Remigio di Auxerre († 908 ca.), discepolo e successore di Eirico, è il più fecondo autore di commenti di epoca tardo-carolingia. La sua attività si è svolta sui più diversi fronti: dai testi scritturali a quelli liturgici, dagli auctores classici alle opere di scuola sulle arti liberali (in particolare sulle discipline del trivio). Anch’egli contribuisce in modo tangibile alla divulgazione dell’eriugenismo – capillarmente diluito e diffuso, per il tramite inoffensivo di queste raccolte di glosse, nel mondo monastico fino al secolo dodicesimo – come si può constatare soprattutto dai commenti a lui attribuiti con forti margini di probabilità: quello a Marziano Capella, innanzi tutto, direttamente dipendente dalle Annotationes di Giovanni Scoto; quindi quelli al Genesi, a Prudenzio, a Sedulio, al De dialectica agostiniano; e infine, tra i più rilevanti, i due a Boezio: agli Opuscula e alla Consolatio: particolarmente interessante è soprattutto la sua lettura del nono carme del terzo libro di quest’ultima opera, il famoso O qui perpetua, in cui è proposta una densa esposizione riassuntiva della teologia e della cosmologia del Timeo platonico. In queste raccolte, la cui vasta diffusione fece di lui uno degli autori più letti nei due secoli seguenti, sono probabilmente confluiti i materiali su cui si basavano le lezioni che Remigio impartì, commentando verbalmente questi stessi testi, prima ad Auxerre, poi a Reims, dove fu chiamato dall’arcivescovo Folco (successore di Incmaro) per riorganizzare la scuola cattedrale, e infine a Parigi, dove ebbe tra i suoi ascoltatori anche il giovane Oddone di Cluny.
La vorace curiositas, che spinge Remigio ad ampliare al massimo le sue pedanti compilazioni, includendo idee, dati, pareri provenienti dagli scrittori che di volta in volta egli giudica autorevoli e specialisti nei diversi settori di studio, fa di lui un erede diretto del programma sapienziale carolingio fondato sulla sintesi di tutte le competenze e conoscenze utili per consolidare una descrizione classificatoria della verità in chiave cristiana. L’ideale della sapienza è ridotto in questi anni a un progetto di erudizione e pedagogia, fondato soprattutto sulla semplificazione e sull’apprendimento mnemonico. Importanza fondamentale hanno in questa prospettiva lo schematismo, la divisione del sapere e la classificazione delle discipline, il curriculum ordinato delle arti, che consentono una gestione ordinata e complessiva delle nozioni. La scuola non è più una fucina di idee, ma un archivio, dedicato a conservare e soprattutto a garantire l’unità del patrimonio culturale ereditato dal recente passato.
La rilettura che Remigio fa dell’esamerone nelle prime pagine del Genesi è una elementare sintesi delle informazioni fisico-cosmologiche circolanti in età carolingia. In questa forma Remigio dà il suo fondamentale contributo all’edificazione di una solida piattaforma elementare per la preparazione teologica degli uomini dell’Europa monastica, più accostabile e fruibile di quanto non siano le grandi elaborazioni concettuali di sapienza sistematica.
Prende così corpo soprattutto grazie al suo contributo, e si impone nelle scuole altomedievali senza troppe difficoltà e contestazioni, una concezione armonica, ma aliena da approfondimenti speculativi, dei rapporti tra il mondo creato e Dio creatore, nella quale il neoplatonismo eriugeniano si fonde con l’agostinismo e con le dottrine fisico-cosmologiche dei platonici tardo-antichi. Al centro di questa immagine dell’universo è sempre dominante il ruolo mediatore svolto dal Verbo, variamente presentato come Lógos, o Ratio divina, come divino exemplar a cui somiglianza il mondo è stato creato, come vita reale di tutto ciò che è (secondo il vocabolario del Prologo giovanneo) e come ars che il Padre, quale divino artifex, porta ad effetto nella creazione. Nel Verbo sono presenti le forme universali della realtà, idee o rationes, mentre lo Spirito Santo è l’efficacia operativa che le porta a compiere la loro produttività di essere negli effetti molteplici. Il creato è la dispositio universale, che riflette l’ordo perfetto pensato da Dio, comprensivo di entità spirituali e materiali, nella cui duplicità Remigio risolve il binomio eriugeniano quae sunt e quae non sunt, più volte riproposto come formula riassuntiva della creazione.
Remigio è insomma il testimone più rappresentativo della metamorfosi dell’ideale scolastico carolingio. Ma non è l’unico: fra i numerosi maestri che ne condividono metodo e impostazione, e che per la maggior parte rimangono anonimi, ci sono pervenuti alcuni nomi che meritano di essere ricordati. Per esempio Bovo (o Bovone), abate di Corvey (l’abbazia gemella di Corbie, in Sassonia), morto nel 916, che in un commento al solo metro boeziano O qui perpetua sottolinea energicamente le divergenze tra la fede cristiana e la dottrina schiettamente filosofica del carme: sapendo che Boezio è stato anche autore di opere sulla religione cristiana, egli risolve tale contraddizione suggerendo che è opportuno riconoscere che in questi versi egli «non ha affatto inteso discutere la dottrina insegnata dalla Chiesa cristiana, ma ha soltanto voluto esporre e far conoscere ai suoi lettori gli insegnamenti dei filosofi e soprattutto dei platonici».
Tale suggerimento è significativo, in quanto rivelatore di un mutamento di mentalità nel nuovo corso curioso ed erudito della cultura tardo-carolingia: Bovo è in fondo uno dei primi testimoni di una distinzione classificatoria tra sapere filosofico e sapere teologico, che consente di accostarsi ai filosofi antichi accettando che parlino da filosofi, senza timore di vedere per questo compromesse le certezze della religione cristiana.
L’influenza del nuovo metodo di lavoro scolastico è infine constatabile anche nelle famose traduzioni in anglo-sassone di testi latini opera del re del Wessex Alfredo il Grande († 899). Patrocinatore della cultura, amò circondarsi di uomini dotti provenienti dal continente. Le traduzioni di Alfredo – che assicurarono la diffusione in area linguistica anglosassone di importanti classici cristiani latini come la Consolatio di Boezio – sono in effetti accompagnate da importanti prefazioni illustrative simili agli accessus ad auctores; e più che versioni alla lettera, sono libere trasposizioni, con parafrasi, omissioni e non di rado precisazioni, che le fanno assomigliare da vicino alle raccolte di glosse diffuse sul Continente. Per esempio, nella traduzione della Consolatio, i concetti teologici più complessi di sapore neoplatonico sono ricondotti ad una più elementare dimensione cristiana, come quando sistematicamente il traduttore accosta al «Sommo Bene» boeziano la parola «Dio», alla «ragione divina» il nome di «Cristo», e così via: aggiunte che anche nella forma sono molto simili alle glosse interlineari di Remigio o dei commentatori suoi contemporanei. Si tratta di una conferma in più, insomma, di come la lettura analitica dei testi sia finalizzata ad una più facile divulgazione e all’introduzione guidata dei loro contenuti all’interno di un patrimonio culturale e spirituale comune.
Autore: Giulio d’Onofrio
Pubblicazione:
Storia della Teologia nel Medioevo. I: I princìpi
Editore: Piemme
Luogo: Casale Monferrato
Anno: 1996
Pagine: 345-349
Vedi anche:
Cosmo-teologie platonizzanti in epoca tardo-carolingia ed ottoniana (1)