Numeri, cifre e figure geometriche: due in uno

Sezione: Lessico


Il fatto che, trattando dei numeri, non ci si occupi dell’unità, potrà anche stupire qualcuno. Ma è una prerogativa esclusiva di Dio quella di essere uno: «Non avrai altro Dio fuori di me» è il primo dei suoi comandamenti. In più, sta anche scritto che Egli non può essere rappresentato: ed è proprio a questo interdetto mosaico che l’iconografia romanica si è sottomessa. Viceversa, un tema che ritorna insistente come un leitmotiv è quello della dualità o della molteplicità che si fonde nell’unità; ne è all’origine ancor sempre il pensiero pitagorico, trasmesso da Boezio e da noi già menzionato, che contrappone «la dualità che genera la molteplicità all’unità che è stabilità». La coerenza e la pregnanza di significati dei primi dieci numeri è tale che il concetto di unità e quello di molteplicità si esprimono alla stessa maniera, attraverso la cifra assoluta investita dai Greci dei sensi più diversi: la X, il dieci romano, segno dell’incrocio, ma al tempo stesso – ed è questa, nella fattispecie, la manifestazione importante – segno della moltiplicazione. Dobbiamo osservare in effetti che ciò che rende meglio di tutto l’idea della Divinità, data l’impossibilità in cui siamo di esprimere l’infinitamente grande, è il punto, l’infinitamente piccolo. Ora, per rappresentare il punto non è la croce diritta quella che più si adatta – essa infatti rende maggiormente sensibile la dualità data dai due assi, verticale e orizzontale –, bensì la croce inclinata.

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La figura che cumula questi significati diversi (croce inclinata, Dio assoluto) è quella disegnata dagli animali del Tetramorfo intorno al Cristo – e ciò in entrambe le zone. Il Tetramorfo esprime molto di più la X, l’incognita, l’inconoscibile, che non la moltiplicazione, giacché in questo secondo caso il segno viene tracciato con linee discendenti, mentre i quattro animali formano un segno di croce virtuale, dapprima discendendo verso destra – dall’Uomo al Bue – poi risalendo – dal Leone all’Aquila –, sempre verso destra.

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I manoscritti che si rivolgono a dei monaci contemplativi non sempre rispettano quest’ordine imprescrittibile. D’altro canto, l’ordine dei Vangeli non è sempre lo stesso nelle bibbie antiche. Sono i timpani dei portali, specialmente nella zona egiziana, quelli che ne tengono maggiormente conto, e ciò perché il tema, ponendosi come segno d’interdizione all’accesso, come segno iniziatico riservato ai fedeli, concretizza nel modo più corretto le tappe che il cristiano deve superare, alla stessa maniera con cui supera la soglia della chiesa. Attraverso i quattro personaggi che rappresentano un numero quasi infinito di realtà – temperamenti dell’uomo, direzioni dello spazio, elementi dell’universo, ecc. –, i bracci della croce inclinata esprimono la molteplicità, mentre il punto di unità è impersonato dal Cristo centrale. Lo stesso dicasi per la croce inclinata che viene tracciata sull’altare per evocare le cinque piaghe di Gesù sulla croce: l’uomo microcosmo si inserirà nell’universo secondo i due piani così definiti nel rito della consacrazione. Per due volte, infatti, il prete traccia le cinque croci. La prima volta con l’acqua benedetta, l’acqua di vita, che è la stessa del Diluvio, grazie alla quale l’umanità ritorna alla propria sorgente: per cui, simbolicamente, spinto da una volontà di purificazione, egli pone l’accento sul centro, sul punto; la seconda volta con l’olio dei catecumeni, e di conseguenza con intento evangelizzatore: la consacrazione viene a prendere possesso del cosmo purificato e l’accento è posto sui bracci della croce. Analogamente per quell’altra croce che il pontefice disegna – nella navata, in diagonale, scrivendo le lettere dell’alfabeto, nel corso della consacrazione della chiesa nel suo complesso.

L’importanza eccezionale di questo tema della dualità che si fonde nell’unità, del «due in uno», è strettamente legata per entrambe le zone all’essenza stessa delle due fonti. La fonte egiziana corrisponde al complesso del cerchio. L’immagine circolare materializzata sia nel disco alato del sole, con i due serpenti che lo inquadrano, sia nei simulacri realistici degli dèi relegati nella cella (fondo del santuario). Il cerchio ocellato solare, insomma, perdura in modi diversi nella iconografia della zona egiziana. Per contro gli dèi mesopotamici sono volentieri definiti coi loro simboli, e il santuario finisce con l’essere un tempio-montagna, alto, sottratto alla vista degli uomini: a proteggerlo ci sono delle porte possenti e dinanzi ad esse dei leoni che vi montano la guardia. È da questa visione mesopotamica della divinità e dei rapporti con essa che trae origine il divieto ebraico della Legge, ricevuta, si badi bene, da Mosè proprio su una montagna, il Sinai.

Così se si considera che si hanno in generale tre termini per esprimere la Divinità, un dio e due geni, o angeli, che lo accompagnano, la tendenza egiziana è quella di porre l’accento sull’Uno, il dio, mentre quella mesopotamica lo pone sul Due, gli accoliti della divinità. La stessa differenziazione si riscontra nell’arte romanica fra le disposizioni dell’una e dell’altra zona.

Nella zona egiziana i due angeli sorreggono la mandorla del Cristo dell’Ascensione e compongono con lui un’immagine paragonabile al disco alato. Nella zona mesopotamica, invece, i due angeli «annunciatori» spezzano la maestà della composizione e suscitano l’idea del divieto, facendo allusione alla visione che deve venire. In senso inverso, il Tetramorfo del sud est è veramente centrato sulla figura del Cristo; secondo l’osservazione di J. Baltrusaitis, i quattro Animali di quello di Moissac sono come storcignati, e ciò determina la rottura dell’immagine circolare; quella che essi compongono si direbbe piuttosto una palmetta. Nei portali del sud est c’è un incrocio essenziale, ed è quello disegnato dagli Animali. Al contrario, nella zona mesopotamica gli incroci sono molteplici: basta pensare alle gambe degli Apostoli di Beaulieu e dei Vegliardi di Moissac. Ma prendiamo il tema delle tappe: nella zona egiziana si insiste dappertutto sul terzo termine, il più importante; a Compostella e a León questo termine sembra invece relegato nelle parti più alte, come vedremo fra poco, e sono le due allegorie inferiori del leone e delle gambe incrociate a essere le più importanti. Nei portali egiziani la molteplicità è rigorosamente ricondotta all’unità; anzitutto i due temi che costituiscono timpano e architrave. Nei portali eucaristici i due protagonisti del doppio tema copto – quello dell’architrave che evoca la Chiesa militante e quello del timpano che simboleggia in contrapposizione la Chiesa trionfante, ossia la Vergine e il Cristo – richiamano alla mente l’unione dei contrari, dei due principi. Tutto ciò va rapportato, in ogni caso, alle speculazioni più correnti della mistica, che vede in Dio due aspetti opposti – il terribile e il dolce –, ma anche alla unione di due divinità, maschile e femminile, nella ierogamia cosmica: di Keb, per esempio, il dio della terra, e di Nut, la dea del cielo (ovvero di Osiride e Iside), in Egitto, simili peraltro alle coppie di tutte le mitologie, come quella di Isanami e Iganami in Giappone, coppie che sono generalmente all’origine della creazione, ma che la Bibbia non ha ripreso.

Il tipo di portale che È. Mâle ha chiamato eucaristico – per il suo riferimento all’Ultima Cena e al tema eucaristico del pane e del vino: per esempio, quello delle Nozze di Cana a Charlieu, quello della lavanda dei piedi a Condrieu, quello della Moltiplicazione dei pani e dei pesci a Valence, quello della Cena a Champagne (Ardèche), ecc. – insiste sull’unità del Cristo, Verbo incarnato, costantemente presente nel sacramento della Messa attraverso la commemorazione del suo sacrificio che egli ci ha incaricati di rinnovare fino al suo ritorno; e ciò contro l’eresia che si propagava minacciosa nella valle del Rodano, così come nel sud ovest, e che negava appunto il valore dei sacramenti. Facciamo osservare, incidentalmente, che quello di Charlieu è un portale doppio, ma l’esaltazione di questi temi eucaristici sul portale più piccolo – più piccolo, ed è questo che lo distingue, da portali doppi del sud ovest, che per tutto il resto sono uguali –, è messa lì proprio per insistere una seconda volta sull’idea della Chiesa intesa a preparare il Ritorno Finale, la Parusia; secondo il pensiero di Pietro il Venerabile, le Nozze di Cana rappresentano l’opposto dei sacrifici pagani, l’opposto dell’eresia. Gli Apostoli sul portale maggiore, tutti seduti, hanno già la maestà del ruolo di giudici che il Cristo ha promesso loro. La molteplicità è strettamente riportata all’unità della visione tetramorfica, e la stessa cosa è riscontrabile in tutto il sud est.

La composizione è esattamente opposta nelle Ascensioni e negli altri temi dei portali del sud ovest. Il timpano comprende sempre e soltanto un tema, non due, o magari tre: così nella porta del Perdono a León, così sul fianco destro della porta degli Orafi a Compostella: la dualità trova riservata ai due lati o alle estremità dell’architrave, a Saint-Genis-des-Fontaines, a Sorède, o alla porta Miégeville, dove gli Apostoli appaiono diversamente interessati dall’avvertimento dell’angelo; essa è rappresentata altresì dai personaggi dei pennacchi ai lati dell’arco o, a Moissac e a Beaulieu, dei piedritti e delle strombature. Da notare ancora, soprattutto nel Béarn, il timpano suddiviso in due timpani minori. In questo modo, non si può parlare di Due in Uno, ma piuttosto di Uno in Due. Sono i dettagli e il moltiplicarsi dei temi secondari a rendere manifesta la fusione di due realtà in una sola, con una prodigalità e una fecondità pressoché infinite: animali in posizione di «contrasto», personaggi allegorici con le gambe incrociate, temi apocalittici. Ma soprattutto, particolare che risponde meglio alla divisione dell’Uno in Due, è la maschera della Terra, con i suoi occhi fuori delle orbite, con la mancanza di unità prodotta dal mento – aspetto specifico, questo, del T’ao t’ie –, quella che, come sostituto della divinità da cui tutto scaturisce e a cui tutto ritorna, riesce ad esprimere meglio il tema della «illusione cosmica»: questa negazione del mondo reale è tipica, essenzialmente, dei catari e delle religioni dell’Estremo Oriente; ma evidentemente si tratta di una visione che è agli antipodi della dottrina cristiana. Equivalente dell’Uno primordiale, è da questa maschera che, su certi capitelli spagnoli, sbucano fuori gli uccelli e poi gli uomini col leone, secondo i meccanismi dell’Uno in Due, della dualità insita al fondo dei nostri rapporti col mondo – lo stesso «mondo della dissomiglianza» di cui parla san Bernardo e la cui espressione ultima e più caratteristica è l’uomo tagliato in due di Chauvigny.

Oppure è il tema del leone con due corpi e una sola testa – leone che può presentarsi, come nel caso di Bages, proprio con una maschera della Terra, o magari, come a Chauvigny, con quella della Medusa o della Gorgone greca –, a mostrare contemporaneamente la divisione dell’Uno in Due e il ritorno del Due all’Uno: si tratta di una variante dell’uomo col leone, e il passaggio dall’Uno al Due, poi dal Due all’Uno, costituisce il senso stesso della maschera della Terra, dalla quale lo stesso uomo col leone ha origine e alla quale egli fa ritorno.

Il tema dell’unità che si degrada in dualità è presente anche sui portali, e in tutt’e due le zone (quindi anche in quella egiziana), quando il soggetto che vi è sviluppato è quello dei rapporti fra il cielo e la terra; lo troviamo, per esempio – ed è ovvio-nei Giudizi universali, tipo quello di Autun, ma altresì nel caso di Favole, come quelle del terzo livello di Saint-Ursin, e ancora negli archivolti della Charente in cui si fa pure riferimento al Giudizio – parabola delle Vergini sagge e delle Vergini folli, Psicomachia, Agnus Dei –, non meno che in quelli in cui invece è rappresentata la Pentecoste, come a Vézelay e ad Aulnay (portale meridionale). Qui è la presenza del personaggio solstiziale a essere fondamentale, giacché, essendo posto nella chiave di volta, esso viene a segmentare l’anno in due parti: ad Aulnay cinque temi della regolazione cosmica, a Saint-Ursin il mezzobusto del personaggio cornuto, altrove l’uomo accovacciato o i segni zodiacali, tutti vogliono illustrare la dualità che governa il mondo. Ad Aulnay, particolare significativo, il fregio di elementi simbolici ha inizio proprio a partire da questo asse centrale.

Ma nella zona egiziana, al pari di quella mesopotamica, sarà piuttosto l’asse cosmico, sarà l’albero a Y, quello che farà sbocciare meglio l’idea del Due in Uno, favorito dalla sua stessa natura, con i due rami che si dipartono da un unico tronco; e sarà così verso l’alto, non verso il basso, che si vedrà dominare alternativamente il Due o l’Uno: l’Uno mediante il tema isolato della rosetta, del grappolo o del cuore, come in Alvernia, oppure mediante quello del leone, del fiore di carlina o della mano divina, come a Saint-Vincent di Chalon; il Due invece, grazie ai due angoli dei capitelli, mediante i due grappoli strappati dai centauri, ancora in Alvernia, oppure mediante le coppie, le sirene, le figure di Adamo ed Eva, i geni di foglie, le maschere attorno al tirso e così via, ancora sui capitelli di Saint-Vincent a Chalon, ferma restando ovviamente l’insistenza sui due rami dell’albero a Y. Nelle chiese spagnole, lo stesso: saranno delle palmette – doppie nel sud, semplici nel nord – che evocheranno questi due aspetti nelle due parti della chiesa.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 214-217

Il simbolismo del Centro del Mondo e della Scala Celeste

Alla base della visione del mondo nella religiosità antica stava il concetto della corrispondenza fra cielo e terra. Si riteneva che tra loro esistessero correnti invisibili e passaggi sempre aperti.

Mircea Eliade dice che “Tutte le civiltà orientali… conoscono un numero illimitato di Centri. Meglio ancora: ciascuno di questi centri è considerato, e addirittura letteralmente denominato il Centro del Mondo. Lo spazio in questione è uno spazio sacro, determinato da una ierofania, vale a dire costruito ritualmente e non uno spazio profano, omogeneo, geometrico, perciò la pluralità dei Centri della Terra all’interno di una stessa regione non fa alcuna difficoltà…” (Immagini e simboli, Milano, Jaca Book, 1980, p. 40).

Uno dei simboli più diffusi per indicare questi passaggi era l’Albero cosmico o l’Albero della Vita che, comune a tutte le culture pur con immagini diverse, raffigurava il rapporto fra il cielo e la terra, fra Dio e l’uomo. Quest’albero era posto nel mitico “ombelico” del mondo, il centro del cosmo, riconoscibile in ogni luogo che una comunità individuasse come carico di una particolare sacralità, vera e propria porta aperta sul cielo, come la scala che Giacobbe vide nel sogno scaturire dalla pietra di Betel, lungo la quale salivano e scendevano gli Angeli. La Scala di Giacobbe è il simbolo più usato nella mistica antica per indicare la Porta del Cielo. La meditazione rabbinica, così attenta ai significati nascosti in ogni parola della Scrittura, si è interrogata sul perché Giacobbe vedesse gli angeli prima salire e poi scendere: dal momento che gli angeli dimorano in cielo la logica vorrebbe che prima ne discendano e poi risalgano. La spiegazione che è riuscita a trovare è semplice: gli angeli visti in sogno da Giacobbe sono in realtà coloro che, raggiunta attraverso la contemplazione la spiritualizzazione del corpo, possono conseguire l’estasi, per essere poi ricondotti sulla terra interiormente trasfigurati. Questa interpretazione si trasferì fin dai primi secoli anche nella mistica cristiana.

Come la pietra di Betel poteva diventare una Casa di Dio perché il luogo dove si trovava era già stato riconosciuto da Giacobbe come una porta del cielo, cioè sacro per sua natura, così l’edificio sacro doveva collocarsi alla confluenza delle opposte correnti invisibili, la cui armonica combinazione ed esaltazione sembra rendere più facile al corpo sottile l’ascensione alla terra celeste, cioè la salita lungo la scala di Giacobbe fino alla visione di Dio. Era dunque opportuno che, come in un’alchimia spirituale, un tempio venisse costruito in luoghi speciali dove le vibrazioni della terra emergono con più intensità, e che le sue mura di pietre squadrate, funzionando come una cassa armonica, le accordassero con quelle celesti.

Per conseguire una totale corrispondenza fra la terra e il cielo ed aprire così il passaggio visto da Giacobbe, un edificio sacro doveva dunque rispondere a tre regole esoteriche. Vediamole.

  1. Doveva essere collocato nei luoghi più sensibili della terra, quelli che per loro natura sembrano posti alla confluenza dei tre mondi.
  2. Doveva essere costruito ad immagine del cosmo e secondo le sue leggi, cioè secondo i rapporti matematico musicali che formano i mattoni con cui l’universo è stato costruito dalla Sapienza primigenia.
  3. Doveva possedere un orientamento che lo ponesse in diretta relazione col cielo, il quale doveva penetrarvi attraverso i raggi del sole.

Autore: Renzo Manetti
Pubblicazione:
La lingua degli Angeli. Simboli e segreti della basilica di San Miniato a Firenze
Editore
: Polistampa (La Storia Raccontata, 26)
Luogo: Firenze
Anno: 2009
Pagine: 11-12

Tappe della vita mistica

Sezione: Lessico


Le tappe di cui si parla sono quelle della vita mistica propriamente detta, così come sono state definite da Origene e Gregorio di Nissa e, sulle loro tracce, da Eucherio, san Bernardo, ecc. Con altrettanta proprietà potremmo parlare delle tre Virtù teologali, a tal punto i due concetti s’interpenetrano, in armonia col famoso passo di san Paolo, da cui risulta che la più elevata virtù è la carità contemplativa (1Cor., XIII, 1 sgg.). Sant’Agostino nel suo trattato sulle tre virtù combatté l’eresia pelagiana che confondeva all’eccesso i due concetti. La Chiesa ha dovuto levarsi con energia contro una tendenza, d’ispirazione monastica, a insistere troppo su questa virtù, concepita a immagine dell’estasi platonica. La produzione artistica, tuttavia, rivela con assoluta certezza la rinascita di tale tendenza in epoca romanica concretizzata nella religione catara dalla proibizione, per i migliori, i perfetti, dell’opera carnale e dalla proliferazione degli ordini contemplativi, come i certosini – tutto ciò, fra l’altro, in seno agli strati più popolari.

Di fatto, se preferiamo al termine più preciso di «virtù» quello di «tappe» è perché l’interpretazione dei due concetti non è che una manifestazione fra tante altre di un pensiero simbolico per essenza, perché polivalente e manifestantesi nei campi più diversi. Le immagini e i testi scritti attestano in modo inequivocabile una siffatta polivalenza: le virtù, col sistema del «gruppo cattedrale», che si perpetuerà fino all’epoca romanica, fino a quando cioè la trasformazione del rito battesimale non avrà reso inutile l’esistenza di un battistero separato, sono state inserite perfino nelle strutture architettoniche. Tre tappe, le tre virtù maggiori, sono infatti in stretta connessione con le tre persone della SS. Trinità, e coi tre giorni trascorsi dal Cristo nel sepolcro, donde la triplice immersione nell’acqua santa, preceduta dalla triplice exsufflatio contro i demoni; in più, per gusto di simmetria, si concepiva addirittura l’esistenza di tre demoni maggiori, e Origene attribuiva tre teste alla persona di Satana – rappresentazione, questa, che si ritrova a Brioude e più tardi nel Botticelli. E difficile perciò separare virtù, tappe e numero tre, la cifra capitale della simbologia cristiana. La plasticità delle figurazioni romaniche si rivelerà nelle molteplici espressioni di questo pensiero, che non si presenta mai uguale nei diversi monumenti: cappelle reali, facciata della porta degli Orafi a Compostella, portale dell’Agnello a León, capitelli di Elne (zona mesopotamica), e abside di Ainay a Lione, Saint-André-le-Bas e Saint-Maurice a Vienne, Rozier-Côtes-d’Aurec, Saint-Gilles du Gard (zona egiziana); essa varia da una chiesa all’altra, esprimendosi da un lato attraverso le allegorie col leone, dall’altra con allegorie di natura vegetale.

TESTI

L’idea delle tappe della vita mistica si presenta, come vedremo in dettaglio fra poco, nell’opera di Origene, il quale distingue i principianti, i progredienti e i perfetti (termine che lascia prevedere i futuri catari, i puri), in quella ch’egli chiama la via purgativa. La meditazione sui libri sacri consente già da sola di progredire su questa via. Bisogna in particolare permearsi del significato profondo dei tre libri di Salomone: i Proverbi, che rende possibile la lotta contro le passioni; l’Ecclesiaste, che insegna l’apatheia, l’assenza di passioni; il Cantico dei Cantici, che determina l’unione perpetua con Dio. Le tre tappe si collegano alla tipologia biblica, della quale egli ha mostrato anche l’uso, puntualizzando i tre significati della Scrittura: letterale, tipologico e morale. La mistica di Origene è una mistica solare, in stretto rapporto con la sua tradizione di Egiziano: essa mira alla contemplazione diretta, contrapponendosi alla mistica di san Gregorio di Nissa, che muove pur essa dalle virtù teologali, ma ammette una zona d’ombra e insiste sul progresso che scaturisce non dall’opera dell’uomo, ma dalla grazia zampillante di Dio, l’epectasi (Daniélou).

Con una impostazione diversa, Eucherio e Cassiano distinguono tre parti nella filosofia: la fisica, che si occupa del corpo; l’etica, che si occupa dello spirito; la teoretica, che si occupa dell’anima. I cenobiti di Lérins, sciamati dall’isoletta di Saint-Honorat per tutta la valle del Rodano, furono confermati nel loro ascetismo da Evagrio Pontico, che trasmise loro il pensiero di Origene e l’interpretazione dell’insegnamento di san Paolo in senso contemplativo. In epoca romanica, Guglielmo di Saint-Thierry esalterà il fervore degli eremiti egiziani, e Pietro il Venerabile nutrirà un’infinita ammirazione per i certosini, anche se in realtà il suo atteggiamento di fronte alle continue creazioni di nuovi ordini monastici e alle correnti di pensiero che agitano la sua epoca, mostra come e quanto uno spirito equilibrato possa diffidare degli eccessi della mistica, senza con ciò negare il valore dei suoi slanci e delle sue aspirazioni, legate direttamente al monachesimo. Distinguerà nettamente perciò i cluniacensi dai cistercensi e da san Bernardo, e si manterrà come tale più vicino all’autentico pensiero di san Benedetto, sostenitore dell’equilibrio e della misura e sospettoso di ogni eccesso contemplativo. E sarà lui a sottolineare l’importanza di Gregorio Magno, autore dei Moralia in Job, additando nel santo pontefice l’antenato degli asceti e degli eremiti.

OPERE D’ARTE

Nella basilica pitagorica di Roma, troviamo sarcofagi pagani che sono stati adottati dai cristiani (IV e V secolo) e che provano il parallelismo fra paganesimo e cristianesimo in fatto di tappe. Vediamo infatti Eracle e il leone, Hermes col caduceo, Ulisse legato all’albero della nave, come il Cristo sulla croce, per potere resistere alle sirene. Tutti questi eroi non sono altro che prefigurazioni pagane. Numenio di Apamea, il grande neopitagorico, ci presenta in Ulisse colui che, come l’asceta – c’erano dei collegi di asceti fra le file dei pitagorici –, «arremba al riparo dal mare e dalle tempeste, lungi dalle passioni e dalla materia corruttibile, colui cioè che riesce a rompere il cerchio della necessità, a spezzare la catena delle metempsicosi e a pervenire, fra gli altri immortali, alla beatitudine delle isole fortunate». Eracle ed Hermes corrispondono alle prime due tappe, Ulisse alla terza. Nel 403 san Paolino da Noia inviò due poemi a Sulpicio Severo, allo scopo di decorare, incidendoli sulla pietra, i portici che univano il battistero alle due chiese ch’egli aveva fatto costruire in Aquitania (?): «Queste due chiese rappresentano l’antica e la nuova Legge; l’antica è la Speranza, la nuova è la Fede. Le due leggi conducono al Cristo; ed è per questo che il battistero è stato collocato a eguale distanza dalle due basiliche, perché è da li che si irradia la gloria del Cristo». Estremamente importante è notare che nelle absidi copte di Baouit, imitate ad Ainay, le tre virtù, data la rilevanza del pensiero delle tappe presso gli eremiti egiziani, si trovano in posizione di spicco fra le figure iscritte nei medaglioni dell’arco trionfale.

Zona egiziana

Il pensiero delle tappe si rivela ad Ainay nelle tre file di animali incorniciati da cerchi formati con nastri intrecciati, e nelle figurazioni poste alla base dei pilastri: pesce, battesimo, allegorie aventi per simbolo la corona, il pesce e l’ancora, figura di Davide, ecc. A Saint-André-le-Bas, chiesa ripetutamente imitata (Notre-Dame di Andance, Notre-Dame di Die, Saint-Paul di Lione), Sansone prende il posto di Eracle come vincitore del leone della carne; Giobbe, a sua volta, su ispirazione di Origene, di Eucherio, di Pietro il Cantore e di Pietro il Venerabile, è l’immagine dell’asceta che si spoglia di tutto e quindi della Speranza. Proprio Pietro il Cantore, infatti, quando parla della speranza, invoca questo passo di Giobbe: «Io so che il mio redentore vive e che all’ultimo giorno resusciterò dal seno della terra e che sarò di nuovo rivestito della mia carne e che vedrò coi miei occhi Dio mio Salvatore». La terza allegoria regge la Città con le sue braccia aperte: si tratta senza dubbio di Salomone o di Davide. Ma anche un altro brano di Pietro il Cantore è ricordato da questa figurazione: quello che mostra la relazione fra due edifici, rispettivamente della Chiesa e delle Virtù: «La fede pone le fondamenta dell’edificio spirituale, la speranza lo innalza e la carità lo corona». I tre capitelli di Rozier-Côtes d’Auree traspongono le tre tappe di Saint-André-le-Bas in una versione d’ispirazione celtica, con la bestia androfaga e l’orante. Ma tutte le chiese di questa regione insisteranno sui motivi della testa fra le spirali e dell’orante per esprimere la medesima idea. A Saint-Maurice di Vienne, compaiono sui capitelli dell’entrata principale (la più antica) tre Apostoli e due Virtù, ma di particolare rilevanza sono tre allegorie imperniate su dei motivi vegetali, che intendono presentare l’accesso al Cielo attraverso la pratica delle virtù, tema che l’intero programma della chiesa espone sui capitelli, di fronte alle tentazioni della lussuria e ai falsi profeti.

Zona mesopotamica

Se l’idea delle Tappe-Virtù è appena soggiacente sul ciborio di Cuxa, essa è invece ben visibile alla fine del programma iconografico di Elne, fra il ciclo di san Pietro (la Fede), del leone-drago (la Speranza) e del pavone (la Carità), ciclo completato fra l’altro da un testo esplicativo. Appare inoltre in piena luce nelle tre allegorie del portale dell’Agnello a Leòn, nel capitello dei tre Sansoni, sempre a Leòn, negli Uomini col leone che proteggono l’ingresso a Compostella, nelle varie allegorie, infine, imperniate sulla figura del leone, e nel raggruppamento trinitario dei soggetti, che costituiscono gli esempi più tipici di un’idea presente dappertutto nell’arte romanica.

Lessico dei Simboli Medievali, Jaca Book, Milano 1989, pp. 269-271

Esperienza spirituale ed iniziazione per mezzo dei simboli

Il termine iniziatico va usato con prudenza quando si tratta di simbolica cristiana, dato che esso allude a un’esclusione, a un numero ristretto di prescelti, di eletti separati dalla massa profana. Come del resto ognuno sa, il cristianesimo si rivolge invece a tutti gli uomini: l’iniziazione cristiana è di per sé accessibile ad ognuno. Se le caste non esistono sul piano sociale, la selezione si effettua sul piano della qualità dell’animo o, più esattamente, consiste nella presenza o nell’assenza dell’esperienza spirituale. Questa risulta da un duplice movimento: è grazia e accettazione di questa grazia. L’esperienza spirituale è paragonabile ad una iniziazione. Puramente interiore, interamente spirituale, può essere suscitata da elementi esterni; in questo caso vi è sempre un; movimento che va dall’esteriorità all’interiorità, e il guru è il « maestro interiore » di cui parla Sant’Agostino.

Un testo di Gilberto d’Olanda chiarisce la nostra tesi. Nel suo commento del Sermone XLIII sul Cantico dei Cantici, egli attribuisce allo Sposo (Cristo), che si rivolge alla Sposa (l’anima), questo invito incalzante: « Aprimi (aperi mihi) io sono già in te, ma aprimi affinché io possa essere in te con maggior pienezza. Aprimi affinché io possa compiere in te una nuova entrata. Io ti darò la rugiada di un nuovo slancio d’amore… farò cadere sopra di te, goccia a goccia, i segreti della mia divinità».

L’esperienza di Dio è un’esperienza spirituale e, se non va al di là di certi limiti, non potrebbe essere un’esperienza del divino. Riprendendo il testo di Gilberto d’Olanda, si può dire che la grazia si offre in questo appello: « Aprimi ». Accettarlo vuol dire « aprire », riconoscere cioè il segno della presenza e lasciarsi invadere da questa presenza. Questo « goccia a goccia di rugiada » di cui parla il nostro autore, a parte il simbolo che rappresenta in quanto rugiada, significa che l’Essere non può ricevere la pienezza della divinità a causa della sua infermità. L’anima deve espandersi e sciogliersi in qualche modo per divenire più vasta, come un vaso le cui pareti possano dilatarsi a seconda del contenuto. In una esperienza siffatta, l’anima non è affatto passiva. L’« apriti » di Gilberto d’Olanda corrisponde all’« io cerco il vostro volto (faciem tuam requiro), insegnami (doce me) » di Guglielmo di Saint-Thierry. Se l’esperienza spirituale è prima di tutto un dialogo, essa si compie però nel silenzio. In questa esperienza non è il rivestimento del mistero a presentarsi e, in qualche modo, a velarlo, come un guscio: la mandorla si apre e appare l’interno del frutto. Cosi San Bernardo in uno dei suoi sermoni (De diversis, XVI, 7) allude a Dio che sazia i santi con il fiore del frumento e non con l’involucro dei misteri: ubi adipe frumenti, non cortice sacramenti satiabit nos Deus. Il santo ritorna più volte su questo tema dell’involucro del mistero e del fiore del frumento, riferendosi alla fede ed alla visione diretta, Bisogna passare attraverso l’involucro per giungere fino al chicco di grano e saziarsene; la scorza fatta di paglia non costituisce un nutrimento per l’uomo spirituale. Soltanto il carnale, che San Bernardo paragona ad una bestia da soma, può appagarsene.

L’esperienza spirituale si colloca all’interno della fede, che essa nondimeno in qualche modo oltrepassa per divenire certezza. Secondo i mistici del XII secolo, questa certezza non determina uno stato durevole, ma si presenta a lampi, paragonabili a fenditure, a spaccature che forano il guscio e lo schiudono.

L’esperienza spirituale iniziatica si effettua al centro dell’anima, o meglio, dello spirito, ove si tenga conto della triplice divisione: corpo-anima-spirito. Questo centro coincide con l’apice dello spirito. Il confronto può sembrare paradossale, dato che il centro non è una punta. Si può afferrare il contenuto di questo simbolo ricordando che il centro è un monte, il luogo ove il celeste e il terrestre si congiungono, un punto di mezzo. Cosi la Vergine in quanto creatura è chiamata terra, ma, in quanto Madre di Cristo e Sposa è chiamata da San Bernardo centro della terra.

A proposito dei simboli iniziatici bisognerebbe parlare dei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, ma non ci soffermeremo su di essi perché non presentano aspetti particolari per il periodo che qui ci interessa.

Ogni simbolo ierofanico è un simbolo iniziatico che comporta, per essere afferrato, delle prove ed un’illuminazione. Se le corporazioni, la professione religiosa, il romanzo del Graal hanno i loro simboli iniziatici, appare evidente che l’iniziazione vera e propria è legata all’esperienza spirituale. Questi simboli svolgono dunque una funzione iniziatica, dato che l’esperienza spirituale coincide con un’iniziazione.

L’uomo iniziato, nel senso spirituale del termine, è sprovvisto di potere temporale. L’homo carnalis può utilizzare i suoi poteri e darsi alla magia. L’homo spiritualis si colloca su un piano del tutto diverso. Egli possiede un segreto — il segreto del re — e può dire con Isaia (XXIV, 16) secretum meum mihi. Questo segreto appartiene all’ordine della conoscenza e la sua azione si svolge unicamente nei confronti della trasfigurazione del cosmo.

Autore: Marie Madeleine Davy
Pubblicazione:
Il simbolismo medievale
Editore
: Mediterranee (Orizzonti dello Spirito, 48)
Luogo: Roma
Anno: 1988
Pagine: 112-114

Cosmo e Tempio

Potremmo riassumere i capitoli precedenti dicendo che il primo tempio che Dio ha dato all’uomo è l’universo; quell’universo che, nella sua realtà profonda, si presenta come una meravigliosa disposizione di simboli: l’universo è, fra i simboli, il primo e il più completo.

Il tempio tradizionale è un universo in miniatura posto alla portata dell’uomo religioso per le necessità del suo culto. E questo si considera secondo un doppio punto di vista. Innanzitutto, come immagine realistica del cosmo più o meno come viene percepito dai sensi; quest’aspetto non è mai il più profondo; qualche volta, può anche essere eliminato senza gravi inconvenienti; è l’aspetto maggiormente minacciato dai rischi di deviazione e desacralizzazione. Poi, come evocazione delle strutture del mondo e del suo mistero interiore; abbiamo visto, per esempio, che il simbolismo del centro-ombelico del mondo o quello complementare dell’asse ascensionale aprono prospettive infinite.

Il mistero che l’uomo percepisce nella contemplazione della natura non è tanto quello del cosmo in sé, quanto quello suo proprio riflesso in quello del cosmo. La funzione originale dei simboli è precisamente questa rivelazione esistenziale dell’uomo a se stesso, attraverso un’esperienza cosmologica. Questo è possibile solo perché fra il cosmo e l’uomo esistono profonde corrispondenze. È di questo che bisogna parlare, adesso. Non si tratta d’inventariare tutti i tesori di saggezza antropocosmica accumulati dalle diverse civiltà durante i millenni trascorsi … Dovremo mantenerci strettamente all’interno delle sole prospettive dei capitoli precedenti.

Ciò che dobbiamo dire, può essere organizzato intorno ad un doppio principio:

  • Sul piano delle rappresentazioni immaginarie, le strutture del mondo appaiono essere le stesse dell’uomo. A tal punto che l’Universo si presenta ed è percepito come un Corpo totale, un Tutto umanizzato: il grande Vivente, l’Uomo ideale. Al contrario, l’uomo appare come un universo ridotto: un microcosmo.
  • Il tempio, riflesso dell’universo, è costruito ad immagine dell’uomo. È in questo specchio che gli riflette la propria immagine, che l’uomo si sperimenta, e realizza la sua vocazione di tempio universale.

Ci riesce molto difficile ammettere tali cose, dato che siamo sempre stati abituati a considerare il nostro universo come diviso in singoli compartimenti. Ne è un tangibile esempio la divisione in materie distinte dei nostri programmi scolastici: fisica, geografia, storia, cosmografia, scienze naturali, grammatica, matematica … La mentalità dell’uomo che pensa al sacro procede nel modo inverso: per lui, tutto è collegato. Indissolubilmente. L’universo è la Grande Realtà omogenea, allo stesso modo del corpo umano, e questa Grande Realtà ingloba tutto il reale: mondo inanimato, animato, spirituale, trascendente. La creazione è un organismo gigante i cui elementi partecipano tutti ai comuni misteri vitali. Infatti, non sono le cose e gli esseri in se stessi a formare i fondamenti del reale, ma i misteri che agiscono in essi: infine, è la Vita che, pur manifestandosi in modo diverso qui o là, è identica e soggiacente in ogni essere vivente.

È necessario andare ancora più lontano. Il primitivo rileva la presenza della Vita e entra in contatto con essa non solo nello stesso vivente, ma in ogni simbolo del vivente. Infatti, anche nel vivente, la vita non può essere immediatamente colta: è velata dalle apparenze sensibili che trascende in tutto il suo mistero; si nasconde nel soggetto mentre vi si rivela. Per coglierla, dunque, bisognerà andare al di là dell’apparenza immediata. Questo passaggio, spesso, diventerà più facile e spontaneo, se può esser fatto con l’intermediazione di simboli molto puri. Il simbolo ha l’incomparabile privilegio di non opporre l’opacità di un sé alla percezione del significato; non è che segno, trasparenza: una finestra aperta sul mistero. La luna che cambia, volta a volta morta e rinascente, si presta ad una contemplazione quasi diretta del mistero del divenire; la spirale, a quello dell’emanazione; l’ombelico-centro, a quello dell’origine; l’asse verticale, a quello della valorizzazione e del superamento.

Un uguale ed unico mistero di vita è in atto in realtà diverse e in epoche molto differenti. Nella genesi primordiale del cosmo all’origine dei tempi: a partire dal primo punto emerso sulla superficie delle acque abissali. Nella genesi dell’umanità: a partire dalla prima coppia apparsa sulla montagna del mondo, allo stesso modo che nella rigenerazione di quell’umanità decaduta, a partire dall’arca della salvezza approdata nello stesso punto originario per un’altra, uguale partenza. Nella genesi di ogni embrione, che cresce a partire dal punto ombelico originario, allargandosi intorno in forma di croce apparsa nel circolo della posizione e del ciclo fetali. Nella costruzione di ogni edificio sacro, ripetizione cosmologica rituale dell’universo vivente, e antropologica dell’essere umano; l’edificio sacro è il luogo in cui il cosmo e l’uomo in correlazione giocano per simboli la liturgia delle loro vitali interdipendenze. Nell’edificio sacro, ove il tempo e lo spazio fenomenici sono aboliti, l’uomo partecipa alla genesi del mondo, a quella dell’umanità, a quella della sua famiglia umana, alla sua propria. Si offre all’effusione della Vita. In cambio, porta il contributo della sua partecipazione ad ognuno di questi piani esistenziali; infonde loro il senso della propria vita: trascina il tutto nella sua personale assunzione. Il tempio è una cassa di risonanza sacra di misteri impossibili da cogliere in se stessi, e ancora di più nelle loro mutue compenetrazioni.

Quando Nostro Signore chiamava il Tempio di Gerusalemme «immagine della Tenda preparata fin dalle origini» e centro vitale della religione ebraica: «Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo innalzerò di nuovo» (Gv. II), chiamava i suoi discepoli, e con loro tutti i credenti, ad una trasposizione simbolica. I compagni di Cristo prestano la loro voce per formulare le nostre obiezioni: «Ci sono voluti quarantasei anni per costruire il tempio, e tu, tu lo rimetterai in piedi in tre giorni?» E l’evangelista spiega il pensiero del Maestro: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo». Cristo, qui, insegna due cose. Innanzitutto, ricorda che il santuario di pietra in cui abita la divinità e in cui si lascia avvicinare, come il santuario di Gerusalemme che segnava con il dito, non è che il simbolo del tempio di carne che è l’uomo: il corpo dell’uomo è la dimora in cui abita la sua anima, quell’anima capace di culto, e che Dio, a sua volta, si propone di far diventare sua dimora. «L’uomo è una chiesa mistica. Attraverso il tempio del suo corpo, obbedisce ai comandamenti di Dio; pratica le virtù morali. Grazie al santuario della sua anima, per mezzo della ragione, s’innalza alla contemplazione di Dio, intravisto nella perfezione delle creature. Con l’altare del suo spirito, chiama in suo aiuto il silenzio della grande Voce invisibile e misteriosa della Divinità, per mezzo di un altro silenzio, questo loquace, e che si esprime attraverso innumerevoli suoni» (Massimo Confessore, Mystagogia,
IV, in PG XCI, 671). In secondo luogo, apprendiamo qui che Cristo, in quanto uomo-Dio, è l’Uomo perfetto che porta il mistero dell’uomo-tempio al suo fine ultimo. Infatti, racchiude nella sua persona di Verbo incarnato l’unico mistero della vita di cui parliamo; tutte le creature partecipano della sua pienezza, e senza di lui non sono nulla. In più, porta la realizzazione storica del mistero della venuta di Dio fra gli uomini e nelle loro anime. Non elimina nessun tempio autentico, ma li porta tutti a compimento. Rende la creazione un solo tempio, perfetto e definitivo: quello della Gerusalemme celeste, che circonda l’Agnello. «È l’immagine del Dio invisibile, il primo fra tutte le creature, poiché è in lui che sono state create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili … Tutto è stato creato da lui e per lui. E prima di tutte le cose, e ogni cosa sussiste in lui. È anche la testa del corpo, cioè della Chiesa: è il principio, il primogenito fra i morti, poiché Dio si è compiaciuto di porre in lui la pienezza e di riconciliare, per suo tramite, tutti gli esseri, sia in terra che in cielo, pacificandoli grazie al sangue della sua croce» (Ep. ai Colossesi, I). Questo testo fornisce il più profondo commento al mosaico del Laterano, con i suoi due piani della creazione naturale e della ricreazione soprannaturale salvifica attraverso la grazia.

Autore: Gerard de Champeaux; dom Sebastien Sterckx
Pubblicazione:
I simboli del medioevo
Editore
: Jaca Book
Luogo: Milano
Anno: 1988
Pagine: 247-249

Architettura cristiana ravennate – Edifici Basilicali: Basilica di Santa Croce

La basilica di S. Croce può considerarsi a sé stante per la simbolica planimetria crociata che la ravvicinava alle piante centriche.

Ma il prevalente andamento longitudinale di questa chiesa ormai perduta, ci permette osservazioni e confronti.

Il tipico impianto — che dobbiamo ritenere voluto da Galla Placidia, forse tra il 417 e il 422 — si ricollega a modelli ben noti: alcuni lontani nel tempo e nello spazio — come la primitiva S. Anastasia a Roma, l’Apostoleion in Costantinopoli ed il Santuario di Kaussié presso Antiochia — ed altri assai più prossimi ed operanti come la Basilica Apostolorum (S. Nazario) e la Basilica Virginum
(S. Simpliciano) a Milano, la Basilica degli Apostoli a Como, il S. Stefano di Verona. A differenza degli esempi milanesi, il tema cruciforme appare qui interpretato con rettilinea semplicità che, mentre è garanzia dello spirito mistico della fondatrice, sembra respingere quella caratterizzazione di chiesa aulica e più propriamente palatina che vi si è voluto scorgere. Nell’erezione di questa chiesa, come nei semplici sacelli costruiti nella stessa zona del Palazzo imperiale e dedicati a S. Giovanni Battista, a S. Zaccaria e a S. Vitale, si deve vedere soprattutto la manifestazione di personale pietà dell’Augusta.

Non esattamente simmetrica, la chiesa aveva la navata larga 11 metri ed una lunghezza di circa m. 36; nulla sappiamo sui bracci trasversi. L’attuale dissacrata chiesa di S. Croce perpetua sul luogo il ricordo, ma non la forma della chiesa imperiale, anche se ne ha parzialmente utilizzato fondazioni e strutture.

Mancava l’abside ricurva; la parete terminale, come a S. Simpliciano ed a Como, era rettilinea per meglio obbedire alle accennate esigenze simboliche e di semplicità costruttiva; il clero si raccoglieva, secondo tanti esempi, specie di chiese nord-adriatiche e carniche, in un isolato bancone ad esedra di cui sono state rintracciate chiare tracce. L’aspetto esterno, a giudicare dalle relazioni di scavo, era per la prima volta motivato a Ravenna da una sequenza di paraste.

Come è ben noto, la chiesa, perfettamente orientata, era fornita di una « ardica » la cui testata meridionale dava accesso alla mirabile cappella superstite: il probabile Mausoleo di Galla Placidia, la cui ricchezza musiva può offrirci un esempio del fulgore decorativo proprio di quel complesso monumentale.

Non sarà fuor di luogo notare come l’ardica superi di molto la larghezza frontale della chiesa e come in quel prolungamento si aprisse un’antica porta senza scopo apparente.

Mi sembra doveroso, a tal proposito, richiamare nuovamente gli esempi di Como — identico nella larghezza della navata — e di S. Sempliciano, che ai lati del corpo frontale avevano ambedue ambienti di culto, contigui alla chiesa propriamente detta. Qualche saggio di scavo potrebbe appurare se fossero stati lì collocati — come posso logicamente supporre — alcuni dei « monasteria » fondati dalla stessa Augusta, tanto più che in S. Croce — assai probabilmente priva di arco trionfale — si leggevano in rotunditate arcus
versi in onore del Battista che altrimenti non ottengono una soddisfacente spiegazione.

Autore: Guglielmo De Angelis D’Ossat
Pubblicazione:
Studi ravennati: problemi di architettura paleocristiana
Editore
: Dante
Luogo: Faenza
Anno: 1962
Pagine: 12-14
Vedi anche:

Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (6)

Che la distinzione eriugeniana tra allegoria tipologica e simbolo interessi un nodo fondamentale del pensiero cristiano, lo suggeriscono ancora i testi di Dionigi e in particolare un passo della IX Lettera, in cui egli distingue nel cristianesimo una tradizione esoterica e una tradizione essoterica:

Duplice — egli scrive — è la tradizione dei teologi: l’una occulta e segretamente trasmessa, l’altra invece manifesta e più facilmente conoscibile. E l’una ha carattere simbolico e iniziatico (τὴν μὲν συμβολικὴν καὶ τελεστικήν), l’altra invece filosofico e dimostrativo (τὴν δὲ φιλόσοφον καὶ ἀποδεικτικήν): e l’ineffabile è intrecciato con ciò che è effabile. E questo persuade e vincola a sé la verità di ciò che dice (καταδεῖται τῶν λεγομένων τὴν ἀλήθειαν), quello invece opera e pone in Dio per mezzo di iniziazioni che non si possono insegnare. Del resto, nemmeno per quanto riguarda i riti che introducono ai misteri più santi, gli iniziatori sia della nostra tradizione che di quella posta sotto la Legge si sono astenuti da simboli a Dio convenienti. Ma vediamo angeli pieni di ogni santità misticamente offrire, attraverso enigmi, le cose divine, e lo stesso Gesù parlare della scienza di Dio in parabole e trasmettere i misteri divini sotto la figura di un banchetto.

Nella sostanza, è ancora la distinzione di Clemente tra fede e gnosi: ma qui si affacciano ormai gli schemi e la terminologia di Giovanni Scoto. Alla prima tradizione, infatti, Dionigi associa esplicitamente il simbolismo (τὴν μὲν συμβολικὴν) e, dopo un significativo richiamo alle rivelazioni angeliche, menziona come Giovanni Scoto le parabole di Gesù. Egli non chiarisce, invece, quale sia lo specifico carattere ermeneutico della « tradizione manifesta e più facilmente conoscibile » e, più oltre, parla anzi di σύμβολα o di τυπικσύμβολα anche a proposito di quest’ultima: ma le sue connotazioni di esteriorità e di elementarità la avvicinano notevolmente alla fides eriugeniana, e quindi alla prospettiva allegorica che le è connessa. Dionigi prosegue rilevando come i θεολόγοι « considerino taluni argomenti da un punto di vista civile e legale (πολιτικῶς καὶ ἐννόμως), altri invece con purezza e senza mescolanza (καθαρτικῶς καὶ ἀχράντως), alcuni in modo umano e medio (ἀνθρωπικῶς καὶ μέσως), altri invece in modo sopramondano e perfetto (ὑπερκοσμίκως καὶ τελεσιουργικῶς). Talora essi partono dalle leggi manifeste, talora invece dalle norme invisibili, secondo il carattere delle sacre espressioni di cui si servono, delle intelligenze e delle anime: infatti l’intero discorso che sta innanzi ad essi, in ogni sua parte, non racchiude della pura e semplice storia ma, al contrario, una vivificante perfezione ». Non è azzardato ricollegare tutte queste dicotomie a quella, che sarà formulata più tardi da Giovanni Scoto, di allegoria tipologica e simbolismo. Conclude infatti l’Areopagita: « Conviene dunque che anche noi, invece di un’interpretazione volgare (δημώδους) di quelle, penetriamo con santa e rispettosa disposizione dentro ai sacri simboli ».

All’inizio della Lettera, Dionigi aveva ancora più chiaramente stabilito un nesso tra quest’ultima forma, esoterica, di conoscenza e i ‘ simboli dissomiglianti ‘ di cui egli discorreva nella Gerarchia celeste e nel perduto trattato sulla Teologia simbolica: in tale opera, egli rammenta al discepolo Tito,

abbiamo esposto dettagliatamente tutte le rappresentazioni di Dio che si trovano nelle Scritture e che, a molti, paiono essere delle mostruosità (τερατολογίας). Infatti, quando i Padri istruiti nella sapienza segreta rivelano per mezzo di occulti e audaci enigmi la verità divina, mistica e inaccessibile ai profani, le anime non iniziate provano un’impressione di terribile assurdità […]. Ma se qualcuno potesse scorgere la convenienza che vi si nasconde dentro, troverà che tutto ha significato mistico e conforme alla natura divina, che tutto è pervaso di infinita luce teologica.

Soltanto coloro che siano « sinceri amanti della santità », avverte Dionigi, potranno penetrare con l’intelletto adeguatamente predisposto alla contemplazione « verso la verità semplice, soprannaturale e trascendente ogni simbolo (πρὸς τὴν ἁπλῆν, καὶ ὑπερφυῆ, καὶ ὑπεριδρυμένην τῶν συμβόλων ἀλήθειαν) ». L’antitesi di religione esteriore e religione interiore ci riporta perciò, nuovamente, a quella tra simboli dissomiglianti e simboli somiglianti: e si è visto come ai primi pensasse sicuramente anche Giovanni Scoto nel formulare la sua nozione di symbolum come figurazione in cui tutto si riferisce « ad theologiam, quae omnem sensum et intellectum superat ». Ma, mentre in Dionigi (e nelle Expositiones eriugeniane) la dicotomia presuppone ancora un punto di osservazione interno al metodo simbolico, nel Commentarius
Giovanni Scoto sembra volerne allargare le implicazioni teoriche facendola in un certo modo ‘ reagire ‘ con quella di allegoria facti e allegoria dicti che, in lui, vengono così a corrispondere rispettivamente alla fede popolare e alla gnosi iniziatica: la prospettiva ermeneutica e dottrinale che in Dionigi comprende le immagini somiglianti, l’interpretazione ‘ volgare ‘ e la tradizione manifesta o filosofica si precisa polemicamente nel Commentarius eriugeniano come allegoria facti e come esegesi tipologica delle Scritture. La distinzione operata da Giovanni Scoto fra allegoria tipologica e simbolo viene così a investire una fondamentale divaricazione fra due opposti modelli di conoscenza e di cultura, oltre che di interpretazione dei testi sacri. Il suo interesse sta soprattutto nel fatto che in essa riesce a tradursi efficacemente in termini ermeneutici l’antitesi, non soltanto cristiana, tra un sapere rigidamente ancorato a dogmi e a verità e, d’altro lato, una conoscenza ‘ mistica ‘ e interiore che, come quella dei sufi o dei maestri Zen, non sa accontentarsi di alcuna formula definitiva ma si esprime unicamente per negazioni e paradossi: antitesi che è impossibile ridurre a una semplice sfumatura nell’àmbito di quello che oggi si suole chiamare ‘ logocentrismo ‘ occidentale. Attraverso la figura di Pietro, Giovanni Scoto intese senza dubbio legittimare anche la prospettiva dogmatica e allegorica: ma nel cuore stesso della tradizione esegetica ‘ latina ‘, che andava progressivamente accentuando la propria intransigenza metodologica e assumendo un carattere sempre più minacciosamente totalitario, egli seppe dar voce a una diversa e più libera sapienza: quella affiorante da un pensare per simboli che risaliva alle più oscure e inaccessibili correnti del cristianesimo primitivo. La quasi incontrastata vittoria di Pietro nei confronti di Paolo odi Giovanni ne rese, in Occidente, la vita sempre più clandestina e difficile, come valgono a testimoniare le ripetute condanne ecclesiastiche dell’opera di Giovanni Scoto e la diffidenza di cui essa è tuttora circondata presso gli interpreti ufficiali del cristianesimo. Ma, ancora nel nostro secolo e con risonanze che oltrepassano i limiti di una posizione semplicemente religiosa, il suo insegnamento sembra riecheggiare miracolosamente intatto nelle parole di Simone Weil:

La concezione tomista della fede implica un ‘ totalitarismo ‘ soffocante come o più di quello di Hitler. Perché se lo spirito aderisce completamente, non solo a tutto ciò che la Chiesa considera strettamente di fede, ma anche a quello che essa riconoscerà mai come tale, l’intelligenza dev’essere imbavagliata e ridotta a compiti servili.

La metafora di ‘ velo ‘ o di ‘ riflesso ‘ applicata alla fede dai mistici consente loro di uscire da questo soffocamento. Essi accettano l’insegnamento della Chiesa non come la verità, ma come qualcosa dietro cui si trova la verità.

[…] Tutto accade come se, sotto la stessa denominazione di cristianesimo e all’interno della stessa organizzazione sociale, ci fossero due religioni distinte, quella dei mistici e l’altra.

Io credo che la prima sia quella vera […].

(Simone Weil, Lettre à un religieux), Paris, 1974, pp. 44-45.

Tavola riassuntiva delle corrispondenze terminologiche in Giovanni Scoto Eriugena

Le corrispondenze qui schematizzate non vanno naturalmente intese come rigorose equivalenze ma come serie di echi e di affioramenti, su piani diversi, delle stesse realtà fondamentali. In particolare ricorderemo che, per Giovanni Scoto, entrambi i tipi di allegoria appartengono sia al Vecchio che al Nuovo Testamento. Per comprendere meglio la tavola, occorre inoltre tener presente che essi corrispondono a gradi o a gerarchie diverse a seconda che vengano intesi come inesplicati o come ormai espliciti: così le due fasi estreme sono rispettivamente caratterizzate dalla massima enigmaticità e dalla totale assenza di simboli, mentre quella intermedia comprende una parte decifrata e una ancora enigmatica. Noteremo infine che, se il passaggio dalla prima alla seconda fase è di carattere storico e segna il compimento delle ‘ figure ‘ in Cristo, quello dalla seconda alla terza è invece un atto essenzialmente spirituale e interiore: « nil ibi est quod secundum historiam intelligatur, sed totum ad theologiam […] refertur».

Autore: Francesco Zambon
Pubblicazione:
Simbolo, metafora, allegoria. Atti del IV convegno italo-tedesco, Bressanone 1976 (Quaderni del circolo filologico linguistico padovano, 11)
Editore: Liviana
Luogo: Padova
Anno: 1980
Pagine: 101-104
Vedi anche:
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (1)
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (2)
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (3)
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (4)
Simbolo e allegoria nell’ermeneutica medievale (5)

Early Christian Sources of Platonic Geometry: Clement of Alexandria (2) and other Greek Fathers

Therefore just as the equation of the law with perfection appears safe so, it seems, can references to law and perfection be equated with 10.

It may also be seen that the meaning of number was as integral to Clement’s universal view as it had been to those of Pythagoras and Plato, the sole distinction between them being that he acknowledged his authority to be biblical as well as Platonic.

They say, then, that the character representing 300 is, as to shape, the type of the Lord’s sign.. Now the number 300 is 3 by 100. Ten is allowed to be the perfect number…

‘The days of men shall be,’ it is said, ‘120 years’ (Genesis 6.3). And the sum is made up of the numbers from 1 to 15 added together.

Stromateis VI. 11

Numbers were not endowed with specific significance arbitrarily. For example, because the Greek letter T served as the numeral for 300 and resembled a cross, 300 became regarded as the Lord’s sign. Yet numbers were also held to be expressions of the divine order because of the order to be found within them. If the tetrad was given importance partly because the sum of the first 4 numbers is 10, then 120 was important partly because it is the sum of the first 15 numbers. Moreover, Clement continues:

On another principle, 120 is a triangular number, and consists of the equality of the number 64, [which consists of eight of the odd numbers beginning with unity], the addition of which in succession generates squares; and of the inequality of the number 56, consisting of seven of the even numbers beginning with 2, which produce the numbers that are not squares.

Stromateis VI. 11

In other words,

64 + 56 = (8 x 8) + (7 x 8) = 120

64 is composed thus:

1 + 3 = 4, + 5 = 9, + 7 = 16, + 9 = 25, + 11 = 36, + 13 = 49, + 15 = 64

where each sum is a square number which, when added to the next odd number in the series, produces the next square number in the series. As for the series of the first 7 even numbers adding up to 56, each sum, whilst being even, is not square.

2 + 4 + 6 + 8 +10+ 12+ 14 = 56

2 + 4 = 6; 4 + 6 = 10; 6 + 8 = 14; 8 + 10 = 18; 10 + 12 = 22

Following this, Clement continues:

Again, according to another way of indicating, the number 120 consists of four numbers – of one triangular, 15; of another, a square, 25; of a third, a pentagon, 35; and of a fourth, a hexagon, 45. The 5 is taken according to the same ratio in each mode. For in triangular numbers, from the unity 5 comes 15; and in squares, 25; and of those in succession proportionally.

Stromateis VI. 11

It can be seen that in this apparently numerical analysis, geometry is clearly implicit. In addition to the importance given to numbers when they relate rationally to each other, the relationship is perceived and expressed in geometric terms, with the concept of figurate numbers standing for square, triangular and polygonal arrangements of numbers, originally in the form of pebble figures. This, together with the inherent order to be found in numbers themselves was to be treated by the Latin encyclopedists and Augustine.

Clement’s successor at the Didascaleon was his former pupil Origen (c.185-c.254) who went on to study philosophy under Ammonius Saccas. He in turn had abandoned an earlier conversion to Christianity and was a Neoplatonist.
One result of Origen’s varied education was a certain flexibility in calling upon the authority of Plato, not invariably, but when it supported his own theological speculations. In a huge output of literature, these were largely a development of Clement’s and organized into his famous treatise, De principiis, which enjoyed particular influence in both the West and the East. Before they caught the attention of Ambrose and others in Italy, Origen’s ideas had spread to Cappadocia reaching the generation of Basil the Great and his brother Gregory of Nyssa and, although some of his ideas were soon to be condemned, his main thesis remained intact.
Ammonius Saccas also taught Platonic philosophy in Alexandria to the Greek Egyptian Plotinus (c.205-70) whose principal contribution lies in incorporating Plato’s thought with Aristotle’s methods and in bringing to this his own theories concerning progressive planes of spiritual existence. As the doctrine of emanation, this was to have a profound effect on mystical thinkers, setting him among the greatest of the Neoplatonists. Care, it should be said, needs to be taken in the understanding of Neoplatonism as a term, since it is comprehensive rather than specific, referring to various individual developments of Platonic thought, some of which are more Christian than Platonic, or more theological than philosophical, or more mystical than intellectual, or vice versa. Despite such distinctions, however, Neoplatonists at the time called themselves Platonists. As for Plotinus, his importance for this study is that in 244 he moved to Rome, where he taught and eventually died, and it was in Italy that Augustine may well have read his essay On Beauty from his Enneads (I, VI).

Autore: Nigel Hiscock
Pubblicazione:
The Wise Master Builder. Platonic Geometry in Plans of Medieval Abbeys and Cathedralsl
Editore
: Ashgate
Luogo: Aldershot
Anno: 2000
Pagine: 54-56

Il tempo del simbolo

Il tempo del simbolo è un tempo sacralizzato che non può concepirsi se non attraverso una perfetta unicità. Esso è paragonabile al tempo biblico considerato nel suo realismo dinamico. A questo proposito, l’opera di André Neher su L’essence du prophétisme si offre come la migliore delle guide nei confronti delle differenti prospettive del tempo. Il tempo del simbolo va quindi considerato non come figlio di Atene, ma come figlio di Gerusalemme.

II simbolo si presenta come un assoluto. Per afferrarlo bisogna provare in se stessi una nostalgia della conoscenza, un’apertura, di spirito costante, un appetito. Nella misura in cui questo desiderio di conoscenza, quest’apertura, questo appetito s’instaurano, il simbolo libera il proprio contenuto, o meglio, si rivela, giacché la conoscenza simbolica è simile ad una rivelazione.

Questa rivelazione ha un carattere personale ed uno impersonale al tempo stesso. Personale, perché la rivelazione legata al simbolo dipende dal livello di colui che la riceve. Impersonale, perché essa è sempre identica e non varia con il tempo. La conoscenza simbolica, se si presenta come una comunione, non consiste unicamente nell’unione di colui che apprende con il contenuto appreso, ma va al di là di tali limiti. Come ogni rivelazione, essa esige la trasmissione, pur essendo incomunicabile. Ritroviamo un simile paradosso nel tempo, nella misura stessa della sua sacralizzazione.

Il simbolo si presenta dunque come un supporto attraverso il quale l’assoluto penetra il relativo, l’infinito il finito, l’eternità il tempo. Grazie a esso, si instaura un dialogo e si opera una trasfigurazione: il trascendente si impone. Dio vuole rivelarsi all’uomo e il simbolo permette di udire la sua voce. Non si tratta di contatti fuggevoli o effimeri; o almeno i contatti non sono né fuggevoli né effimeri nella misura in cui colui nel quale si attuano è capace di preservare in se stesso ciò che ha conosciuto, di trasmetterlo alla sua esistenza e di viverne.

In questo senso, il simbolo può essere paragonato alla profezia. Il profeta, scrive André Neher, assume la rivelazione che gli provoca l’apparizione del trascendente con la stessa intensità di qualsiasi uomo religioso. Ma, adottato da Dio, egli è altresì introdotto con lui nel confronto con il non-trascendente, in una posizione di conquista rispetto al tempo, introdotto in una storia.

Vi sono tre modi differenti di considerare il tempo. Nella sua forma cosmica, con l’alternanza dei giorni e delle notti, delle stagioni, delle rivoluzioni degli astri. Questo tempo è ciclico: ha i suoi cataclismi, le sue siccità, le sue inondazioni ed i suoi conflitti tra uomo e natura; si calcola matematicamente e noi lo conosciamo per mezzo dei calendari e degli orologi. Sul piano religioso questo tempo ha i suoi riti, le sue feste legate alla vegetazione. Il tempo dell’uomo e della natura si coniugano in successi, in insuccessi, in tensione.

Invece il tempo storico è proiettato verso il futuro, si slancia in avanti. I suo confini si saldano per mezzo di avvenimenti. Esso può sfuggire alla commedia e alla caricatura solo in quanto è illuminato dal tempo esistenziale. È in questo senso che Nicola Berdiaev parlerà di « metastoria ». L’uomo appartiene alla storia, ha la propria storia e si proietta costantemente nel flusso del tempo che gli è inafferrabile. Non appena egli si volge verso il proprio passato, tenta di trattenere il presente o guarda l’avvenire, eccolo diventar preda delle tensioni, delle immaginazioni, della morte costante, della ripetizione.

La terza maniera di considerare il tempo è ancor più complessa. Si tratta del tempo mistico (secondo André Neher), del tempo esistenziale (secondo Nicola Berdajev). Due maniere di considerare il tempo che peraltro sono identiche. « È il tempo dell’estasi, dell’uomo che esce da se stesso e dalla propria condizione e, quindi, dal tempo. Non è di tempo che si dovrebbe parlare, ma piuttosto di esperienza, di un’esperienza immediata, opposta all’esperienza distesa del tempo». É il tempo dell’atto creatore e della libertà, «la potenza creatrice è rivolta verso l’eternità, verso quello che è al di fuori del tempo ».

Questo tempo è vero e non illusorio, esige nel suo punto centrale l’incontro tra l’Assoluto e il relativo, si muove in un movimento verticale, rappresenta un tempo vivente.

L’espressione in illo tempore,
che leggiamo nella Bibbia e che ritroviamo al principio delle favole sotto la forma « c’era una volta », indica un tempo nel quale passato e futuro non possono interferire. In illo tempore significa in pari termini un’uscita dal tempo ed un’entrata nell’eternità: è un tempo accessibile sin d’ora. « Si domanda al cristiano », dirà Mircea Eliade, « di diventare il contemporaneo di Cristo, il che implica tanto un’esistenza concreta nella storia, quanto la contemporaneità della predicazione, dell’agonia e della resurrezione di Cristo».

Questo presente sfugge all’usura del tempo e rompe in un certo qual modo il continuum storico nello stesso senso in cui San Paolo allude all’uomo esteriore che deperisce ed all’uomo interiore che si rinnova di giorno in giorno (cfr. II Cor., IV, 16). Cristo incarnato è sottoposto durante la sua infanzia alle leggi della crescita: come uomo muore, come Verbo trascende il tempo storico. Egli si pone nel tempo e al di fuori del tempo.

È all’interno di questo tempo sacro che si colloca il tempo del simbolo. Esso concerne il tempo dell’uomo interiore, dell’uomo spirituale, dell’uomo orientato, cioè ordinato, uscito dal suo caos. Il simbolo — come Giosuè — arresta il sole, giacché il tempo sacralizzato è al di là del tempo creato, in quel mondo di cui Sant’Agostino ha potuto dire: « Il mondo non è stato creato nel tempo, ma con il tempo». Questo tempo, che accompagna la comparsa del mondo, il simbolo non lo riconosce o, almeno, lo oltrepassa. « Dal punto di vista della storia delle religioni », precisa Mircea Eliade, « il giudeo-cristianesimo ci presenta la suprema ierofania: la trasfigurazione dell’ avvenimento storico in ierofania. Si tratta di qualche cosa di più della ierofanizzazione del Tempo, giacché il Tempo sacro è familiare a tutte le religioni. Questa volta è l’avvenimento storico come tale che rivela il massimo della trans-storicità; Dio non interviene soltanto nella storia come era il caso nel giudaismo: esso s’incarna in un essere storico… L’esistenza di Dio è una teofania totale; vi è in ciò come uno sforzo audace per salvare l’avvenimento storico in quanto tale, accordandogli, nella maggior misura possibile, l’essere ».

Parlando dell’architettura, Alano di Lilla usa l’espressione di « arte in riposo». Questo termine significa qualcosa al di là della durata, del movimento. Esso è affine alla contemplazione. San Bernardo fa menzione del solstizio eterno. Vi è in questo una visione di riposo, dell’immutabile nel quale non esiste né passato, né futuro: il solstizio eterno è un’abolizione del tempo. Il suo solo movimento – del resto incessante – non si produce in un senso orizzontale, ma verticale: esso è approfondimento.

Il simbolo s’inscrive in questo stato di riposo, non si colloca nell’effimero. Il cielo e la terra passeranno (Matteo, XXIV, 35; Marco, XII, 31; Luca, XXI, 33). Il simbolo non dipende in alcun modo da un cielo e da una terra condannati a scomparire; figlio dell’eternità, appartiene al solstizio eterno.

Autore: Marie Madeleine Davy
Pubblicazione:
Il simbolismo medievale
Editore
: Mediterranee (Orizzonti dello Spirito, 48)
Luogo: Roma
Anno: 1988
Pagine: 101-104

La cosmologia simbolica di Ildegarda di Bingen

Santa Ildegarda di Bingen, badessa di Rupertsberg, ha composto due opere principali, intitolate: Scivias e Liber divinorum operum simplicis hominis. Il primo titolo è la contrazione della frase Sci vias Domini (Conosci le vie del Signore). Ildegarda iniziò a scrivere in seguito ad una visione che ella descrive cosi: un dardo di fuoco partito dal cielo squarciato, penetrò nel suo cervello e nel suo cuore. « All’istante », scrive, « ricevetti l’intelligenza dei Libri santi ». Una voce le ordinò: « Dì e scrivi quello che vedi e che intendi ». Per lungo tempo Ildegarda non osò trascrivere le parole che percepiva misteriosamente. Ma la malattia non l’abbandonò fin tanto che rifiutava, per umiltà, di ubbidire. Si fece forza. Ildegarda sapeva solo leggere e scrivere, oltre a qualche rudimento di latino. Ormai Ildegarda compone in una luce che chiama « l’ombra della luce viva ». In questa luce, percepisce immagini che sono anche simboli. Questi ultimi possono essere una montagna, una torre, una voragine. Ella sente una voce che le rivela il senso dei simboli percepiti.

Una visione di bellezza l’accompagna. Dio ha creato un universo magnifico e ha fatto l’uomo ad immagine della sua bellezza. Alla bellezza esteriore corrisponde quella interiore. Ildegarda riprende qui il tema agostiniano del De Trinitate III, 1ss. La sua descrizione delle analogie fra il macrocosmo ed il microcosmo è carica di simboli. Tre sfere rappresentano la Trinità e indicano il firmamento, l’aria sottile e la Terra. Ogni sfera ha un uguale spessore. La Terra occupa il centro dell’universo e il firmamento e l’aria sottile insieme comprendono sei cerchi concentrici.

Esaminiamo dapprima il firmamento e le tre zone di uguale spessore: il fuoco, l’etere e l’aria pesante. La zona del fuoco è divisibile in fuoco brillante (lucidus ignis) e in fuoco nero (niger ignis).

Il fuoco brillante evoca la potenza vivificante di Dio. Il fuoco nero si oppone all’altro in quanto è oscuro e non brilla. Esso si tiene sotto il potere del primo e indica il fuoco del giudizio e della geenna (judicalis et gehennalis ignis) che consuma il male. Onorio di Autun, nell’Elucidarium, parla di questo fuoco che, pur essendo privo di luce, prevale sul fuoco materiale quanto il fuoco reale prevale sull’immagine dipinta del fuoco. Già San Gregorio, nelle sue Moralia
in Job, IX 65-66, ha parlato del fuoco dell’inferno che non illumina. Il cerchio del fuoco brillante supera per densità due volte il cerchio del fuoco nero, cosicché la forza del secondo non penetra affatto nel primo.

Sotto questa zona di fuoco si trova il puro etere (purus aeter); esso procede dai due fuochi e significa il « puro rimpianto » dei peccatori. Quest’ultimo è provocato dalla grazia che scaturisce dal fuoco brillante e anche dal timore causato dal fuoco nero.

Al puro etere succede la zona dell’aria pesante che comprende l’aria acquosa (aquosus aer) e l’aria forte e bianca (fortis et albus aer). Il cerchio dell’aria acquosa simboleggia le opere dei giusti che sono trasparenti come l’acqua e purificano le opere impure. Per la sua forza e la sua tenacia il quinto cerchio dell’aria forte e bianca impedisce le inondazioni e i pericoli provenienti dalle acque superiori. Esso significa la giusta misura nelle opere.

Al di sotto di queste tre zone del firmamento è posto il cerchio dell’aria sottile (tenuis aer) che permette a tutto quel che è sulla terra di crescere.

Al centro di questi sei cerchi concentrici è posto il globo terrestre che non può scivolare da una parte o dall’altra in virtù degli elementi che lo circondano. Questo paragone dell’universo con una palla o ad un uovo si trova nella Philosophia mundi di Guglielmo di Conches, il quale dirà che la terra si trova nel mezzo come il tuorlo nell’uovo. Attorno ad essa si trova l’acqua, simile al bianco, e attorno all’acqua l’aria, rappresentata dal guscio che circonda il chiaro dell’uovo.

Ildegarda distingue sette pianeti ripartiti nei diversi cerchi di fuoco e posti ad uguale distanza gli uni dagli altri: nel fuoco brillante regnano Saturno, Giove e Marte; nel fuoco nero il sole; vengono poi, sotto al sole, Mercurio e Venere; la luna occupa l’ultimo ordine.

Se si taglia longitudinalmente e trasversalmente il cerchio formato dall’universo, si ottengono i quattro punti dei venti principali. Ildegarda, ispirandosi alla visione di Daniele (VII, 68), simboleggia questi quattro venti con teste di animali. L’orso rappresenta il vento del Nord che trae le sue origini dal fuoco nero; il leone il vento del Sud che proviene dal fuoco brillante; il leopardo il vento dell’Est, emanato dal puro etere; ed il lupo il vento dell’Ovest che procede dall’aria acquosa. Questi quattro venti principali comprendono ciascuno altri due venti, il che dà un totale di dodici venti che determinano dodici zone differenti.

L’universo si divide in tre grandi cerchi concentrici (indicati da un tratto più spesso). Il cerchio più grande è il firmamento, il secondo l’aria sottile, il terzo la Terra. Il grande cerchio del firmamento si divide a sua volta in diversi cerchi, che sono, andando dall’esterno verso l’interno: il cerchio del “filante e quello del fuoco nero che formano la zona del fuoco quindi il cerchio del puro etere e, infine, il cerchio dell’aria acquosa e dell’aria forte che costituiscono la zona dell’aria pesante. In questi sei cerchi che circondano la Terra, tre sono benefici per l’uomo e tre ostili. Il primo cerchio del fuoco fa cadere sulla terra delle faville che, essendo troppo violente per uomini, piante ed animali, sono loro nocive; il secondo cerchio sprigiona una nube che dissecca la vegetazione terrestre. Al di sotto, il cerchio dell’etere addolcisce i flagelli che percorrono il mondo. Il cerchio dell’aria forte manda malattie agli uomini e agli animali. Ma questa pestilenza è temperata dal cerchio dell’aria acquosa. Infine, l’aria sottile è benefica: essa fa crescere tutti i frutti. L’aria genera un movimento perpetuo. La forza d’espansione dell’acqua supera quella della terra; quella dell’aria è ancora maggiore, il fuoco si espande più dell’aria e l’etere più dell’aria.

Dato che la creazione dell’uomo è stata fatta allo stesso modo di quella del mondo, esiste, secondo Ildegarda una somiglianza fra le funzioni svolte dalle sfere ed il ruolo fisiologico e anatomico delle diverse parti del corpo. Così la testa corrisponde al fuoco, il petto all’aria, il ventre alla terra molle e feconda ed i piedi all’acqua: essi indicano i fiumi che si spandono attraverso tutta la terra. La terra è rassodata dalle pietre e dagli alberi e l’uomo è fatto a sua somiglianza, perché la sua carne è come la terra; le sue ossa, prive di midollo, sono simili alle pietre, mentre quelle contenenti il midollo sono analoghe agli alberi.

Ildegarda prosegue le sue analogie fra macrocosmo e microcosmo. Una simile nomenclatura può apparire noiosa, ma la sua originalità merita la nostra attenzione. Innanzi tutto il viso, compreso il collo, si divide in tre parti che corrispondono agli elementi del cosmo. Così la parte che va dalla sommità del cranio fino alla base della fronte è sotto l’influenza del fuoco brillante e del fuoco nero; quella che va dalla fronte all’estremità del naso, corrisponde all’etere puro; infine, la terza parte, che va alla base del naso alla fine del collo, corrisponde all’aria acquosa e all’aria forte, bianca e luminosa.


Ildegarda di Bingen, Liber Divinorum Operum
Lucca, Biblioteca municipale, Codex Latinum 1942 f. 9r

Il macrocosmo è raffigurato dal cerchio esterno, ed è sostenuto da un personaggio che rappresenta Cristo: le sue immense braccia circondano il macrocosmo e il suo volto solare rassomiglia a quello di Apollo. Sulla sua fronte si appoggia il viso del Padre ed i suoi piedi, coi fori delle stimmate, appaiono alla base del cosmo. All’interno del cerchio, una circonferenza formata da linee ondulate indica le acque primigenie. Vi sono rappresentati i diversi elementi. Teste di animali raffigurano i diversi venti. Al centro della miniatura, un personaggio, con i piedi uniti e le braccia distese, indica il microcosmo. Il disco nero della terra si scorge dietro di lui.

Ildegarda paragona la rotondità della testa a quella del firmamento. Facendo l’uomo a sua immagine, Dio ha raccolto in lui tutte le creature, il firmamento, il sole, la luna, le stelle. Così gli occhi si trovano nella regione che simboleggia l’etere e richiamano la luce solare. Le estremità del mondo rappresentano le braccia, le creature del mondo il ventre e l’abisso i piedi. I fiumi che irrigano la terra sono simili alle vene.

Dalla sommità della testa alla fine del collo, quindi dal collo all’ombelico e da questo al sesso vi sono delle distanze uguali, così come vi sono uguali misure dal firmamento alla parte inferiore delle nuvole, quindi da questa alla sommità della terra e da questa fino alla sua parte più bassa. Il corpo dell’uomo è governato dal numero 3, se lo si considera privo delle membra, e dal numero 5, se si tien conto delle gambe e delle braccia. Alle tre parti uguali che dividono il tronco e la testa, si aggiungono altre due parti di uguale lunghezza, costituite una dalla coscia, l’altra dalla distanza dal ginocchio al tallone. Allo stesso modo, il braccio si divide in due parti uguali, la prima va dalla spalla al gomito, la seconda dal gomito all’estremità della mano. Ciascuna delle membra comporta tre articolazioni, donde le dodici articolazioni che corrispondono ai dodici venti.

Così l’uomo si divide, per lunghezza, dalla sommità della testa ai piedi, in cinque parti uguali; per larghezza, ottenuta a braccia aperte distese, dall’estremità di una mano all’altra, ancora in cinque parti uguali. Tenendo conto di queste cinque misure uguali per lunghezza e cinque uguali per larghezza, l’uomo può essere inscritto in un quadrato perfetto (cinque quadrati in lunghezza e cinque quadrati in larghezza). Il quadrato nel quale è inscritto il bacino forma il quadrato centrale nel senso dell’altezza. Il quadrato del petto costituisce il quadrato centrale nel senso della larghezza.

L’uomo è inscritto, per la sua altezza, in cinque quadrati uguali.

  1. Il primo quadrato comprende la testa dalla fronte alla base del collo;
  2. il secondo, il petto dalla base del collo all’ombelico;
  3. il terzo, il bacino;
  4. il quarto, le cosce fino alle ginocchia;
  5. il quinto, le gambe.

Nel senso della larghezza, con le braccia aperte distese, l’uomo si inscrive ugualmente in cinque quadrati delle stesse dimensioni: il quadrato centrale è quello del petto; due quadrati contengono le braccia dalla spalla al gomito; altri quadrati contengono le estremità delle braccia e delle mani, con le dita leggermente aperte. La testa si suddivide in tre parti uguali: la prima va dalla sommità della testa fino alla base della fronte, la seconda dalla base della fronte a quella del naso e la terza dalla base del naso fino alla fine del collo.

L’uomo, secondo Ildegarda, è dunque governato dal numero 5. Le ragioni della scelta di questo numero sono chiare. L’uomo possiede cinque parti uguali nella sua lunghezza ed altrettante nella sua larghezza, cinque sensi e cinque estremità (testa, gambe, braccia). Plutarco utilizza questo numero per indicare la successione della specie. Esso esprime il mondo sensibile, poiché è detto nella Genesi che i pesci e i volatili furono creati nel quinto giorno della creazione. Il numero cinque risulta dalla combinazione del primo numero pari e del primo numero dispari. Il numero pari significa la matrice ed è femminile, quello dispari è maschile: l’associazione dell’uno e dell’altro è androgina, Così come androgina è la divinità. Analogamente, il pentagramma è l’emblema del microcosmo. Nelle miniature medievali, l’uomo microcosmo è spesso rappresentato con braccia e gambe divaricate al fine di meglio indicare le cinque punte del pentagramma. I simboli proposti da Ildegarda riflettono, naturalmente, le concezioni cosmiche del suo ambiente.

Nella stessa epoca, Guglielmo di Saint-Thierry, nel De natura corporis et animae, riporta l’opinione dei fisici a proposito della figura geometrica dell’uomo. Se un uomo è disteso, con le braccia e le gambe allungate, un compasso puntato sul centro dell’ombelico può tracciarne la circonferenza: l’uomo si ritrova uguale a se stesso in tutte le sue parti.

Abbiamo insistito sulla teoria di Ildegarda relativa al macrocosmo e al microcosmo poiché tali simboli meritano di esser tenuti presenti. Le analogie tra la terra, il cielo e l’uomo sono ricche di significato. E. de Bruyne ha giustamente sottolineato la relazione tra i trattati di Vitruvio e la dottrina di Ildegarda.

Autore: Marie Madeleine Davy
Pubblicazione:
Il simbolismo medievale
Editore
: Mediterranee (Orizzonti dello Spirito, 48)
Luogo: Roma
Anno: 1988
Pagine: 169-177