Nella gnosi dionisiana, la concezione dell’universo come mistica scala a Dio assume la forma visionaria di un’angeologia. Gli angeli sono infatti per eccellenza, secondo Dionigi, gli ‘ interpreti ‘ della scienza divina, la quale attraverso le loro gerarchie discende fino a noi sotto forma di rivelazione simbolica: tutti i doni sapienziali che, egli dice, sono stati « trasmessi alle essenze celesti in modo sopramondano, a noi lo sono stati sotto forma di simboli (συμβολικῶς)»83, E non stupisce che proprio nella Gerarchia celeste e a proposito degli angeli, Dionigi esponga la sua dottrina del simbolismo: perché, come ha scritto Gilbert Durand, « gli angeli […] sono il criterio stesso di un’ontologia simbolica. Essi sono simboli della stessa funzione simbolica la quale – come loro! – è mediatrice fra la trascendenza del significato e il mondo manifestato dei segni concreti, incarnati, che grazie a essa diventano simboli ». Ma nella Scrittura, secondo l’Areopagita, si dovranno distinguere due modalità di rivelazione, che corrispondono a due tipi diversi di simbolismo: « una che procede, com’è naturale, a mezzo di sante immagini somiglianti al loro oggetto, l’altra che, ricorrendo a raffigurazioni dissomiglianti, spinge la finzione sino a una totale inverosimiglianza e assurdità ». Nel caso degli angeli, il primo tipo è quello in cui essi siano effigiati in forma di uomini luminosi o splendidamente vestiti, cioè mediante immagini convenienti alla nobiltà del loro rango; il secondo è invece quello in cui loro simboli divengano le cose più vili e degradate: come pietre, ruote o animali. Paradossalmente, per Dionigi, è proprio quest’ultima la forma più elevata di simbolismo perché, oltre a garantire la segretezza delle dottrine sacre, essa invita l’uomo a più perfette meditazioni:
Che le immagini inverosimili elevino meglio la nostra mente di quelle somiglianti — egli scrive —, credo ne converranno tutti gli uomini assennati: infatti è naturale che taluni possano essere ingannati dalle raffigurazioni più elevate, credendo che le essenze celesti siano figure d’oro e uomini luminosi e sfolgoranti, splendidamente avvolti in una veste radiosa, irraggianti un fuoco che non fa loro alcun danno, e tutte le altre belle immagini dello stesso tipo di cui si è servita la Scrittura (θεολογία) per rappresentare gli spiriti celesti. Perché non incorressero in questo pericolo coloro che non hanno concepito niente di più elevato delle bellezze apparenti, la sapienza sublime dei santi teologi (θεολόγοι: cioè gli scrittori ispirati), che ci fa tendere verso l’alto, accondiscende anche a santamente offrirci figure assurde e dissomiglianti; e non lascia che la nostra tendenza verso la materia ristagni al livello delle immagini vili, ma solleva la parte dell’anima che tende verso l’alto e la stimola con la difformità dei segni in modo che non sia né lecito né verosimile, nemmeno per coloro che sono troppo inclini verso la materia, credere che le meraviglie sopracelesti e divine rassomiglino veramente a queste immagini cosi vili.
(De celesti hierarchia, II, 3)
Ma c’è una ragione più profonda a giustificare la superiorità dei simboli dissomiglianti nell’àmbito della conoscenza spirituale: essa va cercata nella loro analogia con la forma suprema di teologia, quella ‘ apofatica ‘ o negativa. Il parallelismo esistente fra la distinzione dei due tipi di rappresentazione simbolica e quella, più generale, fra teologia affermativa e teologia negativa è esplicito in Dionigi. Le sacre tradizioni, egli dice, usano sovente immagini nobili e venerabili per parlare di Dio e lo chiamano Essenza, Vita o Luce: ma nemmeno questi appellativi, che circoscrivono lo spazio della teologia affermativa, potranno mai esprimere la Sua natura ineffabile, superiore a ogni nome. Così, egli prosegue, queste stesse tradizioni sono solite celebrarlo anche « in modo sopramondano per mezzo di rivelazioni dissomiglianti, definendolo invisibile, illimitato, infinito e usando termini che significano non ciò ch’Egli è, ma ciò ch’Egli non è » (ibid.). Nel suo commento all’opera dionisiana, Giovanni Scoto ribadirà questa arcana parentela dei simboli dissomiglianti con la teologia negativa e ne illustrerà con grande efficacia le ragioni. Così egli argomenta:
Come è stato dimostrato in precedenza, allo stesso modo in cui le realtà divine possono essere maggiormente onorate, cioè significate più chiaramente con negazioni vere piuttosto che con affermazioni metaforiche, del pari queste stesse realtà divine penetrano meglio e con maggiore efficacia nelle menti umane attraverso similitudini insolite e immagini delle più vili tra le cose materiali, piuttosto che attraverso belle figure di cose celesti e ragionevoli […]. E perciò, come onora maggiormente Dio chi nega di Lui ogni attributo di chi ne afferma qualcuno, così lo esprime e lo onora di più chi lo riveste di una figura di bestia.
(Expositiones in hierarchiam coelestem, II, 5)
Siamo qui nell’àmbito di un vero e proprio simbolismo esoterico, simbolismo che tutte le tradizioni arcaiche associano alla legge dell’analogia inversa: per condurre alle realtà celesti, il nostro universo deve per noi quasi capovolgersi su se stesso in modo che più non si riconosca il suo ordine apparente e sensibile ma ne appaia a poco a poco un altro, puramente spirituale.
I princìpi metafisici che fondano questa ‘ legge ‘ del simbolismo tradizionale sono stati esaurientemente esposti da Frithjof Schuon, De l’Unité transcendante des Religions, Paris, 1968, pp. 68-70. Lo stesso insegnamento possiamo leggere nel mirabile saggio sull’icona di Pavel Florenskij, Le porte regali, Milano, 1977: attraverso l’esperienza emblematica del sogno, durante il quale il « tempo kantiano » appare come rovesciato e scorre « incontro al presente, all’inverso del movimento della coscienza di veglia » (ibid., p. 30), Florenskij illustra il rapporto ‘ speculare ‘ che intercorre fra il nostro mondo e quello spirituale e celeste: « Forse che in questo mondo capovolto – egli scrive –, in questo mondo ontologicamente riflesso in uno specchio, non riconosciamo il piano immaginario, anche se è piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi. Sì, questo è reale nella sua essenza – non è un qualcosa di completamente diverso rispetto alla realtà del nostro mondo, perché unica è la misericordiosa creazione di Dio, ma è il medesimo essere che può essere contemplato dall’altro versante da coloro che all’altro versante sono passati. Cioè il volto e gli aspetti delle cose sono visibili a coloro che hanno manifestato in se stessi il loro volto primigenio, l’immagine di Dio, ovvero, in greco, l’idea: l’idea stessa, illuminandosi, vede l’idea dell’Essere, se stessa e, attraverso a se stessa che rivela il mondo, questo nostro mondo come idea del mondo superiore» (ibid., pp. 31-2). Cf. infine e ancora Giovanni Scoto Eriugena, Expositiones in hierarchiam coelestem, II.2, II,4 e II,5.
Nella loro difformità, i dissimilia symbola di Giovanni Scoto e di Dionigi pervengono a negare la loro corporeità nel momento stesso in cui si presentano come immagini sensibili. L’estrema degradazione materiale, che li fa incolmabilmente lontani e dissomiglianti dalle realtà significate, svela però in essi l’orrore della separazione. Ecco allora apparire più chiare, in questo tenebroso contorcimento della natura, le tracce e gli echi del mondo sovrasensibile: la difformità è lo spiraglio attraverso il quale esso si insinua visibilmente nel nostro universo. Come felicemente è stato detto da Maurice De Gandillac, i simboli ‘ mostruosi ‘ o degradati costituiscono « in qualche modo la forma sensibile dell’apofasi stessa ». Il vertiginoso margine bianco lasciato dalla Teologia mistica — il più breve dei trattati dionisiani perché avvicinandosi alle realtà supreme, come dichiara lo stesso Areopagita, il discorso progressivamente si contrae e tende verso un silenzio assoluto — può riempirsi soltanto di musi feroci e minacciosi, di becchi ricurvi, di creature miste e chimeriche: il suo migliore commento sarà, inaspettatamente, un libro di mostri o un bestiario o una vòlta popolata di tetramorfi. Proprio in queste inquietanti (ma « vere ») negazioni di ogni forma equilibrata e ragionevole, sta il più efficace invito all’ascesa mistica attraverso i mondi archetipi che in eterna unità sussistono nel Verbo di Dio: « plus eum significat […] qui figuram bestialem ipsi circumdat ».
Autore: Francesco Zambon
Pubblicazione:
Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore: Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 87-91
Vedi anche:
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (1)
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (2)