Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (3)

Nella gnosi dionisiana, la concezione dell’universo come mistica scala a Dio assume la forma visionaria di un’angeologia. Gli angeli sono infatti per eccellenza, secondo Dionigi, gli ‘ interpreti ‘ della scienza divina, la quale attraverso le loro gerarchie discende fino a noi sotto forma di rivelazione simbolica: tutti i doni sapienziali che, egli dice, sono stati « trasmessi alle essenze celesti in modo sopramondano, a noi lo sono stati sotto forma di simboli (συμβολικῶς)»83, E non stupisce che proprio nella Gerarchia celeste e a proposito degli angeli, Dionigi esponga la sua dottrina del simbolismo: perché, come ha scritto Gilbert Durand, « gli angeli […] sono il criterio stesso di un’ontologia simbolica. Essi sono simboli della stessa funzione simbolica la quale – come loro! – è mediatrice fra la trascendenza del significato e il mondo manifestato dei segni concreti, incarnati, che grazie a essa diventano simboli ». Ma nella Scrittura, secondo l’Areopagita, si dovranno distinguere due modalità di rivelazione, che corrispondono a due tipi diversi di simbolismo: « una che procede, com’è naturale, a mezzo di sante immagini somiglianti al loro oggetto, l’altra che, ricorrendo a raffigurazioni dissomiglianti, spinge la finzione sino a una totale inverosimiglianza e assurdità ». Nel caso degli angeli, il primo tipo è quello in cui essi siano effigiati in forma di uomini luminosi o splendidamente vestiti, cioè mediante immagini convenienti alla nobiltà del loro rango; il secondo è invece quello in cui loro simboli divengano le cose più vili e degradate: come pietre, ruote o animali. Paradossalmente, per Dionigi, è proprio quest’ultima la forma più elevata di simbolismo perché, oltre a garantire la segretezza delle dottrine sacre, essa invita l’uomo a più perfette meditazioni:

Che le immagini inverosimili elevino meglio la nostra mente di quelle somiglianti — egli scrive —, credo ne converranno tutti gli uomini assennati: infatti è naturale che taluni possano essere ingannati dalle raffigurazioni più elevate, credendo che le essenze celesti siano figure d’oro e uomini luminosi e sfolgoranti, splendidamente avvolti in una veste radiosa, irraggianti un fuoco che non fa loro alcun danno, e tutte le altre belle immagini dello stesso tipo di cui si è servita la Scrittura (θεολογία) per rappresentare gli spiriti celesti. Perché non incorressero in questo pericolo coloro che non hanno concepito niente di più elevato delle bellezze apparenti, la sapienza sublime dei santi teologi (θεολόγοι: cioè gli scrittori ispirati), che ci fa tendere verso l’alto, accondiscende anche a santamente offrirci figure assurde e dissomiglianti; e non lascia che la nostra tendenza verso la materia ristagni al livello delle immagini vili, ma solleva la parte dell’anima che tende verso l’alto e la stimola con la difformità dei segni in modo che non sia né lecito né verosimile, nemmeno per coloro che sono troppo inclini verso la materia, credere che le meraviglie sopracelesti e divine rassomiglino veramente a queste immagini cosi vili.
(De celesti hierarchia, II, 3)

Ma c’è una ragione più profonda a giustificare la superiorità dei simboli dissomiglianti nell’àmbito della conoscenza spirituale: essa va cercata nella loro analogia con la forma suprema di teologia, quella ‘ apofatica ‘ o negativa. Il parallelismo esistente fra la distinzione dei due tipi di rappresentazione simbolica e quella, più generale, fra teologia affermativa e teologia negativa è esplicito in Dionigi. Le sacre tradizioni, egli dice, usano sovente immagini nobili e venerabili per parlare di Dio e lo chiamano Essenza, Vita o Luce: ma nemmeno questi appellativi, che circoscrivono lo spazio della teologia affermativa, potranno mai esprimere la Sua natura ineffabile, superiore a ogni nome. Così, egli prosegue, queste stesse tradizioni sono solite celebrarlo anche « in modo sopramondano per mezzo di rivelazioni dissomiglianti, definendolo invisibile, illimitato, infinito e usando termini che significano non ciò ch’Egli è, ma ciò ch’Egli non è » (ibid.). Nel suo commento all’opera dionisiana, Giovanni Scoto ribadirà questa arcana parentela dei simboli dissomiglianti con la teologia negativa e ne illustrerà con grande efficacia le ragioni. Così egli argomenta:

Come è stato dimostrato in precedenza, allo stesso modo in cui le realtà divine possono essere maggiormente onorate, cioè significate più chiaramente con negazioni vere piuttosto che con affermazioni metaforiche, del pari queste stesse realtà divine penetrano meglio e con maggiore efficacia nelle menti umane attraverso similitudini insolite e immagini delle più vili tra le cose materiali, piuttosto che attraverso belle figure di cose celesti e ragionevoli […]. E perciò, come onora maggiormente Dio chi nega di Lui ogni attributo di chi ne afferma qualcuno, così lo esprime e lo onora di più chi lo riveste di una figura di bestia.
(Expositiones in hierarchiam coelestem, II, 5)

Siamo qui nell’àmbito di un vero e proprio simbolismo esoterico, simbolismo che tutte le tradizioni arcaiche associano alla legge dell’analogia inversa: per condurre alle realtà celesti, il nostro universo deve per noi quasi capovolgersi su se stesso in modo che più non si riconosca il suo ordine apparente e sensibile ma ne appaia a poco a poco un altro, puramente spirituale.

I princìpi metafisici che fondano questa ‘ legge ‘ del simbolismo tradizionale sono stati esaurientemente esposti da Frithjof Schuon, De l’Unité transcendante des Religions, Paris, 1968, pp. 68-70. Lo stesso insegnamento possiamo leggere nel mirabile saggio sull’icona di Pavel Florenskij, Le porte regali, Milano, 1977: attraverso l’esperienza emblematica del sogno, durante il quale il « tempo kantiano » appare come rovesciato e scorre « incontro al presente, all’inverso del movimento della coscienza di veglia » (ibid., p. 30), Florenskij illustra il rapporto ‘ speculare ‘ che intercorre fra il nostro mondo e quello spirituale e celeste: « Forse che in questo mondo capovolto – egli scrive –, in questo mondo ontologicamente riflesso in uno specchio, non riconosciamo il piano immaginario, anche se è piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi. Sì, questo è reale nella sua essenza – non è un qualcosa di completamente diverso rispetto alla realtà del nostro mondo, perché unica è la misericordiosa creazione di Dio, ma è il medesimo essere che può essere contemplato dall’altro versante da coloro che all’altro versante sono passati. Cioè il volto e gli aspetti delle cose sono visibili a coloro che hanno manifestato in se stessi il loro volto primigenio, l’immagine di Dio, ovvero, in greco, l’idea: l’idea stessa, illuminandosi, vede l’idea dell’Essere, se stessa e, attraverso a se stessa che rivela il mondo, questo nostro mondo come idea del mondo superiore» (ibid., pp. 31-2). Cf. infine e ancora Giovanni Scoto Eriugena, Expositiones in hierarchiam coelestem, II.2, II,4 e II,5.

Nella loro difformità, i dissimilia symbola di Giovanni Scoto e di Dionigi pervengono a negare la loro corporeità nel momento stesso in cui si presentano come immagini sensibili. L’estrema degradazione materiale, che li fa incolmabilmente lontani e dissomiglianti dalle realtà significate, svela però in essi l’orrore della separazione. Ecco allora apparire più chiare, in questo tenebroso contorcimento della natura, le tracce e gli echi del mondo sovrasensibile: la difformità è lo spiraglio attraverso il quale esso si insinua visibilmente nel nostro universo. Come felicemente è stato detto da Maurice De Gandillac, i simboli ‘ mostruosi ‘ o degradati costituiscono « in qualche modo la forma sensibile dell’apofasi stessa ». Il vertiginoso margine bianco lasciato dalla Teologia mistica — il più breve dei trattati dionisiani perché avvicinandosi alle realtà supreme, come dichiara lo stesso Areopagita, il discorso progressivamente si contrae e tende verso un silenzio assoluto — può riempirsi soltanto di musi feroci e minacciosi, di becchi ricurvi, di creature miste e chimeriche: il suo migliore commento sarà, inaspettatamente, un libro di mostri o un bestiario o una vòlta popolata di tetramorfi. Proprio in queste inquietanti (ma « vere ») negazioni di ogni forma equilibrata e ragionevole, sta il più efficace invito all’ascesa mistica attraverso i mondi archetipi che in eterna unità sussistono nel Verbo di Dio: « plus eum significat […] qui figuram bestialem ipsi circumdat ».

Autore: Francesco Zambon
Pubblicazione:
Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore: Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 87-91
Vedi anche:
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (1)

Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (2)

Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (2)

Nell’introdurre il suo esame dei testi, Armand Strubel affermava che ciascuno dei tre scrittori scelti (Agostino, Beda e Tommaso) « è rappresentativo di una delle tre prospettive principali secondo le quali l’esegesi ha affrontato i problemi del senso ». In realtà, qui sembra essere rappresentata soltanto la prospettiva dogmatica, ‘ ufficiale ‘ del cristianesimo medioevale: quella più saldamente ancorata al magistero della Chiesa. Anche se in differenti contesti storico-teologici e a un grado ineguale di complessità teorica, la dottrina esegetica degli autori compresi da Strubel nella sua ricerca tende a uno stesso fine di chiusura dogmatica e di « edificazione della santa Chiesa »: il ‘ totalitarismo ‘ ermeneutico di san Tommaso è già in embrione nella preferenza accordata da Beda e da Agostino all’allegoria in factis e nella conseguente idea di un metodo la cui normatività sarebbe sancita da un’investitura divina. Il territorio speculativo che rimane in tal modo escluso è però vastissimo: vi rientra, infatti, tutta la ‘ gnosi ‘ cristiana antica e medioevale, che ha costantemente seguito vie spirituali distinte, anche se non sempre divergenti, da quelle del dogmatismo ecclesiastico. Le sue matrici metafisiche sono approssimativamente riconoscibili nel pensiero platonico, penetrato nel cristianesimo già attraverso la Scuola di Alessandria, e più direttamente in quello neoplatonico, che fu ‘ tradotto ‘ in termini angeologici dallo ps.-Dionigi Areopagita. Furono soprattutto gli scritti areopagitici a ispirare, anche sul versante ‘ latino ‘, quella concezione mistica e quasi misterica del cristianesimo che troverà la sua prima grande espressione occidentale in Giovanni Scoto Eriugena. Non è sfuggito a Henri de Lubac come uno dei più evidenti punti di attrito fra queste due grandi correnti del cristianesimo fosse quello della « storicità soprannaturale » delle Scritture: « questo perché – egli spiega – l’anagogia dionisiana, mediante la quale si passa dall’ordine delle visioni a quello della contemplazione pura, o dalla teologia simbolica alla teologia mistica, non è in primo luogo e nemmeno principalmente l’ultimo tempo di un’esegesi: è quasi l’estremo prorompimento di una specie di energia cosmica che solleva ogni natura secondo il suo ordine gerarchico nella serie graduata delle illuminazioni ». La prospettiva di Lubac è dichiaratamente apologetica e traspaiono nelle sue parole inevitabili sospetti nei confronti di una gnosi che gli appare pericolosamente svincolata da ogni controllo ecclesiastico: nondimeno, egli conclude le sue considerazioni scrivendo che « sarebbe molto interessante enucleare la storia delle lotte d’influenza e dei tentativi di sintesi tra queste due tradizioni mistiche ». Un capitolo fondamentale di questa storia è probabilmente costituito dalle definizioni medioevali di allegoria e di simbolo.

E la posizione di Giovanni Scoto non è, in questo àmbito, assolutamente riconducibile alle prospettive illustrate da Strubel: l’interesse dei suoi scritti (in particolare dell’incompiuto Commentarius al Vangelo di san Giovanni) sta anche nel fatto che, pur seguendo nella sostanza le dottrine di Dionigi e della patristica greca, egli vi sovrappose parzialmente la terminologia degli esegeti ‘ latini ‘ riplasmandone il significato primitivo e facendovi imprevedibilmente affiorare i lineamenti di una concezione esoterica del simbolismo.

L’ermeneutica eriugeniana presuppone lo sfondo dell’universo gerarchizzato di Dionigi e del neoplatonismo. Anche per Giovanni Scoto il cosmo non è che una sterminata manifestazione o rivelazione di Dio: una teofania. In esso Dio si esprime e si conosce: in misura proporzionale al proprio rango ontologico ogni cosa è, nella sua più intima essenza, la conoscenza che Dio ha di se stesso e di se stesso offre all’uomo. Tutte le creature, anche le più vili, contengono perciò una traccia dell’Essere supremo: e questa traccia è appunto ciò che le fa sussistere in quanto tali e ne stabilisce la dignità gerarchica nell’àmbito della manifestazione universale. Scrive Étienne Gilson che, laddove la comune concezione cristiana della creazione « riconduce tutto a dei rapporti di causa ed effetto nell’ordine dell’essere, Eriugena pensa piuttosto a quello che sono, nell’ordine della conoscenza, i rapporti di segno e cosa significata ». E proprio questo conferisce all’esegesi simbolica uno statuto di privilegio: infatti, in una tale prospettiva, come osserva ancora Gilson, ogni cosa è « essenzialmente un segno, un simbolo, in cui Dio si fa da noi conoscere: ‘ nihil enim uisibilium rerum corporaliumque est, ut arbitror, quod non incorporale quid et intelligibile significet ‘ ». Queste realtà intelligibili di cui tutte le cose sono i simboli corrispondono per Giovanni Scoto, conformemente alla tradizione platonica, ai loro archetipi o modelli superiori: nel ciclo eriugeniano delle quattro nature ‘, si tratta della seconda (la natura « quae et creatur et creat ») – cioè delle idee creatrici che eternamente sussistono nel Verbo e con esso, in ultima analisi, si identificano. Il fine dell’esegesi sarà perciò quello di ricondurre le entità fisiche ai loro archetipi celesti, di farle ‘ rientrare ‘ nel Verbo che le ha proferite. Ciò non può avvenire che per gradi, ripercorrendo a ritroso le diverse fasi del processo che ha portato alla divisione dell’universo e alla formazione di tutte le cose: l’ermeneutica non fa perciò che anticipare, sul piano della gnosi individuale, quello che sarà il destino finale dell’universo – il suo ‘ ritorno ‘ in Dio. Additando nella Trinità l’unico mezzo per raggiungere la deificatio, così descrive Giovanni Scoto questa ascesa mistico-esegetica attraverso i simboli della Scrittura:

La santa Trinità è dunque la nostra θέωσις, cioè la nostra deificazione; infatti essa deifica la nostra natura, riconducendola attraverso i simboli sensibili nelle altezze della natura angelica […]. Essa ci manifesta le Virtù celesti in figure e in forme convenienti alla nostra debolezza, affinché per mezzo di queste, come per gradini da Essa costruiti nelle sacre Scritture (voglio dire le imprese dei patriarchi della Legge antica, le visioni dei profeti, i misteri della parola evangelica e tutti i prodigi che il Signore compì nella carne, i sacramenti visibili della nuova Legge che furono iniziati e santificati dallo stesso Signore e poi celebrati, diffusi e rinvigoriti dai santi Apostoli) ascendiamo con i passi dell’azione e della scienza, guidati, soccorsi e assistiti dalla grazia divina, finché giungiamo allo stesso modo degli angeli alla semplicissima e purissima contemplazione della verità immutabile.

È questa, secondo Giovanni Scoto, la theoria o contemplatio theologica, cioè anche il grado supremo dell’interpretazione simbolica delle Scritture. Essa corrisponde perfettamente all’esegesi che veniva praticata nell’àmbito della teosofia shi’ita: come riferisce Corbin, essa è designata dal « termine tecnico ta’wil, il quale etimologicamente significa ‘ ricondurre ‘ i dati alla loro origine, al loro archetipo, al loro donatore.
Per questo occorre riafferrarli a ciascuno dei gradi d’essere o piani attraverso i quali essi hanno dovuto discendere per giungere alla modalità ontologica corrispondente al piano di evidenza della nostra coscienza comune. Tale operazione deve far simboleggiare questi piani gli uni con gli altri […]. Il ta’wil presuppone la sovrapposizione di mondi e di intermondi, come fondamento correlativo della pluralità dei sensi di un medesimo testo ». Così, anche in Giovanni Scoto, esiste una correlazione tra il numero indefinito dei gradi gerarchici nei quali si può suddividere il cosmo e quello dei sensi spirituali discernibili nella Scrittura: in un celebre luogo del Periphyseon quest’ultima è paragonata a una penna di pavone, la quale in ogni sua minuta parte lascia scorgere una mirabile varietà di colori. Ha quindi ragione Tullio Gregory quando afferma che « con l’Eriugena siamo molto al di là della dottrina dei ‘ sensi ‘ della Scrittura, largamente adottata da tutta l’esegesi medievale attraverso le tecniche ermeneutiche esemplate prevalentemente su Agostino e Gregorio Magno […]. Sotto l’influsso della prospettiva dionisiana, Giovanni Scoto intende […] la ‘ lettura ‘ della Bibbia – dei misteri e dei simboli – come iniziazione alla realtà intelligibile che in essi si manifesta (il circolare ritmo delle ‘ nature ‘): orientata secondo i momenti dell’ascesa dialettica dalla storia ‘ all’idea (unica realtà vera), la sua esegesi si ispira alla ἀναγογή dionisiana che applica alla comprensione della Scrittura il processo platonico di ascesa al mondo ideale ».

Autore: Francesco Zambon
Pubblicazione:
Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore: Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 81-87
Vedi anche:

Il sapere e il sistema (2)

C’è un vero incantesimo della portata simbolica del numero e del significato magico della figura.
Gli esegeti alessandrini si servivano delle possibilità mistiche del numero nei commentari allegorici di alcuni testi. Tutti è composto secondo logos, ragione, ordine e misura. Sant’Ambrogio e sant’Agostino continuano l’esegesi impregnata dalla saggezza dei neopitagorici. I numeri collegano il miracolo del mondo creato e grazie a loro scopriamo il soprannaturale nel naturale, il creatore nelle proprie creature. I numeri contengono le leggi degli avvenimenti. Le relazioni conciliano le opposizioni.

I numeri creano un mondo ordinato, il cosmo, dai diversi esseri e cose. Lo spazio stellare e il fondo dell’anima umana sono regolati dal principio dell’ordine. Dio è geometra. Il costruttore di spazi e tempi è rappresentato con il compasso nella mano. Egli misura e disegna, armonizza i cerchi in cielo, in terra e sottoterra. La stereometria simbolica dell’inferno dantesco, quest’architettura abitata dal peccato, è una irruzione esemplare della geometria mistica nel testo letterario.

Ernest Robert Curtius, nella Letteratura europea ed il medioevo latino, commenta il ruolo del numero nella costruzione retorica e poetica. Dice: «La parola biblica ha consacrato il numero come fattore formale dell’opera creatrice divina. Esso ha ottenuto dignità metafisica. Questo è lo sfondo maestoso della composizione letteraria dei numeri… Numero
disposuisti. Il progetto divino era aritmetico! Non poteva allora anche lo scrittore ammettere di esser guidato dai numeri nella costituzione del proprio progetto? Ma trovo i momenti decisivi per la diffusione di questa tecnica compositiva nella concezione sacrale del numero, e poi nell’inesistenza di altre istruzioni per la dispositio. Applicando la composizione numerica l’autore medioevale otteneva un duplice scopo: l’asse formale della costruzione e oltre ad esso l’approfondimento simbolico».

Nel capitolo «La composizione fondata sui numeri», Curtius prova che la composizione numerica della poesia latina passa nelle opere di Cassiodoro e dura fino a Filelfo, con continuità di presenza in tutta la letteratura medioevale. Da qui essa irradia anche sulle letterature formate nelle lingue volgari. Secondo Curtius, la mirabile armonia della composizione numerica dantesca è soltanto l’apice di un lungo sviluppo. «Dalle eneadi della sua Vita Nuova Dante proseguì fino alla costruzione numerica artificiale della Divina Commedia: 1 33 33 33. I cento cantici guidano il lettore per tre regni, dei quali l’ultimo comprende dieci cieli. Le triadi e le decadi si sommano in un tessuto unico. Il numero qui non è una mera veste ma simbolo dell’ordine cosmico».

I numeri e le operazioni, le figure e le costruzioni nel medioevo non sono elaborati in un sistema di assiomi e postulati. Il numero non è esposto come elemento dell’operazione matematica, e la figura non è controllata dalla severità dei procedimenti euclidei. Ma dove mancano l’assioma ed il postulato c’è la regola della formula convenzionale e l’abitudine all’uso del contenuto simbolico. I significati simbolici non sono una mera intuizione o contemplazione dell’essenza, e nemmeno invenzioni o trovate spiritose. È possibile notare che gli uomini di tutti i tempi – e delle diverse regioni – danno un senso simile o identico a determinate relazioni e figure. Lo spieghiamo con il fatto che la realtà strutturale del numero e della figura diventa immediatamente il contenuto del segno. Il significato si deduce dalla composizione del significante. La preistoria e Babilonia, Egitto e Grecia, il medioevo e l’America precolombiana come anche le tribù primitive di tutti i cinque continenti qualche volta indicano lo stesso significato con lo stesso segno.

Gli archetipi identificano la struttura nel segno e nel significato. L’antichità cristiana ed il medioevo ogni tanto prendono ad litteram i segni del tesoro generale antico e senza difficoltà usano le particolarità aritmetiche e geometriche della loro struttura per i propri fini specifici. I segni ricavati qualche volta si trasformavano secondo concezioni ed esigenze cristiane.

Entrando in un nuovo contesto culturale i segni ricevono significati più ampi o più stretti. E similmente avviene con il sincretismo dei simboli pagani e cristiani nel periodo dopo l’immigrazione dei popoli. Il cristianesimo non si diffuse mai tra i popoli pagani soltanto grazie alla pressione della spada e del fuoco. La nuova fede s’innesta sulle credenze tradizionali. La religione accettata completa e purifica l’inventario preesistente delle percezioni simboliche.

Durante tutto il medioevo continua il pensiero che le cose sono belle quando in esse vi è l’armonia dei numeri e dei rapporti numerici. Pulchritudo enim est aequalitatis. La bellezza è rapporto numerico, come ancora nel secolo XIII ci insegna san Bonaventura. Tutti gli esseri hanno forme, perché hanno numeri. Questo pensiero agostiniano afferma anzi che le cose terminerebbero d’esistere se fosse tolta loro l’essenza del numero. I numeri sono incorporei. Le forme sono immagini, arnesi e tracce della saggezza numerica divina. «Ma tu ordinasti tutto secondo il numero, peso e misura» (Libro della Sapienza 11, 20). Nello stesso libro perciò logicamente si conclude: «Perché secondo la grandezza e la bellezza delle creature possiamo immaginare per similitudine anche il loro Creatore» (13, 5).

Autore: Nenad Gattin; Mladen Pejaković
Pubblicazione:
Le Pietre e il Sole
Editore
: Jaca Book
Luogo: Milano
Anno: 1988
Pagine: 237-239
Vedi anche: Il sapere e il sistema (1)

Il microcosmo e il macrolibro (6)

Ecco allora di fronte a noi, ancora una volta, la piccola leggiadra, effimera, ammonitrice rosa poetata da Alano. La rosa che nel mentre la sua avvenenza fa mostra di sè, tosto comincia a spogliarla di ogni leggiadria l’età in cui precipita: “Cuius decor dum perorat / eius decus mox deflorat / aetas in qua defluit”. E si faccia attenzione a come il fuggitivo destino della rosa vien percepito come suono prima ancora che ragionatamente appreso come significato e perciò si comunica anche a chi il significato non sia in grado di comprendere discorsivamente: percepito, emozionalmente percepito, nel giuoco di allitterazioni fra i due sinonimi decor e decus, nominativo uno, accusativo l’altro; e nelle prime sillabe, con le consonanti che le seguono, di defluo e defluit.

Imitatore di Dio, autore del grande libro che è l’universo, possiamo allora riconoscere il poeta che, nella bellezza della sua fattura, mostra la propria sapienza poetando la rosa. La rosa, cioè tutte le rose. La rosa come immagine scritta digito Dei: poiché alla singola rosa che cade sotto i nostri sensi possiamo riferire quello che più avanti, nel capitolo quindicesimo, Ugo dirà della bellezza delle cose molteplici: che tutte sono fatte così bene quasi fossero fatte ciascuna singolarmente, così che, osservando il complesso di tutte le realtà, si può ammirarle ad una ad una: “sic facta sunt omnia, quasi facta sint singula, ut cum universa aspexeris, singula mireris”. È imitatore di Dio, il poeta che mostra la propria sapienza nel metamorfizzare in significante bellezza di parole la significante bellezza delle cose del mondo (la rosa di Alano), in quanto delle cose si fa interprete e ne svela il significato per utilità degli uomini: così dando prova, oltre che di sapienza, anche di benignità.

Ma torniamo a leggere il trattato di Ugo, che non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni studioso di estetica, talmente ricco esso è di pensieri, come si potrebbe dire con metafora presa in prestito dalle scienze naturali, di elevata valenza: capaci, cioè di combinarsi con altri maturati in clima diverso, e dare vita a inattese combinazioni speculative. Pensieri, insomma, fertili pur quando trapiantati in un terreno differente da quello d’origine. E stimolanti, poi, anche nelle direzioni più impensate. Stimolanti, sicuro, per noi, che in un modo o nell’altro, stiamo pagando il prezzo di averlo per troppo tempo considerato un deposito di risorse materiali da usare, e una volta usate buttarle in discariche che sempre più moltiplicandosi, sempre più l’una all’altra avvicinandosi, rischiano di trasformarlo tutto in una discarica sterminata, il mondo nel quale dobbiamo pur continuare a vivere, magari una discarica cui si intramezzino cimiteri di macchine. Come non accarezzarla in mente, l’idea di pensarlo, il mondo, come lo pensava Ugo? Un immenso codice variopinto, ove davvero ridano le carte, per disegni e colori e indorature. “Délectât enim me, quia valde dulce et iucundum est de his rebus frequenter agere, ut simul et ratione eruditur sensus, et suavitate delectatur animus, et aemulatione excitatur affectus…”.

Così sta scritto nella prima pagina di quello stesso capitolo quarto dei Tre giorni dell’invisibile luce, ove già abbiamo letto la definizione del mondo come libro, preceduta dai versetti del Salmista. E forse può anche esser gradito rilegger lo stesso pensiero nella traduzione italiana del Liccaro: “Mi procura gioia infatti trattare frequentemente di queste cose, poiché è molto dolce e piacevole: in questo modo infatti è possibile perfezionare con la ragione anche la sensibilità, ed insieme si allieta lo spirito e si suscitano sentimenti sempre più fervidi…”.

Letteratura, diranno. E magari: cattiva letteratura. “Retorica”. Ma Ugo da San Vittore, in quanto filosofo, era platonico. E mistico. E i filosofi del coté platonico, che misticheggianti lo sono un po’ tutti, sono per vocazione filosofi-scrittori, e poco o nulla filosofi-scientifizzanti. Quanto a Ugo, poi, scrittore lo era, e grande prosatore. Dai soli Tre giorni dell’invisibile luce si potrebbe ricavare una piccola raccolta di pagine letterariamente dilettose, ma non per questo prive di profondità: basterebbero i capitoli XII e XIII, rispettivamente sui colori e sui suoni, sugli odori. La terra a primavera, con lo smalto dei fiori, e i profumi, il canto degli uccelli. E “i piacevoli scambi di discorsi” “dulcia sermonum commercia, quibus homines adinvicem suas voluntates communicant, praeterita narrant, praesentia indicant, futura nuntiant, occulta revelant…”.

Ma non possiamo dilungarci nella lettura: ci contenteremo soltanto di sottolineare, è un passo fra i più citati di Ugo da San Vittore, l’interpretazione del color verde e del suo significato: “quomodo animos intuentium rapit, quando vere novo, nova quadam vita germina prodeunt, et erecta sursum in Spiculis suis quasi deorsum morte calcata ad imaginem futurae resurrectionis in lucem pariter erumpunt” (“come rapisce l’animo di coloro che lo guardano, quando i germogli si aprono nella nuova primavera ad una nuova vita, ed erigendosi verso l’alto con le loro foglioline appuntite si levano tutti insieme verso la luce, quasi sprezzando in basso la morte e raffigurando un’immagine della nostra futura resurrezione…”. Una pagina miniata, nel macrolibro del mondo: a riscontro, magari, con l’altra miniatura, la rosa di Alano, che ha un significato contrario.

Il visibile, ancora, come scrittura che dice a noi l’invisibile. Ed è abbastanza significativo che la definizione del mondo come libro compaia in un contesto nel quale si parla della bellezza: la significazione allegorica delle figure onde è contesta quella straordinaria opera d’arte che per Ugo è il mondo (da un suo accenno alle opere dell’arte umana, verso la fine del capitolo XII, sembrerebbe risultare che non le tenesse in grande considerazione) non si sovrappone come qualcosa di estrinseco alla sensibile apparenza delle creature (è questa, l’obiezione moderna all’allegorismo medioevale), ma anzi consiste proprio in quello che delle sembianze mondane tutte fa oggetto di dilettazione estetica: la bellezza come manifestazione della sapienza divina.

Nella sua trattazione sulla Estetica letteraria del Medioevo Europeo (Die literarästhetik des europäischen Mittelalter, II ed. postuma, Francoforte, 1963; l’autore era perito sul fronte russo nel 1944), Hans H. Glunz mise in evidenza come questo concetto sviluppi, nella scolastica parigina del dodicesimo secolo, una tradizione che risale all’età carolingia, e di cui, possiamo aggiungere, tra i primi enunciatori era stato Giovanni Scoto Eriugena: e di un pensiero di Scoto la pagina di Ugo sul mondo come libro sembra in qualche modo avere in se come un’eco: “universalis huius mundi fabrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex multis lucernis compactum, ad intelligibilium rerum puras species revelandas…” (Expositiones Johannis Scoti super ierarchiam coelestem S. Dionysii, in: Patrologia Latina, 122, 129). E Scoto Eriugena, oltre che commentatore, era stato il primo traduttore delle opere dello pseudo-Dionigi Areopagita: del quale Ugo, nel capitolo IV, a suo modo, riprende la definizione della bellezza assoluta (la bellezza invisibile): “quella bellezza egli dice che è la più bella di tutte le cose belle: così mirabile ed inesprimibile, che nessuna bellezza transitoria, anche se autentica, le può essere confrontata” – se vogliamo leggere il testo: “pulchrum illud, pulchrorum omnius pulcherrimum, quod tam mirabile et ineffabile est, ut ad ipsum omnis pulchritudo transitoria, etsi vera sit, comparabilis esse non potest”.

Dovremmo, a questo punto, tornare ancora una volta a leggere lo pseudo-Dionigi, il cui trattato sui Nomi divini fu il tramite per la diffusione, nel Medioevo Cristiano, della definizione dell’assoluta Bellezza, come Platone l’aveva formulata nel Convito.

Sarebbe un discorso assai lungo, ancorché affascinante.

Autore: Rosario Assunto
Pubblicazione:
Musica e architettura nel pensiero medievale
Editore
: Cesare Nani
Luogo: Lipomo (Como)
Anno: 1994
Pagine: 36-39
Vedi anche:
Assunto – Il microcosmo e il macrolibro (1)
Assunto – Il microcosmo e il macrolibro (2)
Assunto – Il microcosmo e il macrolibro (3)
Assunto – Il microcosmo e il macrolibro (4)
Assunto – Il microcosmo e il macrolibro (5)

Simboli e immagini dissimili in Dionigi Areopagita

Lo sforzo ermeneutico dionisiano per illustrare la corretta decodifica delle immagini simboliche scritturali, tuttavia, ha come oggetto privilegiato d’analisi una peculiare categoria di σύμβολα, la cui natura bizzarra e scabrosa richiede una particolare attenzione esegetica: i simboli dissimili.

Mentre il fuoco, il sole o le figure angeliche costituiscono casi di realtà dotate di una qualche nobiltà, in alcuni capitoli del De coelesti hierarchia e nell’Epistula IX vengono prese in considerazione le immagini, come il verme, l’orso, la pantera e l’ebbrezza che, pur rimandando a Dio, come attestano le Scritture, appaiono del tutto difformi dalla perfezione della natura tearchica.

Dionigi attribuisce a tali immagini sconvenienti una particolare importanza e una grande utilità teologica.

La dignità dei simboli simili (caratterizzati, in ragione della propria nobiltà, da una qualche somiglianza con il loro referente ultimo), nota Dionigi, produce il rischio che l’esegeta incauto li consideri riflessi adeguati e pieni della realtà tearchica alla quale rimandano, facendo, così, dimenticare l’insuperabile dissomiglianza tra ogni ἐικών e il paradigma da essa riprodotto; ogni significazione simbolico-immaginale, infatti, è irrimediabilmente segnata dall’inadeguatezza tra la sostanza significata, appartenente a un superiore livello onto-henologico, e la realtà significante, proveniente da un inferiore ordine cosmico.

Il simbolo dissimile, invece, in quanto costituito da realtà vili o mostruose, impedisce a colui che lo interpreta di cadere nell’errore di ritenere il segno traslato (il dispositivo simbolico quale realtà sensibile) capace di esprimere in modo adeguato il proprio referente (la sostanza celeste).

Il simbolo dissimile, nota Roques, mostra così il limite proprio di ogni dispositivo simbolico: il σύμβολον non può significare pienamente l’autentica natura della realtà simboleggiata. Roques sintetizza bene tale condizione del dire simbolico, affermando che il simbolo stesso opera solo sul piano della relazione di similitudine, capace di evocare, e non su quello dell’identità univoca.

In questo modo simboli dissimili e teologia negativa appaiono come metodologie di indagine del divino tendenzialmente convergenti.

Il movimento della teologia negativa, infatti, si configura come una sottrazione progressiva di ogni positività alla realtà divina. L’esempio che Dionigi porta per illustrare questo processo è quello, già plotiniano, della scultura: per trovare la bellezza che si cela nel marmo lo scultore toglie le parti di materia in eccedenza sino a condurre alla luce la forma in esso nascosta. Il termine dionisiano per indicare l’operazione di eliminazione della materia in eccesso nell’esempio della statua è proprio ἀφαίρεσις, ovvero “negazione”: la bellezza divina si disvela nel negare tutte le qualità e i predicati finiti lasciando il divino nella sua trascendenza inesprimibile.

Il simbolo dissimile costituisce, invece, il tentativo di elaborare una definizione della natura divina attraverso il medium di realtà semioticamente qualificate, la cui natura mostruosa denuncia la difformità di ogni creatura rispetto al proprio Creatore. Questo tentativo, quindi, si accompagna sempre alla coscienza della sua insufficienza aprendo la via a una sospensione apofatica del dire e al raggiungimento del silenzio mistico.

La teologia negativa appare, così, come la verità del dire simbolico: ogni tentativo di descrivere il divino deve essere colto nella sua inadeguatezza attraverso la coscienza dell’ineffabilità del referente ultimo di ogni discorso simbolico.

Autore: Francesco Paparella
Pubblicazione: Le teorie neoplatoniche del simbolo. Il caso di Giovanni Eriugena
Editore
: Vita e Pensiero (Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e Testi, 111)
Luogo: Milano
Anno: 2008
Pagine: 34-36

Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (1)

Simbolo e allegoria: la distinzione fra questi due concetti quale è comunemente praticata oggi risale a elaborazioni teoriche relativamente recenti e la sua formulazione, da Coleridge o Goethe fino a Walter Benjamin, appare sempre in larga misura coinvolta nelle problematiche moderne relative all’ermeneutica e alla filosofia del linguaggio. Non poche riserve suscitano perciò, pur con tutti i meriti che è giusto riconoscergli, i numerosi tentativi che sono stati fatti di applicarla anche alla civiltà e ai testi medioevali – tentativi che poi, molto spesso, hanno condotto a inestricabili confusioni fra la terminologia medioevale e quella di matrice romantico-idealistica. Tipiche, in questo senso, sono le pagine dedicate da Huizinga al simbolismo medioevale: adottando la distinzione goethiana tra simbolo e allegoria, e intendendo con quest’ultima nient’altro che la personificazione di idee astratte, egli non soltanto le attribuisce un valore estraneo a quello che il termine possedeva nel medioevo ma, come ha giustamente rilevato Jauss, finisce anche con il precludersi irrimediabilmente la possibilità di una sua corretta comprensione. Molto opportunamente avvertiva Henri de Lubac, in una ricerca sull’allegoria medioevale, che « nessuno studio storico può rinunciare ad adottare, almeno in un primo tempo, anche nelle sue sottigliezze e financo nelle sue improprietà o ingenuità, il vocabolario degli autori sui quali verte ».

Ma quali indicazioni può offrire, in proposito, il ricorso alle teorie cristiane dell’interpretazione? È legittima, e su quali basi, una distinzione tra allegoria e simbolo nel medioevo? Occorrerà innanzitutto precisare che allegoria, nell’ermeneutica antica e medioevale, è in senso lato la figura retorica che consiste nel far intendere qualcosa di diverso da ciò che si dice: « tropus ubi ex alio aliud intelligitur », dice sant’Agostino seguito da tutti gli esegeti cristiani. Essa finiva così per comprendere in sé ogni forma di simbolismo e di espressione metaforica. E per questo motivo, Jean Pépin ha giudicato impossibile ogni distinzione tra simbolo e allegoria nell’ambito dell’ermeneutica cristiana: « l’immensa estensione della nozione così caratterizzata – egli osserva – non consente di collocare al di fuori di essa il concetto di simbolo, tanto che ogni contrapposizione fra i due termini appare prematura ». Quest’ultima, egli spiega, diventa possibile soltanto qualora si intenda per allegoria, anacronisticamente, l’astrazione personificata. Ma qui Pépin sembra non tener conto del fatto che, nel medioevo, il termine allegoria
veniva usato anche in un’accezione più specifica, che ne definiva il carattere propriamente cristiano. Avverte infatti san Tommaso che « allegoria sumitur aliquando pro quolibet mystico intellectu, aliquando pro uno tantum ex quatuor qui sunt historicus, allegoricus, mysticus et anagogicus, qui sunt quatuor sensus sacrae Scripturae ». Quando si parla di allegoria cristiana, è a questo secondo significato che occorre riferirsi: e più legittima apparirà, allora, anche una sua distinzione dal concetto di simbolo. Alcuni testi di Giovanni Scoto Eriugena si rivelano, in questa prospettiva, eccezionalmente densi di implicazioni.

Qual era, dunque, il significato dell’allegoria propriamente cristiana – dell’allegoria intesa come il secondo dei quattro sensi tradizionali della Scrittura? È agevole desumerlo dall’imponente documentazione raccolta in proposito da Henri de Lubac: l’allegoria cristiana è la profezia inclusa negli eventi storici del Vecchio Testamento, cioè la prefigurazione di Cristo e della Chiesa che san Paolo ha insegnato a riconoscere nella storia del popolo ebraico. L’oggetto dell’allegoria è dunque il Nuovo Testamento e la dottrina che apertamente vi è rivelata, ossia la dottrina della Chiesa: « allegoria – scrive Onorio di Autun – cum de Christo et Ecclesia res exponitur ». Il senso allegorico, sottolinea Lubac, è per eccellenza il senso dottrinale e « si può quindi definire la fede cristiana come allegorica doctrina ». Esso garantisce l’insegnamento dogmatico come necessario compimento delle profezie contenute nella Scrittura — profezie di cui l’incarnazione di Cristo è la sola e perfetta interpretazione. Il rapporto allegorico si istituisce perciò tra due eventi storici egualmente reali: uno appartenente all’ordine della Legge, l’altro all’ordine della Grazia. Si tratta di una « opposizione del tunc (passato) al nunc. Opposizione nella durata, e in pari tempo relazione tra segno e cosa significata ». Ma relazione, si badi, necessaria e ‘provvidenziale’: ciò che l’allegoria cristiana sottintende non è tanto un legame arbitrario tra un significante e un significato qualsiasi, quanto invece un piano divino – il ‘piano della salvezza’. Essa è insomma, essenzialmente, una allegoria facti e non soltanto una allegoria dicti: e proprio l’ineluttabilità storica del rapporto così istituito promoveva la Chiesa a sua unica legittima interprete. Nessuna confusione doveva essere possibile tra l’allegoria cristiana e quella dei ‘pagani’, presso i quali il metodo allegorico già si applicava alla mitologia e alle finzioni poetiche: mentre per questi ultimi le narrazioni mitologiche erano, come dice Teone di Alessandria, soltanto « un discorso mendace esprimente la verità in immagine », per i cristiani l’interpretazione allegorica non intaccava assolutamente la veridicità dei fatti narrati nel Vecchio Testamento. Quando per primo in ambito cristiano san Paolo parlò di ἀλληγορούμενα a proposito dei due figli di Abramo, figure dei due Testamenti, egli non intese affatto negarne la realtà storica, ma solo affermarne la natura profetica, figurale. Lo ricorderà concisamente sant’Agostino: «Ubi allegoriam nominauit [Apostolus], non in uerbis eam reperit, sed in factis ».

La sottile, ma capitale, distinzione tra allegoria in factis (o facti) e allegoria in uerbis (o dicti) nella teoria medioevale dell’esegesi è stata recentemente studiata da Armand Strubel, il quale ne ha percorso lo sviluppo attraverso le formulazioni di tre scrittori latini, trascelti come emblematici: sant’Agostino, Beda il Venerabile e san Tommaso. In Agostino, egli dice, la dicotomia non appare ancora compiutamente formalizzata: il termine allegoria è da lui usato ora per indicare semplicemente il senso ‘figurato’ del discorso, ora invece per designare la vera e propria tipologia cristiana. Nella citata allusione all’esegesi paolina dei figli di Abramo, essa sembra però delinearsi già con sufficiente chiarezza e, in un passo del De uera religione non addotto da Strubel, sant’Agostino accenna esplicitamente a una distinzione, che rimane tuttavia inesplicata, tra allegoria historiae e allegoria sermonis: « [Distinguamus ergo] – egli scrive – quid intersit inter allegoriam historiae et allegoriam facti et allegoriam sermonis et allegoriam sacramenti ». Sarà Beda a illustrarne il significato in un paragrafo del breve trattato De schematibus et tropis (12, PL 90, 184 D-185 A):

Bisogna notare che l’allegoria a volte è nei fatti, a volte nelle parole soltanto. Nei fatti, dove è scritto: « Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e l’altro dalla donna libera, e sono i due Testamenti » – come dice l’Apostolo. Nelle parole soltanto, nel capitolo XI di Isaia: « E spunterà un pollone dalla radice di Jesse, e un fiore dalla radice di lui si alzerà », con la quale espressione si intende dire che il Salvatore nascerà dalla stirpe di David per mezzo della Vergine Maria.

L’allegoria in factis, osserva Strubel, fa dunque « di un evento storico reale (Abramo ha avuto due figli) il simbolo di un altro evento: ci sono stati due Testamenti »; l’allegoria in uerbis invece è solo un’immagine, una metafora, « una somiglianza fittizia e contingente ». Per Beda, come del resto per Agostino, l’allegoria propriamente e inconfondibilmente cristiana è quella in factis: solo in essa il rapporto fra i due termini è essenziale, perché « tutto il senso viene […] da Dio, che ‘spiega’ il suo primo segno mediante il secondo ». Le ambiguità che ancora sussistevano nel De schematibus trovano un definitivo chiarimento nella dottrina di san Tommaso, il quale, privilegiando in modo ormai esclusivo l’allegoria in factis, giunge addirittura a includere quella in uerbis nel primo dei quattro sensi biblici: il senso storico o letterale.
Si tratta, come giustamente rileva Strubel, di una concezione « totale e anzi totalitaria » dell’interpretazione, che « lascia alla creazione letteraria [e, più in generale, al testo metaforico, alla ‘ finzione ‘] solo uno spazio ridottissimo: quello del senso letterale figurato […], ed esprime l’idea della superiorità assoluta dell’arte divina ». L’allegoria in uerbis
appare qui non soltanto sottovalutata rispetto a quella in factis, ma anche definitivamente esclusa dall’ambito dell’allegoria cristiana e ridotta a semplice ornamento retorico, tropo, artificio formale.

Autore: Francesco Zambon
Pubblicazione:
Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore: Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 75-81

La simbologia procliana e la nozione di ‘simile’

Proclo distingue nettamente tra la somiglianza che connette l’immagine (εἰκών) alla realtà che da essa è significata e l’analogia simbolica, che è sempre connessa alla relazione del dissimile con il dissimile.

Per comprendere quale sia in Proclo la differenza tra la somiglianza dell’εἰκών e l’analogia del σύμβολον, nonché la specifica natura del simbolo stesso, si deve far nuovamente riferimento al passo del commento del Diadoco al Timeo.

Analizzando questo passo e ponendolo in relazione con altri luoghi del medesimo testo, James Coulter, infatti, nota che la differenza tra immagine e simbolo in Proclo è quella tra una δήλωσις, ovvero un mostrare e un far apparire chiaramente (qualifica che conviene all’immagine), e un indicare segretamente (definizione che spetta al simbolo). I due elementi a cui Proclo fa riferimento nel primo libro del commento al Timeo – la sintesi della dottrina intorno allo stato ideale descritto nella Repubblica e la leggenda della lotta tra Ateniesi e abitanti di Atlantide – costituiscono esempi di entrambe le tipologie di discorso: la ricapitolazione della natura dello stato ideale è una δήλωσις e viene definita da Proclo un’immagine (εἰκών) dell’interna organizzazione del cosmo, mentre il resoconto della battaglia tra cittadini di Atene e di Atlantide rappresenta una νδειξις, ovvero una indicazione misteriosa, da considerarsi espressione simbolica dei medesimi processi cosmici. Nel primo caso l’immagine si fonda su una somiglianza (μοα) tra i termini che essa pone in relazione (organizzazione della stato e processi naturali); nel secondo tale affinità non è più riscontrabile.

Coulter poi sottolinea l’ambiguità che il termine “somiglianza” possiede, sia nel lessico greco che in molte lingue moderne. L’espressione “rassomigliare” o “essere simile” può essere intesa come una replica o un facsimile di una realtà che è modello della propria copia. La nozione di simile, tuttavia, può essere impiegata, con uguale legittimità, anche in similitudini o analogie che non producono una copia mimetica del proprio referente; dire, ad esempio, come fa Platone nel Fedro,
che l’anima assomiglia a una biga trainata da due cavalli, non significa pensare che tale immagine sia una replica esatta di natura fotografica o enantiomorfica della sostanza psichica umana. La somiglianza e la nozione di “immagine” che ad essa si lega, quindi, indicano in Proclo non la copia, ma una similitudine che si fonda su una relazione analogica (per impiegare ancora l’espressione di Coulter); questa seconda valenza del termine “immagine” si colloca così in un’area semantica molto vicina a quella del moderno concetto di allegoria.

Tanto la nozione di εἰκών quanto quella di σύμβολον sembrano essere fondate su tale particolare accezione di “somiglianza”.

Nel commento procliano al Timeo,
infatti, il parallelo tra stato ideale della Repubblica e natura del cosmo (l’εἰκών) non sembra poter essere affatto inteso come una immagine enantiomorfica, ma piuttosto come una forma di relazione analogica o di allegoria.

Alla medesima nozione di somiglianza rinvia, d’altronde, anche un’altra peculiare accezione di εἰκών che è presente nei testi procliani, ovvero quella in cui è considerato immagine ogni livello inferiore della realtà nel suo rapporto con le ipostasi ad esso superiori.

Proclo fornisce un interessante esempio di tale valore di εἰκών nel commento al primo libro degli Elementi di Euclide. Il Diadoco afferma in questo scritto, infatti, che le figure geometriche e le nozioni matematiche sono immagini del superiore mondo intelligibile; la conoscenza dei λόγοι matematici fornisce un sapere attraverso immagini (διὰ τῶν εἰκόνων) delle sostanze intelligibili.

Tale natura dell’εἰκών è ulteriormente chiarita nella Elementatio theologica. In questo scritto viene posta a tema una divisione triadica della realtà; all’interno di tale struttura, l’inferiore è presente nel superiore in quanto esso è sua causa e archetipo, ma il superiore è presente nell’inferiore attraverso la partecipazione secondo l’immagine. Esempio significativo di tale rapporto tra superiore ed inferiore è costituito, all’interno della stessa Elementatio,
dalla natura e dai caratteri dell’anima; ogni sostanza psichica, viene infatti affermato nella proposizione 195, è al tempo stesso modello e immagine. L’anima precontiene gli enti ai quali preesiste, divenendo paradigma delle realtà ad essa inferiori; la presenza nella sostanza psichica degli enti a lei gerarchicamente sottoposti avviene in modo conforme alla natura dell’anima stessa, cosicché essa precontiene in modo immateriale le cose materiali, in modo incorporeo le cose corporee e in modo adimensionale le cose spazialmente determinate. L’anima possiede, invece, come derivati, i principi appartenenti al mondo intelligibile dai quali ha tratto la propria esistenza. L’anima è così immagine della sfera noetica che viene riprodotta in modo depotenziato e frammentato.

La ragione per cui il rapporto tra differenti livelli ipostatici è definito come una relazione tra un oggetto e la sua immagine, è data proprio dalla similarità che unisce i due termini della relazione κατὰ εἰκόνην. Declinata all’interno della relazione causale tra enti appartenenti a diversi livelli cosmici, l’immagine, in quanto realtà causata, possiede le medesime caratteristiche del proprio principio, sebbene in una forma depotenziata.

Tale similarità, tuttavia, non può essere concepita come quella che si prοduce in una copia mimetica perfetta o in un facsimile. La similitudine che intercorre tra effetto e causa sembra essere definita dalla stessa analogia che regola εἰκών quale discorso traslato: si tratta di una condivisione di determinate proprietà e di un’uguale organizzazione interna propria del modello rappresentato e della sua immagine. In questo modo, in Proclo la stessa realtà concreta, in quanto immagine inferiore di un superiore livello dell’essere, si presenta quale similitudine fondata sulla ratio dell’analogia.

La riflessione di Coulter sull’ambiguo valore semantico della similitudine e sulla necessità dell’attribuzione di un corretto significato all’orma di cui parla Proclo, conduce a ripensare la differenza tra simbolo e immagini comprendendo meglio la natura della stessa significazione simbolica.

Il σύμβολον opera, come più volte sottolineato, in base ad un nesso analogico (analogically grounded similarity)
che unisce segno e referente.

Se anche l’εἰκών non è copia enantiomorfica della realtà che riproduce, ma risulta fondata su una similitudine allegorico-analogica nei confronti della realtà della quale è immagine, la differenza tra la similitudo diretta e chiara, che si può rinvenire nell’εἰκών stesso, e quella oscura e dissimile propria del σύμβολον, deve consistere unicamente in un differente grado di complessità nella decifrazione dell’allegoria alla base dell’immagine e del simbolo.

La somiglianza che intercorre tra l’immagine e la realtà da essa raffigurata, elemento che caratterizza l’εἰκών e lo distingue dal simbolo, deve essere intesa come la facilità di decodifica dell’allegoria costruita dall’εἰκών stesso quale dire traslato, il cui referente nascosto è di immediata individuabilità. Il σύμβολον, invece, sarà rappresentato da quei casi di significazione traslata la cui decifrazione è complessa; la similarità tra σύμβολον e simboleggiato, ovvero la relazione allegorica dei termini nella significazione simbolica fondata su un nesso analogico, infatti, risulta celata al di sotto di un’apparente difformità e opposizione. Il simbolo, quindi, è caratterizzato da un’analogia “difficile”: il σύμβολον è sì simile (ἀπεικάζω) al proprio referente, ma tale rassomiglianza non è a “prima vista” evidente, risultando celata sotto il velo di particolari scabrosi e immagini mostruose.

Lo stesso Proclo fornisce un’illustrazione del funzionamento del dire simbolico nei commentari alla Repubblica, permettendo così di comprendere meglio la ratio che lo sostiene. Gli eventi scabrosi e indecenti narrati nei miti, continua Proclo, devono essere riferiti alla natura degli dei: poiché tale natura è perfetta e pura, quei fatti devono essere riletti in modo ermeneuticamente adeguato. Proclo fornisce la sua interpretazione dei miti omerici e antichi decifrandoli, quindi, come veli che nascondono la vera conoscenza di natura intellettiva sugli dei. In questo modo la caduta di Efesto dall’Olimpo allude alla processione di tutto il reale, sin agli enti più umili, dal divino; l’essere gettati non deve, allora, essere concepito come un moto violento, ma quale riferimento al procedere della dynamis divina che conduce tutte le cose alla generazione. L’essere ridotto in catene, di cui si parla nel racconto mitico di Crono, invece, significa nel mondo materiale l’impossibilità di muoversi liberamente; quando tale stato è riferito alla dimensione intelligibile propria degli dei, però, deve essere letto come il costante contatto e l’unione con le cause e l’Uno ineffabile. Sia nella caduta di Efesto che nell’incatenamento di Crono, i fatti mitici possiedono una somiglianza con le verità metafisiche che l’interprete deve cogliere: l’azione del cadere “rimanda” alla discesa della dynamis dai principi divini in quanto entrambe compiono il percorso dall’alto verso il basso; l’incatenamento di Crono “riproduce” il rapporto di costante comunicazione tra tutti gli esseri del cosmo, dal momento che entrambi si presentano come un “restare uniti”.

Autore: Francesco Paparella
Pubblicazione: Le teorie neoplatoniche del simbolo. Il caso di Giovanni Eriugena
Editore
: Vita e Pensiero (Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e Testi, 111)
Luogo: Milano
Anno: 2008
Pagine: 29-32

Immagine e simbolo in Proclo: il racconto mitico

La medesima distinzione tra rappresentazione eicastica e significazione traslata viene messa a tema da Proclo, ancora all’interno del commentario alla Repubblica, attraverso la distinzione tra due differenti tipologie di racconti mitici. Il Diadoco, infatti, afferma che esistono miti di natura paidetica,
ovvero adatti all’educazione dei più giovani, e quelle enteastici,
ispirati dalla divinità. I miti paidetici corrispondono alla dimensione della comunicazione mediante εἰκόνες, immagini; tale tipologia di miti si fonda su una somiglianza e una relazione evidente e diretta tra segno (il discorso mitico) e il suo referente (la verità che viene espressa nel mito stesso). I miti educativi, quindi, utilizzano simboli simili (letteralmente “l’elemento più simile all’interno dei simboli”) e immagini (εἰκόνες) per dare indicazioni morali ai giovani.

I miti enteastici, invece, sono definiti da Proclo come “simboli dissimili” (ἀπεμφαινόντοι) e segni segreti ed indicibili (ἀπόρρητα συνθήματα). Tali miti permettono di cogliere una parziale manifestazione della monade originaria e delle realtà divine (Proclo precisa, infatti, che essi racchiudono una grande potenza, ἠλίκη δύναμις), mediante un complesso meccanismo semiotico. Le vicende simboliche narrate nei miti ispirati sono dissimili rispetto ai reali referenti ai quali esse rimandano; il meccanismo che fonda il rapporto tra simbolo e realtà simboleggiata deve, infatti, essere identificato con il principio dell’opposizione, in ragione del quale il dissimile è richiamato dal dissimile. I simboli, quindi, nella misura in cui sono simboli, afferma Proclo, non possono essere immagini somiglianti (μιμήματα) delle cose da essi simboleggiate, ma rimandano attraverso una apparenza mostruosa (φαινόμενα τερατολογία) alle realtà intelligibili, veicolando una superiore conoscenza teologica.

II Diadoco, tuttavia, descrivendo la natura del simbolo e le modalità attraverso le quali esso rinvia al proprio referente, afferma che la relazione simbolica si fonda su un rapporto di analogia (δι’ ἀναλογίας μονῆς) e di simpatia, del tutto identico al principio metafisico che congiunge le ipostasi superiori del cosmo con quelle inferiori. I simboli, quindi, benché siano difformi dalla realtà alla quale rimandano, risultano a questa legati da un rapporto di analogia che fonda e rende possibile la stessa significazione simbolica.

Se, quindi, Proclo descrive l’immagine come la tipologia segnica che è genericamente somigliante alla realtà alla quale rimanda, il rapporto tra simbolo e cosa simboleggiata appare più complesso. Nel simbolo, segno e referente appaiono del tutto dissimili e opposti: i σύμβολα, al pari della poesia ispirata e dei miti enteastici, non devono essere decifrati secondo le leggi dell’imitazione (non sono una semplice mimesi delle realtà significate: in questo caso sarebbero veramente racconti scabrosi ed inaccettabili). Al tempo stesso, tuttavia, il simbolo appare connesso al proprio referente da una qualche similitudine, da una ratio analogica che Proclo avvicina alla “simpatia” universale. Una autentica comprensione del meccanismo della significazione simbolica richiede, quindi, una più approfondita analisi della categoria del “simile”, che pur comparendo più volte nei testi del Diadoco non è mai oggetto di una sistematica discussione che ne definisca la natura e faccia chiarezza della sua ambiguità semantica.

Autore: Francesco Paparella
Pubblicazione: Le teorie neoplatoniche del simbolo. Il caso di Giovanni Eriugena
Editore
: Vita e Pensiero (Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e Testi, 111)
Luogo: Milano
Anno: 2008
Pagine: 28-29

Marziano Capella: la difesa della cultura pagana e le artes cyclicae

Marziano concepì la stesura della sua opera enciclopedica, Le nozze di Filologia e Mercurio, anzitutto per fornire un compendio delle arti liberali al figlio, al quale riferisce un racconto narratogli da Satira, personificazione dell’omonimo genere letterario. Marziano e Satira discutono, litigano e ricostruiscono la vicenda delle Nozze che si dipana lungo nove libri in prosa, ma con numerosi inserti metrici, secondo lo stile della satira menippea. Il tono della narrazione alterna momenti aulici e solenni a uno stile leggero, divertito, segnato dall’ironia e anche dall’autoironia (come quando Marziano si descrive, in chiusura dell’opera, come avvocatuncolo di cause perse).

Le fonti alle quali Marziano attinse sono molteplici. È qui sufficiente ricordare Apuleio e Macrobio per la cornice narrativa e l’impianto filosofico, l’enciclopedista latino Varrone per le arti (la sua opera Sulle discipline è andata perduta), mentre Aristide Quintiliano è la fonte principale per la musica. Il racconto di Marziano è stato definito un romanzo teologico, costruito sulla base della tradizione filosofica neoplatonica e caratterizzato dall’uso costante dell’allegoria. Il carosello di simboli e personificazioni è ricchissimo, e l’ambientazione è quella della corte celeste della religione astrale. Allegorici, benché dalla simbologia non univocamente definita, sono anzitutto gli sposi, il dio Mercurio e la mortale Filologia, personificazioni il primo della parola coerente, del discorso retoricamente costruito, oppure anche dell’intelletto o del principio divino, la seconda della ragione umana o dell’anima. Le loro nozze sono parimenti allegoriche, simboleggiando l’ascesa dell’anima all’immortalità, grazie all’esercizio dello studio e della ragione. L’ingresso nei cieli di Filologia porterà alla sua divinizzazione, a seguito di una serie di prove che la giovane supera
ascendendo di cielo in cielo, e meritando infine, quale dote dello sposo, l’omaggio delle sette Arti. La fabula si snoda in una cornice narrativa che occupa i primi due libri – i più letti e commentati in età medievale e rinascimentale – e che riemerge negli altri sette, dedicati ciascuno a un’arte, opportunamente personificata; nell’ordine proposto da Marziano: Grammatica (libro III), Dialettica (IV), Retorica (V), Geometria (VI), Aritmetica (VII), Astronomia (VIII) e infine Armonia, cioè la musica (IX). Il quadro festoso del matrimonio, l’attesa delle prove da superare, la regalità del corteo di dèi e semidei, di eroi e di Arti, la ricca esposizione dottrinale sono il racconto edificante, il ponte che traghetta l’antica Paideia e la sua desolata compagna Filosofia da un mondo che stava inesorabilmente scomparendo a un altro che emergeva fra mille difficoltà, anche culturali (indocta saecula,
come annota Marziano). L’intellettuale pagano, alle soglie del V secolo, percepiva ancora il cammino di formazione attraverso i saperi come percorso sapienziale di aspirazione alla vita immortale. Così, fra consapevolezza del declino e fiducia totale nei propri valori in disgrazia, Marziano tesse un romanzo dell’anima: non solo quella allegorica di Filologia, ma anche la sua personale. Le Nozze fondono insieme ironia e tragedia, facendo trapelare anche al lettore moderno quanto fosse difficile, ma necessario, credere ancora nelle Muse e praticare le attività intellettuali nelle dirutae scuole filosofiche, fidando nella raffinata escatologia della religione astrale.

La scelta e disposizione delle arti operata da Marziano, soprattutto quelle del quadrivio, è alquanto originale. Nella tradizione nicomachea, che adotta a sua volta lo schema aristotelico di divisione delle scienze in teoretiche e pratiche, le matematiche sono disposte nella successione: aritmetica (scienza del numero in sé), geometria (scienza della grandezza in sé), musica (scienza del numero in relazione, o in movimento) e astronomia (scienza della grandezza in movimento), che sarà la sequenza più comune a partire da Boezio. In Marziano questa prospettiva è invece assente. È probabile che la sua inedita successione derivi da Varrone, anche se, a differenza di quest’ultimo, Marziano esclude le arti dell’architettura e della medicina (pur richiamandole esplicitamente nella lista delle artes cyclicae).
La scelta e la disposizione non sono affatto arbitrarie o casuali, ma del tutto coerenti con il disegno narrativo che impone la risistemazione delle arti secondo il cammino sapienziale di Filologia.

Partendo dalla formazione linguistica offerta dalle arti del trivio, fra le quali figura in posizione più alta Retorica, la scienza dell’eloquenza (non sorprende la preferenza dell’avvocato Marziano, la cui fonte principale è ovviamente Cicerone), Filologia penetra nel cuore delle discipline matematiche. Ma la chiave di lettura di queste arti non segue la natura del loro oggetto di conoscenza, come sarà in Boezio, quanto, invece, il percorso ascensionale del sapere, che parte dalle cose della terra e arriva a quelle del cielo. La polverosa e irsuta Geometria propone infatti una ricca esposizione geografica, basata su Plinio il Vecchio e Solino, in accordo con l’accezione romana e varroniana della disciplina, intesa etimologicamente come misurazione, e dunque anche descrizione, della Terra. La geometria euclidea, che Marziano concepisce come insieme di praecepta dell’arte geometrica è solo succintamente esposta in chiusura del libro. Pitagora invece (VII, 729]) e Platone, «che tra gli arcani spiega i caliginosi contenuti del suo Timeo» (VIII, 803]), sono i sapienti che pendono dalle labbra di Aritmetica. La disciplina è concepita come scienza del calcolo e delle misure di grandezza, la cui pratica è l’indispensabile trampolino di lancio verso lo studio del cielo. Ella è dunque fondamento delle altre arti, ma in senso assai diverso da quanto stabilito da Platone, Aristotele e Nicomaco: la sua astrazione dalla materia, che per quelli è sinonimo di perfezione, è invece per Marziano segno di versatilità, necessaria per il distacco dalle cose terrene e per la proiezione verso quelle celesti. Le dita sempre intrecciate e in movimento, la testa radiosa di raggi multicolori che ella magicamente riduce a unità, la veste che nasconde tutte le opere della natura: questi i tratti peculiari di Aritmetica, la quale manifesta sulla terra l’unità originaria delle molteplicità divine. Astronomia è l’arte che compie il salto verso il cielo; ma non senza esitazioni, come ella stessa chiarisce:

E infatti non credo che sia degno di verecondia e di correttezza spiegare i loro propri movimenti e percorsi a quelli che appunto si muovono e volere insegnare agli dèi quello che sono essi stessi a fare […]. Tuttavia, poiché il dovere verso il Cillenio [Mercurio], che mi educò e mi insegnò, non mi permette di tacere e dato che anche la sollecitudine per la sposa mi invita a
rivelare gli arcani della nostra materia, io non tacerò al vostro cospetto, o dèi del cielo, che vi sentirete esporre i vostri stessi cammini.
[VIII, 812-813].

Per un seguace della religione astrale, l’astronomia è cosmologia e teologia insieme. La competenza in quest’arte rivela la meccanica divina dell’universo, ponendo la ratio umana di fronte alla perfezione logica e matematica della causalità celeste. Ma l’uomo può compiere un passo ulteriore verso la sapienza che lo innalzerà agli dèi. Attraverso lo studio della musica potrà infatti cogliere il senso di tale universale perfezione. Ecco dunque che l’arte dei suoni porta infine a compimento il processo di formazione intellettuale di Filologia, e dunque della ragione umana. In Agostino la musica è la prima delle discipline del numero, poiché «assicura la mediazione dal sensibile all’intelligibile». In Marziano questa funzione è svolta da Aritmetica, come visto sopra. In Boezio e nella tradizione aristotelica la musica è la seconda arte, in ragione del suo oggetto “applicativo”. In Marziano, è l’ultima in ragione della sua natura. C’è, insomma, un elemento centrale nella concezione filosofica delineata nelle Nozze e che gradualmente si chiarisce nel progressivo avanzamento lungo la catena dei saperi umani: è l’armoniosa unità del mondo divino e del mondo naturale che l’uomo riesce a cogliere sempre più distintamente nel suo percorso sapienziale, il quale è, pertanto, anche un percorso di ritorno al cielo.

La musica, arte prediletta dagli dèi, è la conoscenza delle ragioni dell’armonia universale, per cui è il culmine e la mèta di questo erudito cammino.

Autore: Cecilia Panti
Pubblicazione:
Filosofia della Musica. Tarda Antichità e Medioevo
Editore
: Carocci (Studi Superiori, 541)
Luogo: Roma
Anno: 2008
Pagine: 50-53

Il microcosmo e il macrolibro (2)

Ho parlato di fascino, ricordando “omnis mundi creatura”, soprattutto in quanto ammirevole esempio di quella che con Dante chiameremo “fabricatio verborum harmonizatorum”. Per le rime, diciamo, che fonicamente congiungendo le desinenze di vocaboli aventi diversa e talora opposta significazione, sensibilizzano l’unità di quei due concetti, anticipando e ulteriorizzando rispetto alla discorsività razionale (creatura-pictura = Creaturapictura). E per certi versi di due parole che differiscono nella sola iniziale, ma nello stesso suono hanno significato contrario come contrarii sono nascita e morte, li unificano temporalmente nell’unità fonica dei due vocaboli, l’un l’altro specchiantisi: “oriendo moriens”.

Simultaneità dei due eventi, il nascere e il morire, significata dalla specularità delle sillabe che li designano e suona ammonimento ineludibile sulla caducità del nostro essere al mondo: quella caducità che poco prima era stata significata dall’unione di due concetti opposti nella quasi identità fonica dei vocaboli che li significano e pur essi fra loro differiscono solo per l’iniziale mortis e sortis “nostrae vitae, nostrae mortis / nostri status, nostrae sortis”. E poi, quell’insistito ripetersi, con significati opposti, della sillaba fio, che da floret a effloret, passando per defloratus, flos tramuta in inquietante sensazione acustica la fugacità, simbolo di quanto effimera sia la nostra esistenza, della vita della rosa “quae dum primo mane floret / defloratus flos effloret“.

O ancora: i ricorrenti, gravi rintocchi dell’avverbio bisillabo mane, “al mattino”: che momentaneamente si combina nella rima col genitivo “humanae” della nostra vita, ma verrà tosto respinto dal “sic aetatis ver humanae / juventutis primo mane / refiorescit paululum. / Mane tamen hoc excludit / vitae vesper dum concludit / vitale crepusculum …”.

Ma non ci attarderemo in una lettura critica minuta, sarebbe intempestiva, del resto, e qui fuori luogo, di tutta intera la Sequenza della Rosa. E nemmeno ci intratterremo più dello stretto necessario sulla figura del suo presumibile autore, Alano di Lilla.

Basterà ricordare che oltre a varie trattazioni speculative egli scrisse due romanzi filosofici esemplati sul De consolatione philosophiae di Boezio: il De planctu Naturae e l’Anticlaudianus (databile intomo al 1180): ove in meditante e maestosa andatura di esametri, anziché nel drammatico incalzare degli ottonari a rima accoppiata con cui hanno inizio tutte le strofe di Omnis mundi creatura e con meno serrato e meno frequente gioco di allitterazioni, la davvero ridente e fuggitiva vita dei fiori è pur sempre poetata come “fidele signaculum”. Non della condizione mortale di noi uomini, bensì dell’alterna vicenda cui inevitabilmente è esposto tutto ciò che soggiace alla volubile signoria della Fortuna e del Caso.

Così nell’isola ove la Fortuna ha dimora, i fiori animati dal soave aleggiar degli Zefiri subitamente li fa sfiorire l’infuriante Borea: Dum leni Zephirus inspirat singula flatu, / Sed cito deflorat flores et gramina saevius / Deperdit Boreas ubi, dum flos incipit esse, / explicit et florum momento fallitur etas …”. E nel bosco definito ambiguo, un albero rimane sterile nel mentre un altro fruttifica; si allegra questo di fronde nel mentre l’altro piange la non frondosa sua orfanezza; se uno verdeggia, molti ingialliscono; e quando alcuni si infiorano certi altri sfioriscono: “Hic nemus ambiguum diversaque nascitur arbor: / Ista manet sterilis, hec fructum parturit; illa / Fronde nova gaudet, hec frondibus orfana plorat; / Una viret, plures arescunt, unaque fioret, / Efflorent alie …” (Anticlaudianus, ed. Bossuat, VII, vv. 413-422).

Ma non così nei giardini attornianti la reggia ove risiede la Natura incorrotta. Compaiono, sì, nei versi che li descrivono, gli stessi vocaboli che fanno la tragica suggestività di Omnis mundi creatura, ed ugualmente si contrappongono: ma con minore concitazione di ritmo; e con qualche sostituzione che in certo modo li sdrammatizza: “nascendo moriens”, anziché “oriendo moriens” attenua la forza allitterativa che qui si affida solo alla desinenza dei gerundi; e la specularità è più concettuale che fonica: meno conturbante, perciò, alla lettura. E delle rose della terra apprendiamo, inclusi come sono, i versi che le rammemorano, nella descrizione celebrativa di quel luogo ove sempiternamente è stagione di fiori, di fronde e di frutti, che la passeggera loro bellezza è vera e propria mimesi, nel senso platonico, della imperitura bellezza di cui esse sono quaggiù messaggere.

E la bellezza di un luogo a noi remoto, “locus secretus”, “locus locorum”: il luogo di tutti i luoghi:
in cui rivestendosi di una delicata pelurie di fiori, (“pubescens tenera lanugineflorum“), costellata di fulgidi ornamenti, la terra imporporata dalle rose si adopera far di se stessa una novella immagine del cielo. Qui non subitamente svanisce la leggiadria del fiore appena sbocciato, del fiore che nasce morente, come la rosa, fanciulla al mattino, che al tramonto, già vecchia, declina: sempre invece conservando lassù il gioioso suo aspetto, in perpetuo la rosa ingiovanisce in grazia di quella eterna primavera:non ibi nascentis expirat gracia floris / Nascendo moriens; nec enim rosa mane puella / Vesper languet anus, sed vultu semper eodem / Gaudens, eterni iuvenescit munere veris …(I, vv. 61-67).

Nel suo profondo e dottissimo studio su Letteratura europea e latinità medioevale (Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, 1948), Ernst Robert Curtius ribadiva l’ipotesi, da lui in precedenza formulata, che l’Anticlaudianus di Alano sia stato una fonte diretta della Commedia: ed effettivamente, per non parlar della peregrinazione oltremondana di “Prudenza” o della descrizione dell’Empireo, già fa pensare al ventottesimo Canto del Purgatorio il paesaggio che attornia la Reggia della Natura, con il suo giardino di eterna primavera. Un paesaggio archetipale e topico, peraltro: che a leggerne tutta intera la descrizione, vi si potrebbe identificare un antecedente iconografico del tardogotico Giardino di Paradiso, anonimo dipinto del Quattrocento renano, oggi nello Stadel Institut di Francoforte: un quadro dove ogni creatura del mondo, ogni fiore, ogni pianta, è figurata come liber et speculum di un significato sopramondano, con facili rimandi al Mariale
di Alberto Magno.

Luogo nella terra dunque ma non più luogo della terra; luogo mondano e sopramondano ad un tempo, quel paesaggio poetato negli esametri di Alano certamente rammemora a noi la risposta di Matelda: “Quelli ch’anticamente poetaro / l’età dell’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro. // Qui fu innocente l’umana radice; / qui primavera sempre e ogne frutto; / nèttare è questo di che ciascun dice” (vv. 139-144). E anche il Bossuat nella Introduzione alla edizione critica dell’Anticlaudianus (1955), dichiara vrai semblable l’ipotesi che Dante, scrivendo la Commedia, si sia ricordato di Alano.

Autore: Rosario Assunto
Pubblicazione:
Musica e architettura nel pensiero medievale
Editore
: Cesare Nani
Luogo: Lipomo (Como)
Anno: 1994
Pagine: 27-29
Vedi anche:
Il microcosmo e il macrolibro (1)