storica al riflesso dell’ordine universale, che però, con maggiore aderenza alla tradizione teologica, egli considera subordinato ad un ritmo triadico: lo stesso che viene rivelato dalla descrizione delle schiere angeliche secondo lo pseudo-Dionigi Areopagita e Gregorio Magno, e che dovrà essere restaurato anche nella società umana perché essa possa ritrovare la vera pace in Cristo. È a questo punto che Adalberone introduce la sua idea più conosciuta dagli studiosi della società medievale, quella della tripartizione della «respublica» cristiana nelle tre classi dei religiosi, dei combattenti e dei lavoratori (oratores, pugnatores, laboratores). La realizzazione dell’ordine consisterà – quasi in una inconscia riproposta dello stato ideale di Platone – nello svolgimento dei compiti e nel conseguimento delle virtù che si addicono a ciascuna delle tre fasce sociali, tenendo presente che al vertice delle prime due categorie si collocano i vescovi ed i prìncipi, che separatamente governano gli appartenenti ai rispettivi ordini e, unendo le loro autorità, collaborano nell’ordinare il terzo («rex et pontifices servos servire videntur»).

Nella seconda parte del carme, Adalberone introduce una lunga digressione filosofica per giustificare la tripartizione della società in base ad un confronto con le leggi della natura, con le facoltà dell’anima umana e le sue relazioni con il corpo, con le discipline liberali, e così via. L’opera giunge alla conclusione quando il sovrano comprende, proprio grazie al rigore di questa sezione dimostrativa, che la narrazione contenuta nella prima parte non era vera, ma soltanto metaforica: il narratore ha accentuato esageratamente la sua descrizione dei mali del mondo proprio per spaventare l’ascoltatore con il racconto di come le cose andranno inevitabilmente a finire se egli non interverrà con sapienza a moderare il comportamento degli uomini. Insomma, la forza dell’intero messaggio affidato al poetico dialogo deriva dalla collaborazione dei due fondamentali strumenti della verità, la dialettica e la retorica: la conoscenza della dispositio dell’ordine reale del cosmo, vera e dunque indagata dalla dialettica, è confermata dalla rappresentazione dell’ordine verosimile, resa possibile dagli argomenti della retorica.

Anche in un altro suo poema di carattere speculativo, la Summa fidei, Adalberone si fonda sul ricorso alle arti del trivio per cesellare un’esposizione sistematica della concezione cristiana del mondo e della sua storia, corredata con dovizia di concetti filosofici. Anche qui la dialettica svolge un ruolo di primo piano, soprattutto quando si tratta di tentare la giustificazione razionale del dogma. Adalberone è convinto, infatti, che l’applicazione delle regole della dialettica consente soprattutto di far apparire la natura simmetrica della verità in cui crediamo per fede; cosicché anche se la nostra mente riesce a dimostrarne solo alcune parti, le è comunque possibile intuire in quale modo vanno colmate le lacune che rimangono scoperte per le deficienze della sua capacità conoscitiva. Un esempio lampante è quello del mistero dell’Incarnazione, che viene inserito all’interno della divisione logica quadripartita (secondo una ennesima ripresa del modello eriugeniano) del concetto di generazione. La mente riesce a rappresentarsi, grazie a tale operazione, quattro tipi diversi di generazione dell’uomo, ossia: senza né padre né madre, ed è il caso della creazione di Adamo; da un uomo, ma senza madre, nel caso di Eva; sia da un padre, sia da una madre, come in ogni naturale nascita umana; e infine senza padre, ma da una donna. Le prime tre forme sono riconosciute come vere perché effettivamente realizzatesi nella storia. L’intelligenza è così messa in grado di ammettere che anche la quarta, in base alla sua simmetria con esse, non è assurda, ma logicamente possibile: e di riconoscere dunque la ragionevolezza della nascita di Cristo da una vergine.

Adalberone di Laon ha impiegato le proprie conoscenze di logica anche in un trattato dialogico intitolato De modo recte argumentandi: un esercizio scolastico il cui vero scopo, più che dare risposta ad un quesito iniziale in sé privo di importanza («per quale ragione questa mula è inutile?»), è offrire un’esemplificazione, quanto più possibile completa, delle numerose applicazioni delle regole principali della logica proposizionale e dimostrativa. Anche in questo interesse diretto per la dialettica l’autore del Carmen ad Rotbertum regem rivela un probabile debito culturale nei confronti di Gerberto di Aurillac, del quale è stato forse allievo e il cui primo protettore, l’arcivescovo Adalberone di Reims, era suo zio. È abbastanza evidente, infatti, esaminando la produzione dei maestri di questa generazione, quanto l’esempio di Gerberto e quello parallelo di Abbone di Fleury abbiano influenzato il progresso delle ricerche sul versante della dialettica e su quello delle discipline del quadrivio nel primo trentennio del secolo.

Autore: Giulio d’Onofrio
Pubblicazione:
Storia della Teologia nel Medioevo. I: I princìpi
Editore: Piemme
Luogo: Casale Monferrato
Anno: 1996
Pagine:  375-377
Vedi anche:
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (1)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (2)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (3)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (4)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (5)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (6)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (7)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (8)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (4)

Una concezione della sapienza umana come amore e studio più che come possesso esauriente del vero ispira nelle sue motivazioni fondamentali l’opera letteraria della donna colta più famosa dei secoli altomedievali, Rosvita di Gandersheim.

Fin dall’inizio dell’età ottoniana, la situazione politica favorisce l’importazione e diffusione in area tedesca dell’operosità delle scuole nord-italiane e elvetiche, dove l’insegnamento liberale è tornato ad essere oggetto di indagine di pari passo con il recupero dei modelli classici. Numerosi letterati italiani sono chiamati dall’imperatore ad insegnare in Germania, come lo stesso Gunzone Italico o come il famoso maestro e poeta Stefano di Novara. Di questa importazione di stimoli intellettuali risentono positivamente le scuole di diversi centri monastici, maschili e femminili. Tra questi ultimi si segnala l’abbazia di Gandersheim, retta dalla sapiente badessa Gerberga, nipote di Ottone I. Qui è vissuta ed ha ricevuto la prima formazione culturale la monaca Rosvita: autrice di un importante poema, in chiave quasi agiografica, celebrativo delle Gesta di Ottone, è soprattutto nota per la stesura di sei commedie nelle quali, rielaborando il genere dei racconti esemplari incastonati tradizionalmente nelle Vitae dei santi, propone al suo pubblico (o ai suoi lettori) efficaci modelli di santità e di virtù trasportati in forma drammaturgica, ad imitazione del teatro di Terenzio.

Scrittrice raffinata, che si rivolge ad ascoltatori colti come lei, Rosvita affida le altezze del suo messaggio spirituale al linguaggio immediato dell’azione scenica e al facile gioco delle soluzioni drammatiche (interventi soprannaturali, conseguenti conversione o punizione del malvagio persecutore, martirio e apoteosi del giusto, ecc.). E tuttavia emergono continuamente dalle parole dei suoi personaggi allusioni alla cultura filosofico-teologica del tempo. Per esempio, ogni volta che uno dei suoi santi invoca l’intervento divino come soluzione del dramma, la sua preghiera è spesso infarcita di formule tecniche e concetti elevati, desunti da testi agostiniani o eriugeniani o anche, verosimilmente, dalla mediazione di commenti tardo-carolingi ai testi classici, sul tipo di quelli di Remigio di Auxerre: così la vergine Costanza, auspicando la conversione del condottiero Gallicano cui Costantino l’ha promessa in sposa, si rivolge a Cristo con una sintesi di cristologia ortodossa e attributi della Sapienza neoplatonica, moderatrice dell’universo; l’apostolo Giovanni invoca, per far tornare in vita il giovane Callimaco, il «Dio incircoscritto e incircoscrivibile, semplice ed inestimabile», che solo (secondo Boezio) è semplicemente id quod est, mentre l’uomo è composto «ex hoc et hoc»; e la fanciulla Drusiana ringrazia Dio che l’ha resuscitata definendolo vera e singolare «substantia» e «sine materia forma».

Ma lo sfoggio che l’autrice fa di competenza personale nelle arti liberali può anche essere più semplicemente parodistico e finalizzato a dare colore e sviluppo all’azione drammatica, come accade nella scena in cui Callimaco per informare i suoi amici di essere innamorato di Drusiana risponde alle loro domande con una pedante scansione dei termini logici che consentono, secondo le regole del Categoriae
decem pseudo-agostiniano, la corretta definizione del concetto, fino all’enuclearsi dell’individuo femminile in questione; o in quella in cui l’imperatore Adriano chiede alla anziana Sapienza l’età delle sue tre figlie, Fede, Speranza e Carità, e la donna risponde con una complessa dissertazione aritmetica, giustificata in conclusione da una lode al Dio che ha ordinatamente creato l’universo e ha dotato gli uomini della razionalità, capace di elaborare una scientia artium: ma la digressione è così difficile e ridondante che l’imperatore chiede poi alla donna, in cambio della pazienza da lui dimostrata nell’ascoltare la sua «ratiocinatio», altrettanta disponibilità nel seguire l’invito a venerare gli dei pagani. Il velo dell’ironia adorna soprattutto il lungo dialogo filosofico tra il vecchio eremita Pafnuzio, angosciato dall’arrivo in città della cortigiana Thais, e i discepoli che lo interrogano sulle ragioni della sua tristezza: Dio subisce continuamente offese ad opera del minor mundus, esordisce il vecchio; e poi subito precisa che però tutte le affermazioni che introducono passibilità in Dio sono sempre soltanto metaforiche. Quindi precisa il senso della definizione dell’uomo come ‘mondo minore’ e mostra il parallelismo tra l’armonia dei quattro elementi nel macrocosmo e quella di anima e corpo nell’unica sostanza umana. Seguono nozioni musicali e fisiologiche che spiegano il significato della parola ‘armonia’, quindi una ulteriore digressione sull’armonia delle sfere e sulle ragioni per cui non è percepibile dall’orecchio umano, e così via; fino a che questa lunga improvvisata lezione si conclude bruscamente con l’annuncio che l’ordine universale stabilito dall’amore divino sta per essere turbato dall’arrivo della impudente femmina alla quale, con gran pericolo per la collettività, accorrono greggi di amanti!

La cultura di Rosvita, che desta sorpresa ed ammirazione sia per la condizione personale dell’autrice, donna che vive in un chiostro, sia per il contesto letterario in cui è generosamente riversata, è quella di cui tutti i letterati del secolo decimo fanno sfoggio, fondata sulle arti liberali e finalizzata alla precisazione intellettuale della verità creduta per fede. E tuttavia – solo in apparenza per giustificare con letteraria umiltà l’abuso di un linguaggio più conveniente ai maestri di scuola che ad una donna che vive nel chiostro – Rosvita è ancora più decisa di Gunzone Italico nel sottolineare il rapporto dinamico, aperto che deve sussistere tra le competenze umane e lo scopo che esse dovrebbero realizzare: ricorrendo ancora una volta ad una terminologia erudita, spiega che la sua sapienza è soltanto potenziale (per dynamin), condizione naturale del conoscere in ogni essere razionale creato, e che mai sarà possibile portarla a mutarsi in un possesso in atto, definitivo e completo (per energeian), del vero. Ma lungi dall’essere un movente per la sfiducia nelle possibilità dell’intelligenza, questa coscienza delle inesauribili potenzialità di accrescimento del sapere diventa per lei un entusiastico invito a incrementare gli studi sotto la guida di buoni maestri. E si fregia come di un titolo di merito di quello che per Boezio, nella Consolatio, era il più grave difetto dei filosofi dissentientes: l’accontentarsi, in mancanza di meglio, di avere saputo strappare almeno pochi frammenti della veste di Filosofia, scarni brandelli di sapienza che è stata sua cura, inserendoli nei suoi testi teatrali, mettere a disposizione di tutti, in una forma facilitata ed accessibile. Nessuno potrà accusarla per questo: né la scienza, né la stoltezza sono colpevoli in quanto tali dinanzi a Dio, ma solo l’ingiustizia compiuta da colui che sa di compierla. La conoscenza di qualcosa di vero, sia pure in forme deboli e limitate, è sempre una lode per Dio che ha creato le res scibiles e ne ha concesso la scientia all’uomo, creandolo ad immagine, imperfetta, della sua Mente perfetta

Autore: Giulio d’Onofrio
Pubblicazione:
Storia della Teologia nel Medioevo. I: I princìpi
Editore
: Piemme
Luogo: Casale Monferrato
Anno: 1996
Pagine: 359-362
Vedi anche:
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (1)
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (2)

Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (3)

La metafora nel linguaggio magico rinascimentale (3)

Ho insistito nell’analisi di questi testi ficiniani non solo per la loro singolare influenza storica, ma perché essi furono uno dei maggiori tramiti della diffusione di un tipo di linguaggio destinato a trovar presto molti echi anche in opera di schietto impianto retorico ed a favorire la significativa fusione di temi magici e di tecniche retoriche quale si verificò, ad esempio, nelle opere di Giulio Camillo Delminio. Ma già Cornelio Agrippa, nel De occulta philosophia, usa le stesse metafore ad un grado ancor più avanzato e ne trae conseguenze che accentuano ancor più il carattere linguistico dell’operazione e della concezione magica. Per lui, non solo le « anime » celesti influiscono sui propri « corpi » astrali e, per mezzo di essi, sul nostro mondo terreno, bensì ogni « virtus », ogni forza, potere e capacità vitale proviene dai cieli, esseri viventi ed animati, che sono, come per il Ficino, gli organi « potentissimi » di un unico immenso corpo. È questa la ragione per cui il mago può agire anch’egli sugli astri, usando i mezzi più opportuni ed acconci, e servendosi, soprattutto, dell’« invocatio astuta » delle potenze superiori, dei « verba mysteriosa » e delle « locutiones ingeniosae », « trahens – com’egli scrive – unum ad alium, vi tamen naturali, per quandam convenientiam inter illas mutuam, qua res sponte sequuntur, sive quandoque trahuntur invite ». Proprio perché ogni cosa o natura è così designata come una metafora di carattere umano e ne assume tutti i caratteri, nessuna di esse può resistere alla forza della parola, al suo potere persuasivo che si esplica, in sostanza, con gli stessi accorgimenti che rendono così efficace la sua influenza sugli animi. Perciò chi, con opportune invocazioni, sa rivolgersi al Sole o agli astri e sa pregarli affinché cooperino con suoi propositi, ottiene sicuramente il fine desiderato. Egli sa che i pianeti, astri e demoni celesti sono legati alla parola da un rapporto immediato che, nel testo del filosofo-mago, si esplica appunto nel giuoco delle mutue corrispondenze cosmiche. Ed anche Cornelio Agrippa usa infatti liberamente la costante metafora che trasforma l’universo in uno « specchio » del corpo umano le cui membra (metafora nella metafora!) sono collegate tra loro nello stesso modo delle corde della cetra, secondo il canone di un’armonia prestabilita. Ma così la forza della parola e della musica può inserirsi ed agire in questa struttura dell’essere, il cui carattere metaforico è reso ancora più esplicito, quando Agrippa suggerisce che ogni differenza o contrarietà, opposizione e conflitto delle cose mondane è soltanto l’esplicazione di una armonia più profonda, dominata, in ogni suo grado, dalla potenza divina del « Verbum ». E se la parola, come « simulacro » di Dio, è la forza creatrice che tutto determina e forma, anche il « verbum » umano che è « simulacro » dell’anima, può agire « naturaliter in res naturales, quoniam natura opera illius est ».

Si potrebbe insistere a lungo sull’origine, significato e scopo di una simile concezione che, riconoscendo in tutta la realtà, l’opera della parola, trasforma di fatto il mondo in un unico, grande « discorso » esoterico, la cui cifra linguistica dev’essere appunto interpretata dal mago. E si potrebbe altresì insistere sul valore dell’altra metafora cosmica, l’« harmonia mundi », che, quasi negli stessi anni, offre il titolo alla nota opera di Francesco Giorgio Veneto, ove l’intero universo è presentato come un sistema di simboli e di analogie, tutte risolte nell’immagine dominante di un immenso poema musicale o di una perfetta architettura vitruviana che ha per campo l’intero creato. Ma forse è più importante osservare come un celebre medico, matematico e « tecnico » del Cinquecento italiano (le cui concezioni filosofiche attendono ancora uno studio davvero soddisfacente) resti fedele a questi presupposti e presenti, nel De rerum varietate, un sistema di metafore, corrispondenze e « simpatie » che riproducono gli stessi valori simbolici e rendono, in certo modo, equivalenti i corpi celesti, i metalli, le pietre, gli animali e gli organi corrispondenti e i « sigilli » o amuleti capaci di captarne la « potenza ». Anche nel discorso del Cardano il potere del mago è infatti legato alla capacità di decifrare un ordine di analogie che talvolta si fonda su affinità immaginative o su mere somiglianze verbali, ma che non esclude l’indagine diretta di fenomeni « eccezionali » o l’approccio assai concreto alle arti meccaniche. In ogni caso, però, mi sembra che resti intatta la fiducia nel potere della parola che, insieme a quello dell’immagine o « sygillum », è suscitatrice di forze occulte e, insieme, moderatrice e « domina » degli influssi che operano in tutta la realtà naturale.

Come questo universo, tutto costruito su metafore, analogie e simboli, possa vivere e dispiegarsi, in un continuo alternarsi di « simpatie » e « antipatie », odi ed amori, desideri e passioni che lo rendono del tutto simile all’esperienza umana è minutamente spiegato da Giovambattista Della Porta. Egli considera la magia naturale, sottratta ad ogni influsso o potere demonico, « il punto più elevato e la perfezione delle scienze naturali », anzi, « la parte pratica della filosofia naturale »; e si sa che, per lui, il mago è soltanto « il filosofo più che perfetto », capace di conoscere tutte le proprietà degli elementi e di porre tutte le forme del sapere (l’astrologia e la matematica, la botanica e l’ottica, la fisica e la metereologia, ecc.) al servizio della sua superiore conoscenza. Ritengo però che il centro della sua concezione magica sia costituito dall’implicita utilizzazione di un sistema di metafore assai tradizionali (gli « anelli » di cui parla Platone e l’« aurea catena » omerica), usate per presentare la natura come un sistema organico in cui azioni e reazioni di tipo umano (« amore » e « odio », « simpatia » e « antipatia ») governano l’equilibrio e il processo della generazione e corruzione universali.

Naturalmente, il Della Porta cita Empedocle, così come ricorda Manilio e, in genere, la tradizione astrologica. Tuttavia, egli è soprattutto preoccupato di utilizzare le metafore dell’« amore » e dell’« odio », cercando di estenderle e di verificarle ad ogni momento e manifestazione della vita naturale. Ecco, così, che nel cielo « Giove e Venere amano tutti li pianeti, eccetto Marte e Saturno », mentre « Venere è amica di Marte, al quale tutti gli altri inimici »; né mancano anche altre « amicizie » e « inimicizie », « per l’opposizione delle case, et delle esaltationi ». Più chiaramente, però, questa metafora può essere riconosciuta al livello della vita animale, come nel caso de l’« huomo e il serpente, i quali sono così contrari di natura che l’huomo in fatto come vede il Serpe si spaventa e le donne gravide scontrandolo, sperdano ». Oppure, nel mondo delineato dal Della Porta, si può recare ad esempio di questo « odio » « lo sguardo del lupo… così nocivo al’huomo, che sendo prima visto dal lupo, perde la voce; e benché voglia gridare non può, perché si trova rauco; e s’il lupo s’accorge essere visto inanzi, e scoperto, perde la ferocità e le forze ». Ma è chiaro che si potrebbe facilmente continuare in questa enumerazione, citando, come altri casi, la « discordia » della canna e della felce… che una ammazza l’altra, conciosia che la radice della felce ammaccata, rebutta la spina fatta di canna ficcatagli dentro », o il « mirabile » odio dei cocomeri per l’olio o, all’opposto, il grande amore dell’oliva per la mortella (« che i rami sagliono sopra dell’oliva, e si meschiano insieme a le radici, l’una l’altra s’avinchiano »), o il « secreto commertio » fra le rose, i gigli e l’aglio « che quanto più da presso questi nascano, perché si consolano insieme, tanto più diventano belli ».

Di tali simpatie e antipatie, di simili sentimenti che il linguaggio metaforico della magia attribuisce alla natura deve appunto servirsi il mago, per operare mediante le intime somiglianze delle cose e le loro evidenti affinità. Il Della Porta non manca infatti di procedere nel suo insegnamento, con la più minuta esposizione di precetti pratici che, permettendo di « assimigliare le cose insieme », schiudono la via ai segreti della natura, alla ricerca di quelle « inclinazioni », « allettamenti », « conversioni » di cui è suscettibile una realtà trasformata in una continua metafora antropomorfica. Non è possibile citare distesamente i molti testi che confortano questo assunto; sicché mi limiterò a citare un solo esempio del linguaggio del Della Porta, tutto costruito su di un giuoco di nessi e correlazioni analogiche: « un huomo o qualsivoglia animale, che mai sia stato infermo giuova a tutte le infermità, se vuoi fare un huomo audace e temerario, fagli portare addosso pelle di Leone, e gli occhi del gallo ancora, o pur di Leone, andarà pronto et animoso fra gli inimici, che gli farà paura. Se vuoi essere amato, cerca animali che sieno libidinosi, e che amino caldamente, come le Passere, Colombe, Tortore, Rondini… ».

Si tratta – è evidente – di un linguaggio ormai codificato da una lunga tradizione, dietro il quale traspare il ricorrente richiamo a un sistema di mutue relazioni analogiche che, in virtù di convenzioni prestabilite, può attribuire ad un oggetto la forza dei grandi poteri cosmici e, magari, trasformare una gemma in una fonte di influenze taumaturgiche e un metallo in una sorta di rivelatore di virtù e attitudini umane. Né c’è dubbio che anche in questi testi, scritti da un uomo che fu contemporaneo di Galilei e che nutrì seri interessi, curiosità ed anche attitudini per l’indagini scientifiche, resti sempre lo stesso impianto metaforico, la medesima connotazione simbolica che abbiamo già riconosciuto nei documenti capitali della magia dotta rinascimentale, ivi compreso il tema rivelatore della potenza evocatrice della parola. Che poi, mediante la loro lettura, appaia ancora più evidente la funzione linguistica dell’atteggiamento magico, anzi la sua perenne connessione con una sorta di retorica pratica, fondata su di un preciso sistema di segni metaforici e di simboli, è conclusione abbastanza plausibile. Così come credo che lo studio di questi tipi di linguaggi magici sollevi problemi di grande interesse, anche per chi voglia valutare il senso e il valore originario di taluni procedimenti linguistici che la tradizione retorica ha poi classificato e razionalizzato, sottraendoli alle loro origini inconscie ed alla loro connessione con l’universo magico.

Ma, prima di chiudere questa nota, vorrei ancora osservare che l’uso della metafora e dei suoi effetti simbolici non è certo limitata al dominio delle filosofie magiche, ma è, al contrario, sempre peculiare e specifico di tutti quei discorsi che appartengono al campo del linguaggio di tipo metafisico. Non è certo un caso che, nel secolo di Galileo, di Cartesio e di Hobbes, cadute le antiche metafore magiche ed esaurito il simbolismo di tipo biologico e animistico connesso alle tradizioni aristoteliche e platoniche, un’altra metafora, tratta questa volta dagli strumenti costruiti dall’uomo, abbia fornito il fondamento linguistico per costruire la nuova immagine del « monde machine » e dell’« homme machine ».

Autore: Cesare Vasoli
Pubblicazione: Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore:
 Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 151-155
Vedi anche:
La metafora nel linguaggio magico rinascimentale (1)
La metafora nel linguaggio magico rinascimentale (2)

Rinnegamento di Pietro

Sezione: Lessico


Fonti

Dopo l’Ultima Cena, mentre Gesù si prepara a raggiungere il Monte degli Ulivi coi suoi discepoli, li mette in guardia: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte» (Mt 26,31). Egli intende dire che saranno sorpresi, persino scandalizzati, da quanto sta per succedergli: tutti infatti si aspettano il trionfo del Maestro, non la sua caduta. Ma Pietro dichiara con forza: «Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai». A questo punto Cristo annuncia il rinnegamento dell’Apostolo: «In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte» (Mt 26,34). E, come egli aveva predetto, Pietro, interpellato una prima volta da una serva, poi in altre due occasioni da alcuni dei presenti, rinnega il Maestro. Ricordandosi allora della parola di Gesù, «uscito all’aperto, pianse amaramente» (Mt 26,69-75).

Questo passo del Vangelo ha un profondo significato simbolico. Il canto del gallo, infatti, è una metafora con cui comunemente si indica il levar del sole: il rinnegamento di Pietro, prima del canto del gallo, rappresenta dunque il trionfo provvisorio del dubbio sulla fede, prima che le tenebre dell’ignoranza vengano dissipate dalla luce della conoscenza.

Iconografia

Le rappresentazioni del rinnegamento di Pietro nell’arte romanica sono poche; gli artisti infatti hanno concentrato il loro interesse sull’Ultima Cena e sull’Arresto. Tuttavia l’autore dei bassorilievi della basilica di Saint-Gilles-du-Gard, nel lodevole intento di essere esauriente, ne ha illustrato l’annuncio. Gesù e Pietro, seduti fianco a fianco, stanno di fronte ai discepoli. Ai piedi dell’Apostolo, un gallo evoca la predizione di Cristo, mentre Pietro, con un gesto della mano, sembra protestare la propria fedeltà. La composizione, di notevole valore formale, è una delle più belle sculture di Saint-Gilles.

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Nel rinnegamento vero e proprio compare la serva. In un affresco di San Isidoro a Léon, ella apostrofa il discepolo che apre le mani in segno di diniego. Il gallo è rappresentato di fianco ai due personaggi.

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In un bassorilievo della cattedrale di Modena, invece, l’animale diventa la figura centrale dell’episodio. Attorno ad esso vediamo Pietro, che piega la schiena come se il peso del tradimento fosse troppo grande per le sue spalle, e la donna, intenta a filare. Sotto al gallo è rappresentato il fuoco acceso di cui parla Giovanni nel suo racconto del tradimento di Pietro (Gv 18,18).

Dizionario di Iconografia Romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 332-333

La metafora nel linguaggio magico rinascimentale (2)

Il primo tema che incontriamo nel De vita ficiniano è l’affermazione pregiudiziale di un nesso analogico che lega tra loro tutte le realtà esistenti, dal principio divino in cui esse sono presenti come idee, all’ « anima mundi » che tali idee trasforma nelle « rationes seminales », alle entità individue che recano in se stesse il « sigillo » della propria « species » e della sua « ratio ». Ma la conseguenza per noi più interessante dal punto di vista linguistico è il fatto che l’elemento comune dell’unità del cosmo è costituito dall’« anima », parola la cui funzione metaforica è subito evidente, in quanto postula l’immediata corrispondenza tra l’esperienza « profonda » dell’uomo e la vita del cosmo, trasferendo alla natura il carattere della vitalità e dell’« animazione »: «Neque in mundo vivente toto quicquam reperitur tam deforme cui non adsit anima, cui non insit et animae munus, congruitates igitur eiusmodi formarum ad rationes animae mundi ». Ecco perché nel mondo celeste, si tratti delle stelle, dei pianeti o dei demoni astrali, è sempre possibile individuare un elemento di carattere umano, la « ratio », la cui universale presenza assicura che il discorso dell’uomo possa essere inteso anche dalle potenze cosmiche e che la sua virtù « persuasiva » possa avere un risultato efficace. Il mondo è, infatti – il Ficino lo dichiara nel modo più esplicito – un animale, in fondo, non diverso dall’uomo, anzi una realtà di tipo umano, moltiplicata infinitamente nei suoi poteri, capacità e caratteri. Né meraviglia che, con un’altra espressione di carattere metaforico, possa parlare non solo di « anima », bensì anche di « membra » del mondo, tra loro perfettamente corrispondenti, così come nella struttura organica dell’animale e dell’uomo ogni parte svolge la propria funzione precipua in perfetto accordo con tutte le altre parti o funzioni. Se il mondo è descritto come una sorta di universale metafora dell’organismo umano, è però anche naturale che tutte le sue membra si accordino e si corrispondano, che i moti celesti si connettano con i fenomeni naturali e gli eventi umani e che, anzi, esista un legame diretto tra i cieli e gli elementi, tra gli astri e il carattere degli uomini, tra le piante, gli animali, i simboli e le immagini che li rappresentano.

In questo modo, lo sfondo magico-astrologico delle dottrine ficiniane assume un rilievo linguistico decisivo, nel giuoco delle metafore e delle analogie di cui è intessuto, sino a trasformare l’intero universo in un immenso « atlante » di segni, figure e parole immediatamente corrispondenti. Una rete di « simpatie » e « antipatie », di « affinità » e di « conflitti », di « amicizie » ed « avversioni » racchiude l’intero cosmo, ne assicura, insieme, l’omogeneità e la comprensione nei termini del comune linguaggio umano. E, infatti, ad ogni pianeta come ad ogni segno zodiacale corrisponde, quale equivalente, al tempo stesso, reale e simbolico, un gruppo di metalli, diverse pietre e piante, animali, caratteri e comportamenti dell’uomo che possono essere assunti, a loro volta, come « segni » di un comune discorso cosmico. « Mercurialia – legge uno dei testi più tipici – sunt tamen eiusmodi: stanium, argentum praesertim vivum, marcassita argentea, lapis achates, vitrum Porphyriticum, et quae croceum cum viridi misceant, smaragdum ac lacca. Animalia sagacia et ingeniosa simul et strenua, simiae, canes. Homines eloquentes, acuti, versatiles, oblunga facie, manibusque non pingues ». Si tratta, insomma, di un modo per raccogliere e coordinare, entro un sistema di metafore ed analogie simboliche, un insieme di modi ed aspetti della realtà ai quali la struttura del linguaggio magico assicura una unità organica, entro il quadro fornito dalla corrispondenza tra « anima » e « mondo », « uomo » e « cielo ». Sicché, con lo stesso procedimento, sarà anche possibile assicurare a questa immagine del mondo un centro simbolico unico, individuato nel Sole e nell’oro, immagine terrena del Sole, presente in tutti i metalli « sicut Sol in planetis omnibus atque stellis ». Proprio il Sole offre, anzi, al Ficino un’altra immagine di carattere metaforico per indicare il « veicolo » dello spirito universale, della comune forza vitale; ed ai raggi del Sole e di Giove è attribuita non solo la virtù di render gli uomini più perfetti, nella natura « solare » e « gioviale », ma quella di restituire al « microcosmo » il suo potere vitale, al centro dell’universo « animato ». Ma non sono soltanto queste le metafore costanti di cui Marsilio si serve: perché ogni pianeta è posto in relazione analogica con funzioni fisiologiche, caratteri e poteri umani, si tratti della Luna o di Venere che accrescono lo spirito generativo, di Giove che « favorisce » il fegato e lo stomaco ed influisce « non mediocremente sul cuore », e dell’infausto Saturno che significa sterilità, debolezza e impotenza e che condanna i nati sotto il suo segno ad una strenua lotta per « sublimare » i suoi influssi nefasti nella vittoriosa esperienza della vita meditativa e dell’arte.

Che, poi, in questo tessuto di metafore e di analogie simboliche (perché di metafore appunto si tratta, dedotte in gran parte da supposte affinità che hanno un carattere essenzialmente linguistico) si inserisca la reversione dell’influenza e dei poteri umani sull’ordine cosmico e, soprattutto, sui caratteri e gli influssi celesti, è cosa perfettamente comprensibile. Ed è altrettanto sintomatico che, secondo un’antica tradizione magica, tale influenza sia affidata ad immagini e raffigurazioni simboliche, a « segni » capaci di assicurare il passaggio dal mondo umano a quello celeste e di costituire il tramite privilegiato dell’operazione astrologica: « Ptolomaeus ait in Centiloquio, rerum inferiorum effigies vultibus coelestibus esse subiectas, antiquosque sapientes solitos certas tunc imagines fabricare quando Planetae similes in cielo facies, quasi exemplaria inferiorum ingrediebantur. Quod quidem Haly comprobat ibi dicens utilem serpentis immaginem effici posse, quando Luna coelestem serpentem subit, aut feliciter aspicit. Similiter Scorpionis effigiem efficacem, quando Scorpij signum Luna ingreditur ac signum hoc tenet angulum ex quatuor unum ». La costruzione dell’immagine e, insieme con essa, anche la pronunzia dell’invocazione o dello scongiuro hanno un’efficacia direttamente commisurata alla corrispondenza di situazioni astrali il cui carattere analogico è indiscutibile. Ma se l’immagine rappresenta, nella realtà terrena ed umana, il corrispettivo simbolico delle figure eterne fissate nei cieli, dei « segni » immortali che popolano l’universo, anche le parole opportunamente disposte, ritmate e pronunziate possono inserirsi nei processi cosmici, diventare elementi e strumenti efficaci della persuasione umana che vuole piegare anche l’immutabile potere delle stelle. Immagini, « carmina », ritmi, musica, espressione del sostrato più profondo dell’immaginazione umana hanno infatti una natura « corrispondente », ai ritmi, alla musica, al segreto linguaggio da cui è costituita l’universale armonia del mondo. Né v’è dubbio che, per il Ficino, il linguaggio umano, nelle sue forme più fascinatorie, sia anch’esso una forma del linguaggio cosmico, anzi, l’espressione finalmente rivelata di una « cifra » divina, sempre celata nel segreto della struttura dell’universo. Il filosofo platonico che, sulla sua lira di argento, tenta di suonare nuovamente i canti orfici e recuperarne la misteriosa potenza teurgica è, insomma, convinto che all’immagine di un universo costruito sulla misura della metafora umana corrisponda, con inevitabile necessità, la forza magica della parola che scioglie i « vincula mundi » e li ricompone secondo la volontà di chi la pronunzia. Se l’« anima » può parlare ad un’altra « anima » e se il discorso può sempre persuadere e dominare odi, passioni, amicizie ed amori, anche la frase del mago potrà diventare la forza suscitatrice di diverse corrispondenze e di altre armonie cosmiche.

Autore: Cesare Vasoli
Pubblicazione: Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore:
Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 147-150
Vedi anche:

Lo Pseudo-Areopagita e Scoto Eriugena. Contributo della «teologia visionaria» alla evoluzione del gusto medioevale

La cosiddetta «Rinascenza Carolingia» è caratterizzata, per quanto riguarda la critica d’arte, da una più decisa attenzione al fatto artistico come tale, che si accompagna alla preferenza pér il realismo e il classicismo : reviviscenza del gusto dell’antichità (sia pure rivissuto con sensibilità nuova e diversa) e distacco dal gusto predominante nei secoli più propriamente «barbarici». Ma proprio in piena età carolingia accade un avvenimento decisivo per la cultura medioevale: un avvenimento che sul piano del gusto doveva contribuire al formarsi di una coscienza critica orientata di nuovo verso i simboli, le metamorfosi, gli ardimenti della fantasia. Questo avvenimento è rappresentato dal dono, che l’imperatore d’Oriente Michele il Balbo inviò, nel settembre 827, a Ludovico il Pio, del manoscritto contenente tutte le opere dello pseudo-Dionigi Areopagita. Di esse proprio un discepolo di Alcuino, Ilduino, tentava subito una traduzione latina; ma dovevano segnare della propria impronta tutta la cultura, ivi compresa la critica d’arte, del Medioevo ottoniano, romanico e gotico, attraverso la traduzione di Giovanni Scoto Eriugena, ultimata nell’anno 860, e gli sviluppi che la filosofia dello pseudo-Areopagita doveva avere nel pensiero dello stesso Scoto Eriugena.
L’influenza del pensiero dello pseudo-Areopagita sulla coscienza estetica del Medioevo, e quindi anche sulla sua critica d’arte, risulterà chiaro quando si leggano quei passi della sua opera dove il neoplatonismo si configura non già come svalutazione delle apparenze naturali, ma come celebrazione della loro bellezza creata, nella quale si diffonde la bellezza increata di Dio. La bellezza è in tutte le cose, e le diciamo belle perché partecipano della causa efficiente di ogni bellezza. E la stessa definizione di gerarchia «sacram quandam universaliter declarat dispositionem, imaginem divinæ speciositatis in ordinibus et scientiis Ierarchicis, propriæ illuminationis sacrificantem mysteria, et ad proprium principium, ut licet, assimilatam …». Per queste ragioni, la perfezione propria unicuique Ierarchiam sortientium sarà un «secundum propriam analogiam in Dei imitatione ascendere, et omnium divinius, ut eloquia aiunt, Dei cooperatorem fieri». Questo vale anche per quello che sembra male e brutto. «Sed neque in tota natura malum. Si enim non omnes naturales rationes contra universaliter naturam nihil est ei contrarium … Itaque non est mala natura, sed hoc naturæ malum, non posse, quæ sunt propria; natura; perficere».
Ogni apparenza del mondo, i colori, le pietre preziose, i metalli, come le figure degli animali e delle piante, avrà un pregio in sé proprio in quanto la sua bellezza la riconduce all’archetipo che si trova in Dio, essendo Dio bellezza assoluta: «… omnia, quæcumque sunt et fiunt, per bonum et optimum sunt et fiunt, et ad hoc omnia videt, et ab ipso moventur et continentur, et propter ipsum et per ipsum, et in ipso omne principium exemplativum, consummativum, intellectuale, speciale, formale, et simpliciter omnes principium, omnis continentia, omne summum: aut, ut comprehendens dicam: omnia quæ sunt, ex bono et optimo, et omnia, quæ non sunt, superessentialiter in bono et optimo: et est omnium principium et finis superprincipale et superfinale, quia ex ipso, et per ipsum, et in ipso et in ipsum omnia …». È un concetto analogo a quello agostiniano, ma senza numero, senza matematica: questo sarà più operante nella critica del Medioevo ottoniano e romanico; il Medioevo gotico tornerà al numero di Agostino.
In queste pagine del De Cœlesti Ierarchia, e in altre del De Divinis Nominibus, troverà le proprie premesse teoriche il gusto, e dunque la critica, del periodo romanico, col suo apprezzamento delle decorazioni vegetali e zoomorfe; nell’approvare e nell’incoraggiare questo tipo di decorazione – diciamo: nella loro azione critica – non è improbabile che i chierici committenti dei secoli XI e XII fossero ispirati appunto dal De Divinis Nominibus e da tutti gli altri trattati dello pseudo-Areopagita, che in un secolo e mezzo dopo la traduzione di Scoto Eriugena dovevano essere diventati patrimonio culturale comune. Basti pensare a certi luoghi del De Divinis Nominibus, vere e proprie fondazioni teoretiche del gusto per i bestiari e per i verzieri: «Sed et de ipsis … irrationalibus animabus aut animalibus, quæcumque aëra secant, et quæcumque in terra gradiuntur, et quæcumque in terram extenduntur, et in aquis vitam aut in mari et terra sortientia, et quaæumque sub terra cooperta vivunt et obruta, et simpliciter quæcumque sensibilem habent animam aut vitam, et hæc omnia per optimum animantur et vivificantur. Et germina omnia nutritivam et motivam habent vitam ex optimo, et quæcumque sit inanimalis et non vitalis essentia per optimum est, et per ipsum essentialem habitum sortita».
L’allegorismo – o meglio, il simbolismo – filosofico teorizzato dall’Areopagita si converte in una celebrazione delle bellezze naturali, sentimento estetico della natura: che indurrà ad apprezzare nell’arte una messa in evidenza della bellezza delle cose naturali come irradiazione nel mondo della bellezza divina; ed a promuovere, nel comportamento critico, forme d’arte orientate in questo senso. Nel suo fondarsi sul neoplatonismo dello pseudo-Areopagita, l’allegorismo (o simbolismo) del periodo romanico, in quanto principio di critica in azione, indurrà dunque una maniera di considerare le opere d’arte non come significatrici di altro, ma come immedesimanti in sé l’altro (bellezza divina) e dunque come meritevoli di un apprezzamento qualitativo che investirà non solo le espressioni naturalistiche, ma anche quelle teratologiche (le quali susciteranno a suo tempo lo sdegno di Bernardo da Chiaravalle), giudicate come gradi, a loro volta, della gerarchia e, nel loro essere, belle anch’esse: «Sed neque dæmones natura mali. Etenim si natura mali, neque ex bono, neque in existentibus …».
Esistere vuol dire partecipare, sia pure in grado infimo, della gerarchia, dunque della bellezza. Il gusto per i mostri romanici, belli nella loro natura, cioè nella loro deformità, non è improbabile sia stato promosso da questa pagina dello pseudo-Areopagita: anche i mostri, in quanto sono, esistono ex bono et optimo, si convertono ad bonum et optimum. Celebrare questo essere di tutte le sembianze del mondo, è ricognizione del loro intrinseco essere ex bono et optimo, in bono et optimo; e verrà praticato come un modo di convertirle ad bonum et optimum (anche quando sembrano orrende) il fissarle nell’opera d’arte. A volte anche la voluta deformazione delle immagini può avere una sua giustificazione, in quanto rinnova in sé il processo della Scrittura, quando procura informium formæ et figuræ carentium figuris, e anziché procedere propter similes imagines, procede propter dissimiles formarum facturas.
La filosofia dello pseudo-Areopagita si può riassumere nel seguente principio: «Est ergo ex omnibus intelligere bonas speculationes, et invisibilibus et intellectualibus ex materiis reformare dictas dissimiles similitudines : altero modo intellectualibus habentibus, quæ sensibilibus aliter attributa sunt». E nello stesso principio possiamo identificare la fondazione dell’estetica romanica e della critica d’arte che essa implicava; anche se tale critica è possibile ricostruirla come comportamento, mentre sarebbe arduo reperirne delle verbalizzazioni esplicite.
Se l’arte sostenuta dalla critica che si ispira al pensiero di Dionigi sarà tuttora assorbita nell’ambito della produzione è, in questa visione filosofica, un aspetto dell’umano Dei cooperatorem fieri. Il Gilson ha messo in luce in una sua pagina la connessione tra questa causalità dell’opera umana, che collabora all’attività creatrice di Dio, e la celebrazione della natura: è una connessione che dall’etica si estende all’estetica, e alimenta di sé la critica da cui la specifica creatività artistica del periodo romanico veniva promossa e sostenuta. Di questa critica possiamo reperire i presupposti teoretici, e dunque una implicita metodologia, nei trattati dello pseudo-Areopagita, e, ancora più, nell’opera di Giovanni Scoto Eriugena, che lo spirito di quei trattati doveva inoltrare fino alle conclusioni più ardite.
L’universale bellezza del creato, e la significazione simbolica di tutti gli esseri, enunciata dallo pseudo-Areopagita, viene infatti confermata da Scoto Eriugena nel suo commento al De Cœlesti Ierarchia. Omnia quæ sunt, lumina sunt, è il principio fondamentale della filosofia di Scoto Eriugena: «… unus Deus, una bonitas, unum lumen diffusum in omnia, quæ sunt, ut essentialiter subsistant, splendens in omnibus, quæ sunt, ut in amorem et cogitationem pulchritudinis suæ convertantur omnia … Hinc est, quod universalis hujus mundi fabrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex multis lucernis compactum, ad intelligibilium rerum puras species revelandas …».
Questo concetto viene da Scoto sviluppato, seguendo il procedimento di Dionigi, nell’illustrare le allegorie della Sacra Scrittura, sino alla conclusione che le forme visibili, «sive quas in natura rerum, sive quas in Sanctissimis divinæ Scripturæ sacramentis», non sono fatte per se stesse, né vanno desiderate per se stesse, ma sono immagini della bellezza invisibile. E il convincimento di questa significazione delle forme visibili, che in Scoto è appena l’indizio di una estetica rudimentale, diventerà motivo di critica nei committenti del periodo romanico, li porterà ad apprezzare le immagini plastiche, e ad incoraggiarne la moltiplicazione. In una pagina del De Divisione Naturæ, troviamo formulati princìpi che dovevano guidare la critica in azione dei committenti romanici. Di questi princìpi non sarebbe stato possibile prendere coscienza senza la teoria dionisiano-scotiana della universale bellezza; teoria fondata, a sua volta, sull’allegorismo: del quale bisogna dire che non solo non implicava una svalorizzazione del sensibile e della sua bellezza, ma anzi la confermava, e attraverso la conferma allegorica del mondo sensibile portava ad un rinnovato interesse per l’arte come tale. Si deve all’allegorismo, se di fronte alle sembianze del mondo, la coscienza colta assume un atteggiamento diverso dal formæ vero nitor ut rapidus est di Boezio; nonché, di fronte alle arti, un atteggiamento diverso dal plus gramma valet di Rabano Mauro; e l’allegorismo contribuì a che si andasse definitivamente oltre il gusto per le gemme e i metalli e la luce che aveva caratterizzato la critica dell’età precarolingia.
Riprendendo il racconto biblico del peccato originale, Scoto osserva qui che l’albero della scienza del bene e del male non era malefico per la sua bellezza: «in quantum forma boni ambitur, ex Deo esse, quoniam ipse est totius formæ et pulchritudinis causa, sive ipsa forma et pulchritudo in aliqua substantia intelligatur vel sentiatur, sive in phantasiis sensibilis materiæ, quarum propria sedes est sensus corporeus, quia per ipsum interiori sensui inferentur … Forma itaque, per quam malum seducit eos, quos interimit, bona est, quoniam cuiuspiam boni phantasia est … Nam si tactu et gustu ipsius primi homines se abstinerent … experimentum vitæ aeternæ perpetuæque beatitudinis … haberent». Non la bellezza è stata causa del peccato, ma il volere andare oltre la bellezza, toccare e assaporare alla maniera dell’avaro: il quale, quando gli venga presentato «vas aliquid obrizo auro factum, pretiosissimis gemmis decoratum, forma pulcherrima compositum» anziché comportarsi come il savio (che «ad laudem Creatoris naturarum pulchritudinem illius vasis, cuius phantasiam intra semetipsum considerat, omnino refert») si accende di un fuoco di cupidigia. In questo apologo del saggio e dell’avaro, Scoto descrive l’operazione in cui secondo lui consiste l’apprezzamento dell’opera d’arte: «Ambo illud aspiciunt, sapiens videlicet et avarus, ambo ipsius vasis phantasiam suo corporeo sensu recipiunt, memoriæ infigunt, cogitatione tractant». Phantasiam corporeo sensu recipere, memoriæ infigere, cogitatione tractare: in questa ultima frase la contemplazione si converte in giudizio: che può essere retto, quando la bellezza viene riferita a lode del creatore; o errato, quando al cospetto della bellezza ci si lasci prendere da desiderio di possesso, che vada comunque oltre la pura contemplazione. Riferire a lode del Creatore, è fermarsi a considerare la forma boni che ogni cosa riveste quando la si consideri come immagine dissimile (allegorica) di Dio che è causa di ogni bellezza; diciamo: un puro contemplare, e dalla contemplazione passare alla meditazione, anzi meditare nell’atto della contemplazione. Immergersi in fætidissimam cupiditatis paludem è invece un rinunziare alla contemplazione- meditazione, e spingersi al di là della sembianza che come tale è sempre bella e buona: consumare l’oggetto, e cioè non giudicarlo, diremo noi, esteticamente.
La novità che la filosofia areopagitico-scotiana introduce nella cultura occidentale, e che avrà i suoi frutti nell’atteggiamento dei committenti romanici, fino alla riabilitazione della scultura, della quale Isidoro non aveva fatto menzione, limitandosi a parlare degli stucchi colorati, si fonda, in primo luogo, sul concetto delle immagini dissimili come mezzo di elevazione a Dio: concetto formulato dallo pseudo-Areopagita in sede di esegesi biblica, ma che si estenderà fino ad un apprezzamento delle immagini prodotte dall’uomo come immagini che non raffigurano direttamente Dio e gli attributi divini, ma servono anche esse ad elevare spiritualmente coloro il cui intelletto, come si legge nel De Cœlesti Hierarchia, non riesce ad andare oltre la bellezza sensibile. Immagini dissimili sono le immagini mondane, accentuate nella loro mondanità, in guisa tale che non si possano, idolatricamente, confondere con la divinità stessa, ma servano, metaforicamente, come raffigurazione dell’infigurabile. Di queste immagini, il capitolo quindicesimo del De Cœlesti Hierarchia fornisce un vero e proprio repertorio, che è insieme una celebrazione delle sembianze mondane in quanto le apparenze della (loro) bellezza diventano, come è scritto nel capitolo primo della stessa opera, figure di una armonia invisibile.
Da questi concetti deriva la teoria della contemplazione senza tatto e senza assaporamento, a cui Scoto Eriugena ricorre nel De Divisione Naturæ, esponendola nell’apologo del vaso. Contemplare senza cupidigia vorrà dire ammirare in ogni bellezza mondana (e tutte le cose del mondo sono belle) un raggio di quello che nel quarto capitolo del De Divinis Nominibus era stato chiamato il «bello sopraessenziale», che diffonde in tutti gli esseri, nella misura adatta a ciascuno, il proprio potere di abbellimento. Del duplicarsi di tali bellezze nel procedimento dell’artista, un luogo del De Ecclesiastica Hierarchia forniva una descrizione che i committenti dovettero avere presente nel giudicare l’opera degli artisti: «… Et sicut in sensibilibus imaginibus semper ad primum exemplarem speciem scriptor inflessibiliter intendit, ad nullum aliud visibilium retractus, aut secundum quid partitus, sed ipsum, illud quod est describendum … effingit, et ostendet, alterutrum in alterutro propter essentiæ differentiam …». E questa duplicazione potrà essere valutata come uno dei tanti modi in cui l’uomo Dei cooperatorem fit. Se l’artista ostendet alterutrum in alterutro propter essentiæ differentiam, la sua operazione potrà essere reputata come un aiuto nella lotta contro la cupidigia. Quando teniamo presente il ragionamento di Giovanni Scoto circa la forma et pulchritudo dell’albero da cui trasse origine il peccato originale, e lo riferiamo a questa concezione del fare artistico, che ai lettori di Scoto doveva essere egualmente nota, possiamo inferirne una valutazione dell’arte come attività che si impadronisce della forma et pulchritudo di ogni sostanza, e la trasferisce in altra sostanza differente : quello che ci starà di fronte sarà allora soltanto la forma boni, che si può contemplare senza peccato, ma non la sostanza che la cupidigia ci induce a toccare ed assaporare. Nel caso poi che l’essere di cui l’artista trasferisce in altro l’immagine sia un essere la cui sostanza è nociva, una fiera o un demonio, di esso rimarrà in questa nuova sostanza quello per cui esso non è maligno, ma è ex bono et optimo, in bono et optimo, e questo soltanto. Duplicare nell’arte tutto quello che è, sarà dunque un modo di convertirlo ad bonum et optimum: in pari tempo ammaestrando gli uomini a quella saggezza che consiste nel riferire a lode del Creatore la bellezza di tutto ciò di cui riceviamo l’immagine con i sensi corporali, e la fissiamo nella memoria, la scrutiamo col pensiero.

Autore: Rosario Assunto
Pubblicazione:
La critica d’arte nel pensiero medievale
Editore
: Il Saggiatore
Luogo: Milano
Anno: 1961
Pagine: 73-79

Samaritana al pozzo

Sezione: Lessico


Fonti

Gesù, nel suo insegnamento, ricorre spesso a espressioni il cui significato profondo deve essere ricercato, da chi lo ascolta, al di là del senso letterale. L’incontro di Gesù e della Samaritana al pozzo, riportato nel Vangelo di Giovanni (Gv 4,1-30), è importante in questo senso per la natura del suo messaggio.

Gesù sta attraversando la Samaria: stanco, siede presso un pozzo. Arriva «una donna samaritana ad attingere acqua». Cristo le chiede da bere e la donna si stupisce: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». Indicandole il pozzo, Gesù le rivela allora con una metafora il senso della sua missione: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». Le rivela infine di essere il Messia che ella attende. La Samaritana, stupita ma fiduciosa, crede e va a dare la notizia alla città che accoglierà Gesù.

Iconografia

Le rappresentazioni della scena sono caratterizzate da un certo numero di elementi comuni: il numero dei personaggi spesso si limita ai due protagonisti, Cristo e la Samaritana; la composizione ha come perno il pozzo; la donna è sempre in piedi, mentre la posizione di Gesù cambia secondo le tipologie.

Nella tradizione bizantina, Egli è rappresentato seduto, o sul bordo del pozzo, o accanto ad esso. In un affresco della chiesa di Sant’Angelo in Formis, nei pressi di Capua, sembra troneggiare entro un gran cerchio paragonabile a un nimbo; sul lato opposto del pozzo la Samaritana, con un gesto pieno di riserbo, tende l’anfora che ha nelle mani.

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Sant’Angelo in Formis, affresco

Ritroviamo Gesù seduto, col Libro in mano come un Cristo in gloria, su una tavoletta d’avorio di un altare portatile di Namur.

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Avorio di Namur

Nell’arte occidentale, invece, e in particolare in quella romanica, Gesù resta in piedi. È questo il caso di un capitello del chiostro di Moissac nel quale Egli, accompagnato da un Angelo, chiede dell’acqua alla donna che sta attaccando il secchio alla corda del pozzo. Su un’altra faccia dello stesso capitello, tre discepoli con dei pani escono dalla città di Sicar, vicina al luogo dell’incontro, della quale si vede la porta.

Dizionario di Iconografia Romanica, Jaca Book, Milano 1997, pp. 342-343

La metafora nel linguaggio magico rinascimentale (1)

Non è davvero un’osservazione nuova, anzi è un motivo spesso sviluppato da storici, filosofi, etnologi e psicologi, che i procedimenti del pensiero magico siano sempre affidati a mezzi linguistici del tutto peculiari, a modi espressivi caratterizzati da strutture essenzialmente metaforiche e simboliche, al confine con l’allegoria e le forme « cifrate » della comunicazione emblematica. Né s’ignora che il nesso tra arte magica ed arte retorica è stato spesso assai stretto, come naturale conseguenza di un atteggiamento mentale che suppone di poter imporre il dominio umano sulle forze cosmiche per il tramite di strumenti che sono insieme linguistici, oratori e simbolici, fondati, insomma, sul proposito di « persuadere » i poteri più profondi della natura, concepiti secondo misure e caratteri umani. Il fatto che l’operazione magica non possa mai prescindere dall’uso dell’esorcismo, dell’invocazione e della preghiera e che, anzi, si affidi alla forza quasi ipnotica del ritmo e della musica è, già di per sé, un indizio eloquente della inevitabile convergenza tra alcuni dei modelli più tipici del processo retorico e la « virtù » di un metodo operativo che ritiene di poter discendere, oltre tutti gli schemi razionali, sino all’ultimo segreto delle cose. Ma, a guardar bene e senza pregiudizi, il singolare intreccio di forme linguistiche presentato da molti testi magici, non sfugge che, in realtà, il loro discorso si risolve sempre in un sistema continuo di metafore e di analogie e che, per dir meglio, il primo presupposto del linguaggio magico (almeno al livello della « magia dotta », perché assai diverse sono le considerazioni relative alla magia popolare di tipo « stregonesco ») è costituito da una metafora « centrale » dalla quale dipendono, con coerenza strutturale, lunghe serie e catene di altre metafore, ordini di riferimenti simbolici e trame analogiche estese, di grado in grado, all’intera rappresentazione dell’ordine reale.

Fondata sull’idea di una connessione universale e di un sistema di « simpatie » e antipatie che abbraccia tutta la realtà cosmica di cui l’uomo è lo « specchio » vivente e unitario, la magia è sempre guidata dalla convinzione che il mondo è come un linguaggio segreto che può essere decifrato solo se ci si affida agli istinti primordiali della coscienza ed al potere « arcano » della parola. E, infatti, l’opera del mago dotto sembra consistere, soprattutto, nel tentativo di recuperare, oltre le forme del linguaggio quotidiano, un significato primitivo ed originario al quale si attribuisce il valore di « cifra » dei nessi comuni tra tutte le cose e, dunque, di quei rapporti più segreti che sono afferrabili soltanto al livello del subconscio. In questo senso, l’elemento comune alla magia ed alla retorica è appunto l’appello a poteri, sentimenti, desideri e forze latenti, il cui dominio non può essere raggiunto con i mezzi della ragione argomentativa e richiede, invece, un linguaggio capace di afferrare le analogie metaforiche tra la natura cosmica e la natura umana e di operare entro di esse con gli stessi metodi usati per dominare i processi più oscuri della nostra coscienza. Non a caso, taluni procedimenti alchimistici o certe forme di magia astrologica non si limitano soltanto a postulare la diretta corrispondenza tra il mondo celeste e i processi e gli eventi naturali, bensì mirano a fissare in precise formule, in una serie ordinata di parole, la chiave per comprendere le potenze cosmiche ed agire su di esse. Il che spiega perché uno psicologo, sempre così attento all’analisi del linguaggio, come Carl Jung, abbia dedicato indagini ormai classiche alle forme dell’esperienza alchimistico-magica, e perché oggi, anche sotto l’influsso del Lacan, si tornino ad analizzare, proprio sul loro reale versante linguistico, i « nodi » centrali dell’atteggiamento magico.

Non è, naturalmente, mio proposito trattare adesso argomenti di questo genere che richiederebbero una ricerca assai più complessa e circostanziata; né voglio richiamarmi alle suggestive considerazioni del Lacan sulla « fonction signalétique » propria di questi linguaggi, per spostare la mia breve ricerca su un terreno ancora troppo inesplorato e, comunque, facilmente soggetto a pericolose estrapolazioni antistoriche. Credo però che simili accenni fossero necessari come introduzione ad un tentativo di lettura di passi tolti da alcuni celebri « monumenti » della magia dotta rinascimentale che, proprio per il loro carattere letterario e la consapevole struttura retorica, rendono ancora più evidente la struttura metaforica fondamentale e le sue evidenti implicazioni di carattere simbolico e/o allegorico. I testi sono notissimi ed appartengono al catalogo consueto dei testi magici rinascimentali, giacché si tratta di alcuni passi del De vita coelitus comparanda, di Marsilio Ficino e del De occulta philosophia di Cornelio Agrippa di Nettesheim, di alcuni brevi riferimenti, ai De rerum varietate libri di Girolamo Cardano o di estratti più ampi dalla Magia naturale di Giambattista Della Porta. Così il campo della nostra analisi si estende, nel tempo, per la misura non breve di un intero secolo, allo scopo di documentare la sostanziale continuità di espressioni, forme semantiche, la cui sopravvivenza s’identifica con la fortuna di una lunga tradizione esoterica, nutrita non solo di evidenti ispirazioni platonizzanti, ermetizzanti e cabbalistiche, ma anche di convenzioni retoriche ben codificate e di un’indiscussa fiducia nei procedimenti di tipo metaforico ed analogico.

Autore: Cesare Vasoli
Pubblicazione:
Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore: Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 145-147

L’allegorismo scritturale nel Medioevo

Il passaggio dal simbolismo metafisico all’allegorismo universale non è rappresentabile in termini di derivazione logica o cronologica. L’irrigidimento del simbolo in allegoria è un processo che si verifica indubbiamente in certe tradizioni letterarie, ma quanto al Medioevo i due tipi di visione sono coevi.

Il problema è piuttosto ora di stabilire perché il Medioevo arriva a teorizzare così compiutamente un modo espressivo e conoscitivo che d’ora in poi, per attenuare la contrapposizione, chiameremo non più simbolico o allegorico ma più semplicemente “figurativo”.

La vicenda è complessa e qui la riassumeremo solo per sommi capi (si veda De Lubac, Exégèse médiévale, Paris 1959-64 e Compagnon, La seconde main, Paris 1979). Nel tentativo di contrapporsi alla sopravvalutazione gnostica del Nuovo Testamento, a totale detrimento dell’Antico, Clemente di Alessandria pone una distinzione e una complementarità tra i due Testamenti, e Origene perfezionerà la posizione affermandone la necessità di una lettura parallela. L’Antico Testamento è la figura del Nuovo, ne è la lettera di cui l’altro è lo spirito, ovvero in termini semiotici ne è l’espressione retorica di cui il Nuovo è il contenuto. A propria volta il Nuovo Testamento ha senso figurale in quanto è la promessa di cose future. Nasce con Origene il “discorso teologale”, il quale non è più – o soltanto – discorso su Dio, ma sulla sua Scrittura.

Già con Origene si parla di senso letterale, senso morale (psichico) e senso mistico (pneumatico). Di lì la triade letterale, tropologico e allegorico che lentamente si trasformerà nella teoria dei quattro sensi della scrittura: letterale, allegorico, morale e anagogico (su cui torneremo in seguito).

Sarebbe affascinante, ma non è questa la sede, seguire la dialettica di questa interpretazione e il lento lavoro di legittimazione che essa richiede: perché da un lato è la lettura “giusta” dei due Testamenti che legittima la Chiesa come custode della tradizione interpretativa, e dall’altro è la tradizione interpretativa che legittima la giusta lettura: circolo ermeneutico quanti altri mai, e sin dall’inizio, ma circolo che ruota in modo da espungere tendenzialmente tutte le letture che, non legittimando la Chiesa, non la legittimino come autorità capace di legittimare le letture.

Sin dalle origini l’ermeneutica origeniana, e dei Padri in genere, tende a privilegiare, sia pure sotto nomi diversi, un tipo di lettura che in altra sede è stata definita tipologica: i personaggi e gli eventi dell’Antico Testamento sono visti, a causa delle loro azioni e delle loro caratteristiche, come tipi, anticipazioni, prefigurazioni dei personaggi del Nuovo. Di qualunque pasta sia questa tipologia essa prevede già che ciò che è figurato (tipo, simbolo o allegoria che sia) sia una allegoria che non riguarda il modo in cui il linguaggio rappresenta i fatti, bensì riguarda i fatti stessi. Si affronta qui la differenza tra allegoria in verbis e allegoria in factis. Non è la parola di Mosè o del Salmista, in quanto parola, che va letta come dotata di sovrasenso, anche se così si dovrà fare quando si riconosca che essa è parola metaforica: sono gli eventi stessi dell’Antico Testamento che sono stati predisposti da Dio, come se la storia fosse un libro scritto dalla sua mano, per agire come figure della nuova legge.

Chi affronta decisamente questo problema è sant’Agostino e lo può fare perché egli è il primo autore che, sulla base di una cultura stoica bene assorbita, fonda una teoria del segno (molto affine per molti aspetti a quella di Saussure, sia pure con un considerevole anticipo). In altri termini sant’Agostino è il primo che si può muovere con disinvoltura tra segni che sono parole e cose che possono agire come segni perché egli sa e afferma con energia che signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex sefaciens in cogìtationem venire («il segno è ogni cosa che ci fa venire in mente qualcosa d’altro al di là dell’impressione che la cosa stessa fa sui nostri sensi»: De doctrina Christiana II, 1, 1). Non tutte le cose sono segni, ma certo tutti i segni sono cose, e accanto ai segni prodotti dall’uomo per significare intenzionalmente ci sono anche cose ed eventi (perché non fatti e personaggi?) che possono essere assunti come segni o (ed è il caso della storia sacra) possono essere soprannaturalmente disposti come segni affinché come segni siano letti.

Sant’Agostino affronta la lettura del testo biblico fornito di tutti i parafernali linguistico-retorici che la cultura di una tarda latinità non ancora distrutta poteva fornirgli (cfr. Marrou, Saint Augustin et la fine de la culture antique, Paris 1958). Egli applicherà alla lettura i principi della lectio per discriminare attraverso congetture sulla giusta puntazione il significato originario del testo, della recitatio,
del judicium, ma soprattutto della enarratio (commento e analisi) e della emendatio (che noi potremmo oggi chiamare critica testuale o filologia). Ci insegnerà così a distinguere i segni oscuri e ambigui da quelli chiari, a dirimere la questione se un segno debba essere inteso in senso proprio e in senso traslato. Si porrà il problema della traduzione, perché sa benissimo che l’Antico Testamento non è stato scritto nel latino in cui egli lo può avvicinare, ma egli non conosce l’ebraico – e quindi proporrà come ultima ratio di comparare tra loro le traduzioni, o di commisurare il senso congetturato al contesto precedente o seguente (e infine, per quanto riguarda la sua lacuna linguistica, egli diffida degli ebrei che potrebbero aver corrotto il testo originale in odio alla verità che esso così chiaramente rivelava…).

Nel far questo egli elabora una regola per il riconoscimento dell’espressione figurata che rimane valida ancora oggi, non tanto per riconoscere i tropi e le altre figure retoriche, ma quei modi di strategia testuale a cui oggi assegneremmo (e in senso moderno) valenza simbolica. Egli sa benissimo che metafora o metonimia si possono chiaramente riconoscere perché se fossero presi alla lettera il testo apparirebbe o insensato o infantilmente mendace. Ma cosa fare per quelle espressioni (di solito a dimensioni di frase, di narrazione e non di semplice immagine) che potrebbero far senso anche letteralmente e a cui l’interprete è invece indotto ad assegnare senso figurato (come per esempio le allegorie)?

Agostino ci dice che dobbiamo subodorare il senso figurato ogni qual volta la Scrittura, anche se dice cose che letteralmente fanno senso, pare contraddire la verità di fede, o i buoni costumi. La Maddalena lava i piedi al Cristo con unguenti odorosi e li asciuga coi propri capelli. È possibile pensare che il Redentore si sottometta a un rituale così pagano e lascivo? Certo no. Dunque la narrazione raffigura qualche cosa d’altro.

Ma dobbiamo subodorare il secondo senso anche quando la Scrittura si perde in superfluità o mette in gioco espressioni letteralmente povere. Queste due condizioni sono mirabili per sottigliezza e, insisto, modernità, anche se Agostino le trova già suggerite in altri autori, ad es. Girolamo (In Matt. XXI, 5) oppure Origene (De principiis, 4, 2, 9 e 4, 3, 4). Si ha superfluità quando il testo si sofferma troppo a descrivere qualcosa che letteralmente fa senso, senza che però si vedano le ragioni di questa insistenza descrittiva. Del pari, secondo Agostino, si procede per le espressioni semanticamente povere come i nomi propri, i numeri e i termini tecnici, che stanno evidentemente per altro.

Se queste sono le regole ermeneutiche (come identificare i brani da interpretare secondo un altro senso), a questo punto occorrono ad Agostino le regole più strettamente semiotico-linguistiche: dove cercare le chiavi per la decodifica, perché si tratta pur sempre di interpretare in modo giusto e cioè secondo un codice approvabile. Quando parla delle parole Agostino sa dove trovar le regole, e cioè nella retorica e nella grammatica classica: non c’è difficoltà particolare in questo. Ma Agostino sa che la Scrittura non parla solo in verbis ma anche in factis (De doctr. III, 5, 9 – ovvero c’è allegoria historiae oltre ad allegoria sermonis, De vera religione 50, 99) e quindi richiama il suo lettore alla conoscenza enciclopedica (o almeno a quella che il mondo tardo antico poteva provvedergli).

Se la Bibbia parla per personaggi, oggetti, eventi, se nomina fiori, prodigi di natura, pietre, mette in gioco sottigliezze matematiche, occorrerà cercare nel sapere tradizionale quale sia il significato di quella pietra, di quel fiore, di quel mostro, di quel numero.

Autore: Umberto Eco
Pubblicazione:
Arte e Bellezza nell’estetica medievale
Editore
: Bompiani (Strumenti Bompiani)
Luogo: Milano
Anno: 1994
Pagine: 79-83