Numeri, cifre e figure geometriche: sette

Sezione: Lessico


Il numero Sette non ha nell’arte romanica una posizione corrispondente al ruolo che esso occupa nella Bibbia, o più generalmente nelle Tradizioni. In ogni caso, ha meno importanza del Tre e del Quattro, dei quali è la somma – così da evocare l’unione della terra e del cielo –, e meno anche dell’Otto, sul quale hanno molto insistito i Padri della Chiesa. E per eccellenza un numero legato all’Apocalisse, il libro che forse ha più profondamente marcato l’iconografia romanica: pensiamo alle sette Chiese d’Asia, alle sette corna della Bestia, alle sette coppe della collera divina. È inoltre, essenzialmente, un simbolo ebraico, che si palesa in particolare nella forma del candelabro a sette bracci, ed è forse qui che bisogna cercare la ragione del suo relativo discredito.

Il numero, comunque, ritroverà una certa importanza all’epoca gotica. L. Rèau, che affronta il problema da un punto di vista più generale del nostro, pone in risalto le sue molteplici implicazioni: i sette doni dello Spirito Santo rappresentati a volte – per esempio, sull’affresco di Le Liget – da sette colombe, i sette sacramenti, i sette gradi del sacerdozio, i sette concili ecumenici prima della separazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, le sette «età dell’uomo» le sette ore della celebrazione canonica, le sette discipline del sapere (trivium più quadrivium), le sette domande del Pater Noster, i sette alberi e le sette sorgenti del domenicano frate Lorenzo, le sette virtù teologali e cardinali, alle quali si contrappongono, per spirito di simmetria, i sette peccati capitali.

Questi ultimi sono probabilmente evocati a Preuilly e a Cunault da figure per metà umane e per metà animali, e a Saulieu da strane teste che pendono da foglie di acanto, così da formare una specie di «albero di teste» – tema di matrice araba, studiato per la fine del medioevo da J. Baltrusaitis, ed avente con ogni evidenza rapporto con l’albero del Paradiso –, ecc.; a Saulieu, fra l’altro, la testa centrale, nella chiave del capitello, invece di avere sembianze umane come le altre, è chiaramente una maschera leonina. Ma se il Sette non ha, come si è già detto, una posizione di grossa rilevanza nella iconografia romanica, benché siano estremamente frequenti in essa temi e motivi ispirati dall’Apocalisse, dove invece la parte recitata dal Sette è senza dubbio di primo piano, è perché le visioni descritte dal testo giovanneo sono troppo astruse per poter essere illustrate alla lettera con sculture o con affreschi – i due campi sui quali si sono essenzialmente concentrate le nostre ricerche.

Tuttavia, sul timpano di La Lande de Fronsac (Gironde), lo scultore si è lasciato attrarre da un tema abbastanza difficile: l’immagine divina con la spada nella bocca, le sette chiese d’Asia sotto l’altare, sette alberi, sette stelle nel cerchio sorretto dalla mano destra del Cristo, e san Giovanni li in mezzo che sta a contemplare l’intera visione.

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La sottigliezza del linguaggio numerico nell’arte romanica si percepisce in particolare ad Autun, nel tema dei Tre Ebrei nella fornace: sta scritto nel libro di Daniele che la fornace era stata scaldata sette volte più dell’usato; ebbene, alla base del capitello, il settimo fiore a quattro petali, contando da destra – ossia nella direzione sfavorevole –, invece di essere inclinato come gli altri, è messo per diritto e disegna perciò una vera e propria croce equilatera con quattro bracci perfettamente rotondi: esso significa perciò il supplizio del Cristo, del quale supplizio i tre fanciulli ebrei sono la prefigurazione. Non solo; a questo settimo fiore corrisponde, al livello superiore, la tredicesima fiamma, e il tredici è un numero portasfortuna: di fatto, senza l’intervento divino, la prova dei tre fanciulli si sarebbe ineluttabilmente risolta con la loro morte.

Nel timpano di Saint-Ursin di Bourges, si può notare che il Sette compare nei raggi della ruota del carretto dal quale la volpe minaccia i polli che la stanno trainando. Il numero compendia in questo caso il senso del messaggio contenuto nelle favole ivi rappresentate: il lupo in cattedra, il lupo e la cicogna e il seppellimento della volpe mostrano che la logica profonda di questo basso mondo è quella della «dissomiglianza», come afferma san Bernardo, nella quale sono i buoni a essere puniti e che solo la morte, impersonata nella fattispecie dalla volpe e dal suo comportamento, potrà riportare alla giusta norma. La ruota in questione è una «ruota della fortuna»: grazie alla morte dalla quale sono chiaramente minacciati i polli che trainano la volpe, i buoni saranno riabilitati e godranno i privilegi negati ai malvagi. È dunque normale che questa ruota abbia sette raggi, giacché essa evoca l’intervento del cielo sulla terra, e l’albero a Y, al centro, esprime l’idea del Giudizio finale.

Sui piedritti della porta degli Orafi a Santiago di Compostella si vede una serie di allegorie, che sono là, dice il Pellegrino di san Giacomo, «come per difendere l’entrata». Fra i simboli vegetali che ornano i personaggi – spirale, foglia, fiore – e le mensole con protomi leonine esiste una gradazione, appositamente studiata, che sta a indicare le tappe della vita umana. Accanto all’ultimo Apostolo allegorico, il leone è in questo caso il leone androfago; la mensola è ornata contemporaneamente da sette trucioli e da sette scaglie; e ciò evoca con sicurezza il passaggio al livello celeste, che poi la quarta allegoria, la cosiddetta «Donna col leoncino», confermerà. Il suo sguardo è infatti rivolto verso la parte alta del portale, dove si trova una Vergine col Bambino, o semplicemente una Maternità, al seguito della «Donna col cranio» con la quale si allude al vero e proprio dominio dei cieli. È noto, oltre torto, che la suddetta allegoria della Donna col leoncino costituiva un secondo termine precedente quest’ultimo; ancora e sempre le tappe.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 226-227

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